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ANNO 452 d.C.

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ATTILA, IL FLAGELLO DI DIO
La vera personalità del mitico condottiero che seppe unire e far grande il popolo degli Unni

UN BARBARO POLITICAMENTE CORRETTO

di FERRUCCIO GATTUSO

"Attila, l'uomo venuto dal nulla. La salma di Attila riposava dietro una tenda. Fuori, i cavalieri cantavano i loro lamenti in favore del "più grande degli Unni, Attila, figlio di Mundzuc, signore delle genti più forti". Ad uccidere il condottiero, il temuto padrone del popolo nomade che aveva terrorizzato per otto anni tutta l'Europa (dal 445 al 453), non era stata una spada, né un silenzioso complotto per il potere: Attila - il "Flagello di Dio", come lo avrebbero chiamato i cristiani - si arrendeva nel sonno, accanto all'ultima giovane sposa Ildico, sconfitto da un'emorragia. Soffocato dal sangue, il "nettare" che lo aveva dissetato nel suo viaggio terreno. I guerrieri, in dimostrazione di lutto, si tagliavano le chiome e si facevano tagli sui volti, già deturpati dall'infanzia per un'oscura tradizione. Quando il sole cominciò a tramontare, Attila veniva sepolto. Coperto da tre bare, una d'oro, una d'argento e una di ferro (che stavano a significare le ricchezze conquistate e la potenza delle sue armi), il condottiero assisteva all'ultimo massacro in suo nome: coloro che avevano scavato la fossa e avevano interrato la bara venivano infatti uccisi, come ultimo sacrificio in onore del capo".

Indubbiamente questa scena, tragica e grandiosa allo stesso tempo (e che sarebbe entrata nella tradizione dei testi nibelungici), avrebbe rafforzato la fama di Attila come anti-eroe oscuro, incubo dell'Occidente e Oriente cristiani, predone sanguinario. Eppure, nonostante la sua figura sia collegata ai massacri perpetrati dai barbari, Attila non fu solo questo. Tentare una sua riabilitazione è francamente impossibile, ma non si può negare che - per dare una salda unità ad un popolo anarchico e nomade come quello degli Unni - il terrore non sarebbe bastato: Attila diede agli Unni una gerarchia, un ordine sociale, chiari obbiettivi da raggiungere, un sentimento (per ricorrere ad un'inevitabile forzatura) di nazionalità. La sua parabola sarebbe durata poco più di un decennio, e così quella degli Unni. Gli Unni, un popolo venuto dal nulla e tornato nel nulla.

Gli Unni Le prime avvisaglie dell'espansionismo unno in occidente si hanno nell'anno 337, quando gli avamposti romani sul Danubio si mobilitarono in seguito a preoccupanti movimenti fra i popoli dell'est e del Nord. Poche notizie arrivavano ai romani: tra queste quella di un popolo terribile che metteva in fuga le più disparate popolazioni barbare. Gli stessi Goti - considerati dai romani maestri di guerra - fuggivano verso ovest alla sola minaccia dell'arrivo di questi misteriosi guerrieri nomadi. Quell'agitarsi oltre confine non era che il crollo del regno degli Ostrogoti sotto le spade e gli archi di questi nuovi barbari, chiamati Unni: il re ostrogoto Ermanarico si era suicidato buttandosi sulla spada piuttosto che finire nelle loro mani. Cosa che accadde all'erede al trono, il pronipote Vitimero, ucciso in battaglia nemmeno un anno dopo.

Crollava quindi un regno che aveva svolto ruolo di diga dalla Finlandia al Caucaso, nei confronti del misterioso Oriente. E proprio da lì, si presume, venivano gli Unni, popolo la cui nascita è persa nella notte dei tempi, forse nelle provincie della lontanissima Cina (si dice, addirittura, che la Grande Muraglia cinese fosse stata costruita proprio a causa loro). I Romani avrebbero ben presto saputo che, prima degli Ostrogoti, a perdere la sovranità e la libertà erano stati altri popoli barbari, come gli Alani, gente nomade esperta nella guerra, i Visigoti, i Sarmati. L'avanzata degli Unni avrebbe cambiato il destino dell'Impero romano: i Goti in fuga andavano fermati con le armi, e numerosi scontri si verificarono con i romani.

"Come prima conseguenza - scrive Mario Bussagli nel suo
Attila - si ebbe la catastrofica sconfitta romana di Adrianopoli (378), che fu il più grande disastro militare dell'Impero; talmente grande che nessuno poté lasciare un convincente resoconto di quanto era avvenuto". Queste vicende, e la descrizione più scrupolosa degli Unni e delle genti barbare si ha dallo storico romano Ammiano Marcellino (ca. 330 - 400). Ammiano parla, in modo efficace, di "quel fiume di uomini che non si era mai visto prima". Dopo Adrianopoli, Unni e i sottomessi Goti spadroneggiarono per i confini orientali dell'Impero, sfiorando persino Costantinopoli, che peraltro fu misteriosamente risparmiata.
Sempre ad Ammiano Marcellino si deve la "fotografia" più credibile degli Unni: una stirpe, scrive lo storico romano, "poco nota alle grandi opere del passato [che] trascende qualsiasi misura per ferocia bestiale".
Per secoli, fino a oggi, la rappresentazione negativa degli Unni resisterà nell'immaginario collettivo, a dispetto della semplice realtà: e cioè che gli Unni, come tutti gli altri popoli di quei tempi, possedevano un lato selvaggio e un lato più umano. Il primo fu esaltato dalla storiografia cristiana che vide negli Unni una minaccia al proprio credo: gli Unni non perseguitavano i cristiani, anzi nel periodo di Attila li accettavano nelle proprie comunità: ma non si convertivano. E così proprio da Ammiano Marcellino sappiamo che i maschi Unni, sin dalla prima infanzia, sfoggiavano terribili cicatrici sul volto: erano le madri a procurargliele con armi in ferro, per due motivi: il futuro guerriero doveva abituarsi al dolore e, così facendo, le ferite impedivano la crescita dei peli e, di conseguenza, di una barba voluminosa, considerata antiestetica.

Lo stile di vita degli Unni, nelle parole di Ammiano, è qualcosa di affine alla mostruosità: si cibano di radici di piante e di carne praticamente cruda; per tutta la vita adulta indossano al massimo due vestiti, fatti di peli di topo e di vari animali, che si consumano sul corpo, senza mai essere lavati. Per questo motivo, gli Unni emanano un odore nauseabondo, che sfruttano come arma di terrore psicologico nei confronti del nemico, e inoltre allontanano gli stessi animali predatori che girano intorno ai loro accampamenti. Il terribile odore che emanano proviene anche da un'usanza curiosa: gli Unni vivono letteralmente a cavallo e, per non procurare piaghe all'animale, inseriscono pezzi di carne cruda sotto la sella, lasciandola marcire. L'unno contratta a cavallo, dorme a cavallo - appoggiato al collo dell'animale - mangia a cavallo e fa addirittura i propri bisogni a cavallo, sporgendosi su un lato dell'animale. Queste testimonianze sugli Unni sembrano vere, confermate da varie fonti e da un fatto curioso: Attila e il fratello Bleda trattarono la pace di Margo coi romani d'Oriente (di cui parleremo in seguito) restando in sella, per esplicita loro richiesta.

In questo modo si sentivano psicologicamente più sicuri e non mostravano la loro più evidente caratteristica somatica: gambe stortissime, proprio per l'abitudine cavallerizza, e statura non particolarmente alta (gli Unni hanno origini mongole e cinesi, di popoli cioè minuti). Addirittura, molte fonti parlano di una incapacità degli Unni di camminare bene, e soprattutto di correre, avendo, a causa delle gambe molto storte, poca presa sul terreno. Particolarità dell'unno, oltre all'abilità a cavallo, era l'uso dell'arco: magnifici tiratori, gli Unni ricorrevano a tecniche di guerriglia efficacissime, con attacchi improvvisi, repentine ritirate strategiche e improvvisi nuovi attacchi a distanza. I nemici degli Unni ricorderanno con terrore i loro nugoli di frecce che, improvvisamente, oscuravano il cielo e portavano la morte. "Per queste ragioni - scrive Ammiano Marcellino - ti sarà facile definirli i più tremendi guerrieri che esistano, poiché combattono da lontano con frecce e punte da lancio fabbricate in osso, al posto di quelle normali, messe insieme con un'abilità meravigliosa. E quando le distanze si scorciano combattono con la spada senza alcun timore per la propria incolumità". In più, questi pericolosi barbari ricorrono all'uso del laccio, con cui legano e soffocano il nemico: questa loro arma ha origini dal lontano oriente, basti pensare ai lacci dei terribili tughs indiani o a quelli cinesi ai tempi dei T'ang e dei Sung.

"La ferocia unna - spiega Mario Bussagli - era diversa. Finalizzata, razionale, usata come strumento di terrore, risente dell'esperienza del cacciatore che intende diminuire le capacità di reazione della selvaggina pericolosa. E diviene perciò disumana, ma non sul piano di una spinta distruttiva eccitata e bestiale con tutte le implicazioni psicologiche che un'ubriacatura di strage e di massacro può offrire. È qualcosa di assai più raffinato, qualcosa di sistematico, in cui ogni singolo cavaliere si inserisce per istinto […]" L'unno è quindi - per un usare un termine attuale che rende efficacemente l'idea - un uomo da commando.

Continuando a descrivere il suo aspetto, lo scrittore Sidonio Apollinare affermava: "Orrendi sono anche i volti dei loro neonati, la cui testa è un'informe massa rotonda". Gli occhi, piccole luci fredde senza umanità, erano infossati sotto la fronte. Tra di essi vi era un naso schiacciato, che non sporgeva quasi dal viso: sin da neonati ai maschi veniva stretta sul naso una benda, in modo da impedirne la crescita, questo perché il naso non superasse la protezione dell'elmo.
Tutte queste descrizioni fanno ben comprendere come il pensiero della guerra, e della sua inevitabilità, facessero parte della cultura unna.
Eppure gli Unni non erano solo esseri spregevoli e orrendi. La società unna era poligama, vi era un'aristocrazia di nascita, l'etichetta negli ambienti più elevati era particolarmente elaborata (da qui è facile identificare le origini orientali, e in particolare cinesi e persiane, di questo popolo).

Il saccheggio era fondamentale all'economia unna, ma così anche il libero commercio: ovunque gli Unni si stabilissero, e dopo qualunque patto di non belligeranza, chiedevano come primo requisito la possibilità di commerciare liberamente. Con ironia, si può dire che essi furono i primi liberisti. Molti popoli divenivano loro schiavi ma, come nella società romana, anche in questa lo schiavo poteva guadagnarsi la libertà e, una volta ottenuta, non vederla mai più minacciata. Molti fuggivano all'arrivo degli Unni, ma molti rimanevano e con loro convivevano: soprattutto gli agricoltori, che nell'economia unna erano considerati fondamentali. Infine, come scrive Patrick Howarth nel suo Attila, "non esistono prove di persecuzioni sui cristiani da parte di Attila o dei suoi predecessori; anzi, dai documenti appare chiaro che all'interno dell'impero unno i cristiani erano lasciati liberi di professare la propria fede".

Le origini geografiche degli Unni Storia e leggenda si accavallano nel tentativo di identificare le origini degli Unni. Lo storico medioevale Giordane, che studiò le guerre gotiche, narra di una leggenda secondo cui il re dei goti Filimero scoprì fra i suoi sudditi di origine scita alcune donne che praticavano stregoneria e, per questo motivo, le cacciò nei boschi selvaggi della Scizia. Lì alcuni spiriti maligni della foresta si accoppiarono con queste donne, dando vita ad una stirpe orrenda di ominidi simili agli gnomi, da cui sarebbero poi venuti gli Unni.
Lo storico romano Prisco, molto più realisticamente, identifica il punto di propagazione degli Unni in tutta Europa vicino al mare d'Azov: da qui gli Unni si spostano verso le grandi pianure della Russia e poi in quel territorio che è oggi la moderna Ungheria, dove resteranno per parecchio tempo, seguendo sempre una vita nomade e divisa in gruppuscoli e tribù indipendenti.

Tornando alla rappresentazione negativa degli Unni, alcuni sostengono - in modo suggestivo ma non oggettivamente accertato - che il termine "orco", che deriva dal francese "ogre", abbia le sue radici nella parola "hongre", cioè "ungherese": questo passaggio collegherebbe così gli Unni, stanziati come detto in Ungheria, agli orchi. Ennesima prova di come l'aspetto di questi barbari risultasse terrificante agli altri popoli di quei tempi. Un'altra leggenda collega gli Unni ai mostruosi popoli di Gog e Magog, chiusi nelle gole del Caucaso da Alessandro il Grande. Dopo averli sconfitti, Alessandro ordinò che fossero sigillati dietro immense porte di ferro. All'esterno di questa prigione naturale, il condottiero diede ordine di costruire delle gigantesche trombe di ferro che, al soffiare del vento, emettevano suoni simili a quelli delle trombe militari. Gog e Magog, pensando che l'esercito era fuori, pronto a sterminarli, non uscirono dalle gole per secoli, finché alcuni gufi fecero il nido nelle trombe, zittendole. I mostruosi esseri quindi uscirono e, vedendo che non c'era alcun esercito, cominciarono a propagarsi per il mondo.

Le origini storicamente più solide degli Unni vanno identificate nel popolo cinese degli Hsiung-nu, anche se le differenze tra i due popoli sono molte. Altri vedono nel termine "unno" la radice della parola iranica "hun", che indica "potenza" e "forza". Intorno al 60 d.C. alcuni Hsiung-nu, da tempo immemore predoni sul confine cinese, volgono lo sguardo verso ovest. Dalla lotta per il potere di due fratelli nacque una sorta di guerra civile: una parte del popolo seguì un fratello, di nome Hu Han-hsieh, che si accordò con la Cina, una parte invece seguì l'altro fratello, di nome Chih-chih, fuggendo verso il Medio Oriente. Un secolo e mezzo dopo la morte di Chih-chih, questo misterioso popolo, ormai mescolato a diverse altre razze, è nella zona del mar Caspio. Da qui, spostandosi verso il continente europeo, gli Unni (a questo punto pare corretto chiamarli così) si stanziano nella regione ungherese. "Alla fine del IV secolo - scrive Patrick Howarth - gli Unni erano ormai saldamente attestati sulle rive del Danubio, il fiume che segnava il confine orientale dell'Impero Romano".

Prima di Attila Nell'anno 395 un inverno eccezionalmente rigido fa gelare il Danubio e permette agli Unni di attraversarlo facilmente. Gli Unni si dirigono quindi in Tracia, territorio romano ai confini con la Dalmazia. . Da qui i barbari dilagano anche in direzione dell'Asia minore, in Armenia. il primo capo unno che portò i suoi guerrieri al di là del Danubio si chiamava Ulde, identificato come il probabile nonno di Attila. Descritto come "il Principe degli Unni", Ulde aveva grandi ambizioni: al primo incontro con gli emissari imperiali respinse ogni accomodamento e disse che la conquista unna avrebbe seguito il correre del sole. Oggi la si definirebbe una "sparata", e così fu: Ulde venne battuto e messo in fuga dai romani, e malinconicamente riattraversò il Danubio. Evidentemente, gli Unni avevano bisogno di un grande leader, qualcuno che sapesse unire tutto il popolo, diviso in tribù.

Sembrò agli Unni di averlo trovato nel 420 d.C., quando il comando della maggiore confederazione di tribù unne venne assunto da Ruga (che nei vari testi antichi è chiamato anche Rua, Rugila e Roilas). Ruga è considerato un primus inter pares con i fratelli Octar (o Uptar) e Munzuc (o Mundiuch). Munzuc avrebbe avuto due figli, Bleda e Attila, che avrebbero ben presto conquistato il potere.
Nel 442 d.C. Ruga, sicuro del proprio potere ormai assoluto, pensa che sia venuto il momento giusto di continuare l'opera dello sfortunato Ulde: approfittando delle difficoltà dell'Impero Romano impegnato a combattere i Persiani, decise di scatenare i suoi Unni nella zona del Basso Danubio, e da qui tornare in Tracia, in pieno territorio romano. L'Impero, in difficoltà, pensò bene di venire a trattative, ben sapendo che gli Unni svolgevano, per tradizione e necessità economiche, una sorta di racket. Il governo di Teodosio II, in cambio della pace, dovette mettere mano al portafogli: i romani avrebbero pagato la tranquillità ai confini orientali con un tributo annuale di 350 libbre d'oro o di 25.200 solidi.

Nel frattempo, gli Unni soddisfano la loro sete di saccheggio altrove: nei pressi del Reno, ad esempio, dove compiono stragi tra i Burgundi. Per sette anni Unii e Burugundi si combatteranno senza pietà, fino alla distruzione finale del regno burgundo nel 437, avvenuto sotto Attila e Bleda, regnanti già da due anni. Lo scontro tra Unni e Burgundi viene ricordato nei testi più antichi della cultura germanica, a cominciare dal ciclo-epico-leggendario dei Nibelunghi.
Il regno di Ruga si ricorda, oltre per questa guerra vittoriosa con i Burgundi, per la mancata vittoria nei confronti di Bisanzio. Nel 434 Esla, ambasciatore unno, si recava alla corte di Costantinopoli per presentare la solita richiesta da racket. Ruga chiedeva la restituzione di alcune tribù unne fuggite dal gruppo principale degli Unni e rifugiatesi nei confini romani d'oriente: gli Amilzuri, i Tunsuri, gli Itimari e i Boisci. Queste genti fungevano da militi mercenari per Bisanzio, ed erano dimostrazione vivente della mancata unità degli Unni sotto il potere assoluto di Ruga.

Bisanzio in quel momento era impegnata in guerre africane, e un conflitto occidentale avrebbe implicato due fronti su cui combattere e uno sforzo bellico insostenibile. I negoziati si fanno così inevitabili: quando però si avvicina la primavera - stagione adatta ai combattimenti - Ruga trova la morte. L'evento gettò gli Unni in uno stato confusionale, dissolse la minaccia su Bisanzio e sembrò preludere ad un periodo di calma. Quanto fosse infondata questa speranzosa impressione lo rivelano immediatamente i nomi dei suoi successori. Perché a Rua succedettero i nipoti Bleda e Attila, figli di Munduch. Il peggio - per gli imperi romani - doveva ancora venire.

Attila al potere

Gli storici del basso impero vedono in Attila l'artefice dell'ascesa dell'impero unno. Attraverso questi testi (tra cui va citato anche Sant'Ambrogio), Attila è descritto come un essere estraneo al mondo civilizzato, simbolo di ferocia e barbarie. Come detto, Attila viene visto, per molti secoli, come simbolo anti-romano e anti-cristiano. Eppure, quando Attila e Bleda salgono al potere, l'impero unno è già estesissimo: Octar domina ad Occidente nel territorio della moderna Germania, Ruga ad Oriente, alle porte di Costantinopoli. La grandezza di Attila non sta nella semplice estensione territoriale del dominio unno, ma nella riorganizzazione della società unna e delle strategie di espansione. Attila comprese che i due avversari (non odiati, ma temuti e addirittura stimati: la cultura romana veniva da lui vista come qualcosa di importante, da avvicinare e assorbire) erano gli Imperi Romani d'Occidente e d'Oriente.
"Attila - scrive Bussagli - dunque è, soprattutto, un politico: spesso è un comandante vittorioso e molto abile, ma non uno stratega geniale. Probabilmente invece fu un ideologo audacissimo quanto incompreso. Ma quest'ultimo aspetto apparirà molto più chiaro quando ne avremo seguito la meteora sanguinosa. Forse fu conscio del personaggio che aveva voluto creare e vivere, forse ebbe notazioni istrioniche. Certamente ebbe un senso di giustizia, innato e profondo".

Continua Bussagli dicendo che "sarebbe fuorviante considerare Attila alla maniera di altri conquistatori centro-asiatici, anche perché Attila è personaggio europeo, quale che sia l'origine delle sue orde". Questa, quindi, è la diversità importante di Attila: a dispetto della demonizzazione occidentale e cristiana, il capo degli Unni non è una "bestia orientale", un Gengis-Kahn o un Ivan il terribile, due altri personaggi demonizzati (più giustamente) nel mondo civilizzato, ma un europeo che pensa e agisce da europeo.
Dei primi decenni della sua vita non si sa nulla: quando sale al potere, Attila è sicuramente in una posizione di inferiorità rispetto al fratello Bleda. La tradizionale "diarchia" unna vede in lui, quindi, l'anello debole.
La prima apparizione ufficiale di Attila, accanto al fratello Bleda, è in occasione dell'incontro con i plenipotenziari romani, da cui nascerà la pace di Margo, nel 435 d.C.

I romani intendevano prendere contatto con i successori di Ruga al fine di "rinnovare il contratto" dei rapporti tra romani e Unni. Le condizioni del nuovo racket erano alquanto precise ed esose: Attila e Bleda chiedevano ai Romani di non accogliere più fuggiaschi dalle terre degli Unni, chiedevano anche la restituzione di tutti coloro che si erano riparati dietro le mura romane, Nel caso che i Romani non intendessero abbandonare al loro destino (un destino poco salutare…) i fuggiaschi, i Romani avrebbero dovuto pagare 8 solidi d'oro per ognuno di essi. Infine, l'ultima richiesta si riferiva ad un maggior sviluppo del libero commercio nella regione, e un raddoppio del tributo annuale già concordato con Ruga, ora giunto a 700 libbre, una somma enorme. L'imperatore Teodosio ratificò il trattato, ma con nessuna intenzione di rispettarlo, questo è certo. Restituzioni umane ce ne furono, ma poche: tra queste, quelle dei nipoti "traditori" di Attila, Mama e Atakam, che - una volta nelle mani degli Unni - vennero condannati alla crocifissione.

Per altri quattro o cinque anni di Bleda e Attila non si hanno più notizie: quel che è certo è che, per un po' di tempo, le attenzioni di Bleda e Attila si volsero a Nord e ad Occidente. Tra il 439 e il 440 d.C. Roma subì diverse preoccupanti limitazioni: i Vandali occuparono Cartagine, che, dopo la distruzione in epoca lontana (Repubblica Romana, terza guerra punica, 202 a.C.), era tornata ad antico splendore, e si riversarono da qui verso la Sicilia. Contemporaneamente, i Persiani sfondavano in Armenia. Gli Imperi Romani d'Occidente e d'Oriente si trovarono così in condizione di debolezza, e Bleda, più che Attila, pensò fosse venuto il momento giusto per sferrare l'attacco decisivo al grande avversario.
Il primo annuncio di nuove ostilità dopo la pace di Margo è l'attacco unno al fortilizio romano di Castra Constantia, sul Danubio. Rompere un trattato, anche in quei tempi lontani, richiedeva un pretesto: gli Unni si inventarono l'assurda storia che il vescovo di Margo era entrato di nascosto in territorio unno e aveva comandato la trafugazione di alcune tombe dei re Unni. "A questa sonora balla, scrive Patrick Howarth, "sorprendentemente gli emissari romani con cui gli Unni trattarono non confutarono quest'acccusa e nemmeno fornirono una risposta al ben più concreto reclamo che un grande numero di fuggiaschi dall'impero unno erano ancora trattenuto contro le disposizioni del trattato di Margo. Gli Unni richiesero la resa immediata del vescovo e dei fuggiaschi: queste richieste non vennero esaudite e così ne seguì una nuova azione militare".

La guerra voluta da Bleda vide Attila in posizione subordinata: nel 441 Margo fu espugnata (lo stesso vescovo, arresosi, aprì personalmente le porte della città) e la gloria andò, prevedibilmente, tutta a Bleda. Non solo: Attila per buona parte di questa guerra tenne sé e i suoi uomini in disparte, persino mantenne buoni rapporti con Costantinopoli. Solo successivamente Attila si unì a Bleda e, per cause rimaste sconosciute, nel pieno dei combattimenti, nel 443 d.C., Bleda morì.
La leggenda, veramente poco credibile, dice che Bleda - d'improvviso disinteressato agli onori della guerra - si ritirò a vita privata e alla sua passione, la caccia, e che durante una battuta restò ucciso. Un'altra fonte sostiene - molto più plausibilmente - che, dietro la morte di Bleda, si stagliasse l'ombra inquietante di Attila. Si parla anche di un vero e proprio colpo di stato ad opera di Attila, e anche di un tentativo di assassino di Attila ordinato da Bleda ma sventato dagli uomini del fratello.

Ora, nell'anno 443 d.C., Attila si trovava improvvisamente unico re degli Unni. Come scrive Howarth, "fu il primo uomo a potersi dichiarare tale con assolutezza e fu anche l'ultimo". Il sogno delle genti unne sembrava ora potersi realizzare: un uomo carismatico, potente, dotato di una visione lungimirante, aveva riunito tutte le tribù e dato loro uno scopo. Uno scopo terribile e grandioso allo stesso tempo: la sconfitta di Roma.
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Vittoria dopo vittoria il grande condottiero unno costruisce il suo "regno del nord". Poi cala in Italia
e arriva a Roma, preparandosi a invaderla. Ma…


UN PAPA FERMA IL CICLONE ATTILA

Il "leggendario" incontro di Attila con Papa Leone

Attila guarda ad Oriente Per ben due anni, Attila si gustò il potere assoluto. Un guerriero e un nomade come lui, a capo di un popolo con le stesse caratteristiche, non poteva restare a lungo in silenzio. L'economia degli Unni - che rifiutavano il lavoro della terra e non possedevano la minima capacità navigatrice - non si poteva basare che sulla caccia e il saccheggio di altri popoli. Questo motivo, unito all'ovvia considerazione che i due imperi guidati da Roma (e Ravenna) e Costantinopoli erano ricchissimi, faceva sì che Attila volgesse il suo sguardo prima al più vicino oriente, e poi ad occidente.
In realtà, c'è un altro motivo per cui Attila dirigesse la sua sete di dominio verso i romani: il condottiero unno, che la letteratura cristiana, vuole barbaro e spietato, subiva il fascino della cultura romana. Alla corte di Attila non pochi erano i consiglieri e gli educatori romani, tenuti come ostaggi e come ospiti: Attila si considerava un sovrano europeo, e intendeva dare agli unni la dignità che altri popoli barbari e cristianizzati (i Visigoti, ad esempio) avevano ottenuto nel confronto e nel contatto coi romani.

Fino al 447, quindi, gli avamposti dell'impero d'Oriente non dovettero temere alcunché dal popolo che aveva terrorizzato il continente. Ma in quell'anno fatidico, caratterizzato da un inverno particolarmente crudele e da una conseguente carestia, spinse diversi popoli alla ricerca di animali, cibo e caldo. Tra questi, gli Unni. Il primo territorio ad essere invaso dai guerrieri di Attila fu la Tracia (oggi una regione occupata da Grecia, Bulgaria e Turchia): si può ben comprendere come le intenzioni del condottiero unno fossero quelle di dirigersi verso Costantinopoli. La città romana, leggendaria per splendore e ricchezza, aveva subito in quei difficili mesi, oltre alla carestia, una serie di terremoti, che ne avevano minato il sistema di sicurezza. Le grosse torri di avvistamento, le altissime mura che difendevano la Roma d'oriente erano crollate, o erano diventate pericolanti. I cronisti parlano del crollo di ben cinquantasette torri di difesa. Tutto questo mentre Attila e i suoi stavano avvicinandosi.

La Storia dimostrerà come sia Costantinopoli che Roma resisteranno, anzi non saranno mai violate da Attila: sono fiorite leggende e superstizioni su queste due occasioni sprecate dal condottiero, che avrebbe potuto trasformarsi nell'uomo più potente del mondo conosciuto. Non siamo in grado di dire con esattezza i motivi per cui il mondo civilizzato riuscì a distinguere agli Unni (vi sono, però, molte possibili spiegazioni), ma sicuramente sembra un segno del destino che il Flagello di Dio si fosse fermato a pochi passi dal pieno trionfo.
Per Costantinopoli dunque l'unica speranza era una drammatica corsa contro il tempo: per anni i cultori della civitas romana avrebbero lodato l'impresa degli abitanti della capitale d'Oriente che, sotto la guida del prefetto pretoriano Flavio Costantino, si organizzò in squadre per la ricostruzione delle torri e delle mura. Per quanti possa sembrare incredibile, il prefetto romano sfruttò, con astuzia e intelligenza, l'acerrima rivalità che vi era tra le due fazioni del circo, gli azzurri e i verdi. Le due tifoserie diedero vita quindi ad una sorta di derby per la ricostruzione: gli abitanti di Costantinopoli non sapevano se credere ai loro occhi quando videro le mura della propria città, nuovamente erette, ancora più alte che in passato, nel tempo di soli sessanta giorni. Gli Unni, una volta giunti sotto Costantinopoli, si trovarono di fronte una fortezza inespugnabile, con ben due linee fortificate di 66 metri di profondità.

"Il lavoro, gigantesco e ingegnoso - scrive Mario Bussagli nel suo Attila - colpì profondamente la fantasia dei cittadini […] tanto che l'iscrizione celebrativa bilingue, tuttora visibile sul muro detto di Teodosio II, nella versione latina affermava fra l'altro, che a stento la dea Pallade (Athena) avrebbe potuto costruire altrettanto velocemente mura tanto solide". Quelle mura, mille anni dopo, avrebbero resistito anche agli attacchi dei Turchi.
Quando gli unni giunsero nei pressi di Costantinopoli la difesa della città fu affidata a Flavio Zenone, mentre lo scontro in campo aperto toccò agli uomini guidati dal comandante Arnegisclo. Furono le forze bizantine ad attaccare per prime, presso il Vit, un affluente del Danubio, al confine con la Bulgaria: la battaglia, nella quale Arnegisclo morì sorrise ai bizantini e obbligò gli Unni a deviare il proprio corso lontano dalla capitale. Attila guidò i suoi uomini nell'llirico e nei Balcani dove misero a ferro e fuoco, radendole al suolo, più di sessanta città. Incredibilmente, le forze dell'Impero d'Occidente non intervennero: come comandante supremo delle forze romane vi era infatti quell'Ezio che aveva frequentato in gioventù gli unni, vi aveva vissuto insieme come ostaggio, e comprendeva a fondo la loro sensibilità. Ezio era, anche, un amico degli Unni: perlomeno fino a quando Attila non avrebbe minacciato l'Occidente. E anche in quel caso, il comandante romano si sarebbe avvalso di divisioni unne "rinnegate" per combattere l'esercito di Attila.

Questi pensò bene di allentare la pressione su Costantinopoli, ma solo provvisoriamente, riversandosi sulla popolazione degli Acatziri, da sempre refrattari al dominio unno e fieri combattenti. In questo modo Attila manteneva alta la tensione tra i propri uomini e faceva terra bruciata intorno a Costantinopoli. Attila, per di più, sottomise infine questo popolo, inglobandolo nelle proprie forze di combattimento, recuperando una forza d'urto considerevole. Nei confronti di Costantinopoli, però, il condottiero avrebbe semplicemente avanzato richieste economiche: sapeva bene, Attila, che i propri uomini non avrebbero potuto assediare a lungo la città, tanto più che erano fiaccati dalla malaria, mentre una pressione psicologica avrebbe potuto fruttare di più. un trattato, firmato da Anatolio nel 448, prevedeva un tributo annuale e la liberazione di tutti i prigionieri unni, oltre alla restituzione di coloro che avevano tradito gli Unni per l'Impero.

"Molti di questi uomini - scrive Patrick Howarth in Attila - piuttosto che essere consegnati agli Unni scelsero di finire uccisi dai loro ufficiali e così il prestigio dell'esercito imperiale, non più in grado di proteggere le sue stesse reclute, crollò drammaticamente". Attila avanzò anche richieste territoriali: un'area larga 500 chilometri nei pressi del basso Danubio. Fu questa richiesta che fece ben comprendere ai romani d'Oriente e d'Occidente che Attila sarebbe stato un pericolo finché fosse vissuto: ora gli Unni non chiedevano solo soldi, il "racket" nomade, occasionale, ma terre, domini. Attila voleva un regno tutto suo.

Fu allora che si pensò ad un complotto per uccidere Attila. Le trattative seguite alla pace del 448 si protrassero per oltre un anno: nella primavera del 449 Attila inviava a Costantinopoli il proprio ambasciatore unno, Edeco: questi doveva avanzare l'ennesima richiesta di transfughi rifugiatisi presso i romani. Edeco era accompagnato da un romano transfuga, quell'Oreste che sarebbe stato padre dell'ultimo imperatore d'Occidente, Romolo Augusto, che il destino e il sarcasmo della storia avrebbero trasformato in Augustolo, destinato a vedere il crollo definitivo dell'Impero nel 476.
Durante le trattative una parte fondamentale la svolgevano evidentemente gli interpreti. Tra essi un ruolo fondamentale lo assunse un certo Bigilas. I giorni che Edeco passò a Costantinopoli, venne ospitato nella sontuosa casa del potente Crisafio. Fu costui ad avanzare la proposta di tradimento ad Edeco: l'ambasciatore unno era uomo fidato e poteva accedere facilmente al cospetto di Attila: ebbene, Edeco avrebbe potuto vivere in quel lusso e con grandi favori materiali se avesse assassinato Attila. Gli approcci, prudenti, di Crisafio a Edeco furono sempre tradotti da Bigilas. Si venne quindi a creare un accordo segreto tra i tre, esteso solo successivamente all'imperatore Teodosio. Si pensò quindi a inventare, con un pretesto, un ambasceria presso Attila: la missione sarebbe stata guidata dall'ambasciatore Massimino, nobile romano che sarebbe rimasto a completa insaputa del piano, fungendo da specchietto per le allodole.

Nell'estate del 499 la missione partì per Sofia, dove avrebbe dovuto incontrare Attila. Il capo unno si negò per diverse settimane finché incontrò, in un villaggio a nord della città, la delegazione. Le testimonianze di questo complotto sono dello scrittore romano Prisco, che parla del fatto che Attila da tempo, grazie a proprie talpe presso i propri uomini e nella stessa Costantinopoli, fosse venuta a conoscenza del piano. Prisco avanza anche la possibilità, molto probabile, che lo stesso Edeco avesse informato Attila. Tutti rimasero stupiti, infatti, quando Attila smascherò, in un confronto diretto, l'interprete Bigilas, scoperto con una grossa somma d'oro non lo uccise ma lo incatenò fino a quando il figlio non fosse andato e tornato a Costantinopoli con una somma consistente di libbre d'oro. A quel punto Bigilas sarebbe tornato, umiliato, a Costantinopoli, accompagnato da Oreste fino al cospetto dell'imperatore Teodosio, con un sacchetto pieno d'oro appeso al collo.

Teodosio, di fronte al fallimento del complotto, avrebbe dovuto solamente ingoiare il rospo. E, ovviamente, offrire ad Attila la testa del nobile Crisafio, che aveva ordito tutta la macchinazione. Incredibilmente, Crisafio si salvò per una serie di circostanze: la sua eliminazione era auspicata anche dal rivale Flavio Zenone, e Teodosio, costretto a scegliere tra offrire Crisafio al potente Zenone o all'altrettanto potente Attila, non si mosse. Nel frattempo Crisafio avvicinò, tramite suoi uomini Attila, e gli parlò nella lingua che sapeva sarebbe risultata efficace nei confronti di un unno: quella del denaro. Crisafio si comprò la vita, anche se la perse poco tempo dopo quando Teodosio morì nel luglio del 450, a causa di una caduta da cavallo: Crisafio, corrotto personaggio certo non amato a Costantinopoli, perse il grande protettore e venne giustiziato in pubblico, senza il benché minimo processo. Pace fu fatta. Ora Attila, che si garantiva rapporti amichevoli con il nuovo imperatore Marciano, avrebbe volto il suo sguardo ad Occidente.

Attila guarda ad Occidente
Attila pensò che, con Costantinopoli inespugnabile, le sue orde potevano sempre puntare verso Occidente: qui l'impero viveva una profonda crisi, la capitale si era spostata da Roma alla più sicura Ravenna, in territorio paludoso e più facilmente difendibile. In più, Attila pensava ad emulare l'impresa di Alarico, condottiero visigoto che, alla testa di un esercito variegato di barbari aveva prima minacciato Costantinopoli e poi aveva invaso l'Italia (nel 400). Alarico, dopo varie vicissitudini, in una sfida prima perdente e poi vittoriosa con il comandante romano Stilicone, riuscì a marciare persino su Roma. Le sue orde, nel 408 raggiunsero le mura della Città eterna, e cominciarono un assedio che durò l'intero inverno. Esso fu rotto dalla solita arma cui ricorrevano i romani per piegare i miopi barbari: il denaro. Alarico accettò di ritirarsi sotto pagamento di cinquemila libbre d'oro e ventimila d'argento, più seta e spezie. Due anni dopo, però, Alarico tornò a battere cassa e, clamorosamente, occupò Roma.

"Per Attila - scrive Howarth - quarant'anni dopo la lezione era chiara: Roma era molto più vulnerabile di Costantinopoli, le sue difese materiali erano molto più deboli e la sua immensa popolazione poteva venire affamata fino alla resa in breve tempo".
Attila, al momento di dirigersi verso occidente e puntare per l'Italia, doveva tenere conto della presenza dei Visigoti e dei Burgundi. Attila avrebbe dovuto venire a scontrarsi con i secondi, ma con i primi - il cui potente e leggendario re era Tedorico, nemico storico del comandante romano Ezio - sarebbe potuto venire a patti. Il piano fallì perché Ezio, fine politico oltre che grande uomo d'armi, seppe evitare questo accerchiamento, stabilendo buoni rapporti con i Visigoti. La cosa difficile da comprendere per noi oggi, ma estremamente chiara al tempo, fu che proprio lo spettro di Attila costituì il cambiamento dei rapporti tra i popoli d'Occidente. Visigoti, Goti, Burgundi e Bagaudi - sebbene chiamati barbari dai romani - erano popoli per lo più cristianizzati, venuti a compromessi e ormai conviventi accanto ai romani. Era Attila, il famigerato capo degli Unni, il Flagello di Dio secondo la vulgata cristiana, ad essere percepito come l'alieno, il vero barbaro. Molte cose avrebbero dovuto sconsigliare Attila dal seguire il suo destino in Occidente, dove avrebbe trovato la sconfitta nella leggendaria battaglia dei Campi Catalauni. Eppure, un elemento imprevedibile si rivelò fondamentale.

"[…] Attila - spiega Bussagli - sente che il suo destino è ormai europeo e mediterraneo. L'unità culturale ed economica del mondo romanizzato, dove ancora domina il solido aureo che è, insieme, strumento e simbolo di questa unità, attrae irresistibilmente il cavaliere delle steppe che anela, per sé e per i suoi, ad una integrazione che sia, possibilmente, predominio assoluto". Questa sete di potere si accompagna ad una sete di romanità e ad una curiosa storia sentimentale.
Il richiamo per l'Italia si fa per Attila assolutamente irrevocabile quando, in modo stupefacente, appare nella sua vita la giovane Giusta Grata Onoria, figlia di Flavio Costanzio incoronato imperatore d'occidente l'8 febbraio 421, e di Galla Placidia, incoronata Augusta lo stesso giorno. Figlia di cotanta madre (Galla Placidia difese la cristianità e la romanità, contribuì a rendere grande Ravenna, patì la servitù sotto i barbari, e poi riottenne il potere), Onoria viveva ai margini dei privilegi imperiali, dal momento che l'imperatore era divenuto il fratello minore Valentiniano III. Onoria veniva percepita come rivale dell'imperatore e non le si permetteva un matrimonio con un uomo che potesse essere ambizioso, e divenire di conseguenza pericoloso per Valentiniano.
La giovinezza sfioriva lentamente, a Ravenna: il suo ultimo amante, Eugenio, venne fatto arrestare e decapitare per ordine del fratello. Onoria venne obbligata a sposare un vecchio e ricco senatore di nome Flavio Basso Ercolano. La misura era colma, e la forte Onoria, clamorosamente per quei tempi, compì un'impresa che definire audace è poco. Nella primavera del 450 la donna fece arrivare ad Attila, tramite il fedele eunuco Giacinto, un messaggio che il condottiero unno interpretò come chiarissimo: una grossa somma d'oro, una lettera nella quale Onoria chiedeva ad Attila di liberarla dal matrimonio imposto, e l'anello imperiale personale. Fu quest'ultimo dono a convincere Attila: Onoria chiedeva il fidanzamento.

A questo punto, nella mente di Attila si affacciarono diverse ipotesi: la proposta, sincera o meno che fosse, gli dava la possibilità di muovere verso l'Italia con una missione simbolica e pratica. Il capo unno - che gli storici attestano possedesse moltissime mogli e altrettanti innumerevoli figli e che avesse una carica sessuale fuori dal comune - sicuramente vedeva in Onoria la più luminosa tentazione. Sposando una Augusta, Attila poteva porsi, come aveva segretamente sempre ambito, sullo stesso piano dei romani. Non solo: un nobile romano, vero e proprio magister militum. Onoria era la carta vincente per ottenere un amore non imposto ma richiesto e un potere politico immenso.
Attila manda un'ambasceria a Ravenna, dove dichiara Onoria "sua sposa" e che se la donna avesse subito un'offesa la sua furia si sarebbe scatenata sull'Impero. In più, il capo unno chiedeva metà dell'Impero d'Occidente per sé e per la sua nuova sposa!

La campagna d'Italia

La campagna avviene nel 451: gli unni si spostano insieme a fedeli alleati come gli Eruli, i Rugi, gli Sciri. Attila puntò prima verso la Gallia: era quella la regione promessa ad Onoria dal padre e che il fratello Valentiniano le aveva strappato. L'Impero doveva reagire, e nel più deciso dei modi: mandò, come proprio comandante supremo, il suo più valoroso soldato, e cioè Ezio, che in gioventù aveva conosciuto Attila, ne era addirittura divenuto amico. I movimenti di Attila in Gallia indussero non solo i Visigoti ad allearsi con Ezio, ma anche i Franchi, i Burgundi, gli Armoricani.
Dopo aver conquistato diverse città, Attila seppe che lo scontro decisivo sarebbe avvenuto nella regione della Champagne: nei cosiddetti Campi Catalauni avvenne lo scontro tra i due eserciti contrapposti, in un territorio scelto dallo stesso Attila perché agile per gli spostamenti equestri, nei quali gli unni eccellevano.

La battaglia fatidica avvenne, con molta probabilità, il 20 giugno 451. Attila, che era un uomo molto sensibile ai messaggi dei suoi sciamani, accettò lo scontro perché questi gli avevano predetto una sconfitta personale, ma anche la morte del grande condottiero avversario in quel giorno fatidico. In effetti una morte illustre avvenne, e fu quella del re dei Visigoti, Teodorico, che nel cuore dei combattimenti, perì o travolto da una ritirata dei suoi uomini o, più eroicamente, trafitto dalla freccia di un nemico. Attila pensava di perdere la battaglia ma vincere la guerra avvalendosi della morte di Ezio. Ma Ezio non cadde. La battaglia vide la distruzione totale dei due eserciti: l'evento colpì a tal punto il mondo civilizzato che per molto tempo corse la leggenda che, nelle tre notti successive allo scontro, i fantasmi dei guerrieri caduti continuassero a combattersi.

In ogni caso, come scrive Bussagli "il fatto che Ezio fosse sopravvissuto alla battaglia fu la fortuna dello stesso Attila. I Visigoti anelavano a chiuderlo nel suo campo fortificato e a spazzarlo via con un assalto rabbioso o, meglio, a far morire di fame lui e i suoi. […] Ma Ezio era rimasto amico (nonostante tutto) ed è probabile che vagheggiasse un'idea speculare, se così si può dire, rispetto a quella che aveva portato Attila in Gallia. Anche Ezio, infatti, vedeva quale enorme forza sarebbe nata da un'unione unno-romana e, probabilmente, immaginava gli unni come milizie dell'impero non più mercenarie, ma coesistenti e tese ad identici scopi".
Ezio riuscì a far allontanare gli alleati Visigoti e Franchi, soprattutto il figlio di Teodorico, Torrismondo, vagheggiandogli l'ipotesi che nel suo regno, in sua assenza i fratelli e parenti potessero togliergli il trono che gli spettava dopo la morte del padre. Ezio permise così ad Attila un'onorevole fuga, in Gallia.
L'anno seguente, il 452, però, Attila tornò a farsi vivo: il miraggio di Onoria non si era dileguato, evidentemente.
Dalle Alpi Giulie calò con i suoi guerrieri e non incontrò resistenza alcuna. Ezio, pur conoscendo la psicologia degli Unni, non si aspettava questo ritorno, che dimostrava innanzitutto la "diversità" dell'uomo e condottiero Attila rispetto ai suoi predecessori. Gli Unni si riversarono in quello che è l'attuale Nord-Est, cingendo d'assedio Aquileia e conquistandola. "Quando cadde - scrive ancora Bussagli - tutto il mondo romano tremò, trattenendo il respiro".
Da qui gli unni calarono verso sud, nell'attuale Veneto (alcuni storici fanno risalire la nascita di Venezia, fortificazione sull'acqua, che gli unni temevano, a questo periodo), conquistando città e villaggi, compresa Padova. Da qui Attila si mosse ad ovest: Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo: tutte caddero sotto il suo tallone, espugnate, distrutte, i loro cittadini massacrati sul posto e, i fortunati sopravvissuti alla carneficina, fatti schiavi. Meglio andò ai milanesi e ai pavesi, miracolosamente risparmiati (furono uccisi in numero considerevolmente minore).

Per un po', gli Unni resteranno a nord del Po: gli sciamani annunciavano ad Attila il pericolo di una calata verso Roma. Il pensiero correva ad Alarico che, dopo averla saccheggiata, era morto di malattia in Calabria, prima di sbarcare in Africa. Inoltre, carestia e peste colpivano le file degli Unni e un'avanzata verso sud avrebbe allontanato gli Unni dai rifornimenti. La paura che Attila si dirigesse a Roma, però, spinse Ezio a convincere il papa stesso, Leone I, ad intervenire. Non era eccezionale che un'ambasceria fosse guidata da un uomo di Chiesa, ma era sensazionale che a farlo fosse il pontefice massimo "e per di più - scrive Bussagli - un papa come Leone I, uomo di indiscussa fierezza e di notevole abilità diplomatica che, inoltre, non parla mai di questa missione nei suoi scritti e nelle sue lettere".

La presenza del papa significava che l'impero stava, realmente, tremando. L'incontro tra Attila e Leone I fu condizionato dalla mentalità del primo: per il capo unno gli uomini di religione rivestivano enorme importanza, li temeva, di qualunque religione fossero.
Roma era la Città sacra, che gli sciamani gli avevano sconsigliato di conquistare, Attila temeva ciò che era "sacro". Molte furono le leggende attorno all'evento: c'è chi disse che i santi Pietro e Paolo apparissero al fianco di Leone I, chi disse che Attila fosse rimasto impressionato dalla presenza di un vecchio che, vicino al Papa, impugnava una spada sguainata.
Quel che è certo è che i due uomini si parlarono da soli, lontano da tutti. Coloro che scrutavano da lontano potevano solo notare il silenzio che avvolgeva le due figure, forse le espressioni cangianti dei loro visi. Alla fine, clamorosamente, Attila si ritirò, tornò dai suoi e fece voltare loro le spalle a Roma, alla conquista più luminosa che il popolo unno avrebbe potuto mai ricordare nelle proprie leggende.

Mentre cavalcava nuovamente verso nord, non erano pochi coloro che pensavano ad una dolorosa sconfitta: Attila non aveva ottenuto in sposa Onoria, e la sua campagna era costata la vita di decine di migliaia di morti.
La delusione per la mancata conquista sentimentale, però svanì ben presto: le cronache parlano di un ennesimo matrimonio con cui il capo unno si legò ad una bellissima e giovane donna di nome Ildico. Nell'anno 453 era chiaro che Attila avrebbe puntato nuovamente su Costantinopoli, l'impero d'oriente, per sfidare il nuovo imperatore marciano, che fra l'altro aveva ricusato ogni patto precedente. Costantinopoli non "pagava" più, e una campagna militare si imponeva. C'è chi sostiene che Attila non si fosse ancora arreso sulla questione di Onoria, e che avesse saputo che la nobildonna romana era stata spedita a Costantinopoli.
Le nozze con Ildico furono celebrate con tutta la magnificenza e col lusso che si doveva ad un grande capo. Attila bevve moltissimo nei baccanali che seguirono alla celebrazione. La stessa notte, il grande condottiero, moriva nel sonno soffocato da un'emoraggia. Il suo corpo non rivelava nessun segno di violenza, Attila aveva avuto simili problemi di salute già in passato, la giovane Ildico piangeva in un angolo. Nel silenzio più assoluto le guardie di Attila entrarono nella tenda raccolsero il corpo del capo e non toccarono la giovane sposa, evidentemente innocente.
Per gli Unni iniziava un percorso storico a ritroso, verso l'oblio.

FERRUCCIO GATTUSO
Bibliografia
Attila, di Mario Bussagli, pp. 234, Rusconi Editore, 1985
Attila, di Patrick Howarth, pp.244, Piemme Editore, 2001
Attila, di Andrea Frediani, pp. 60, allegato a "Storia e Dossier", 2001

Questa pagina
(e solo per apparire su Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore d
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