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109 bis. 11. - Il Meridione d'Italia e l'unificazione

Parte I : La conquista

Sommario:
--- La situazione italiana
---La decadenza del Regno delle Due Sicilie, l’ultimo decennio di Ferdinando II e la successione di Francesco II.
--- Il Regno di Sardegna fulcro dell’unificazione: Vittorio Emanuele II, Cavour e Mazzini. La preparazione diplomatica con la partecipazione alla guerra di Crimea e l’appoggio della Francia di Napoleone III. La II Guerra d’Indipendenza, la pace di Villafranca e l’annessione della Lombardia. L’annessione per plebiscito degli Stati centrali (Toscana ed Emilia) e la cessione alla Francia di Nizza e Savoia.
--- La liberazione del Meridione: Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour.
--- Garibaldi e l’impresa dei Mille, la preparazione e l’attuazione: lo sbarco, Salemi, Calatafimi, Palermo e Milazzo. L’attraversamento dello Stretto di Messina ed il ruolo dei generali borbonici. La conquista delle regioni continentali.
--- Francesco II lascia Napoli per Gaeta. Garibaldi giunge a Napoli.

Con il segno * si rimanda al capitolo
< “Il meridione d’Italia nel periodo Napoleonico”

 

La situazione italiana


Intorno alla metà del XIX secolo le idee portatrici di socialismo e di democrazia avevano raggiunto vasti strati di popolazione e divennero prioritarie particolarmente in quelle regioni soggette a domini assoluti, acquisendo un grado diverso di attualità a seconda delle condizioni sociopolitiche e dello sviluppo culturale che esse vivevano. A Torino, Milano e, con maggior difficoltà a Firenze e Napoli si erano sviluppati negli ultimi decenni importanti iniziative culturali.

A Firenze era stata vietata dal granduca Leopoldo II la pubblicazione dell’Antologia (2), sostituita da altre riviste che comunque svolsero un certo ruolo, mentre a Napoli, a causa di una censura oppressiva, ogni iniziativa perdeva mordente. Torino invece fu il centro di quella scuola moderata che voleva trovare risposte alla questione italiana che si poneva come obiettivo la realizzazione dell’unità d’Italia senza rivoluzioni ma affidando al Papa (neoguelfismo sostenuto da Gioberti*) o alla Monarchia Savoia (ipotesi sostenuta da Balbo e d’Azeglio*) la guida di una federazione di Stati italiani. A Milano Carlo Cattaneo (3) con la rivista Il Politecnico cercò di dimostrare quanto ormai fossero inadeguati i governi del tempo ed anacronistico il frazionamento della nazione in una società la cui oppressione politica ne limitava la crescita.

Intanto il fallimento delle rivoluzioni nel Regno delle Due Sicilie e la sconfitta del Regno di Sardegna nella I Guerra d’Indipendenza aveva portato ad una accentuazione della pressione austriaca. Il Lombardo-Veneto venne gestito dalla ferma dittatura del maresciallo Josef Radetzky (1766-1858) mentre truppe austriache si installavano nell’Italia centrale per restaurare l’ordine.
Il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie si indirizzarono verso gestioni di diverso segno.

 

Il Regno delle Due Sicilie al collasso
- La decadenza

Nel Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II che aveva controllato le sommosse di Palermo, Napoli e di altre città (1848, *) senza ricorrere all’aiuto straniero, aveva restaurato un regime assolutistico che, basato sul controllo di polizia ed esercito, travolgeva le più tipiche conquiste del liberalismo (libertà di stampa e di parola). Inoltre, imprigionando indegnamente (4) quasi tutti gli elementi migliori capaci di assumere la guida del paese (*), aveva bloccato ogni prospettiva di sviluppo politico, economico e culturale, nel timore che qualsiasi iniziativa potesse preludere a nuove agitazioni, lesive per il difficile equilibrio su cui si reggeva la monarchia. Il risultato che ne conseguì fu quello di isolare il Regno (5) rispetto al movimento progressista che si affacciava nelle altre regioni.
Nell’ultimo decennio del regno di Ferdinando II, le attività agricole ed industriale languivano, l’attuazione di opere necessarie fu bloccata ed il regno caratterizzato da un immobilismo che gli fece perdere ogni prestigio internazionale. Situazione che divenne ancor più critica dopo il congresso di Parigi (1856, v. seguito) allorché Inghilterra e Francia, intervenendo nel tentativo di favorire un alleggerimento dello stato repressivo, riportarono, come riscontro, la rottura delle relazioni diplomatiche (21 ottobre 1856).

In un quadro politico che si faceva sempre più esplosivo, dopo il fallimento di un attentato a Napoli contro Ferdinando II per mano di Agesilao Milano, Mazzini (*) assunse l’iniziativa di utilizzare un giovane socialista napoletano, Carlo Pisacane (1818-57), per una impresa destinata miseramente a fallire. Questi, imbarcatosi con un gruppo di ventitre compagni a Genova su un battello diretto a Cagliari (23 maggio 1857), costrinse l’equipaggio a dirigersi verso Ponza dove vennero liberati dalle carceri trecento detenuti. Quindi attuò uno sbarco a Sapri coll’intendo di provocare una sommossa sostenuta dai contadini, che, impreparati all’evento o più verosimilmente disinteressati alla rivolta, anziché unirsi al gruppo, collaborarono al loro accerchiamento. Pisacane si uccise per evitare la cattura.

Ferdinando II, consapevole delle condizioni in cui versava il suo popolo, pur di non gravare con nuove tasse sui consumi e fornire occasione di proteste, cercò di economizzare su tutto e, caso insolito, ridusse anche il suo appannaggio, ma non riuscì a trovare soluzioni per la questione sociale del mezzogiorno rappresentata dallo squilibrio esistente tra centro e provincia. Ma ormai sia tra le personalità più avvedute del Regno, che all’esterno tra coloro che miravano ad unificare il Regno delle Due Sicilie con quello di Sardegna per la costituzione di una nazione italiana, si radicava la convinzione che il regime borbonico, per la sua debolezza, sarebbe stato prossimo al collasso. Si predisponevano, pertanto, i piani per riceverne l’eredità.

Ferdinando II, alla sua scomparsa (maggio 1859), lasciò un regno ormai in sfacelo al figlio ventitreenne Francesco II (6) che, bigotto e di carattere mite, tenuto lontano dagli affari di Stato, era privo di ogni esperienza atta a gestire la problematica situazione. Francesco chiamò al governo Carlo Filangeri (7) che, nei pochi mesi di attività, favorì il ritorno degli esuli e, per orgoglio nazionale, licenziò i mercenari svizzeri (*) che costituivano gli unici reparti efficienti dell’esercito. Valutando gli avvenimenti che scandivano i cambiamenti nelle regioni centrali e rendendosi conto che anche il Regno sarebbe stato travolto dalla stessa ondata, Filangeri si dimise nel marzo 1860 allorché Franceso II respinse il suo progetto di Costituzione. Gli successe l’ottantenne Principe di Cassaro.

Nel breve periodo di regno di Francesco II, furono decisi interventi di carattere sociale quali, il dimezzamento dell’imposta sul macinato, la riduzione delle tasse doganali, la distribuzione sottocosto del grano acquistato all’estero a seguito della carestia, progettò l’ampliamento della rete ferroviaria del regno con la costruzione della Napoli-Foggia e della Palermo-Messina-Catania (8). Dal punto di vista politico si allineò alle posizioni conservatrici del padre e, pur avendo ristabilito le relazioni diplomatiche con Francia ed Inghilterra, non si lasciò convincere dalle sollecitazioni che il Cavour gli rivolse, attraverso un suo inviato Salmour, per un mutamento di linea. E senza mitigare la sua posizione assolutistica, si allontanò sempre più dalla realtà del tempo, non riuscendo ad impostare una qualche forma di governo che tenesse conto delle diffuse aspirazioni di liberalismo, aggravando il fallimento cui era destinata la società meridionale (9) .

- La Sicilia

Dopo il 1848 il generale Filangeri che aveva domato la rivolta divenne governatore (fino al 1855) e mantenne equilibrio e buon senso, pur in una situazione difficile nel controllo del territorio, per la qualcosa ricorse ai capibanda Scordato e Di Miceli (*) cui affidò anche il compito di esattori e guardacoste.
Intanto la rivalità con il governo di Napoli, alimentata dalle radicate tendenze autonomiste e dal movimento di unità nazionale, era largamente diffusa. Ma i più avveduti erano i primi a riconoscere che non esisteva, tra varie fasce sociali, unità di intenti e capacità organizzative tali da conquistarsi da soli l’indipendenza, malgrado alcune zone che, nel 1848, si erano mantenute ai margini della sommossa, manifestavano ora maggiore consapevolezza e partecipazione.
E non potendo sperare che un aiuto diretto potesse venire dall’Inghilterra verso cui i siciliani conservano un certo gradimento, si pensava al liberali del nord.


Il Regno di Sardegna, fulcro dell’unificazione italiana
- La preparazione


La situazione in Piemonte, all’indomani dell’insediamento di Vittorio Emanuele II, si presentava ben diversa che nel Regno delle Due Sicilie dal momento che il re, dopo aver sedato la rivolta democratica di Genova (10) si mosse coll’intento di salvare lo Statuto Albertino a condizione che risultassero emarginate le correnti antimonarchiche di sinistra. Queste non intendevano approvare le gravose condizioni imposte dall’Austria a seguito della sconfitta riportata nella I Guerra d’indipendenza (11) . La qualcosa si verificò a seguito delle elezioni indette con il proclama di Moncallieri (20 novembre 1849) mediante il quale il primo ministro Massimo d’Azeglio sollecitava l’elezione di una Camera moderata che ratificasse la pace con L’Austria. La maggioranza del parlamento eletto, favorevole alla ratifica del trattato, scongiurò, per un verso, le intenzioni della destra di risolvere i problemi politici del Regno con un colpo di Stato che avrebbe abolito lo Statuto e, per l’altro, diede la possibilità al governo di riprendere la via delle riforme interrotta a seguito dagli eventi del 1848 (*). A cominciare con la limitazione dei privilegi ecclesiastici ispirati dal ministro di grazia e giustizia Giuseppe Siccardi (1802-57) (12) e sostenuti dal nuovo ministro dell’agricoltura commercio e marina, il liberale di centro-destra Camillo Benso di Cavour (13).

L’impegno di questi in una politica liberista, condivisa anche dalla sinistra di Urbano Rattazzi (1808-73), fu alla base di un accordo (polemicamente definito connubio dai conservatori) che, isolando le estreme ed unendo progressisti di destra e moderati di sinistra, gli consentì di assumere, nonostante l’avversione che il re nutriva nei suoi confronti, la presidenza del Consiglio (novembre 1852) e condurre il Regno di Sardegna in una fase politica intraprendente e dinamica. Il percorso del suo governo, coerente con il rafforzamento del regime liberale, dello sviluppo economico e dell’egemonia politica in Italia, incontrò difficoltà nel momento in cui si decise di riprendere il cammino delle riforme in campo ecclesiastico con un progetto di incameramento dei beni che si scontrò con i sentimenti religiosi del re. Questi cercò di mettere in crisi il governo ma nulla potè contro la palese volontà della maggioranza dei deputati favorevole a Cavour che vide rafforzata la sua posizione.
In politica estera gli obiettivi di Cavour furono rivolti alla contrapposizione all’Austria evidenziata con una legge che concedeva un indennizzo a tutti i rifugiati lombardi in Piemonte vittime di sequestro dei loro beni a seguito dell’insurrezione milanese del febbraio 1853 (n. 8). Contrapposizione che si sarebbe rivelata priva di conseguenze se il Regno non si fosse inserito nel dinamismo delle alleanze europee. Queste subivano, in quel tempo, un rimescolamento a seguito della crisi emergente nelle nazioni orientali causata dello sfaldamento dell’impero Ottomano (attuale Turchia), ritenuto il malato d’Europa e sorretto unicamente in funzione antirussa.

Allorché la Russia dello Zar Nicola I approfittò del progressivo cedimento dell’impero turco per occupare (1853) i principati ottomani di Moldavia e Valacchia (attuale Romania) per crearsi nuove vie verso il Mediterraneo, Inghilterra e Francia, attente a mantenere l’equilibrio dei poteri e salvaguardare i loro interessi, sostennero la Turchia, invitando altre potenze europee a regolarsi in maniera analoga. Mentre la reazionaria Austria apparve inizialmente riluttante a schierarsi a fianco delle potenze liberali e contro una Russia altrettanto reazionaria, Cavour riuscì a far entrare il regno Sardo nell’alleanza antirussa ma senza ottenere garanzie in sede diplomatica. Che anzi, rispetto ai suoi obiettivi, furono deludenti perché Francia ed Inghilterra, pur di coinvolgere l’Austria, le garantirono l’integrità dei suoi domini in Italia. L’episodio centrale della guerra vinta dall’alleanza franco-inglese si svolse in Crimea (14) e l’armistizio del 1856 preludeva al Trattato di pace di Parigi dove il quadro internazionale messo a punto con il Congresso di Vienna del 1815 ne uscì sensibilmente modificato:
- l’Austria che non aveva partecipato al conflitto ne uscì isolata, in dissidio da una parte con la Francia che estese la sua influenza a danno della stessa Austria, e dall’altra con la Russia che perdette la sua supremazia militare in Europa;
- Il Regno Sardo con Cavour ottenne il risultato diplomatico di mettere all’ordine del giorno di una seduta suppletiva la discussione sulla situazione italiana, dove Cavour, sostenuto dal ministro inglese Gorge Clarendon, ebbe modo di sollevare una protesta sia per la presenza di truppe austriache che occupavano arbitrariamente territori italiani operando una politica repressiva, sia per la politica reazionaria che Ferdinando II attuava nel Regno delle Due Sicilie, fornendo motivo di propaganda rivoluzionaria e destabilizzante anche per gli altri stati italiani. Per entrambe le situazioni evidenziate Cavour ottenne solo comprensione ma, al momento, nessun impegno.

L’imperatore francese Napoleone III (15) che era riuscito a spezzare il fronte conservatore tra Austria e Russia, si stava avvicinando agli interessi di Cavour nella prospettiva di una alleanza franco-piemontese mirante ad estendere l’influenza francese a danno dell’Austria. Un attentato, operato dall’italiano Felice Orsini (gennaio 1858) offrì a Cavour l’opportunità di attribuire la responsabilità dell’attentato a Mazzini (16) e di adottare una serie di efficaci misure contro i rivoluzionari, convincendo Napoleone III della necessità di eliminare i motivi che avrebbero potuto scatenare una rivoluzione di tipo mazziniano e di incontrarlo segretamente Cavour a Plombiers (20 luglio del 1858) (17). Qui fu puntualizzato un accordo di alleanza contro l’Austria che prevedeva una comune guerra che doveva assumere un carattere difensivo e progettava la semplificazione della situazione politica italiana con l’istituzione di una confederazione di tre regni presieduti dal Papa:
- regno dell’Alta Italia con l’annessione del Lombardo-Veneto e dell’Emilia e Romagna al Regno di Sardegna/Piemonte che avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e la provincia di Nizza;
- regno dell’Italia Centrale comprendente la Toscana e la parte restante dello Stato Pontificio che sarebbe potuto andare al cugino dell’imperatore, il principe Napoleone Girolamo, con la sovranità su Roma riconosciuta al Papa;
- regno delle Due Sicilie che, protetto dallo zar, sarebbe rimasto inalterato ma sul regno borbonico sarebbe dovuto subentrare un discendente di Murat.

L’accordo, sul piano internazionale, non era quanto di meglio Cavour auspicasse ma la sottrazione all’Austria dei domini Italiani avrebbe aperto la prospettiva ad altri vantaggi per il Regno Sardo che, tuttavia, avrebbe dovuto prepararsi a contenere le mire di Napoleone III volte a sostituire l’egemonia austriaca con la sua. Sul piano interno, l’accordo aveva potenziato il consenso intorno a Cavour al punto da attrarre sulla sua linea monarchica e moderata gran parte del movimento patriottico che si era finora riferito a quella democratica e rivoluzionaria di Mazzini.


- La II Guerra d’Indipendenza


Avendo concordato l’intervento della Francia legato ad un pretesto legalistico, il Regno Sardo, che non poteva dichiarare guerra all’Austria, attese l’evento favorevole. Evento di chiara aggressione, onde non consentire incertezze in Napoleone III e senza smuovere gli interessi delle grandi nazioni europee (18) .
Intanto l’attivismo diplomatico di Cavour aveva già allarmato l’Austria che, a seguito della disponibilità emersa nel discorso d’apertura del parlamento (10 gennaio 1859) da Vittorio Emanuele II “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”, schierò un corpo d’armata, sul Ticino, lungo il confine con il Piemonte, il quale, nel timore di una aggressione, mobilitò l’esercito a cui si aggiunse il corpo di volontari (Cacciatori delle Alpi) guidato da Giuseppe Garibaldi (19).

Fin qui non vi sarebbe stato alcun chiaro motivo di guerra se l’Austria non avesse intimato al Piemonte, con un ultimatum (23 aprile 1859), la smobilitazione delle truppe e lo scioglimento del corpo volontario. Vittorio Emanuele respinse l’ultimatum e l’Austria con le sue truppe varco il Ticino per invadere il Piemonte. Era l’aggressione che avrebbe fatto scattare l’intervento francese in appoggio al Regno Sardo.
Il comando supremo dell’esercito sardo fu assunto da Vittorio Emanuele, coadiuvato dal ministro della guerra Lamarmora (n. 10) e dal capo di Stato Maggiore Morozzo della Rocca, per quell’avventura che viene denominata II Guerra d’Indipendenza.

Le operazioni videro due fasi distinte. Nella prima, caratterizzata da un certo staticismo, l’esercito austriaco comandato dal maresciallo Gyulai (20) invece di aggredire l’esercito piemontese prima dell’arrivo dei francesi secondo le disposizioni ricevute, procedette con cautela, nel timore di essere aggirato, fino ad occupare Biella e Vercelli (inizio maggio), quindi, incerto se puntare su Torino o attaccare Alessandria, base dell’esercito piemontese, preferì sostare in Lomellina, concedendo ai francesi il tempo di giungere ad Alessandria (14 maggio 1859) dove Napoleone assunse il comando delle operazioni. Iniziava quindi la seconda fase operativa della guerra e, mentre Garibaldi con i suoi Cacciatori occupava Varese e sconfiggeva gli austriaci a San Fermo (26-27 maggio), l’esercito franco-sardo si diresse verso nord (21), sorprendendo Giulay che, sconfitto a Palestro (31 maggio) e pur ritirandosi ad est del Ticino, non evitò lo scontro e la sconfitta del 4 giugno a Magenta, a seguito di una incerta e sanguinosa battaglia sostenuta dall’esiguo contingente franco-sardo che era riuscito ad attraversare il Ticino.

L’esercito Austriaco demoralizzato retrocedette per trincerarsi nel quadrilatero (le fortezze di Mantova, Peschiera, Verona e Legnago). Napoleone, anziché pressare l’esercito austriaco in ritirata, preferì prendere la strada, ormai priva di ostacoli, verso Milano dove entrò, con Vittorio Emanuele II (8 giugno), ricevendo un’accoglienza che ricordò quella ricevuta dallo zio (1797).
Con le imprese di Garibaldi che, dopo aver occupato Bergamo e Brescia, si avviava verso la Valtellina, la Lombardia era conquistata ma la guerra non ancora vinta. Infatti l’imperatore Francesco Giuseppe (22), dopo aver rimosso Giulay ed assunto il comando del contingente austriaco, si preparava allo scontro decisivo con l’esercito alleato. Questo, conseguite a Solferino da parte dei francesi ed a San Martino dai sardi (24 giugno) vittorie decisive, si predisponeva ad attraversare il Mincio per penetrare nel Veneto pressando gli austriaci in ritirata. Frattanto la flotta franco-sarda nell’Adriatico bloccava Venezia, mentre Napoleone III, ritenendo pericoloso il prosieguo della guerra, concordava con gli austriaci un armistizio a Villafranca (8 luglio) e, tre giorni dopo, le condizioni di pace che prevedevano il passaggio della Lombardia alla Francia che l’avrebbe trasferita al Regno Sardo, ricevendo in cambio la Savoia e la provincia di Nizza (23). Veniva inoltre auspicato che “.. i duchi di Toscana e di Modena rientrino nei loro Stati” .

Varie sono le ipotesi volte a spiegare la prematura decisione di Napoleone III di concordare l’armistizio senza consultare Vittorio Emanuele II ma condizionandolo alla sua ratifica, che avvenne malgrado il vivace dissenso di Cavour. Il re non aveva la visione politica del Cavour e, pur se messo di fronte a fatti gestiti unilateralmente da Napoleone, presumibilmente si sentì appagato dell’acquisizione della Lombardia che realizzava un antico desiderio dei suoi predecessori. Cavour invece, con il Veneto rimasto sotto dominio austriaco, vide infrangersi i suoi obiettivi di unificazione e si dimise, abbandonando freddamente il re che diede incarico a Lamarmora (n. 10) e Rattazzi di formare il nuovo ministero.

L’annessione di Toscana ed Emilia-Romagna al Regno Sardo avvenne attraverso distinti momenti che, pur in tempi brevi, passarono dalla fase di sostegno alla guerra contro l’Austria, all’istituzione di governi provvisori ed all’adesione al regno costituzionale di Vittorio Emanuele II.
Fin dalle prime avvisaglie di crisi con l’Austria, i democratici toscani ed emiliani premettero per un diretto sostegno alla guerra condotta dal Regno Sardo, scontrandosi con le posizioni dei rispettivi sovrani che, collegati con l’Austria, scelsero una posizione di neutralità che li costrinse ad abbandonare le rispettive sedi rimaste sguarnite a seguito del ritiro dei contingenti austriaci, utilizzati per sopperire i rovesci subiti nella guerra.
In Toscana, Il granduca Leopoldo II di Lorena (n. 2), prendendo atto del favore che si manifestava nelle varie organizzazioni liberali a favore del Regno di Sardegna e rifiutandosi di abdicare in favore del figlio Ferdinando, in concomitanza con una manifestazione indetta per il 27 aprile dalla Società Nazionale (n. 13), preferì abbandonare Firenze, consentendo l’istituzione di un Governo Provvisorio Toscano che offrì la dittatura a Vittorio Emanuele II. Questi temendo di sollevare problemi nell’incerto panorama diplomatico, si limitò ad accordare la propria protezione ed a nominare, con funzioni di capo di Stato il suo inviato Carlo Boncompagni che formò un governo guidato da Bettino Ricasoli (26). Questi, dopo la pace di Villafranca, convocò le elezioni e l’assemblea eletta votò, 7 agosto 1859, una dichiarazione di decadenza della dinastia Lorenese e la volontà della Toscana di entrare a far parte di una Regno costituzionale diretto da Vittorio Emanuele II (27).

In Emilia, dopo l’abbandono del ducato di Modena da parte di Francesco V d’Asburgo d’Este (duca di Modena, Reggio ecc) a seguito della sconfitta subita dagli austriaci a Magenta, si formò un governo provvisorio (15 giugno 1859) diretto da Luigi Farini (28) che fece approvare da una assemblea (21 agosto) sia la decadenza estense che l’unione al Regno Sardo.
Ugualmente accadde nel ducato di Parma con la partenza di Maria Luisa di Borbone (reggente per conto del figlio Roberto) e l’assunzione di poteri da parte i Giuseppe Manfredi.

Nelle Legazioni Pontificie dell’Emilia (Bologna e Romagna) dopo il ritiro delle truppe austriache subentrò, a Bologna, nel governo provvisorio Gioacchino Pepoli, sostituito l’11 luglio (dopo l’armistizio) da Massimo D’Azeglio in qualità di commissario, quindi dal governatore Leonetto Cipriani che, il 6 settembre, convocò l’assemblea che sancì la fine del governo pontificio e l’annessione al Regno Sardo.
Deliberate le annessioni, Toscana ed Emilia assunsero l’iniziativa di costituire un lega militare al cui comando fu posto il generale Manfredo Fanti (29). La determinazione con cui si era sviluppato il movimento di liberazione nelle regioni centrali d’Italia, rendeva evidente che un eventuale tentativo di restaurazione non sarebbe stato privo di reazione e Napoleone garantì che non vi sarebbe stato intervento armato in mancanza di disordini.
Intanto per Vittorio Emanuele II si pose il problema di come accogliere diplomaticamente tali eventi e, secondo il suggerimento di Napoleone che anche gli promise di sostenerlo in sede negoziale, adottò la formula dell’accoglienza. La qualcosa lasciò sconcertati i rappresentanti di Emilia e Toscana che, da Cavour, che seguiva l’evoluzione dietro le quinte, ricevettero il suggerimento di intenderla piuttosto come accettazione.

Quando, per l’inadeguatezza del governo Rattazzi-La Marmora rispetto alle iniziative che la situazione chiedeva, fu richiamato al governo Cavour (21 gennaio 1860), egli riuscì, con una serrata trattativa ad attenuare la posizione di Napoleone in difesa dei domini pontifici e di contrattare il consenso francese all’annessione di Toscana ed Emilia, in cambio della conferma della cessione del territorio di Nizza e Savoia (n. 23) (30).
Il plebiscito del 11-12 marzo 1860 in Toscana ed Emilia confermò a grandissima maggioranza il favore all’annessione al Regno di Sardegna. L’assimilazione al nuovo Stato si realizzò in buona parte entro la fine dello stesso anno, anche se alcune procedure rimasero in vigore per anni.

Le insurrezioni nelle Marche ed Umbria erano state frattanto decisamente represse dalle truppe pontificie (31) aggravando la situazione dello Stato che continuava a sopravvivere grazie alla presenza di un presidio di truppe francesi. Marche ed Umbria saranno successivamente annesse al Regno di Vittorio Emanuele II per plebiscito dopo la battaglia di Castelfidardo (settembre 1860; v. capitolo successivo).

In Veneto l’Austria manteneva l’occupazione malgrado le difficoltà in cui essa versava per l’inasprirsi della rivalità con la Prussia.

Il Regno delle Due Sicilie, chiuso ad ogni apertura liberale, continuava a scivolare verso un decadimento sempre più profondo.

 

La spedizione dei Mille e la liberazione del meridione
- Le premesse


Le vicende dell’Italia centrale avevano avviato il processo di unificazione ma, parallelamente a quella dello Stato Pontificio, si era ancor più aggravata la crisi politica nel Regno delle Due Sicilie. L’obiettivo insurrezionale dei democratici che inizialmente era rivolto allo Stato pontificio si spostò quindi verso la Sicilia dove l’equilibrio tra popolazioni e governo era più facilmente alterabile.
In Sicilia, nei moti degli anni ’20 e ’48 che avevano registrato una massiccia partecipazione popolare, era ormai maturata la convinzione che l’indipendenza da Napoli poteva essere ottenuta mediante l’adesione ad un progetto di confederazione italiana. Non era pertanto irrealistica la previsione che un intervento armato potesse provocare una sollevazione. Della qualcosa non era convinto Cavour mentre stavano cedendo le perplessità di Garibaldi (32). A Francesco Crispi ed a Rosolino Pilo (33), ambedue siciliani ed il primo in rapporti di vicinanza con Mazzini, era stato affidato il compito di preparare il terreno per tale eventualità ed avevano convinto Garibaldi che era maturato il momento di sfruttare l’endemica irrequietezza contadina e che il sentimento di staccarsi da Napoli era ormai diffuso in tutte le classi (34). Era pertanto divenuta praticabile la possibilità di promuovere, secondo l’idea mazziniana, la rivoluzione dal basso. Idea che Vittorio Emanuele, in costante contatto con un Garibaldi deciso ad ottenere adeguatezza di mezzi e finalità di unificazione al Regno Sardo, incoraggiava segretamente senza compromettersi.

Altri esuli siciliani più conservatori, frattanto, allarmati dal timore che si potessero ripetere gli eccessi del 1849, per sondare la possibilità di una azione diplomatica sorretta da una militare rivolta all’annessione, fatta salva l’autonomia, avevano preso contatto con Cavour il quale promise che, ove gli eventi portassero la Sicilia ad una annessione al Regno Sardo, essa avrebbe ricevuto un notevole grado di autonomia. Cavour, aspramente e personalmente avversato da Garibaldi per la cessione di Nizza, malgrado si rendesse conto dello stato di crisi del regime borbonico, riteneva prematura qualsiasi azione militare, comunque condotta, nel timore che essa, per la tendenza separatista dei siciliani, potesse assumere una impronta mazziniana difficilmente gestibile. Tuttavia egli, in stretto contatto con l’esule La Farina (35), era favorevole a mantenere in Sicilia un costante stato di agitazione, sperando che il governo borbonico, non riuscendo a controllare l’anarchia delle campagne, ricorresse al Piemonte per una qualsiasi forma di sostegno. Ed, a tal fine, attraverso il suo ministro Villamarina, cercava di stabilire con i Borboni un qualche rapporto che li sottraesse all’influenza austriaca.

Mazzini sosteneva l’impresa cui si accingeva Garibaldi, avendo superato la contrapposizione repubblica-monarchia e privilegiando l’obiettivo dell’unità nazionale.

Crispi era ritornato segretamente in Sicilia stabilendo contatti con la rete di forze insurrezionali e con alcuni capibanda per organizzare le fasi iniziali della rivolta che avrebbero dovuto preparare il terreno per l’azione di Garibaldi. All’inizio del 1860 piccoli focolai di disordine si manifestavano ovunque e la popolazione, diffondendosi l’attesa di una imminente rivoluzione, cominciò ad agitarsi per ottenere giustizia ed a porre le prerogative per un movimento di vaste proporzioni. Un tentativo insurrezionale, prematuramente organizzato e condotto da Francesco Riso a Palermo (4 aprile), fu prontamente sedato presso il convento della Gancia con la fucilazione di numerosi insorti.
Il fermento popolare non cessò e si estese alle campagne ed ai centri (Messina, Carini, ecc.) assecondato dall’aristocrazia e dalla nuova borghesia terriera che, mirando a difendere la solida impalcatura feudale, tendeva ad attribuire al governo le colpe della miseria e dello sfruttamento, trovando la solidarietà dei contadini che furono trascinati in una guerriglia con obiettivo del conseguimento dell’autonomia, non dell’unità nazionale. La guerriglia si diffuse, attaccando gli avamposti delle truppe borboniche che, pur preventivamente informate, non riuscivano a prevenire. Vennero tagliate le linee telegrafiche (36) diffondendo il panico tra i funzionari e vennero interrotti i rifornimenti, causando un aumento dei prezzi che rinfocolava le proteste e, col deteriorarsi dell’ordine, creava una situazione caotica e di diffusa anarchia.

Scordato e De Miceli (v. prima), fiutando il corso degli eventi, divennero rivoluzionari per controllare la rivolta e preservare i loro imperi privati. Il governo per controllare il disordine incoraggiò la formazione di una milizia di volontari della classe media e trovò aiuto in coloro che, pur avversando i Borboni, ancor più temevano la rivolta contadina.

Il 26 marzo Rosolino Pilo con Giovanni Carrao era partito da Genova recando in Sicilia un ingente quantitativo d’armi ed appena arrivato era riuscito, dopo l’insuccesso del 4 aprile, a serrare le fila dei rivoltosi. Prese contatto anche con i capi della delinquenza locale di Cinisi, Tenasini, Montelepre, S. Giuseppe Iato Corleone, Partitico ecc. e, ridestando le speranze, riuscì a creare un’attesa carica di tensione (37). La notizia della reazione borbonica al tentativo insurrezionale fu taciuta a Garibaldi ma provocò apprensione ed indusse Crispi a sollecitare l’organizzazione di Genova ad accelerare i preparativi per la spedizione che erano intralciati da difficoltà di ordine politico create da Cavour. Questi si sentiva in difficoltà a favorire un movimento diretto contro lo Stato borbonico con cui si mantenevano relazioni diplomatiche ma, politicamente indebolito per la cessione di Nizza e della Savoia, non era in grado di contrastare apertamente Garibaldi. Comunque egli, pur non fidandosi di Garibaldi e temendo l’influenza che avrebbe potuto esercitare Mazzini, non aveva obiezioni di principio verso gli obiettivi della spedizione ed, oltre ad operare un attento controllo della fase preparativa, manteneva una cauta posizione di attesa.


L'imbarco notturno dei Mille a Quarto, il 5 maggio 1860

 

- La partenza dei Mille
Al quartier generale dell’operazione di Genova, Villa Spinola, sotto gli occhi vigili del governo, giungevano per arruolarsi poco più di un migliaio di volontari (1162) tra esuli meridionali, giovani intellettuali, studenti e popolani (38), provenienti dalle regioni del nord che si acquartierarono presso la spiaggia di Quarto. Restava la difficoltà degli scarsi armamenti e del reperimento delle navi per il trasposto. A queste provvidero Nino Bixio (39) e Benedetto Castiglia che, il 5 maggio, con poche decine di uomini e con la collaborazione di Giambattista Fauché (n. 39), prese possesso, nel porto di Genova, di due navi a vapore della compagnia marittima di Raffaele Ribattino (40), il Lombardo ed il Piemonte, su cui si imbarcarono i volontari per partire, la mattina del 6 maggio 1860, verso la Toscana. Qui, dal comandante della guarnigione del Regno Sardo di Telamone, Garibaldi, dichiarandosi generale dell’esercito piemontese, si fece consegnare armi e munizioni. Quindi, prima di proseguire, inviò un gruppo di sessantaquattro uomini che, guidati da Callimaco Zambianchi, operarono una manovra diversiva verso territori dello Stato pontificio quindi raggiunsero a scaglioni la Sicilia. Dopo la partenza da Talamone (9 maggio) (41) le due imbarcazioni fecero sosta a Porto S. Stefano per rifornimenti di carbone, quindi si diressero verso la Sicilia. Nei pressi della quale, godettero della provvidenziale copertura della flotta britannica che, con il pretesto di proteggere i cittadini inglesi residenti in Sicilia, incrociava intorno alle coste sicule, frapponendosi fra le navi garibaldine e quelle borboniche per ostacolare l’eventuale intervento di queste, a meno di rischiare uno scontro con gli inglesi che avrebbe potuto causare il coinvolgimento armato dell’Inghilterra (42). Anche all’arrivo a Marsala (11 maggio) dove e non a caso Garibaldi scelse di sbarcare riuscendo a procedere le navi borboniche all’inseguimento, fu protetto dalla presenza in porto di navi inglesi (Argus ed Intrepid) che, non occasionalmente alla fonda, manovravano opportunamente per proteggerlo dal cannoneggiamento delle navi borboniche. Il Piemonte si arenò per favorire lo sbarco mentre il Lombardo fu cannoneggiato ed affondato quando ormai tutti i volontari garibaldini erano sbarcati.

- La conquista della Sicilia
Il contingente sbarcato, trovò fredda accoglienza dai cittadini di Marsala. Il giorno successivo, salutato dal console inglese Collins, diviso il suo contingente in sette compagnie cui si erano uniti decine di volontari siciliani, Garibaldi concordò la strategia con il suo capo di stato maggiore, Sirtori (44), quindi procedette con cautela verso Salemi beneficiando della generosa ospitalità ricevuta lungo il percorso dal marchese di Torrealta. Lungo il trasferimento il contingente evitò le principali vie di comunicazione, guidato dalla eccezionale capacità di Garibaldi che, non volendo scontrarsi con forze nettamente preponderanti, attuava una strategia di guerriglia appresa nel decennio di lotte in Sud America. Essa consisteva nell’evitare la battaglia in campo aperto e preferire assalti improvvisi in campi angusti, rapide marce ed accurate dispersioni, tattica che demoralizzava il nemico ed animava i suoi.

Giunto il 13 maggio a Salemi accolto da entusiastici festeggiamenti, Garibaldi emanò, il giorno successivo, un proclama in cui dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, quindi si diresse verso Calatafimi. Qui, il generale borbonico Francesco Landi (45) inviò un distaccamento, tre compagnie di 2000 uomini, guidato dal maggiore Sforza il quale decise di attaccare appena resosi conto della esiguità numerica dei volontari garibaldini. Questi, schierati sulle alture di Pietralunga, rimasero in attesa finché i borbonici non furono alla portata quindi spararono a bruciapelo ed aggredirono all’arma bianca (15 maggio). Nello scontro violento, sanguinoso ed incerto i garibaldini ebbero la meglio grazie all’apporto di volontari siciliani (46).

La diffusione della notizia dello scontro vittorioso, propagata con i falò sulle alture, rappresentò un elemento determinante per il prosieguo dell’impresa che fu sostenuta dall’entusiasmo e dal coinvolgimento delle masse contadine. Esse vedevano in Garibaldi il vendicatore delle ingiustizie patite ed egli, con il suo carisma e la sua sensibilità popolare, riuscì a valorizzare la loro partecipazione creando una atmosfera di entusiasmo e di fiducia che concorsero ad accrescerne la leggenda.
L’aggregazione diretta al contingente di alcune migliaia di volontari (picciotti) guidati da Rosolino Pilo e da Giuseppe La Masa (*) creò in tutta l’isola un clima rivoluzionario.

L’aggregazione diretta al contingente di alcune migliaia di volontari (picciotti) (47) guidati da Rosolino Pilo e da Giuseppe La Masa (*) creò in tutta l’isola un clima rivoluzionario.
Da Calatafimi (16 maggio), attraverso Alcamo, Partinico e Borsetto, il contingente garibaldino si diresse, in un susseguirsi di rapidi scontri nel corso dei quali perse la vita (21 maggio) Rosolino Pilo (n. 33), verso Palermo dove si stavano asserragliando, per preparare una controffensiva, le truppe borboniche del generale Landi che, su suggerimento di Filangeri (n. 7), venne sostituito dal generale Ferdinando Lanza, siciliano conoscitore dei luoghi ma vecchio e lento, cui era stato dato mandato di evitare il concentramento delle forze a Palermo. Garibaldi che intuiva la minaccia incombente, predispose una apparente manovra di ritirata con l’invio di un gruppo di volontari, attraverso la Piana dei Greci, verso Corleone. Manovra che trasse in inganno il corpo di tremila svizzeri che, guidati dal colonnello Von Mekel, erano stati inviati ad intercettare i garibaldini. Frattanto Garibaldi, col grosso dei suoi volontari, di notte e per vie secondarie aggirò a sud Palermo e all’alba del 27 maggio, con l’avanguardia condotta da Bixio, sorprese le disorientate truppe borboniche da est, presso il ponte dell’Ammiraglio conquistato all’arma bianca dopo un breve ma violento combattimento (48).

I garibaldini, esprimendo livelli elevati di eroismo, si aprirono l’accesso alla città che li accoglieva sostenendoli ed affiancandoli. Il comandante delle truppe borboniche, Lanza, abbandonò via via gran parte dei quartieri cittadini, premuto dai garibaldini e dagli insorti e, nel tentativo di capovolgere le sorti dello scontro, si ritirò sulle alture del forte di Castellammare da dove, per tre giorni, cannoneggiò la città sottoponendola ad un inutile massacro che causò centinaia di morti. Malgrado l’arrivo di rinforzi, i borbonici continuavano ad arretrare, finché su intervento del comandante della squadra britannica nel porto di Palermo, ammiraglio Mundy, fu proposto un armistizio. Questo, concordato su una nave britannica (31 maggio) da Garibaldi e Crispi con gli inviati borbonici, prevedeva il mantenimento delle rispettive posizioni militari (49).

Il generale Lanza aveva ricevuto dal re, cui era stato fatto un quadro molto più fosco della realtà, facoltà di decidere. Egli, attanagliato dall’inevitabilità della sconfitta, rinunciò alla difesa di Palermo lasciandola in mano agli irregolari di cui conosceva l’ardore e, predisponendosi per uno scontro in campo aperto, il 6 giugno, concordò l’imbarco delle truppe. Queste, entro il 19 giugno, lasciarono Palermo, attuando, come era accaduto nel 1848, il piano di emergenza che consisteva nel ripiegare su Messina dove le truppe borboniche vennero affidate al comando del generale Clary (50).

A Palermo Garibaldi istituì il quartier generale a Palazzo Pretorio ed un governo provvisorio (2 giugno) da lui presieduto ma sostanzialmente diretto da Crispi, in qualità di ministro degli interni. Intanto l’eco provocata dai successi garibaldini ebbe favorevoli ripercussioni all’interno in quanto tutta l’isola si sollevava abbattendo, a parte la piazzaforte di Messina, i presidi borbonici che, fin dall’inizio, assuefatti alla convinzione che avrebbero agevolmente controllato l’arrivo di un migliaio di garibaldini male armati, erano impreparati a reggere una vasta rivolta popolare.
Nelle campagne, infatti, da parte del proletariato agrario si era scatenata una sanguinosa sommossa che, priva di carattere politico, si rivolgeva non solo contro i borbonici ma anche contro i proprietari terrieri ed i gabellotti (affittuari di latifondi), ritenuti responsabili del loro malessere.

I successi dei garibaldini promossero diverse reazioni.
A Napoli, consigliato da Carlo Filangeri, il re Francesco II cercò di correre ai ripari con tardive concessioni liberali fino a ripristinare la costituzione del 1848, dare avvio alla formazione di un governo moderato diretto dal principe Antonio Spinelli di Scalea (25 giugno 1860) ed adottare il tricolore. Scelte che comunque non servirono ad arrestare la disgregazione del Regno.
In continente la fama risonante dell’impresa garibaldina e l’entusiasmo destato aveva moltiplicato gli sforzi con ripetuti invii, tra giugno e luglio, di materiali ed uomini che accorrevano da tutte le parti d’Italia (51).

In luglio Garibaldi inviò tre colonne di circa seimila uomini, tutti regolarmente inquadrati e giustamente equipaggiati a presidio del territorio di Girgenti (Agrigento), quella comandata da Bixio, a Catania quella di Stefano Turr (52) , e la terza, la più consistente, di duemilacinquecento uomini, guidata da Giacomo Medici (n. 51) verso Messina dove si erano raggruppate le truppe borboniche. Quest’ultima, intercettata a Milazzo da un contingente borbonico fu raggiunta da Garibaldi (19 luglio) ed il giorno successivo avvenne lo scontro col contingente borbonico del colonnello Beneventano del Bosco che, nello scontro più articolato e sanguinoso fino ad allora combattuto in Sicilia inflisse loro severe perdite (quasi ottocento garibaldini rimasero sul campo) ma fu costretto a ritirarsi nel forte di Milazzo. Il 24 luglio, tra Medici e Clary, fu stabilito un accordo che prevedeva la resa di Milazzo ed il 28 della città di Messina mentre il contingente borbonico si sarebbe ritirato nella cittadella di Messina .
Ora che la Sicilia era conquistata sorgevano le questioni di carattere amministrativo e politico.


- L’amministrazione della Sicilia

Garibaldi, dopo la conquista di Palermo, doveva amministrare la Sicilia ed, aiutato dalla sua autorità morale, lo fece con zelo riformatore privilegiando gli interessi del popolo. Ma carente come era di esperienza ed abilità politica, non riuscì a portare a termine quanto era nei suoi intenti perché i notabili, appena si riebbero dalla rapidità dei cambiamenti, ripresero ad influenzare e determinare gli eventi. Inizialmente furono emessi una serie di decreti che sancivano sgravi fiscali, eliminazione della tassa sul macinato e dei dazi, nazionalizzazione delle proprietà ecclesiastiche, ripartizione delle terre demaniali regie tra i contadini che accettavano di combattere. Ingenuamente Garibaldi cercò di impedire che i contadini si rivolgessero al padrone chiamandolo “eccellenza” e baciandogli la mano (usanza troppo radicata perché potesse essere rimossa per decreto). Egli aveva in programma di liberalizzare gli scambi, potenziare le infrastrutture, costruire villaggi, arginare fiumi, rimboschire i fianchi delle montagne, costruire asili e potenziare ogni tipo di scuola.
Ed anche se il governo dittatoriale aveva adottato provvedimenti a favore della ripartizione delle terre ai contadini, furono repressi gli eccessi soprattutto laddove essi avrebbero potuto limitare l’azione di unificazione avviata.

Le lotte dei contadini si allargarono facendo tramontare ogni possibilità di convivenza con la classe borghese ed anticipando quel fenomeno di rivolta, brigantaggio, che caratterizzerà, nel meridione, il primo decennio dell’unificazione. Le rivolte scoppiate nell’area etnea, Randazzo, Regalbuto, Biancavilla, Cesarò ecc. e soprattutto a Bronte affondavano le loro radici nei decenni precedenti, allorché essendosi avviati altrove processi di distribuzione di terre ai contadini, in quella zona tutto era rimasto congelato, nella protezione del feudo appartenente agli eredi dell’ammiraglio Horace Nelson (54) e di altri possedimenti, in zona, di cittadini inglesi. I contadini, dando libera interpretazione ai decreti di Garibaldi, pensarono di potersi liberare prontamente dal giogo che li aveva oppressi per secoli. Negli ultimi giorni di luglio, spinti non da motivi politici ma sociali legati alla miseria ed all’ingiustizia, si coalizzarono per impadronirsi degli immensi patrimoni terrieri e, compatti ed armati, scesero nelle piazze creando tumulti e presidiando, in un clima di terrore, le strade per impedire la fuga dei possidenti. Il furore popolare, sostenuto da una miscela veemente di desiderio di libertà e mosso da odi e soprusi a lungo repressi, si sfogò in eccidi brutali.

Per tutelare gli interessi di cittadini inglesi, il console Goodwin sollecitò l’intervento di Garibaldi. Questi, non potendo ignorare l’aiuto inglese nell’organizzazione e conduzione della sua impresa, non volendo alienarsi l’appoggio dei proprietari terrieri e tantomeno cedere alle pressioni delle masse contadine, ordinò a Bixio, di stanza a Giardini, di recarsi a Bronte per reprimere una rivolta che aveva ampiamente oltrepassato il limite della civiltà. Bixio, giunto a Bronte il 6 agosto, allorché la rivolta aveva esaurito la sua carica violenta ed i contadini si erano già dispersi nelle campagne, proclamò lo stato d’assedio, intimò la consegna delle armi e, quale deterrente per altre analoghe situazioni in atto in altri comuni, attuò una rappresaglia senza precedenti, trasformando in vittime innocenti coloro che per primi caddero nella rete (55).

Cavour, sorpreso dagli eventi e dalla rapidità con cui essi si erano verificati, studiava la maniera di utilizzare la conquista e, pensando ad una annessione, dopo aver verificato il favore degli inglesi e la tacita approvazione di Napoleone III, inviò in Sicilia La Farina (n. 35) con l’incarico di promuovere un plebiscito (56). Questi incontrò il dissenso di Garibaldi, di Crispi e di tutto l’entourage. Il primo, pur mantenendo una posizione di lealtà nei confronti del re, non riteneva conclusa la sua azione prima della conquista dei territori continentali e dello Stato pontificio ed il secondo, pur essendo di sentimenti democratici ma autonomista, ebbe un aspro scontro con La Farina. Il quale, tuttavia, avviando diverse iniziative favorite da coloro che non si sentivano protetti da Garibaldi ma non dalla moltitudine interessata solo all’indipendenza e non ad una forma di sottomissione, riuscì a consolidare l’ipotesi dell’annessione. Ma il 7 luglio, con una sfida aperta al governo sardo in cui Cavour non voleva perdere la possibilità di controllare lo sviluppo degli eventi, La Farina fu arrestato ed espulso (57) , facendo cadere, per il momento, l’ipotesi annessionista.

Garibaldi in previsione di lasciare la Sicilia per risalire il continente, dovette accettare con Torino un compromesso che comportò la nomina a prodittatore di Agostino Depretis (v. capitolo successivo), un esponente della sinistra moderata da lui imposto, su suggerimento di Crispi che lo affiancò.
Depretis si insediò il 22 luglio con l’impegno a non avviare il processo di annessione senza il consenso di Garibaldi.


- La conquista dei territori continentali

Lo sbarco in Calabria che significava un affondo più diretto alla dinastia borbonica fu proceduto da articolate valutazioni politiche. L’operazione di sbarco infatti non poteva che avere come risultato l’unificazione di tutta l’Italia ed il probabile attacco allo Stato Vaticano che era nelle esplicite intenzioni di Garibaldi e dei suoi collaboratori, in particolare di Bertani (n. 51). Gli inglesi che erano in rotta con i Borboni e che avevano favorito la prima fase dell’impresa di Garibaldi erano favorevoli alla costituzione di uno Stato Italiano purché nessuna altra nazione trovasse occasione di ingrandimenti. Nella Francia di Napoleone III alla iniziale posizione di tacita accondiscendenza si era sostituita la preoccupazione che gli eventi potessero assumere un aspetto non facilmente controllabile. L’Austria manteneva la sua posizione di ostilità impotente. Cavour voleva impedire che il meridione continentale fosse conquistato da Garibaldi e, dopo aver ottenuto, con la collaborazione della diplomazia francese, le concessioni precedentemente indicate da parte di Francesco II a Napoli (costituzione e formazione di un governo democratico) contava su una subalternità di questo al governo piemontese.
A tal fine, Cavour fece rientrare a Napoli tutti gli esuli ma la prospettiva era di lungo periodo mentre gli eventi incalzavano. Restava la possibilità di fare scoppiare a Napoli un moto rivoluzionario contro i borboni che anticipasse le mosse di Garibaldi. Ma anche questa ipotesi svanì perché le classi moderate che avrebbero dovuto provocarlo, sentendosi minacciate da una rivolta, propendevano per l’annessione. Cavour, che riteneva elevati i rischi legati all’impresa garibaldina continuò a non sostenerla ed ordinò all’ammiraglio della flotta sarda, Persano (58), che incrociava nelle acque siciliane, di non ostacolare la flotta borbonica nei tentativi di impedire l’attraversamento dello stretto dell’armata garibaldina. Restava però attento ad utilizzare gli eventuali risvolti positivi. Il re Vittorio Emanuele inviava a Garibaldi missive ufficiali per invitarlo a desistere dall’impresa e, confidenzialmente gli faceva pervenire suggerimenti per il rifiuto.
Era questa la situazione diplomatica al momento in cui Garibaldi decise l’attraversamento dello stretto.

Anticipate da una fitta propaganda che prometteva regole che consentissero forme di vita più eque, nella notte tra l’8 ed il 9 agosto, sbarcarono, trasportati da barche, sull’estremo lembo della penisola le avanguardie garibaldine di circa duecento uomini guidati da Benedetto Musolino (*) che, con l’apporto di numerosi volontari guidati da Agostino Plutino ed appartenenti a tutte le classi sociali, stabilirono una testa di ponte da cui partirono ripetuti e vani tentativi di conquistare il forte di Altafiumara, difeso dal generale Ruiz (59).
Garibaldi, appena rientrato dalla Sardegna dove era andato a sbloccare la partenza per la Sicilia di volontari che, organizzati da Bertani, erano stati impediti dalle autorità nel timore che fossero diretti contro lo Stato Pontificio, raggiunse Taormina. Là si era radunato il grosso del contingente (3600 uomini) che imbarcatosi a Giardini (Taormina) su due navi di trasporto (Franklin e Torino) attraversò nella notte del 18 agosto le acque dello Stretto di Messina senza essere ostacolato da presenze ostili (60).
Sbarcò all’alba del 19 agosto, a Melito di Porto Salvo accolto dall’entusiasmo popolare. La stessa notte Reggio fu attaccata costringendo alla resa la guarnigione borbonica.

La felice operazione di sbarco riscosse risonanza all’estero, suscitò favore in Italia e convinse Cavour delle prospettive positive ad essa legate (61). Egli assunse di conseguenza una posizione di favore impegnandosi a controllare l’evoluzione dell’impresa al fine di evitare l’insorgere di suscettibilità all’estero. E per questo era necessario non coinvolgere lo Stato Pontificio su cui si stendeva la protezione di Napoleone III.

Dopo la liberazione di Reggio i garibaldini erano fronteggiati da circa 16.000 soldati borbonici dislocati tra Reggio e Monteleone (attuale Vibo Valentia). Il contingente guidato da Garibaldi e Medici attaccò le truppe borboniche guidate dai generali Fileno Briganti e Nicola Melendez attestati nel pressi di Scilla che, non ricevendo il sostegno delle forze comandate dai generali Ruiz e Vial, si arresero (62). Le truppe garibaldine, rafforzate da un secondo contingente che, guidato da Bertani e Cosenz era sbarcato, il 22 agosto, sul lido di Favazzina (tra Scilla e Bagnara), iniziarono la risalita e, superato il fiume Amato nella piana di Santa Eufemia, vennero in contatto, ad Agrifoglio, con un reparto borbonico in ritirata che, con una manovra di aggiramento condotta dal generale Stocco, fu accerchiato nei pressi di Soveria Mannelli (30 agosto) costringendo il generale borbonico Ghio alla resa, malgrado la prevalenza numerica.

Conquistata agevolmente la Calabria , Garibaldi, da Cosenza (30 agosto), attraverso Castrovillari raggiunge Scalea dove si imbarcò per Sapri e, da qui, attraverso Sala, giunse il 6 settembre a Salerno. Qui lo raggiunsero ambasciatori inviati dal ministro degli interni del governo napoletano, Liborio Romano , che, preoccupato per l’ordine pubblico, lo invitava a prendere pacifico possesso di Napoli e di assumere, come in Sicilia la carica di dittatore.

Francesco II, vedendo che tutto gli crollava attorno (65), dopo il rifiuto di Filangeri (n. 7) di riprendere in mano la situazione, il 4 settembre tenne un consiglio di guerra dove venne decisa di posizionare la parte di esercito rimasta fedele, al comando del generale Giosué Ritucci, su una area di difesa fortificata, posizionata tra i fiumi Volturno e Garigliano. Quindi, il 6 settembre, in compagnia della moglie ed ignorato da tutti mentre gli inservienti ne rimuovevano le insegne, lasciò Napoli, portando con se solo poche cose. Sulla nave Messaggero raggiunse Gaeta (66) dove, il giorno seguente, insediò un nuovo governo borbonico guidato dal generale Casella. Nelle caserme di Napoli restavano seimila soldati comandati dal generale Cataldo.

Il 7 settembre Garibaldi con Bertani, Cosenz e pochi altri giungeva a Napoli per ferrovia (Napoli-Portici; si era imbarcato a Cava dei Tirreni) accolto da un tripudio di popolo.


Venne affidata a Liborio Romano la guida del nuovo governo di cui facevano parte i ministri Crispi agli esteri, Cosenz alla guerra e Bertani, prodittatore per le province. Al generale Ghio fu affidato il comando della piazza di Napoli mentre giungeva notizia che il generale borbonico al comando delle truppe in Abruzzo aveva dato ordine di cessare ogni resistenza.

Il regime borbonico era crollato ma non ancora completamente abbattuto.

 

 

Note:
(2) Fu questa divieto, avvenuto su pressione austriaca uno dei pochi episodi di intolleranza del governo riformatore ed illuminato di Leopoldo II (1797-1870), figlio di Ferdinando III e di Maria Luisa di Borbone-Napoli, divenne, in pectore granduca alla morte del fratello maggiore Francesco Leopoldo (1800).
(3) Carlo Cattaneo (1801-69) estraneo alla politica attiva, diresse il consiglio di guerra durante le cinque giornate di Milano (*) e fu esule a Parigi. Dopo averla rifiutata nel 1861, accettò nel 1867 l’elezione a deputato ma senza partecipare ai lavori per non dover giurare fedeltà alla corona.
(4) Legati ai ceppi come delinquenti comuni furono visitati dallo statista britannico William Gledstone (1809-98) che ne rimase talmente scosso da denunciare le illegalità del regime borbonico “negazione di Dio eretta a sistema di governo”. E’ opinione diffusa che tale descrizione sia stata amplificata per motivi di contrasto politico.
(5) Secondo Francesco Saverio Nitti, Ferdinando governò “senza guardare all’avvenire, senza aver vedute, senza prospettive” un regno che, secondo la sua visione, doveva galleggiare “tra l’acqua salata e l’acqua santa”, cioè isolato dal mare e dallo Stato Pontificio.
(6) Francesco II (1836-94), altrimenti noto come Franceschiello, figlio di Maria Cristina di Savoia e, come lei, bigotto ma non sprovveduto come generalmente viene ritenuto. Da poco sposato con la sorella dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, (n. 22), Maria Sofia di Baviera, con cui ebbe un avvio matrimoniale che richiese, su di lui, l’intervento del confessore. Maria Sofia, di carattere risoluto ed in conflitto con la regina madre Maria Teresa d’Asburgo-Lorena (*) (matrigna di Francesco II), cercò di condizionare le scelte del re.
(7) Carlo Filangieri (1784-1867) figlio del giurista Gaetano, fu ufficiale dell’esercito Napoleonico e mantenuto nel grado anche dopo la restaurazione borbonica del 1806. Partecipò ai moti liberali del 1821 ed, espulso da Ferdinando I, fu riammesso nell’esercito da Ferdinando II. Represse i moti del 1848 in Sicilia, quindi ne divenne governatore. Divenne presidente del consiglio e ministro della guerra nel 1859.
(8) Lo sviluppo della ferrovia in Sicilia era limitato dagli scarsi investimenti privati e dalle controversie che sorgevano per la scelta degli itinerari che venivano a favorire o meno località e poderi. La costruzione della Palermo-Messina-Catania pur progettata da Francesco II, fu deliberata da Garibaldi nel suo periodo dittatoriale e realizzata successivamente.
(9) Anche nei centri di una certa consistenza, la frequenza delle scuole era sconosciuta ed il popolo cresceva senza istruzione e nozioni di morale.
(10) Genova, dopo l’ingloriosa pace di Vignale (*), aveva promosso una rivolta antimonarchica con l’intento di riacquistare la sua antica indipendenza, perduta ad opera delle truppe napoleoniche nel 1797.
Il generale Alfonso Lamarmora (1804-78) che, dopo la sconfitta di Novara era divenuto commissario reale a Genova, sedata la rivolta, permise atti di cruda violenza sulla popolazione, definita “vile ed infetta razza di canaglia”, ricevendo l’elogio del re. Lamarmora divenne ministro della Guerra nei governi D’Azeglio e Cavour, comandante della spedizione in Crimea e primo ministro, a seguito delle dimissioni di Cavour successive alla pace di Villafranca. Prefetto a Napoli nel 1861, condusse la lotta al brigantaggio. Fu presidente del consiglio anche nel 1864-66 allorché si dimise per guidare le operazioni della III Guerra d’indipendenza in cui ebbe gravi responsabilità nella sconfitta di Custoza.
(11) Accordi di armistizio concordati da Vittorio Emanuele II con il maresciallo Radetsky a Vignale il 24 maggio e che sarebbero dovuti essere trasformati in trattato di pace dopo l’approvazione del Parlamento (9 gennaio 1850). Essi prevedevano la cessione all’Austria della fortezze di Alessandria e territori tra il Po, il Sesia ed il Ticino.
(12) Esse, tra l’altro, prevedevano, per le corporazioni ecclesiastiche il divieto di acquisire beni e ricevere eredità e donazioni, senza l’approvazione del Governo. Contro cui si sollevò la reazione clericale che fu controllata con severi provvedimenti che videro l’incarcerazione dell’arcivescovo di Torino e l’espulsione dal regno degli arcivescovi di Cagliari e Sassari.
(13) Camillo Benso di Cavour (1810-61) dopo la giovinezza nell’esercito e la formazione all’estero dove studiò gli effetti della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera acquisendo i principi economici e sociopolitici del sistema liberale, assunse la presidenza del consiglio a seguito della caduta del ministero d’Azeglio sul progetto istituzionale del matrimonio civile osteggiato sia dal re che dai conservatori. Questione che Cavour non ripropose per non alienarsi il consenso verso le sue iniziative politiche che, miranti allo sviluppo dell’economia, delle infrastrutture (ferrovie, bonifiche, sistemi di coltivazione, politica doganale), all’accentuazione del sistema parlamentare e potenziamento dei commerci, avrebbe acquisito per il Regno una posizione di prestigio europeo. La laicizzazione dello Stato (libera Chiesa in libero Stato), pur se contrastata da cattolici e dallo stesso re, attrasse l’attenzione di noti repubblicani confluiti a Torino, come Giuseppe Garibaldi, il toscano Giuseppe Montanelli, il veneziano Daniele Manin (*), il siciliano Giuseppe la Farina (n. 35), il milanese Giorgio Pallavicino Trivulzio (n. 19), il napoletano Francesco De Sanctis che diedero avvio alla formazione della Società Nazionale Italiana con il motto
“Italia e Vittorio Emanuele” (1857). Queste personalità che avevano abbandonato la linea rivoluzionaria di Mazzini, premettero perché Cavour, assieme a Vittorio Emanuele II, tramutato malgrado il suo residuo spirito antiparlamentare in un simbolo rassicurante di sovrano costituzionale, assumesse il patrocinio dell’unità nazionale. Egli, con il suo acume diplomatico, riuscì a modificare gli equilibri internazionali favorevoli all’Austria, acquisendo una posizione di riferimento nel processo di Risorgimento italiano.
Mazzini (*), invece, che aveva accantonato la sua pregiudiziale repubblicana solo nel 1848 in occasione della guerra di Carlo Alberto contro l’Austria, dai suoi successivi esili (Marsiglia, Ginevra, Parigi e Londra), attraverso comitati rivoluzionari, continuava ad incoraggiare attività cospirative ed iniziative insurrezionali volte a conquistare l’indipendenza e l’unità nazionale in uno Stato repubblicano. A questa primaria esigenza egli subordinò ogni azione invitando i socialisti a tralasciare, a tal fine, le lotte di classe che riteneva un fattore di divisione delle forze interessate ad abbattere i regimi assoluti. Egli, ritenendo che l’Italia non sarebbe stata unificata con la diplomazia e le armi straniere, collante inconsistente, si contrappose a Cavour che, considerando che l’Italia non poteva essere unificata dai pochi italiani impegnati senza il consenso delle masse, si era legato alle potenze straniere nella speranza che ciò giovasse alla causa Italia. Mazzini continuò nel tentativo di muovere dal basso il movimento unitario ma dopo lo sfortunato tentativo milanese disertato dalla borghesia (6 febbraio 1853) ed a seguito altri tentativi falliti (Genova e Livorno dove la polizia ebbe facilmente ragione dei pochi partecipanti e per cui era stato condannato a morte ed escluso dall’amnistia concessa dal governo di Torino all’inizio della guerra del 1859) che gli avevano procurato accuse e fatto perdere prestigio, riprese la lotta trasformando il suo movimento (Giovane Italia) in Partito d’azione (1853). Questo, con le stesse finalità, organizzò una serie di falliti tentativi insurrezionali, tra cui la spedizione di Pisacane. Tali insuccessi causarono riserve e critiche anche all’interno dell’area democratica e provocarono il distacco di Medici, Bertani e Cosenz (n. 49) e delle personalità (v. sopra) che confluirono nella Società Nazionale Italiana, per abbracciare la linea monarchico unitaria, strumento della politica pragmatica di Cavour in cui il raggiungimento dell’indipendenza era abbinato delle conquiste sociali.
(14) Nel settembre 1854 le potenze alleate sbarcarono truppe in Crimea, cui si aggiunsero nel 1855 circa !8.000 uomini del Regno Sardo comandati dal generale Lamarmora (n. 10) con l’aperto dissenso di Mazzini che vedeva i soldati italiani combattere a fianco di potenze che avevano fornito garanzie all’Austria. Nell’assedio della fortezza di Sebastopoli, base della flotta Russa nel Mar Nero, il contingente italiano aveva contribuito validamente al successo. L’Austria non aveva partecipato alla guerra cui la morte dello zar Nicola I e la successione di Alessandro II poneva fine con l’armistizio del 25 febbraio 1856.
(15) Luigi Napoleone (*), dopo l’elezione alla presidenza della repubblica del 1848, con un colpo di Stato sciolse nel 1851 il parlamento e col plebiscito del 1852 si fece proclamare imperatore, dando origine al II Impero caratterizzato da un regime clericheggiante e poliziesco.
(16) Orsini, pur essendo un mazziniano, aveva agito senza il consenso di Mazzini che si indignò per le accuse ricevute. Orsini aveva in mente di favorire una ripresa democratica sia in Francia che in Italia e, prima di essere giustiziato, scrisse a Napoleone suscitandone la sensibilità con l’invocazione ad adoperarsi per la causa italiana.
(17) La disponibilità di Napoleone III all’accordo era stata propiziata con una serie di vicende in cui la diplomazia sotterranea ebbe un ruolo non trascurabile. Attraverso un giovane collaboratore, Costantino Nigra (1828-1907), aveva appreso che Napoleone III mirava a far sposare a Maria Clotilde, figlia quindicenne di Vittorio Emanuele II, il cugino Gerolamo, un maturo libertino che aveva perso il titolo di principe ereditario per la nascita di un erede. Per vincere la ritrosia del re, Cavour usò con cinismo le sua capacità di convinzione ed altrettanto fece nel convincere la contessa di Castiglione a mettersi nella disponibilità del Nigra ed usare la sua avvenenza per conquistare Napoleone alla causa italiana.
(18) L’obiettivo era quello di far ricadere sull’Austria la responsabilità del conflitto per garantirsi, da una parte, la neutralità russa che, in caso diverso, non avrebbe tollerato un aggressione all’Austria che avrebbe comportato una guerra nel centro dell’Europa e, dall’altra, di contenere la diffidenza dell’Inghilterra e della Prussia che, attente a non lasciar modificare gli equilibri a favore della Francia, avevano preso l’iniziativa di una infruttuosa azione diplomatica per prevenire la guerra (febbraio 1859).
(19) Giuseppe Garibaldi (1807-82), nativo di Nizza, aderì alla Giovine Italia mazziniana, si arruolò nella marina da guerra sarda e per la partecipazione al fallito tentativo insurrezionale mazziniano in Savoia fu condannato a morte in contumacia. Per sottrarsi alla condanna riparò a Marsiglia quindi fuggì in Sudamerica (1835) dove partecipò (1842-46) alle lotte di liberazione del Rio Grande e dell’Uruguay, a fianco del presidente Ribera e contro il dittatore argentino Rosas (da qui l’appellativo di eroe dei due momdi). In questo periodo costituì la Legione Italiana contraddistinta dalla camicia rossa (colore occasionale risalente ad una stoffa o a casacche acquistate a basso prezzo), sposò Anita Ribeiro da cui ebbe quattro figli ed aderì alla Massoneria. Rientrato in Italia per guidare una legione di volontari nella I Guerra d’indipendenza (1848, *) ed espulso dopo l’armistizio, si recò a Roma per partecipare agli eventi della Repubblica Romana, organizzando la difesa contro i Francesi. Caduta la città e, persa la moglie durante la fuga, espatriò esule a New York (1850-54). Rientrato e trasferitosi nell’isola di Caprera da lui acquistata, si allontanò dalla politica rivoluzionaria del Mazzini per aderire alla Società Nazionale di cui divenne vicepresidente (con Pallavicino, presidente; n. 13), attratto dalla politica del Cavour cui riconosceva la capacità diplomatica di promuovere l’indipendenza e l’unità dell’Italia.
(20) Ferencz Giulay aveva sostituito il maresciallo Radetzky, morto da poco (*) e di cui dimostrò di non possedere né la decisione né le capacità tattiche.
(21) Per la prima volta vennero utilizzate le tradotte ferroviarie.
(23) Francesco Giuseppe (1830-1916), figlio dell’Arciduca Francesco Carlo, nipote dell’Imperatore Ferdinando I (1830-48), divenne nel 1848, a seguito dell’abdicazione dello zio e della rinuncia del padre, imperatore per un periodo tra i più lunghi che la storia conosca. Salito al trono dopo le sommosse del 1848 (Vienna, Budapest, Milano e Venezia), perseguì un programma di restaurazione dell’autorità imperiale. Nel 1854 sposò Elisabetta di Baviera (Sissi) figlia di Massimiliano di Wittelsbach, divenuto re di Baviera. La sua posizione esitante in occasione della guerra di Crimea gli alienarono le simpatie dello zar senza fargli conquistare quelle degli alleati, ponendo le promesse per il suo isolamento nella guerra del 1859 con i franco-sardi che segnarono l’inizio dell’estromissione dai domini d’Italia. Insuccessi che proseguirono nel 1866 con la perdita del Veneto e dell’egemonia in Germania. Subì anche da parte del suo governo liberale l’abolizione del concordato (1870) che aveva sottoscritto con la Santa Sede nel !855. L’annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) può essere ascritto come un suo successo. Ma da essa partirono le vicende che causarono la I Guerra Mondiale.
(23) Gli accordi di Plombiers prevedevano la cessione della Savoia e di Nizza in cambio dell’annessione del Lombardo-Veneto e non della sola Lombardia. Quanto al ripristino dell’autorità legittima negli Stati in cui si erano verificate ribellioni, non poteva trattarsi che di un auspicio dal momento che i due sovrani si impegnavano a non intervenire militarmente. Gli accordi di Villafranca sarebbero state sancite nella conferenza di pace di Zurigo (10 novembre 1859).
(24) In Toscana ed Emilia-Romagna si erano contemporaneamente verificate sommosse che vengono spiegate di seguito.
(25) La decisione di concordare l’armistizio potrebbe essere in parte attribuita al gran numero di morti che le due battaglie, Magenta e Solforino, avevano causato (Jean Hanri Dunant impressionato per la stage, prese l’iniziativa di costituire un sodalizio per l’assistenza ai feriti delle guerre ed altre calamità, iniziativa che si concretizzò nel 1863 con la nascita della Croce Rossa Internazionale) e che poteva avere un impatto sfavorevole sull’opinione francese, non disposta a tollerare ulteriori sacrifici per una causa che non l’attraeva. Inoltre le forze più conservatrici erano contrariate dalle insurrezioni che la guerra aveva favorito nelle Legazioni pontificie. I compensi territoriali concordati potevano giustificare il sacrificio fin qui sostenuto ma proseguire nella guerra all’Austria asserragliata nelle proprie fortezze comportava rischi incalcolabili. C’era poi la considerazione che la Prussia, non era ancora intervenuta a sostegno dell’Austria perché le condizioni poste (il riconoscimento di Stato guida della Confederazione Germanica) non erano state da questa accettate. Ma l’imperatore austriaco messo in difficoltà avrebbe potuto cedere, creando l’intervento della Prussica e condizioni ancor più difficili per la Francia. Vi era inoltre da tener conto degli avvenimenti che, in svolgimento in Toscana ed Emilia-Romagna, avevano dato una scossa ai suoi intendimenti di influenza in Italia (nomina del cugino Napoleone Girolamo per il Regno dell’Italia entrale e di Luciano Murat per quello delle Due Sicilie) fecendogli temere di perdere ancor di più il controllo della situazione.
(26) Bettino Ricasoli (1809-80), uomo d’azione, contribuì con il giornale “La Patria” alla formazione del sentimento di nazionalità italiana. La sua attività fu determinante per adesione della Toscana al Regno d’Italia, nato il 12 marzo 1860. Il 12 giugno 1861 successe a Cavour alla carica di Primo ministro del Regno d’Italia.
(27) La dichiarazione conteneva la raccomandazione di accoglimento da parte di Napoleone III e delle nazioni europee neutrali.
(28) Luigi Farini (1812-66) gestì l’annessione dell’Emilia al Regno Sardo e fu primo ministro del Regno d’Italia nel 1862-63.
(29) Inizialmente si era pensato di affidare il comando a Garibaldi che, ritenuto non gestibile, venne sopravanzato da Fanti che, per assumere tale incarico, dovette prendere concedo dalle sue funzioni a Torino. Garibaldi divenne comandante in seconda.
(30) Cavour aveva continuato a sostenere con i suoi liberali il governo Rattazzi-La Marmora convinto che si sarebbero logorati da soli, incapaci com’erano di assumere iniziative e lasciando il re libero di assumere le sue personali. In tale situazione Cavour manteneva contatti con Mazzini ed entrambi, pensando di utilizzarlo, con Garibaldi, pronto ad accorrere là dove vi fossero state sommosse. La qualcosa avrebbe potuto offrire pretesto all’Austria per un intervento armato. Un timore del genere convinse Cavour a rientrare ed attorno a lui fecero quadrato le forze moderate, esercitando una tale pressione che convinse il re ad accettarlo, malvolentieri, sapendo di dover rinunciare alla sua politica personale. Cavour, sapendo che Napoleone si era convinto del fatto che il Papa, riducendo il suo Stato a Roma e dintorni, avrebbe accresciuto la sua autorità morale, prese contatto con lui, comunicandogli la disponibilità a trattare per la cessione di Nizza e Savoia. Intanto, con la strategia del fatto compiuto, sollecitò Farini e Ricasoli ad avviare i plebisciti in Emilia e Romagna. Napoleone, sapendo della disponibilità del governo di Londra a lasciare decidere le popolazioni dell’Italia centrale del proprio destino, non perse l’occasione per aderire. La notizia dei risultati dei plebisciti in Emilia e Romagna giunse a Parigi assieme a quella della firma del documento che sanciva l’annessione di Nizza e Savoia alla Francia (aprile 1860). Garibaldi, deputato di Nizza protestò vivacemente, ritenendo incostituzionale la cessione in quanto le modifiche territoriali avrebbero dovuto essere approvate dal parlamento. Ma all’imbarazzo di Cavour, rispose con un discorso talmente approssimativo ed arruffato da mettere in imbarazzo suoi stessi sostenitori. All’annuncio del risultato del plebiscito di Nizza e Savoia, pressoché unanime all’annessione alla Francia, Garibaldi si dimise da deputato. La cittadina ligure di Chiavari gli offrì la cittadinanza.
(31) Il 20 giugno 1859 un contingente pontificio guidato dal colonnello Schmidt assediò Perugia che il legato pontificio aveva abbandonato per dissociarsi dalla diffusa intenzione di partecipare alla guerra contro l’Austria. I soldati svizzeri, penetrati in città, operarono atroci rappresaglie ed il loro comandante Schmidt ricevette la promozione a generale.
(32) Garibaldi, dopo aver sposato ed immediatamente ripudiata Giuseppina Raimondi, si era ritirato a Caprera. Egli era in buoni rapporti con il re con cui aveva diverse cose in comune: entrambi, di gusti plebei, detestavano Cavour ed erano attratti più dall’azione che dalla politica. Egli, considerata la scarsa partecipazione ai tentativi dei fratelli Bandiera (*), di Bentivegna (n. 33), e di Pisacane, non confidava nello spirito rivoluzionario dei meridionali se indirizzato a fini politici.
(33) Francesco Crispi (1819-1901), avvocato di Ribera, mazziniano, oppositore dei Borbone, partecipò all’insurrezione del 1848 facendo parte del comitato di guerra, quindi esule in Piemonte da dove venne espulso per le sue idee repubblicane. Dopo il fallito tentativo insurrezionale a Milano (1853) fu esule a Malta ed a Londra dove stabilì ottimi rapporti con Mazzini. Con i Mille divenne ministro dell’interno del governo provvisorio siciliano. Deputato del Regno nel 1861, fece parte dell’opposizione democratica di sinistra, presidente della Camera (1876-77), ministro dell’interno ((1877-78, costretto a dimettersi per l’accusa di bigamia) e primo ministro (1887-91 e 1893-96).
Rosolino Pilo (1820-60), mazziniano partecipò all’insurrezione del 1848 ed all’organizzazione della spedizione di Pisacane.
(34) Alla fine del mese del novembre 1856, Francesco Bentivegna aveva promosso una insurrezione rapidamente domata.
(35) Giuseppe La Farina (1815-63), patriota siciliano, repubblicano convertito all’idea monarchica, fu tra i fondatori della Società Nazionale, ebbe ruolo nella spedizione dei Mille, come fiduciario di Cavour, in contrasto con Garibaldi e Crispi.
(36) Il telegrafo elettrico, inventato da Morse nel 1837, aveva ormai sostituito quello ottico o ad asta di inizio secolo.
(37) Una analoga situazione si verificò, nel 1282, dopo la rivolta dei Vespri, in attesa dell’arrivo i Pietro III d’Aragona.
(38) Tra i Mille era considerevole il numero di avvocati e medici, numerosi anche gli ingegneri e qualche decina di farmacisti. Vi erano anche numerosi appartenenti a classi benestanti e molti stranieri, ungheresi, inglesi, turchi e tedeschi tra cui Wolff che assunse il comando dei disertori tedeschi e svizzeri dalle fila borboniche.
(39) Gerolamo Bixio detto Nino (1821-73), massone genovese affiliato, come Giambattista Fauché, alla loggia Trionfo Ligure, combatté con Garibaldi in difesa della Repubblica romana (1849), nei Cacciatori delle Alpi. Nell’impresa dei Mille resta emblematica la maniera con cui represse la rivolta contadina di Bronte. Entrato nell’esercito regolare partecipò nella III Guerra d’indipendenza. Fu deputato e senatore.
(40) In effetti, il giorno precedente a Torino era stato stipulato, alla presenza del notaio Vincenzo Baldioli, un contratto con cui Garibaldi, rappresentato da Giacomo Medici (n. 43) acquistava le due imbarcazioni (con ruota laterale a pale) dalla Società Ribattino, con un finanziamento garantito dal Regno di Sardegna. Altri finanziamenti erano giunti da una sottoscrizione nazionale “per un milione di fucili” avviata nel dicembre del 1859. Dalle logge massoniche dell’Inghilterra (presumibilmente dal Governo inglese attraverso le logge), dove grazie all’attività di Mazzini, vi era molto favore per l’Italia, Garibaldi ricevette rilevanti finanziamenti in piastre d’oro turche (moneta franca nell’area mediterranea, corrispondente a svariati milioni degli attuali euro) che furono amministrate da Ippolito Nievo (1831-61, letterato che aveva partecipato con Garibaldi alla II Guerra d’indipendenza ed alla spedizione di Mille. Morì in un naufragio. Autore di racconti e romanzi di ambiente contadino, Novelliere campagnolo, e di romanzi storici, Le confessioni di un italiano) servirono anche a limitare l’impegno dei generali borbonici.
Anche dagli Stati Uniti giunsero aiuti tra cui cento pistole inviate dall’industriale Colt.
(41) Un gruppetto di volontari di ispirazione repubblicana avevano abbandonato l’impresa. Restarono 1089 volontari diretti in Sicilia.
(42) L’ostilità britannica contro i Borbone datava dalla guerra dello zolfo (*, 1838) e si era acuita con altri episodi (*). Tuttavia il motivo politico prevalente alla base dell’ostilità dell’Inghilterra nei riguardi del Regno borbonico consisteva nella vicinanza di questo all’Impero russo che aspirava ad avere uno sbocco nel Mediterraneo. Infatti, in prossimità dell’apertura del canale di Suez (1869), i porti siciliani assumevano una importanza strategica rilevante.
Marsala era quasi una colonia inglese per la presenza di numerosi cittadini legati al commercio del vino pregiato e dello solfo, ragion per cui era abituale la presenza di navi inglesi alla fonda nel porto.
(43) Sembra che il comandante della nave borbonica Capri, Marino Caracciolo, abbia aspettato lo sbarco dei volontari prima di procedere al cannoneggiamento.
(44) Giuseppe Sirtori (1813-74), partecipò alla difesa di Venezia (1849). Dopo l’impresa dei Mille divenne generale dell’esercito italiano, prendendo parte alla III Guerra d’indipendenza.
(45) Egli, malgrado avesse a disposizione 25.000 uomini, ritenne sufficiente l’impiego di un esiguo distaccamento per affrontare i garibaldini. Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, Landi fu promosso generale di corpo d’armata dalla nuova amministrazione, quindi messo a riposo con una cospicua pensione.
(46) Il feudatario Coppola, uomo accorto e conoscitore degli umori del luogo, si era unito con circa duecento contadini a Garibaldi. Sembra che in questa occasione Garibaldi, in risposta a Bixio che, valutando le difficoltà, gli consigliava un ripiegamento, pronunciasse il leggendario “Qui si fa l’Italia o si muore!”
(47) Talvolta questi mancavano di disciplina e si combattevano tra loro ma furono particolarmente utili a Garibaldi perché creavano diversioni e, sapendo come muoversi nelle campagne, controllavano le bande di irregolari. Questi ultimi, montanari armati approssimativamente (un chiodo infilato in un bastone), costituivano, nelle città, un mito terrificante. Essi continuarono le loro lotte incendiando le proprietà dei nobili, invadendo le terre demaniali e feudali e bruciando i documenti di proprietà nei municipi.
(48) Garibaldi aveva avuto informazione della dislocazione delle truppe borboniche a Palermo dai numerosi contatti che aveva con ufficiali inglesi e giornalisti che andavano a trovarlo.
(49) Ciò accadeva mentre giungeva a Palermo von Makel il quale, con improvvisi assalti, aveva ripreso alcuni quartieri ed avrebbe potuto capovolgere la situazione se non fosse stato obbligato da Lanza al rispetto dell’armistizio.
(50) Il generale Lanza era rientrato a Napoli dove venne imprigionato e mandato sotto processo, che non fu realizzato per l’evolversi degli eventi e la caduta del Borbone.
(51) Le spedizioni partivano da Genova, organizzate da Agostino Bertani (1812-86, politico e medico, fu fra gli organizzatori delle cinque giornate di Milano, dei servizi sanitari dei Cacciatori delle Alpi e della spedizione dei Mille in cui ebbe funzioni direttive nel governo dittatoriale. Massone ed aderente alla sinistra storica, fu ispiratore della nascita del Partito radicale) e guidate da Giacomo Medici (1817-82, volontario garibaldino di personalità autorevole ed unico a rivolgersi a Garibaldi con il “tu”, partecipò alla I, II e III Guerra d’indipendenza ed alla difesa della Repubblica romana del 1849. Fu deputato e senatore al Parlamento unitario) e da Enrico Cosenz (1820-98; ufficiale dell’esercito borbonico, passò alle dipendenze di Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi ed ebbe un ruolo in Sicilia come ministro della guerra e nella battaglia di Milazzo. Dopo il 1860, fu deputato, senatore e capo di stato maggiore dell’esercito italiano) che portarono in Sicilia, oltre a un considerevole quantità di armi, circa 20.000 volontari che, secondo alcuni, non erano altro che soldati piemontesi camuffati.
(52) Stefano Turr (1825-1908), ufficiale dell’esercito austriaco, disertò durante le cinque giornate di Milano (1848), rifugiandosi in Piemonte ed entrato nell’esercito Sardo da cui fu espulso per aver partecipato alle insurrezioni mazziniane del 1853. Partecipò alla guerra di Crimea nel corpo britannico ed alla II Guerra di indipendenza con i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Giacomo Medici (1817-82), volontario garibaldino, partecipò alla I, II e III Guerra d’indipendenza ed alla difesa della Repubblica romana del 1849. Fu deputato e senatore al Parlamento unitario.
(53) Questa, difesa dal maresciallo Fergola, fu espugnata dal generale Cialdini soltanto nel marzo 1861.
(54) Gli era stato donato da Ferdinando IV in cambio dei servizi resigli: i fatti illustrati nel capitolo “Meridione d’Italia Borbone di fine ‘700/ Parte II”.
(55) A Bronte, l’avv. Nicolò Lombardo, persona dotata di equilibrio e correttezza, capo della fazione più popolare (comunali) in contrapposizione con quella dei proprietari terrieri (ducali), ma privo di poteri effettivi, malgrado ripetuti e convinti tentativi, non era riuscito a fermare la violenza che si era sviluppata in una serie di sedici barbare esecuzioni, caratterizzate da eccessi che sconfinarono oltre ogni limite umano. Di queste furono vittime non tanto i possidenti ma persone ad essi legate (notaio, contabile, impiegato del catasto, ecc.). Gli avversari di Lombardo colsero l’occasione per eliminarlo, indicandolo a Bixio quale responsabile della rivolta. Gli amici gli suggerirono di fuggire per sottrarsi alla rappresaglia ma egli, consapevole di aver mantenuto corretti comportamenti, si presentò a Bixio che lo aggredì verbalmente senza fornirgli occasione di discolpa, ordinandone l’arresto e sottoponendolo a giudizio, assieme a quattro malcapitati popolani analfabeti (fra cui uno mentalmente infermo) ritenuti promotori degli eccidi. Il giudizio si celebrò il 9 agosto, con gravi carenze procedurali e con un esito scontato, malgrado il Lombardo avesse cercato di convincere i giudici della estraneità di tutti i sottoposti a giudizio. La fucilazione avvenne all’alba del 10 agosto.
La scelta di Bixio trascurava ogni regola di giustizia per soddisfare alle ciniche regole dell’opportunità imposte dalla guerra e ripristinando quelle regole di vita che Garibaldi, coi suoi proclami, aveva inteso abbattere.
I fatti di Bronte restano tutt’ora oggetto di dibattiti ed interpretazione.
(56) Cavour cercava di affrettare l’annessione, pervaso come era dal costante timore che, sotto l’influenza di Mazzini, l’impresa potesse volgere verso un profilo repubblicano.
(57) Sembra che l’episodio vada connesso all’arresto di due spie borboniche che poi risultò informassero anche Cavour.
(58) Carlo Persano (1806-83), personaggio insicuro, fu ministro della guerra nel 1862, anno in cui avrà ruolo nell’assedio di Ancona. Concluderà con la battaglia di Lissa (III Guerra d’indipendenza) a seguito della quale, accusato di imperizia, fu processato e destituito.
(59) Il forte verrà conquistato a fine agosto dalle retroguardie garibaldine.
(60) Le navi borboniche Fulminante e Aquila rimasero inoperose al punto che i loro comandanti subirono maltrattamenti dalla ciurma indignata per la mancanza di reazione.
(61) Cavour scriveva a Nigra (n. 17) ambasciatore a Parigi: “….preferisco veder sparire la mia popolarità, perdere a reputazione, ma veder fare l’Italia …
(62) La capitolazione fin troppo sollecita dei contingenti borbonici può essere spiegata con la scarsa efficienza e la cattiva direzione dai poco zelanti generali, forse scarsamente dotati e motivati ma certamente assaliti dalla sindrome di disfacimento che aleggiava sul Regno. Briganti, sospettato di tradimento venne ucciso dagli stessi soldati a Mileto, Giambarttista Vial, nominato in luglio comandante delle forze in Calabria, avviò trattative con Garibaldi dopo aver ordinato al grosso delle sue truppe (più di quindicimila uomini), guidate dal generale Ghio, di ritirarsi verso Napoli. Quindi si imbarcò a Pizzo sulla Protis per raggiungere Napoli. Così come fece il generale Afan de Rivera. A Pizzo subito dopo sbarcava, dal piroscafo Eugenia, il maggiore borbonico Ludovico de Sauget per raccogliere informazioni su quanto stava verificandosi nell’esercito borbonico. Re Francesco II aveva amaramente previsto: “dei nostri soldati non si vedranno che i culi ed i tacchi”.
(63) Garibaldi e Stocco attribuirono la facilità con cui avevano risalito la Calabria all’apporto del popolo cui Garibaldi rivolse un messaggio di gratitudine “Dite al mondo…..”
(64) Questi, tramite il Persano, era in contatto con Cavour.
(65) Lo stesso ministro della guerra, generale Pianell, diede le dimissioni (3 settembre) e partì per la Francia, per ricomparire dopo alcuni mesi con i gradi di generale nelle fila dell’esercito unificato.
(67) Il comandanti delle navi Fieramosca, Ruggiero e Guiscardo, si rifiutarono di seguirlo.

di Franco Savelli


segue la II parte

IL MERIDIONE E L'UNIFICAZIONE - L'ANNESSIONE >

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