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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1900 

 LETTERATURA
fine SECOLO XIX - inizio SECOLO XX
( Le lettere e le Arti della nuova Italia) ( 3 )

qui: prima parte
LE LETTERE E LE ARTI NELLA SECONDA METÀ DEL SECOLO XIX. - GIOSUÈ CARDUCCI. - I SUOI DISCEPOLI E I SUOI AMICI - GIOVANNI PASCOLI - GABRIELE D'ANNUNZIO - MARIO RAPISARDI E ARTURO GRAF - ROMANZIERI E NOVELLIERI - GIOVANNI VERGA - ANTONIO FOGAZZARO
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segue: seconda parte
IL TEATRO - CRITICI, GLOTTOLOGI, TRADUTTORI FOLKLORISTI - GLI STUDI STORICI - LA STAMPA PERIODICA – GLI STUDI FILOSOFICI - BENEDETTO CROCE E GIOVANNI GENTILE - L'ARCHITETTURA LA SCULTURA LA PITTURA E LA MUSICA - LE LETTERE NEL SECOLO XX
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GIOSUÈ CARDUCCI (biografia)

I SUOI DISCEPOLI E I SUOI AMICI

 

Uno degli ingegni più robusti dell’Italia nuova sorta a libertà fu GIOSUÈ CARDUCCI. Nato a Valdicastello, nella Versilia il 27 luglio 1835 dal medico condotto Michele e da Ildegonda Celli, seguì il padre a Bòlgheri, a Castagneto, a Laiatico e a Firenze, dove studiò presso i padri Scolopi. Laureatasi a Pisa, ebbe nel 1856 una cattedra ginnasiale a S. Miniato al Tedesco; mortogli il padre nel 1858, rimase due anni a Firenze studiando alacremente e curando edizioni di classici per provvedere al sostentamento della madre, del fratello e della moglie Elvira Menicucci, sposata nel 1859. Nel 1860 insegnava al liceo di Pistoia, quando dal ministro dell'Istruzione Terenzio Mamiani fu chiamato a insegnare lettere nell'Università di Bologna, e nell'insegnamento universitario trascorse quasi tutto il resto della sua vita. Repubblicano prima, abbracciò la fede monarchica poi e nel 1890 fu nominato senatore. Nel 1904, per motivi di salute, fu costretto a lasciare l' insegnamento; due anni dopo ricevette il premio Nobel per la letteratura; il 16 febbraio 1907 si spense a Bologna fra il Cordoglio della Nazione. Giosuè Carducci fu critico e poeta. La sua attività critica fu molta: compilò antologie (L'Arpa del Popolo, Primavera e fiore della lirica italiana, Antica lirica italiana, Letture del Risorgimento Italiano, Letture italiane scelte a uso delle scuole secondarie, queste ultime due in collaborazione con Ugo Brilli), curò per l'editore Barbera la collezione Diamante con introduzioni, delle quali alcune bellissime, commentò Le Stanze, l'Orfeo e le Rime del Poliziano e le Rime di M. Frescobaldi, raccolse Cantilene, Ballate, Strambotti e Madrigali dei sec. XIII e XIV, Lettere disperse e inedite di P. Metastasio, Scritti letterari e artistici di Alberto Mario, Cacce in rima dei sec. XIV e XV, illustrò col FERRARI le Rime del Petrarca e le Odi di B. Del Bene, e infine riunì e ordinò nei volumi delle sue Opere scritti pubblicati in periodici e opuscoli: Discorsi letterari e storici; Studi letterari; Studi, saggi e discorsi; Poesia e storia; Confessioni e battaglie; Ceneri e faville ecc.

Nella critica Carducci seguì il metodo storico e schermì, tutte le volte che ne ebbe l'occasione, il metodo estetico. Ma un gran critico il Carducci non fu. Spesso accettò leggermente giudizi di altri; pur essendo un ricercatore instancabile, sovente non approfondì gli argomenti trattati; talvolta si soffermò troppo sull'esteriorità d'un'opera e ne trascurò l'intima essenza; talaltra s'indugiò troppo in minute ricerche storiche, riserbando minimo posto all'illustrazione artistica; non di rado nei giudizi si lasciò fuorviare da preconcetti e simpatie. Ma - come ben disse un suo discepolo, Guido Mazzoni - «oltre la squisita sensibilità e maestria per gli effetti della lingua e della tecnica artistica, conviene riconoscere che vide bene e delineò nette alcune figure e alcune produzioni letterarie, dai primi secoli al suo; e spesso riuscì, con serietà dottrinale, eloquentissimo. I volumi sul Parini, sul Leopardi, i discorsi su Dante, sul Petrarca, sul Boccaccio, alcuni articoli di critica letteraria su materia recente, conservano un alto valore anche per chi li stimi, nei loro giudizi, ormai più o meno invecchiati ».
Astraendo dal valore critico, la sua prosa - si difenda egli dalle censure altrui o assalga con violenza detrattori dell'opera sua, esalti le imprese magnifiche d'un eroe o tuoni contro viltà ed egoismi della sua epoca, esponga le vicende di uno scrittore o di un periodo della letteratura o della storia o mostri i risultati delle sue dotte ricerche, fissi con la penna il caldo linguaggio del cuore commosso o quello freddo e severo della mente - ha un valore singolare; è agile, limpida, vigorosa, armonica, aderente alle cose, espressione viva del pensiero e del sentimento dello scrittore.
La sua anima schietta, sensuale, appassionata, rissosa - nota il Cesano - « escludeva le virtù più propriamente cristiane, l'umiltà e la rassegnazione; faceva la parte agl'istinti normali della lotta e della difesa; prediligeva le qualità operative dell'uomo, la forza, il lavoro, la scienza, la tutela del proprio diritto, la rivolta all'oppressione. La sua morale era la morale naturale e non aveva bisogno d'alcuna sanzione teologica; egli tornava alla coscienza degli enciclopedisti e del secolo decimottavo. Di qui la sua ammirazione per il Voltaire e per la rivoluzione francese, e il suo odio al Cristianesimo, che gli pareva incivile e inumano, come quello che ripudiava la vita e la libertà, come quello che da tanti secoli era stato il puntello d'ogni tirannide. Invece l'aspirazione religiosa del poeta si volge all'antica mitologia, non soltanto per la coltura classica ond'egli s'imbeve in quella Toscana, che la tradizione ne aveva conservata fino al Niccolini e al Guerrazzi, ma anche perchè il Carducci negli dèi della Grecia riscontrava la figurazione armoniosa delle potenze naturali dell'uomo, ma soprattutto perchè il suo ardente patriottismo non voleva rinunziare alla nobiltà di quelle favole, nelle quali dormiva l'anima originaria della gente latina. La mitologia del Carducci non è dunque un freddo prontuario di traslati convenzionali, come nel Monti: ha una vita seria e perenne, richiama l'altera memoria de' padri e chiude in sé la sostanza primordiale della nazione ».

Molte sono le corde della cetra del Carducci, ma non tutte egualmente sonore ed egualmente sonanti. L'amore in lui non prende mai 1' aspetto di passione, non gli scolora il viso e non lo fa delirare; ma è un fatto dolce e calmo, che gl'ispira le gioiose ma composte strofe dell'Idillio Maremmano o i luminosi quadri della Dorica. Forse più grande dell'amore per la donna è in lui l'amore per l'arte, l'amore per la gloria, e più grande ancora l'amore della natura, che prende il poeta, lo rende ammirato, stupido, lo commuove intensamente, lo culla, lo esalta, e colora, illumina, fa vivere paesaggi ampi, sereni o grigi, lieti o tristi, come quelli del Bove, del Canto dell'amore, di San Martino, delle Primavere elleniche e di molte altre liriche, fra cui prime “Dinnanzi alle terme di Caracalla, In una chiesa gotica, Alla stazione in una mattina d'autunno, Sogno d'estate, Alle fonti del Clitumno, La chiesa di Polenta”.
Anche l'amore della vita tocca le corde del poeta; ma risonanze più forti hanno gli accenti di stanchezza, di sconforto, di dolore, di triste rassegnazione o di grande sconsolazione, che sgorgano dalle singhiozzanti strofette di Pianto antico, dalle meste terzine di “Traversando la maremma toscana”, dai settenari di “Tedio” e dalle quartine di “Davanti San Guido”, dove sono il triste rimpianto della fanciullezza passata, le lotte, le sofferenze e le miserie della vita e un desiderio intenso di pace, che forse soltanto nel silenzio d'una tomba si troverà.

Ma la corda che nella cetra del poeta vibra più a lungo e più fortemente è quella dell'amor di patria, sentimento costante nel cuore del Carducci e che prende vari atteggiamenti nei “Iuvenilia”, nei “Levia Gravia”, nei “Giambi ed epodi”, nelle “Rime nuove”, nelle “Odi barbare” e in “Rime e ritmi”. Questo sentimento ora il poeta esprime invocando le grandi ombre dell'Alfieri e del Foscolo, ora esaltando il Niccolini che nella gioventù italiana cercava d'infondere gli antichi ardimenti e risuscitare le note virtù, ora tuonando contro i vigliacchi d'Italia, contro il governo, contro il papato politico, contro ogni ingiustizia e tirannide e specialmente esaltando la stirpe italica e cantando vari momenti della storia, della gloria, della passione della patria: la fondazione di Roma, la Vittoria di Brescia, la guerra contro Annibale, il comune del Medioevo, la lotta contro il Barbarossa, le guerre per il Risorgimento e l' Unità, le glorie di Ferrara, del Cadore, del Piemonte, Mentana, le gesta di Garibaldi.
L'opera del Carducci, cantore della stirpe e suscitatore e incitatore di virtù, ebbe molta efficacia sui giovani del suo tempo, un forte gruppo dei quali si strinse intorno a lui, mentre altri ebbero da lui lodi, incoraggiamenti, consigli. Citiamo SEVERINO FERRARI, poeta gentile e studioso serio, autore del Poemetto “Il mago” e dei “Bordatini; GIUSEPPE CHIARINI, biografo del Carducci, del Foscolo e del Leopardi, che in “Lachrymae” cantò commosso la perdita d'un figlio; GUIDO MAZZONI, critico di vasta cultura e di finissimo gusto, il quale più che dal mondo pagano ebbe ispirazione dagli affetti domestici, di cui fu interprete limpido e melodioso; GIUSEPPE PICCIOLA, poeta civile; GIACINTO RICCI SIGNORINI, delicato elegiaco; GIOVANNI MARRADI, poeta canoro e di larga vena, cantore, nelle “Rapsodie garibaldine”, di gesta eroiche;
ENRICO PANZACCHI, artista fine, giornalista, rimatore composto e gentile; DOMENICO GNOLI, che, acquistatosi nome con le “Odi tiberine”, ebbe, sessantenne, sotto lo pseudonimo di GIULIO ORSINI, accenti di ribelle e di giovanile freschezza in “Fra terra ed astri, Orpheus, Iacovella”; GIUSEPPE MANNI, scolopio, che nell' arte carducciana portò una forte nota religiosa;
GIUSEPPE CESARE ABBA che dal Carducci ebbe incitamento a pubblicare le preziose “Noterelle di uno dei Mille”; VITTORE VITTORI, poeta originalissimo, che, se in “Poema umano” riuscì solo a darci un tentativo di satira artistica, morale e civile, in “Terra lontana” e in “Vergine selva”, seppe con versi commossi e ispirati esprimerci le voci della Natura, l'universale dolore e l'aspirazione ad un'umanità più giusta e più buona;
GIUSEPPE LIPPARINI, critico, erudito e narratore, oltre che buon poeta; e infine OLINDO GUERRINI, duce ed assertore del verismo in poesia, parente non lontano degli scapigliati milanesi, che col canzoniere “Postuma” e con la raccolta “Nova polemica”, pubblicati sotto lo pseudonimo di LORENZO STECCHETTI, notevoli per la fluidità, limpidezza e melodiosità del verso, per la libertà morale e un verismo soffuso di sentimentalismo, fece grande scalpore ed ebbe largo stuolo d'imitatori.

GIOVANNI PASCOLI ( qui BIOGRAFIA ) Uno dei più. cari discepoli del Carducci, ma quanto diverso dal maestro, fu Giovanni Pascoli, nato a S. Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Aveva appena 12 anni, quando il padre Ruggero, amministratore di una tenuta dei principi Torlonia, gli fu ucciso mentre tornava a casa. La madre e una sorella gli furono rapite dalla morte l'anno dopo e lui rimase con quattro fratelli e due sorelle e scarsissimi mezzi. Studiò a Urbino, a Rimini, a Firenze, a Cesena; vinta una borsa di studio, s'iscrisse alla facoltà di lettere nell' Università di Bologna; poi fu colpito ancora da lutti domestici, tralasciò gli studi, abbracciò idee rivoluzionarie, s'iscrisse all'Internazionale socialista e patì il carcere per avere inneggiato all'anarchico Passanante.

Riprese gli studi anche per incitamento del Carducci, si laureò nel 1882; fece la vita errabonda del professore di scuole medie, poi fu professore universitario a Messina e a Pisa e infine nel 1905 successe al Carducci nell' Università di Bologna.
Morì in questa città il 6 aprile del 1912 fu sepolto nella sua villetta di Castelvecchio di Barga in Lucchesia.

Il Pascoli scrisse di critica in “Conferenze e studi danteschi” e tentò una nuova interpretazione della Divina Commedia nei tre volumi, variamente giudicati, “Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione”. Tenne conferenze e pronunziò discorsi, tra cui famoso quello per la guerra libica:
LA GRANDE PROLETARIA S' È MOSSA (che riportiamo in altre pagine).
Fu anche insigne latinista e ottenne premi nei concorsi di Amsterdam per carmi pieni d'intimità e di passione, di luce e di mistero.

Ma il Pascoli è grande come poeta italiano. Egli è un mistico: il vento di tragedia che ha sconvolto la sua famiglia e distrutta la sua casa gli ha affinato il sentimento, lo ha spinto verso la solitudine, dove egli vive guardando il mondo e scrutando se stesso, vibrando ad ogni moto, ad ogni voce, ad ogni luce, ad ogni profumo della natura, di cui percepisce con la grande sua sensibilità le minime vibrazioni. Il poeta, colpito dalla sventura negli affetti più cari, si ribella alla sorte, che non solo colpisce lui ma tutta l'umanità. Questa umanità egli vorrebbe buona e felice, ma la ribellione non vale a dar la felicità, fomenta l'odio, acuisce il male che affligge gli uomini, che affligge lo stesso Pascoli, il quale è assetato di giustizia, di bellezza e d'amore e se trova la bellezza non trova né la giustizia né l'amore in questo mondo dove la vita è un mistero, dove un mistero è la morte.

Chi la causa del male che impiaga l'umanità? L'umanità stessa, non la natura, che anzi questa è buona con gli uomini buoni e in lei sola noi possiamo trovare conforto. Alla natura pertanto si affida il poeta e da essa, che egli comprende, trae, col sollievo alle sue sofferenze, grande quantità d'ispirazione. Dai suoi colloqui con le umili cose della natura, col proprio spirito, coi suoi cari trapassati, dalla contemplazione delle cose che io circondano ch'egli guarda con occhi lacrimosi o sorridenti, dal palpito dei suoi affetti, dalla intensità dei suoi ricordi, dalla luminosità dei suoi sogni, dal mondo che gli sta intorno; segnato fatalmente dalla tragedia del dolore e della morte, hanno origine le brevi, commosse liriche di “Myricae” e quelle più ampie dei “Canti di Castelvecchio” e dei “Primi” e dei “Nuovi poemetti”. Qui è ancora il mistero che circonda il nostro destino e che invano l'umano pensiero, logorandosi, cerca di penetrare, è ancora il dolore il fondamento della vita, il dolore che abbatte gli uomini e penetrò, per non più uscirne, nella casa e nel cuore del poeta: mistero che inutilmente si tenta di diradare, dolore che in un modo solo si può lenire: amando; in un amore che affratelli gli uomini, queste vittime del destino, si può trovar pace in questa breve vita alla quale incombe, inesorabile, la morte.

Non soltanto il mistero, il dolore e il fatale destino dell'umanità furono fonte d'ispirazione alla musa del Pascoli. I miti dell'antichità classica, Solon e la donna di Eresso che canta la canzone dell'amore e della morte, il Cieco di Chio, la cetra d'Achille, Anticlo innamorato della voce di Elena, l'ultimo viaggio in cui Ulisse, nella sua sete inestinguibile di scoprire nuove cose, trova la morte; Psiche, Esiodo, poeta degli iloti, Alexandros, diedero al Pascoli argomento per i suoi “Poemi conviviali”; storie e leggende medioevali d'armi e d'amore gl'ispirarono le “Canzoni epiche di Re Enzio”; vicende della Patria gli fecero cantare “Odi e inni” e i “Poemi del Risorgimento”; un ideale umanitario francescano gl'ispirò i tre poemetti “Paolo Ucello, Rossini e Tolstoi”, che, per la parte formale, ebbero non pochi imitatori nei primi anni del '900, specie in Sicilia. Ma nessuno seppe eguagliare il maestro nell'arte sottile, finissima, esperta di tutte le magie del colore e del suono, con cui egli seppe esprimere l'anima degli esseri e delle cose.

GABRIELE D’ANNUNZIO (qui BIOGRAFIA) >

Al Carducci, in un certo senso, fa capo GABRIELE D'ANNUNZIO, nato a Pescara il 12 marzo del 1863, che studiò a Prato, dimorò poi a Roma e a Firenze e, in volontario esilio, per qualche tempo in Francia, quindi tornato in Italia, fu dei primi tra quelli che spinsero la nazione a intervenire nella guerra e, combattutala con grande valore in terra, sul mare e nel cielo, si ritirò dopo l'impresa di Fiume, nella solitudine di Gardone, in una villa, il Vittoriale, che divenne casa, museo, e tempio sacro delle memorie eroiche.
Ancora giovinetto, si rivelò con un volumetto di versi, “Primavere”, che il Chiarini lodò e presentò al pubblico, iniziando così la sua prodigiosa attività letteraria che neppure oggi è finita. In questi primi versi e di più in quelli del “Canto novo”, apparso nel 1882, è palese l'efficacia che sul D'Annunzio ebbe la poesia del Carducci, di cui quegli volle, e non lo era, chiamarsi anche più tardi continuatore; nelle sue prime raccolte di novelle, “Terra vergine”, “Il libro delle Vergini”, “San Pantaleone”, riunite poi nelle “Novelle della Pescara”, egli sentì l'influsso dei naturalisti nostri Verga e Capuana e dei francesi Maupassant e Flaubert; in altre opere, composte in anni più maturi, liriche e romanzi, Intermezzo di rime, L'Isotteo e la Chimera, Elegie romane, Odi navali, Poema paradisiaco, Il piacere, Giovanni Episcopo, L' innocente, Il triondo della morte, Le vergini delle rocce, Il fuoco, è palese in diverso grado l'influenza dei parnassiani e simbolisti francesi, dei preraffaellisti inglesi, del Tolstoi e del Dostoiewscki e di altri ancora; ma tutti i motivi ed atteggiamenti altrui il D'Annunzio trasforma con la potenza della sua arte e ad essi imprime l'impronta inconfondibile della sua personalità.

L'esser passato attraverso tanto esperienze letterarie e il fatto che ognuna di esse aveva dato origine ad opere d'indiscusso valore artistico, fecero pensare ch'egli fosse indifferente al contenuto e devoto soltanto al culto della forma. Unica passione dell'anima del poeta si credette essere una voluttuosa sensualità; unico suo ideale la bellezza, che domina gli occhi, i sensi, la mente, che meraviglia e non commuove. Ma egli non era soltanto il sacerdote della bellezza esteriore, egli aveva fatta sua la teoria del superuomo del Nietzsche, egli si sentiva un forte, un dominatore, un essere privilegiato, che non poteva e non doveva essere costretto nei Limiti angusti e tradizionali della morale e del diritto, e doveva abbattere le vecchie barriere e raggiungere mète nuove. Attraverso la dottrina del superuomo ch'è per lui “quadriga imperiale”, tratto da quattro “falerati corsieri: Volontà, Voluttà, Orgoglio, Istinto”, sulle quali audacemente trapassò i termini d'ogni saggezza, il D'Annunzio cerca se stesso e si ritrova in ogni eroe dei suoi romanzi e del suo teatro, in Andrea Sperelli, in Tullio Hermil, in Giorgio Aurispa, in Corrado Brando, in Claudio Cantelmo, in Stelio Effrena.

Dalla dottrina del superuomo derivano più o meno i lavori drammatici del D'Annunzio, Sogno d'un mattino di primavera, Sogno d'un tramonto d'autunno, La città morta, La Gioconda, La gloria, La Francesca da Rimini, La Figlia di Jorio, che è il capolavoro drammatico del nostro poeta, La fiaccola sotto il moggio, Più che l'amore, Fedra, La Nave, Il Ferro”, traduzioni de “Le Chèvrefeuille” e in parte anche il “Forse che sì forse che no” e “La Leda senza cigno”. Altre opere teatrali del D'Annunzio, ma di diversa ispirazione sono “Le martyre de Saint Sébastien”, specie di mistero sacro, “La Pianelle” e “La Parisina”.
Meditazioni filosofico-estetiche ci dà il d'Annunzio nella “Contemplazione della Morte”, nel “Notturno” e nelle “Faville del Maglio”, dove il poeta trova accenti nuovi ed una semplicità di espressione che par derivi da una maggiore sincerità spirituale. Più che alla prosa delle sue novelle e dei suoi romanzi, che pure vantano pregi grandissimi, e alle scene delle sue opere drammatiche, che ne vantano non meno grandi, deve il D'Annunzio la sua gloria poetica alle “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi (Maia, Elettra, Alcione, Merope)” dove si esaltano la bellezza della natura, le gloriose tradizioni della patria, le sue imprese più recenti, le sue speranze per l'avvenire.
Delle “Laudi” il più celebrato è il terzo volume, “Alcione”, e di esso, per consenso di tutti, i gioielli migliori sono La morte del Cervo, L'otre, La sera fiesolana, Bocca d'Arno, La pioggia nel pineto, L'Oleandro, Versilia, Undulua, Il novilunio.

Anche negli altri tre volumi si trovano però liriche bellissime, quali Le donne, La terra paterna, le tre sorelle, l'Inno alla madre mortale, Ver blandum, Il canto amebeo della guerra, Le città terribili di Maia, quelle in cui sono cantate le città del silenzio, di “Elettra”, e infine, del quarto volume, alcune della “Canzone delle gesta d'oltremare”, composte in occasione della guerra libica.

Della partecipazione del D'Annunzio alla Grande Guerra e dell'impresa di Fiume, le quali comprovano come la poesia eroica di lui scaturisse dall'intimo del suo spirito, sono pregevoli documenti le orazioni e i messaggi Per la piú grande Italia, i Discorsi de la Riscossa, Preghiere, La beffa di Buccari, lo Statuto per la reggenza italiana del Carnaro” e le prose “Per l' Italia degli Italiani” ripubblicate con altri scritti sotto il titolo di “Il libro ascetico della giovane Italia”.
(Su D'ANNUNZIO vedi in altre pagine, biografie e altro)

MARIO RAPISARDI E ARTURO GRAF
Nemico accanito del Carducci fu MARIO RAPISARDI, nato a Catania, nel 1844 e ivi morto nel 1912, professore nell'università della sua città natale e autore di poemi e di liriche. In un poema giovanile, che gli valse le lodi di Victor Hugo e lo fece salire in fama, “La palingenesi”, egli inneggiò ad una riforma della Chiesa e del Cristianesimo; accenti leopardiani ebbe in una prima raccolta di versi: “Le ricordanze”, e a un torbido misticismo improntò il bozzetto drammatico “Francesca da Rimini". Nel 1877, dopo una crisi di coscienza, rivelò il suo spirito ribelle in un poema, “Lucifero”, dal quale ebbe origine una violentissima polemica col Carducci, cui presero parte amici dell'uno e dell'altro poeta. Accostatosi al socialismo, ne divenne quasi il poeta ufficiale con la raccolta di liriche intitolata “Giustizia”.
Continuando il travaglio della sua coscienza, compose il più vasto e forse migliore dei suoi poemi, il “Giobbe”, grande allegoria in cui è rappresentata l'umanità, nella ricerca ansiosa, dai più antichi ad oggi, di scoprire il mistero dell'Universo. Nella piena maturità dell'arte, scrisse, dopo il Giobbe, due raccolte di liriche, “Le poesie religiose” ed “Empedocle”, che, con “L'asceta”, costituiscono il meglio dell'attività poetica del Rapisardi, il quale in esso si rivela poeta veramente forte. Con non scarsa efficacia, sebbene con accenti non di raro volgari, satireggiò uomini e idee nel poema “Atlantide”. Il Rapisardi fu anche traduttore. Volse dal latino Orazio e Catullo e meglio il “Prometeo liberato” dello Shelley e “La Natura” di Lucrezio.

Un posto molto eminente fra i poeti della seconda metà dell' 800 e del principio del '900 merita ARTURO GRAF, nato ad Atene nel 1848 e morto a Torino nel 1913. Nelle raccolte di versi Medusa, Dopo tramonto, le Danaidi, Morgana, Poemetti drammatici, ricco di fantasia e di finissima sensibilità, animato da profondo pessimismo, egli canta il dolore della vita, rotto da fugaci illusioni, e il tormento angoscioso dell'umanità; più tardi, nelle “Rime della Selva” la sua cupa tristezza si attenua e si raddolcisce. Professore per circa quarant'anni nell'Università di Torino, pubblicò opere di erudizione e di critica di molto valore, quali “Roma nelle memorie e nelle immaginazioni del Medio Evo; Attraverso il Cinquecento; Il Diavolo; Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo; Foscolo, Manzoni, Leopardi; L'Anglomania e l' influsso inglese in Italia nel secolo XVIII”, ecc. Scrisse anche un romanzo, “Il Riscatto” ed “Ecce Homo”, aforismi e parabole.

Vanno pure ricordati come poeti:
FELICE CAVALLOTTI, di cui, tra le molte liriche, è rimasta celebre la Marcia di Leonida; Giuseppe Aurelio Costanzo, del quale fu molto letto il poemetto sociale “Gli eroi della soffitta” e non sono del tutto dimenticati il poema lirico “Un'anima” e i “Sonetti alla Madre”;
GIOVANNI CENA, autore di “In umbra” e di “Homo” dove non mancano pregi d'ispirazione e di tecnica; VITTORIO BETTELONI, seguace del verismo, che ci lasciò alcune raccolte poetiche, In primavera, Nuovi versi, Raccolti poetici, Crisantemi e ottime traduzioni dal Goethe, dallo Hamerling e dal Byron; e le poetesse ALINDA BONACCI BRUNAMONTI, LUISA ANZOLETTI e VITTORIA AGANOOR POMPILJ, autrice di due pregevolissima raccolte di poesie: “Leggenda eterna” e “Nuove liriche”.

Dei non pochi poeti dialettali ci limitiamo a ricordare il siciliana, NINO MARTOGLIO, autore di “Centona”, il toscano RENATO FUCINI che scrisse sonetti in vernacolo pisano, il bolognese ALFREDO TESTONI, autore della “Sgnera Cattareina”, i romani CARLO ALBERTO SALUSTRI (Trilussa), AUGUSTO SINDICI, che scrisse “Leggende della campagna romana” e il più grande CESARE PASCARELLA, di cui sono meritamente famosi i sonetti di “Villa Gloria” e di “La scoperta de l'America”; i napoletani FERDINANDO RUSSO e SALVATORE DI GIACOMO, e i veneti RICCARDO SELVATICO e BERTO BARBARANI.
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ROMANZIERI E NOVELLIERI

Molti cultori ebbe il romanzo nella seconda metà del secolo XIX e non meno le novelle, il racconto e il bozzetto. Fedeli al romanzo storico furono RAFFAELLO GIOVAGNOLI, LUIGI CAPRANICA ed EDOARDO CALANDRA. Qualche romanzo storico scrisse ANTON GIULIO BARRILI, che compose inoltre molti altri romanzi sentimentali, umoristici, fantastici, dei quali alcuni come - Capitan Dodero, Santa Cecilia, Val d'olivi, Come un sogno, Cuor di ferro e cuor d'oro, L'olmo e l'eden- che ebbero diffusione grandissima e trovano ancora lettori.
Romanziere fecondo, garbato, semplice, arguto fu SALVATORE FARINA, di cui basta citare Il tesoro di donnina, Fiamma vagabonda, Amore bendato, Pei begli occhi della gloria, Don Chisciottino, Il signor Io e il suo capolavoro “Mio Figlio”.
Coltivarono il romanzo VITTORIO BERSEZIO, ALBERTO CANTONI (Scaricalasino, L'illustrissimo), GEROLAMO ROVETTA (Baraonda, Mater dolorosa, ecc.), la popolarissima CAROLINA INVERNIZIO, GIOVANNI CENA (Gli ammonitori), ALFREDO ORIANI (No, Matrimonio, Olocausto, La disfatta, ecc.), EMILIO DE MARCHI (Demetrio Pianelli, Arabella, Giacomo l' idealista, Col fuoco non si scherza), MARIO PRATESI, FERDINANDO MARTINI, JARRO, MATILDE SERAO, ch'ebbe moltissimi lettori (Fantasia, Il romanzo della fanciulla, Il ventre di Napoli, Il paese di Cuccagna, Suor Giovanna della Croce, Castigo ecc.), LUIGI CAPUANA, giornalista, critico, professore, novelliere, drammaturgo e assuntore del verismo (Giacinta, Profumo, Rassegnazione, Il marchese di Roccaverdiera), FEDERICO DE ROBERTO, la cui fama è affidata a “I Viceré, ANTONIO CACCIANIGA (Il bacio della contessa Savina, ecc.), ENRICO CASTELNUOVO, BRUNO SPERANI, MARIA DI GARDO, NICOLA MISASI, ADOLFO ALBERTAZZI.

Molti lettori ebbe RENATO FUCINI, autore brioso, spigliato ed efficace di bozzetti e novelle (Le veglie di Neri e All'aria aperta). Fama grandissima ebbe EDMONDO DE AMICIS per i suoi numerosi libri, romanzi, novelle, bozzetti, impressioni di viaggio, paesaggi, ricordi, ritratti prose sociali (La maestrina degli operai, Il romanzo d'un maestro, Vita Militare, Spagna, Marocco, Costantinopoli, Olanda, Ricordi di Pargi, Ricordi di Londra, Sull'oceano, Le tre capitali, Ricordi d'un viaggio in Sicilia, Alle porte d'Italia, Gli amici, Il Pino, La lettera anonima, Gli Azzurri e i Rossi, La carrozza di tutti, Fra scuola e casa, Pagine sparse, Nel giardino della Follia, Capo d'anno, Pagine parlate, Nel regno del Cervino, Pagine Allegre, Nel regno dell'Amore, Ricordi del 1870-71, Memorie, Primo maggio, Lotte civili, ecc.). Anche per l' infanzia e per la gioventù scrisse il De Amicis (Ai ragazzi, Ricordi d' infanzia e di scuola e il fortunatissimo Cuore).

Per il mondo dei piccoli scrissero molti altri, fra cui degni di menzione il CAPUANA, LUIGI BERTELLI sotto lo pseudonimo di Vamba, CARLO LORENZINI sotto lo pseudonimo di COLLODI, autore delle celebri “Avventure di Pinocchio”, di “Giannettino” e di “Minuzzolo”; ai giovanetti dedicarono la loro opera di narratori il VECCHI, più noto col nome di JAK LA BOLINA coi suoi libri di cose marinare e l'ABBA, il quale, oltre le “Noterelle d'uno dei mille”, scrisse Le rive della Bormida, Uomini e soldati, La storia dei Mille, Cose garibaldine, La vita di Nino Bixio.
Molto in voga, fra i giovani, ebbero i libri d'avventure, specie i numerosissimi di EMILIO SALGARI e quelli del MIONI, del MOTTA e del QUATTRINI.

VERGA (biografia) E FOGAZZARO (biografia)

Ma fra i narratori italiani i più grandi furono GIOVANNI VERGA, catanese (1840- 1922), e il vicentino ANTONIO FOGAZZARO (1842-1911).

Grandissimo il VERGA. Debuttò con un romanzo storico, “I carbonari della montagna”, poi, seguendo la moda francese gli esempi del Feuillet, del Dumas figlio e di altri, scrisse romanzi erotico-sentimentali, Una peccatrice, Storia di una capinera, Eros, Tigre real” ecc., dove, pur tra il convenzionalismo, mostrò spiccate qualità sue proprie d' ingegno e di sentimento. Ma non era quella la sua via. La trovò aderendo al verismo e mettendosi in intimo contatto col popolo della sua terra, contadini, pastori, pescatori, piccola borghesia, tutto un mondo a lui caro e noto ch'egli s'apprestò a rappresentare in ognuno dei suoi caratteristici aspetti. “Nedda” fu il primo lavoro della seconda maniera. Tra le due maniere un romanzo, “Il marito di Elena”, che segna il passaggio dall'una all'altra e contiene pagine di molta bellezza.
Dalla vita siciliana il Verga trasse da allora materia per la sua prosa, pur tornando, come in “Per le vie”, qualche volta a trarre dalla vita milanese argomento per le sue novelle. Delle quali ebbero gran fama alcune raccolte: le “Novelle rusticane”, la Vita dei campi, Don Candeloro e compagni. Da una sua novella, “Cavalleria rusticana” fu poi tratto il libretto della popolarissima opera del Mascagni.
Il Verga scrisse anche drammi e bozzetti scenici vigorosi; i suoi capolavori però sono i due romanzi della serie dei “Vinti”, che poi rimase interrotta, “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”, veramente potenti per rapidità d'azione e per efficacia, forza e verità di rappresentazione, cui contribuiscono uno stile personalissimo, una voluta libertà sintattica, una lingua, che serba il genio e il profumo del dialetto.

Un po’ meno grande il FOGAZZARO. Scrisse poemetti e liriche (Miranda, Valsolda Poesie) non degne veramente di passare alla posterità; “Scene" (El garofolo rosso, Il ritratto mascherato, Nadejde), ma i primi due bozzetti non piacquero al pubblico e il terzo, mai rappresentato, si legge a stento; racconti e novelle (Fedele, Idilli spezzati, Racconti brevi), di cui parecchi molto gustosi; scritti vari (Sonatine bizzarre, Minime ecc. ); Discorsi, una conferenza “Dell'avvenire del romanzo in Italia”; prose tra il filosofo e lo scientifico (Il dolore nell'arte, Per la bellezza d'un' idea, Ascensioni umane, L'origine dell'uomo e il sentimento religioso, Per un recente raffronto delle teorie di Sant'Agostino Darwin circa la creazione); e romanzi (Malombra, Daniele Cortis, Il mistero del poeta, Piccolo mondo antico, Piccolo mondo moderno, Il santo, Leila).
Nei romanzi, se pur non in tutti, è la vera gloria del Fogazzaro, il quale in essi vive il dramma della sua coscienza, incerta tra le lusinghe della carne e i richiami dello spirito, tra le leggi del dogma e quelle della scienza. Vittima di questo dramma è l'opera d'arte, ch'egli subordina e fa servire alle sue opinioni e tesi filosofiche e religiose. Egli volle comporre il dissidio tra la scienza e il dogma e vagheggiò una riforma quasi modernistica, ma si espose, troppo col “Santo” e con “Leila”, alla condanna della Chiesa, ch'egli umilmente accettò.
Non pochi i difetti artistici dei romanzi fogazzariani, ma anche molti i pregi. L'autore vi profuse il suo caldo sentimento e la sua profonda fede, li ravvivò col suo bonario umorismo, li riscaldò col suo intenso amore della natura, vi mise tutta la sua bontà, spiegò tutta l'acutezza del suo spirito indagatore e creò tipi indimenticabili, rappresentò scene di grande bellezza, descrisse paesaggi con insuperabile maestria. Le sue migliori qualità egli profuse nel “Piccolo mondo antico”, che è un gioiello stupendo di vivacità rappresentativa e di analisi d'anime e per consenso unanime, è ritenuto il suo capolavoro.
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Fonti, citazioni, e testi
Prof.
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia -(5 vol. Nerbini)
CECCO-SAPEGNO - Storia letteratura Italiana (i 10 vol. Garzanti)
VISCADI - Storia Letteratura (i 50 vol.) Nuova Accademia
DE SANCTIS - Storia della Letteratura Italiana, Einaudi
Dizionario Letteratura Italiana, (3 vol) - Einaudi 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
+ ALTRI VARI DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE  


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