Il mitizzato presidente scatenò la Guerra contro il Sud per ragioni economiche.
 L'antischiavismo? Un pretesto

Abraham Lincoln,
"apostolo dei neri"
... ma razzista Doc

Teorizzò la ghettizzazione: "Non sono uguali a noi"

 

Alle ore 22.07 di venerdì 14 aprile 1865 un colpo di pistola metteva fine all'esistenza terrena di Abraham Lincoln, presidente degli Stati Uniti d'America, consegnandolo, più che alla storia, al mito. Il suo uccisore, John Wilkes Booth, un attore squinternato e alcolizzato, pensava di poter ancora capovolgere le sorti di una guerra già vinta dal Nord: il generale Lee, comandante in capo dell'esercito sudista, si era arreso cinque giorni prima ad Appomattox al generale Grant.
Premendo il grilletto della sua pistola, Booth fece invece un grosso piacere all'uomo che tanto odiava: perché fermò Lincoln nel momento in cui questi era al sommo della gloria, e prima che iniziassero i drammatici problemi indotti dalla Guerra di Secessione. I suoi successori si presero i problemi, Lincoln si prese la gloria.

E fin che si tratta della gloria derivante dall'esito vittorioso della Guerra di Secessione (come la chiamiamo noi europei), o della Guerra di Ribellione (come la chiamavano i nordisti) o della Guerra per la Libertà degli Stati del Sud (come la chiamavano i sudisti), non c'è nulla da dire. Il comandante vittorioso ha vinto, e basta. Quando si tratti però della gloria derivante dal "Proclama di Emancipazione degli Schiavi", e delle conseguenti qualifiche di Apostolo della Libertà e dell'Uguaglianza, crediamo che il personaggio meriti un'attenta rilettura: né con ciò, si badi bene, intendiamo sminuirlo. Siamo infatti convinti che la ricerca della Verità, che è un dovere per chi si occupa di storia, non possa che giovare anche ai personaggi che la storia l'hanno riempita da protagonisti: il piedestallo del mito spesso inizia a scricchiolare, cedendo poi rovinosamente e nascondendo sotto le sue macerie anche quanto di buono un uomo ha fatto. La dimensione umana è invece più modesta della dimensione del mito: ma proprio perché è vera è solida, e permette di salvare sempre, insieme agli immancabili errori, anche i meriti.

UN POLITICO REALISTA. TROPPO.
Lincoln Apostolo dell'Uguaglianza? Lincoln e la Guerra di Secessione e il Proclama di Emancipazione sono tra loro inseparabili. Ma ben prima il giovane kentuckiano (era nato a Hodgensville nel 1809), primogenito di modesti coloni quaccheri, aveva iniziato la sua attività "pubblica" e politica. A soli 23 anni, dopo le più varie esperienze lavorative, lo troviamo, col grado di capitano, a combattere valorosamente contro il capo indiano Falco Nero. E qui ci sembra necessario fare una piccola prima sosta di riflessione e di chiarimento.

Gli indiani Sawk di capo Falco Nero si erano ribellati contro il "Removal Act" promulgato nel 1830 dal presidente Andrew Jackson, l'uomo che già anni prima, comandante militare del Sud-Ovest nella guerra tra Stati Uniti ed Inghilterra (1812-1815), aveva potuto dimostrare le sue capacità di affrontare il "problema indiano", sterminando a Horseshoe Bend (Alabama) più di novecento guerrieri Creek, sospettati di collaborazionismo con gli inglesi, in una battaglia che doveva esser stata un tantino impari, visto che i caduti americani furono ventisei. Nel 1818 Jackson, conducendo l'attacco e l'invasione contro la Florida (allora spagnola), dichiarava la sua intenzione di "spazzar via indiani e spagnoli in 60 giorni".
E ci riuscì!.

Il brillante generale, divenuto nel 1828 Presidente, promulgò appunto quel "Removal Act" che era, nella sostanza, null'altro che l'ordine di deportazione delle cinque "nazioni indiane", i Creek, i Choctaw, i Chicasaw, i Cherokee e i Seminole dalla neo acquisita Florida, al di là del Mississippi, nella regione dell'odierno Oklahoma, che sarebbe in seguito divenuta il "territorio indiano". Falco Nero riuscì" ad organizzare una ribellione corale (che tenne in scacco per oltre tre mesi le truppe federali) contro la forzata deportazione, che fu il primo di una serie infinita di atti il cui scopo era unicamente quello di sloggiare gli indiani dai territori che via via dovevano rendersi disponibili alla spinta colonizzatrice.

La prima "uscita pubblica" di Lincoln altro non è quindi che la partecipazione in veste esecutiva a quella cinica politica di eliminazione del popolo rosso che purtroppo contraddistinse attività di gran parte dei governi americani (compreso il governo di Lincoln, come vedremo in seguito) nel XIX secolo. Non fu dunque razzismo quello consumato contro gli indiani, aggravato dal fatto che essi combattevano per il più elementare dei diritti: sopravvivere in casa propria?: parola orribile, anche per noi europei, che abbiamo visto sulle nostre terre i tragici risultati delle ideologie razziste. Ma è bene fare un chiarimento: schiavismo e razzismo sono due cose distinte, né il razzista è necessariamente schiavista. E Lincoln è l'esempio incarnato di come si possa essere razzista e combattere la schiavitù, non foss'altro perché, più intelligenti e lungimiranti di altri, si è intuito che questa istituzione è ormai avviata ad un'estinzione.

Abbiamo fatto sopra una distinzione che sembra ovvia e banale, ma non lo è tanto, laddove si consideri che uno dei grossi temi della politica americana nella prima metà del secolo scorso fu proprio l'abolizione della schiavitù, per una serie di motivi che andremo ad esaminare, ma che anche i cosiddetti "abolizionisti" non nascondevano in genere le loro opinioni razziste, che senza dubbio erano rafforzate anche da quel mito, tipico dell'americano degli stati del Nord, del "self made man", dell'uomo della frontiera, mito sostanzialmente violento, che nasconde in sé i germi del razzismo, perché porta comunque ad esaltare le capacità di uomini e gruppi, lasciando in secondo piano un principio generale, che non andrebbe mai scordato: che l'uomo è degno di rispetto per il solo fatto di esistere.

SCHIAVITÙ, UN PROBLEMA ECONOMICO

Lincoln entra nell'agone politico nel 1834, restando deputato fino al 1849, anno in cui presentò una proposta di legge per impedire l'introduzione della schiavitù nei nuovi territori annessi dopo la vittoriosa guerra contro il Messico. Ritornò all'attività politica nel 1854, iniziando l'ascesa nel nuovo partito repubblicano, fino al suo insediamento alla Casa Bianca il 4 marzo del 1861 e la riconferma quattro anni dopo. In tutti questi anni Lincoln mantenne verso il problema della schiavitù un atteggiamento molto realista: era un'istituzione ormai anacronistica, ma che, al più, era da vietare nei nuovi territori, attendendo che negli stati dove invece era in vigore, si estinguesse da sola. Lincoln era infatti ben cosciente del fatto che un'abolizione subitanea della schiavitù avrebbe portato alla rovina l'economia degli Stati del Sud, dediti soprattutto all'agricoltura, nei quali la gran parte della manodopera per le grandi coltivazioni di cotone e di tabacco era rappresentata da schiavi negri.

Da buon politico, Lincoln era appunto realista. E da buon americano (e interprete dei sentimenti delle masse) era razzista, della sua partecipazione attiva alla "soluzione del problema indiano".
Ma esaminiamo quali fossero le sue opinioni sul "problema negro". "Devo dire che non sono, e non sono mai stato, favorevole a promuovere in alcun modo l'uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; devo aggiungere che non sono mai stato favorevole a concedere il voto ai negri o a fare di loro dei giurati, né ad abilitarli a coprire cariche pubbliche, o a permetter loro matrimoni coi bianchi; riaffermo che esiste una troppo spiccata differenza tra la razza bianca e quella negra, e che questa diversità impedirà per sempre alle due razze di vivere insieme in termini di uguaglianza sociale e politica... finché la convivenza sarà necessaria, dovrà pur mantenersi un rapporto da superiore ad inferiore, e io, come ogni altra persona ragionevole, sono ovviamente a favore del ruolo dominante della razza bianca." (campagna elettorale del 1848).

"PER I BIANCHI I NERI SONO DISGUSTOSI"

Nel 1857 era lo stesso Lincoln che si preoccupava di sottolineare, in uno scritto, i suoi principi razziali, che rischiavano di essere travisati a causa di alcune sue prese di posizione contro lo schiavismo:
"Esiste un naturale disgusto da parte di quasi tutti i bianchi all'idea di una mescolanza indiscriminata della razza bianca e di quella negra. Da parte mia, protesto contro quel tipo di logica bastarda secondo la quale dal fatto che io, ad esempio, non voglia avere come schiava una donna negra, si deduce che debba necessariamente poterla volere come moglie... Io non ho bisogno nè dell'una nè dell'altra... Sotto molti aspetti essa non è infatti uguale a me. Per me, la separazione delle razze costituisce l'unico sistema per evitarne la mescolanza."

Per Lincoln esistevano quindi "due Americhe", sovrapposte e disuguali, e il sistema migliore era di separarle territorialmente, assegnando ai negri una parte del territorio dove avrebbero potuto vivere per loro conto. Per realizzare questo progetto fu anche costituita una "Commissione per l'Emigrazione" e stanziato mezzo milione di dollari dal Congresso.
Potremmo dire che esistevano anzi tre Americhe, perchè c'erano anche gli indiani. Ma contro questi era più semplice proseguire la politica di sterminio. Infatti i negri (non scordiamoci che già dal primo censimento, eseguito nel 1790, risulta che risiedevano negli USA, su una popolazione di circa 4 milioni di persone, 750.000 negri, di cui quasi il 30 per cento erano liberi) erano in genere amalgamati nella società e, pur nelle loro specifiche caratteristiche culturali e religiose, la loro aspirazione esplicita era quella di far parte della nuova nazione americano e di partecipare al suo sviluppo.

"STERMINATE GLI INDIANI SENZA PIETÀ "

(vedi il lungo capitolo: "INDIANI FUORI !.....e INIZIO' IL GENOCIDIO")

Gli indiani erano invece irriducibili difensori del loro diritto a vivere su quelle che erano da sempre le loro terre, secondo le abitudini ataviche, e risultavano per loro incomprensibili gli atteggiamenti dell'uomo bianco, che impazziva per l'oro (che gli indiani usavano al più per fare dei monili), che pretendeva di comprare tutto col "danaro", cosa a loro sconosciuta, che non manteneva la parola data, che pretendeva di imporre loro un tipo di vita che, giusta o sbagliata, non era la loro.
Il "problema indiano", dicevamo, si affrontava con la logica dello sterminio. E valgano i fatti. La promulgazione, il 1° aprile 1862, dell' Homestead Act, sanciva che chiunque avesse compiuto i vent'anni d'età e non avesse mai preso le armi contro l'Unione aveva diritto ad ottenere un pezzo di terra nei territori di colonizzazione dell'Ovest, versando al Governo il prezzo, puramente nominale, di dollari 1,25 per un acro (un acro corrisponde a oltre quattromila metri quadrati).

Questa legge, assieme alla decisione di avviare i lavori della ferrovia transcontinentale, fu la base giuridica per avviare il rullo compressore dell'espansione totale sui territori dell'Ovest, dove ad un certo punto la vera colpa dell'indiano divenne quella di esistere.
Lo sterminio delle mandrie di bufali e la loro dispersione, conseguenze di una caccia indiscriminata da parte dei colonizzatori, furono già eventi di estrema gravità per la sopravvivenza stessa di tutti gli indiani delle praterie, ossia di quelle tribù nomadi per le quali il bufalo era il principale mezzo di sostentamento. E la ribellione degli indiani alla penetrazione nelle loro terre andava affrontata con decisione. Le truppe del Nord, allorché rioccuparono i territori del Sud-Ovest (eravamo già nel periodo della Guerra di Secessione) erano comandate dal generale James Carleton. Questi diede al colonnello Kit Carson, comandante di Fort Stanton, tra i monti del Sacramento (in pieno territorio apache), le direttive per le operazioni contro le tribù indiane: "La regione va disinfestata da tutte le tribù indiane, indipendentemente dal fatto che siano o meno in guerra contro i bianchi... gli uomini devono essere uccisi in qualunque momento e in qualsiasi luogo vengano trovati. Donne e bambini possono essere presi prigionieri, ma naturalmente non devono essere uccisi." Eravamo nel 1863.

MASSACRI E DEMOCRAZIA

Nell'anno precedente le stesse, identiche direttive, erano state impartite dal colonnello Baylor, comandante delle truppe Sudiste, che allora occupavano quelle regioni. Misure così crudeli suscitarono lo sdegno del presidente della Confederazione del Sud, Jefferson Davis, che rimosse il colonnello Baylor dal suo incarico di comando. Il nordista generale Carleton non subì lo stesso trattamento dal Governo di Washington, presieduto da Lincoln.
Il genocidio non fu totale solo perché sia Carson che gli ufficiali da lui dipendenti erano uomini che avevano vissuto sempre in mezzo agli indiani, conoscendoli realmente, e non erano quindi animati da un odio indiscriminato. Ma l'azione moderatrice di Kit Carson non poteva mutare alle radici una politica che non fece altro che inasprire la spirale dell'odio per la quale, comunque, l' "unico indiano buono era l'indiano morto"
(generale Sheridan).

La verità che si può leggere in questi fatti ci sembra evidente: per Lincoln, come per molti altri uomini del suo tempo, democrazia e disuguaglianza possono tranquillamente convivere. Se è vero che gli Stati Uniti rappresentarono un "unicum" sotto il profilo politico, in un'epoca in cui la ben più civilizzata Europa era ancora quasi tutta sotto il tallone di monarchie autoritarie, è altrettanto vero che questa giovane democrazia nasceva e si sviluppava in un clima di violenza e di discriminazioni, nonché di ipocrisie.

Infatti solo di ipocrisia si può parlare per un paese che nel 1808 vieta la tratta degli schiavi (ossia la disumana "importazione" dalle terre d'Africa di mano d'opera forzata), ma si guarda bene dal vietare lo schiavismo al suo interno, rimandando la soluzione del problema alle legislazioni dei singoli stati.
D'altra parte, pur col divieto di importazione di schiavi, si poteva sempre far conto sulla prolificità dei negri. E infatti gli schiavi negri, che nel 1800 erano 700.000, nel 1860 erano 3.500.000. Lincoln quindi non fu l'Apostolo dell'Uguaglianza e della Libertà, ma non fu neanche un bieco personaggio. Era un politico del suo tempo, che si trova a un certo momento a dover affrontare la più grave crisi che la nuova repubblica avesse mai affrontato, la secessione degli stati del Sud.

ERA SOLO QUESTIONE DI DOLLARI

E subito ci sembra necessario eliminare un grosso equivoco, che si trova addirittura su alcuni frettolosi libri di testo, circa le cause della guerra di Secessione. La guerra non scoppiò per il contrasto tra sostenitori della schiavitù ed abolizionisti. Le cause vanno ricercate principalmente in decenni precedenti di dissidi di natura economica tra gli stati del Nord e quelli del Sud, in una politica protezionistica seguita dal governo di Washington ed osteggiata dagli stati sudisti (perché favoriva gli stati industriali del Nord, deprimendo però le esportazioni cotoniere degli stati del Sud) e in contrasti sulla politica di colonizzazione dei "Territori" (così venivano chiamate le regioni via acquisite con l'avanzata verso Ovest).

In questo contesto il mantenimento o meno della schiavitù era uno degli argomenti di politica economica, nè aveva molti dei connotati ideali che si sono in seguito voluti vedere. Infatti il progettato divieto della schiavitù nei nuovi territori non avrebbe fatto altro che favorire la mano d'opera industriale degli stati del Nord, diminuendo ulteriormente la possibilità di espansione degli Stati del Sud, e di conseguenza diminuendo sempre più, a livello federale, il loro peso politico. Ne ci si può scordare che uno dei problemi dibattuti già dall'inizio del secolo era addirittura quello istituzionale: gli Stati Uniti erano uno stato federale, o una confederazione di stati sovrani?

A conferma di queste affermazioni basti il fatto che allo scoppio delle ostilità la Virginia Occidentale, stato schiavista, rimase fedele all'Unione, mentre gli altri stati schiavisti centrali, Missouri, Kentucky, Delaware e Maryland, mantennero una posizione neutrale, fornendo combattenti ad entrambi gli schieramenti.

Il "Proclama" del 1° gennaio 1863 dichiarava l'emancipazione degli schiavi ma, si noti bene, degli schiavi posseduti dai cittadini degli stati secessionisti, quelli che avevano proclamato la "Confederazione degli Stati del Sud". Si generava così una situazione a dir poco curiosa: il Proclama non poteva avere effettiva applicazione negli Stati confederati, che ovviamente riconoscevano solo l'autorità del governo sudista di Richmond, presieduto da JEFFERSON DAVIS, mentre negli stati schiavisti rimasti fedeli al governo di Washington presieduto da Abraham Lincoln i proprietari potevano continuare a possedere schiavi legittimamente.

UN PROCLAMA SPEZZA LE CATENE DEI NERI

Solo dopo la conclusione della Guerra, e dopo la morte di Lincoln, gli Stati Uniti avrebbero abolito completamente la schiavitù sui loro territori, col famoso "tredicesimo emendamento" della costituzione, entrato in vigore alla fine del 1865. Non vogliamo certamente sminuire l'importanza storica del proclama, che fu comunque il punto di partenza per l'abolizione totale della schiavitù che, al di là di ogni discorso umanitario, era ormai un istituto anacronistico. Ne si dimentichi che gli Stati Uniti erano l'ultimo, tra i paesi civili, a consentirlo. Ci sembra però opportuno che il "Proclama" vada riletto con attenzione, alla luce di quello che era il principale compito che Lincoln si era prefisso: salvare l'unità della nazione. E infatti si legge nel testo stesso del provvedimento che esso viene adottato "come misura bellica conveniente e necessaria per annientare la sopraddetta ribellione" (ossia la secessione degli stati sudisti, ndr).

Bisogna infatti tener conto di due fattori di rischio esistenti al momento della promulgazione del Proclama: primo, i sudisti, inferiori per numero e per risorse economiche, erano però superiori per capacità militari. Occorreva dare alle popolazioni del Nord una nuova "motivazione" per continuare a combattere. E solo da quel momento la guerra divenne anche "guerra per i diritti di uguaglianza"; secondo, una presa di posizione decisa contro lo schiavismo si rendeva necessaria per evitare che diverse nazioni europee, e soprattutto la Francia e l'Inghilterra, riconoscessero la legittimità della Confederazione degli Stati del Sud, e potessero quindi addirittura intervenire a favore di questa. Infatti molti ceti dirigenti europei non nascondevano la loro simpatia per la Confederazione, ma pressoché tutte le parti politiche europee erano decisamente antischiaviste.

LINCOLN, UN MITO PICCOLO PICCOLO

Lincoln non fu un apostolo. Fu un politico, estremamente abile e astuto, razzista quanto necessario per non alienarsi le simpatie di un elettorato ampiamente razzista, antischiavista quanto necessario per realizzare quello che fu, come dicevamo, il suo compito supremo: salvare l'Unione. Ed è curioso notare come il mito sia spesso superiore agli stessi atti palesi dell'individuo mitizzato. E' infatti lo stesso Lincoln a dichiarare al giornalista Greeley, del New York Times, in un'intervista dell'agosto 1862: "Il mio obbiettivo essenziale in questa battaglia è di salvare l'Unione...Se potessi salvarla senza liberare un solo schiavo, lo farei. Se invece potessi salvare l'Unione liberando tutti gli schiavi, lo farei ugualmente".

Poi arrivò la mano del folle omicida e Lincoln si presentò davanti a un Tribunale che meglio di noi, meglio dei suoi elettori di allora, meglio di chiunque altro avrà potuto valutare le sue azioni. Ma mentre per gli indiani continuava la politica di sterminio, che sarebbe durata fino al 1890 (massacro di Wounded Knee), ai negri veniva donata un'illusoria parità, che avrebbe richiesto ancora decenni di lotte per i diritti civili, tanti morti e tante sofferenze. E solo un anno dopo la morte di Lincoln, una luce sinistra avrebbe illuminato un altro capitolo dell'interminabile storia dell'intolleranza umana: la luce emanata dalle croci fiammeggianti del Ku Klux Klan.

di MARIAN CECCHI

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
il direttore di


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