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109 bis. 12. - Il Meridione d'Italia e l'unificazione

Parte II : L'Annessione

L’incontro di Garibaldi con Vittorio Emanuele II presso Teano

Sommario
--- Garibaldi a Napoli : la battaglia decisiva sul Volturno, il plebiscito e l’annessione al Nuovo Stato dell’ex Regno delle Due Sicilie. Garibaldi, incontro con Vittorio Emanuele II ed il triste commiato.
--- L’esercito piemontese invade Umbria e Marche con il fine di sedare disordini; l’esercito pontificio sconfitto si ritira e le regioni votano l’annessione al Nuovo Stato.
--- La caduta delle roccaforti borboniche, l’assedio alla fortezza di Gaeta ed esilio di Francesco II a Roma.
--- Il Nuovo Stato: la scomparsa di Cavour e la difficile sostituzione, Ricasoli, Rattazi, Minghetti e La Marmora.
--- Il completamento dell’unità nazionale: i vani tentativi di Garibaldini conquistare Roma ed il suo arresto in Aspromonte ed a Villa Glori. La III Guerra d’indipendenza e la conquista di Roma.
--- Il governo del Meridione e la guerra contro il brigantaggio. Rivolte in Sicilia.
--- Gli epiloghi: Mazzini, Vittorio Emanuele II, Pio IX, Garibaldi (n. 59).
--- Il sottosviluppo e la “questione meridionale”.

 

L’annessione del Meridione
- Garibaldi a Napoli


Francesco II di Borbone (*) (Con questo segno si rimanda sempre al capitolo “Il meridione d’Italia e l’Unificazione - Parte I”, stesso sito.) con la moglie e poche cose si era già imbarcato, il 6 settembre 1860, sulla nave a vapore Messaggero per rifugiarsi con pochi fedeli nella fortezza di Gaeta (2) difesa con coraggio ed efficienza da circa 13.000 soldati. La parte di esercito rimasta fedele al sovrano borbonico, tra cui quei contingenti che abbandonavano le caserme di Napoli, al comando del generale Giosué Ricucci, si andarono a posizionare su una linea fortificata tra il fiume Volturno e Gaeta per contrapporsi all’esercito garibaldino.



Il giorno successivo alla partenza del re (7 settembre), Garibaldi giunse a Napoli in ferrovia, accolto dall’entusiasmo del popolo e dai governanti che si prostravano al nuovo padrone. Miscredente e mangiapreti come era, ma fine conoscitore degli umori popolari, così come aveva omaggiato a Palermo S. Rosalia, Garibaldi manifestò il desiderio di rendere omaggio al sepolcro di S. Gennaro dove fu portato in trionfo ed il giorno successivo non mancò di inginocchiarsi davanti all’immagine della Madonna di Piedigrotta.
Garibaldi che ormai riteneva vinta la partita contro i Borboni, assunta la dittatura del Regno delle Due Sicilie per conto di Vittorio Emanuele II, fece confiscare la consistente flotta borbonica, nominò Giorgio Pallavicino (3) (*) profittatore (indicazione accettata da Cavour), assegnò a Bertani (*) il ruolo di prodittatore per le province ed a Liborio Romano (*) la guida del Governo in cui Crispi (*) assumeva il ministero degli esteri e Cosenz (*), quello della guerra. Mentre tutto il suo esercito si schierava fra S. Maria Capua Vetere e Maddaloni, Garibaldi si pose come prossimo obiettivo la conquista di Roma, in ciò rassicurato, nei suoi frequenti contatti, del sostegno inglese.

Cavour, avvertito da Persano, non fidandosi della vocazione realista di Garibaldi, malgrado i ripetuti proclami emessi a nome di Vittorio Emanuele, ritenne fosse giunto il momento di dare uno sbocco istituzionale alla fortunosa ed imprevista conquista del meridione, prima che le forze repubblicane, di vocazione mazziniana, potessero attuare una rivoluzione popolare di difficile gestione. Cercò quindi di porre al re in termini drammatici l’eventualità che Garibaldi attuasse il suo intento di puntare su Roma, senza prendere in considerare la reazione che avrebbe potuto mettere in atto Napoleone III, da sempre protettore del Papato. Il re replicò che in tale eventualità si sarebbe opposto con la forza, placando l’ira di Cavour il quale si sentì legittimato a procedere nel disegno di annettere i territori conquistati da Garibaldi. A tal fine diede disposizione di organizzare il plebiscito in Sicilia al prodittatore Agostino Depretis (4) , il quale aveva assunto con Garibaldi l’impegno a non assumere una tale decisione senza il suo consenso(*). Depretis, dopo essersi recato a Napoli nel vano tentativo di convertire Garibaldi al plebiscito, trovò opportuno rinunciare all’incarico, venendo ad interrompere il canale di comunicazione che collegava Cavour e Garibaldi e creando l’effettivo pericolo che quest’ultimo cedesse alle sollecitazioni che gli venivano dai molti repubblicani confluiti a Napoli, fra cui Mazzini e Carlo Cattaneo (*). Il primo, pur accolto fraternamente da Garibaldi, non riuscì a convincerlo ad ostacolare la soluzione annessionistica del Meridione al Regno Sardo al fine di favorire la convocazione di una Assemblea costituente, il secondo avanzò, inascoltato, la proposta di costituzione di una federazione di Stati autonomi (5).


- Intanto in Umbria e Marche

Intanto Cavour, con una missione affidata a Farini (6) ed al generale Cialdini, era riuscito ad allarmare Napoleone III e, prospettandogli le intenzioni di Garibaldi di attaccare lo Stato Pontificio, lo aveva convinto della necessità di fermarlo sul Volturno, per la qualcosa, le truppe piemontesi sarebbero dovute passare attraverso i territori pontifici (Marche ed Umbria), fermo restando l’impegno alla inviolabilità di Roma. Napoleone finse di credere o credette realmente alle motivazioni e, volendo egli stesso sottrarre l’iniziativa a Garibaldi, diede il suo assenso purché l’operazione fosse condotta con celerità “faites, mais faites vite” (7).

Cavour, negli stessi giorni in cui Garibaldi giungeva a Napoli, era impegnato a programmare il manifestarsi di disordini e tentativi insurrezionali nei territori pontifici ed a predisporre un esercito di quarantamila uomini pronto a muoversi con il pretesto di intervenire a sedare i disordini nell’Italia centrale e con l’obiettivo di controllare l’impresa garibaldina, nel timore che essa potesse assumere connotazioni repubblicane. Quindi cercò di creare il casus, ed a seguito dei disordini scoppiati, intimò al segretario dello Stato pontificio, cardinale Giacomo Antonelli, di sciogliere i reparti di volontari stranieri di stanza nello Stato, ritenuti responsabili dei disordini stessi. Il cardinale rispose negativamente e l’esercito piemontese, comandato dal generale Fanti , entrò nelle Marche conquistando, tra l’11 ed il 14 settembre, Pesaro, Urbino, Senigallia, Perugia e Foligno e, con l’armata del generale Cialdini (n. 8), sconfiggendo facilmente e disperdendo, il 18 settembre, a Castelfidardo l’esercito pontificio guidato dal generale de Lamoriciere. Questi, con il resto del suo contingente, si rifugiò nella fortezza di Ancona che, mentre la città subiva un bombardamento navale ad opera dell’ammiraglio Persano (*), espose bandiera bianca (27 settembre). Lamoriciere avviò trattative per la resa che, senza che l’inutile massacro causato dal bombardamento fosse interrotto, fu conclusa il 29 settembre.

Dopo qualche giorno (3 ottobre), compiaciuto dall’iniziativa da Cavour, giunse ad Ancona Vittorio Emanuele per assumere il comando di parte dell’esercito sabaudo e dirigersi (7 ottobre) verso Napoli (9), lentamente, per dar tempo agli eventi di compiersi.
Per il governo dell’Umbria e delle Marche vennero nominati, rispettivamente, Pepoli e Valerio che incominciarono ad assumere provvedimenti in vista dell’unificazione. Il plebiscito nell’Umbria e Marche avvenne con esito largamente positivo (n. 12), a breve scadenza (4 novembre) di quello tenuto nel Regno delle Due Sicilie.
Al Papa restava il controllo del solo Lazio.

 


- La battaglia decisiva sul Volturno

 

Al rientro da Palermo dove si recò ad insediare (18 settembre) Antonio Mordini prodittatore in sostituzione di Depretis, Garibaldi trovò che la situazione militare sul campo si era evoluta e Stefano Turr (*) aveva assunto l’iniziativa di inviare (19 settembre) una squadra di 300 uomini ad occupare Caiazzo al di là del fiume Volturno, provocando la reazione dei Borboni . Questi, vantando forze decisamente preponderanti, passarono al contrattacco riconquistando Caiazzo (21 settembre) ed aprendo una falla nelle linee garibaldine che, Garibaldi, precipitatosi sul terreno di battaglia, riuscì a colmare. Ma l’insuccesso, opportunamente dilatato dalla propaganda cavouriana, fece perdere a Garibaldi parte del favore popolare che, sensibile alla invincibilità dei suoi eroi, si andava spostando i suoi favori verso le scelte di Cavour. Garibaldi cominciò a capire che l’esercito piemontese aveva colto l’opportunità di conquistare i territori pontifici mosso dall’iniziale obiettivo di costituire un argine alle sue iniziative. Amareggiato per l’ingratitudine e disgustato per le trame politiche di Cavour, si immerse nei problemi di carattere militare predisponendo uno scontro con il nemico su terreno aperto che non era abituale alla sua genialità di guerrigliero ma che mise a punto con la collaborazione dei suoi aiutanti di campo (Sirtori, Medici, Cosenz, Turr).

Il 1° ottobre il comandante borbonico scatenò su un ampio fronte un attacco che prevedeva l’aggiramento delle forze garibaldine da parte delle armate borboniche di Ruiz e von Mekel (n. 10) che si sarebbero dovute congiungere a Maddaloni. Ma Bixio, riuscendo ad intercettare Von Mekel, impedì l’aggiramento ed affidò ad iniziative estemporanee le fasi della battaglia che, combattuta attorno alle località di S. Maria e S. Angelo, ebbe esiti incerti fino al primo pomeriggio allorché Garibaldi utilizzò le riserve stanziate a Caserta ed, all’artiglieria, marinai inglesi giunti da Napoli e volontariamente offertisi. Verso sera il comandante borbonico Ricucci ordinò il ripiegamento verso Caserta ed il giorno successivo anche il contingente di Von Mekel, in ritirata verso l’insediamento di Capua, venne attaccato dai garibaldini segnando definitivamente le sorti della battaglia e facendo affossare le residue speranze di rientrare a Napoli di Francesco II. Egli si ritirò nella fortezza di Gaeta con parte del suo esercito che conservava ancora una discreta capacità operativa mentre alcuni reparti si asserragliarono nelle roccaforti di Capua e Civitella del Tronto. Anche la cittadella di Messina, come si è visto in precedenza (*), era rimasta in mano ad una guarnigione borbonica.

Garibaldi, malgrado le gravi perdite subite, aveva conseguito forse la più significativa delle sue vittorie, ma la gioia fu appannata dall’evolversi degli avvenimenti che tendevano ad emarginarlo.

- Il Plebiscito

Cavour, con la rapidità dell’intervento dell’esercito piemontese nei territori pontifici, era riuscito a prevenire ogni azione da parte delle potenze cattoliche europee ed a conquistare il generale consenso dell’opinione pubblica italiana, dello stesso parlamento che gli aveva affidato libertà di azione ed anche del re che vedeva, nelle scelte del suo ministro la strategia vincente. Anche i collaboratori più stretti di Garibaldi (Turr, Bertani), rendendosi conto che, nel momento in cui occorreva massimizzare il risultato delle conquiste effettuate, Garibaldi era inidoneo a gestire un tale evento, cercavano di predisporlo al trapasso dei poteri. Del resto, malgrado Garibaldi fosse formalmente il dittatore del Regno conquistato, il potere gestionale effettivo era nella mani dei due prodittatori, Mordini e Pallavicino che, pur vicini a Garibaldi, ormai propendevano per l’organizzazione del plebiscito piuttosto che per altre soluzioni dilatorie (11) che avrebbero potuto mettere a rischio i risultati fin qui ottenuti.

Garibaldi oscillava fra varie ipotesi finché Pallavicino, da convinto unitario quale era, superò gli indugi fissando la data della convocazione per il plebiscito, il 21 ottobre e dandone notizia. La qualcosa, oltre a giungere inattesa a Palermo, dove tuttavia venne confermata la stessa data per il plebiscito in Sicilia, suscitò l’ira di Garibaldi nei riguardi di Pallavicino che, accusato di essere portatore delle disposizioni di Cavour, si dimise provocando una serie di reazioni mal gestite da Garibaldi che, per intervento di Turr, collegato a Cavour, confermò la data del plebiscito. Esso si tenne regolarmente sia in Sicilia che nelle regioni continentali alla data stabilita fornendo un esito favorevole all’annessione, formalmente totalitario anche se i più non capivano il significato e la destinazione del loro consenso (12) in quanto non vi era stato il tempo per informare anzi, per indurre la partecipazione, si diedero spiegazioni di comodo miranti a far tacere ogni forma di dissenso.
L’alternativa democratica era quindi accantonata.


- L’incontro con Vittorio Emanuele ed il commiato

Vittorio Emanuele, malgrado l’avversione nei riguardi di Cavour, si rendeva perfettamente conto che quella del suo ministro era la strategia vincente ed, in quel momento, nonostante il comportamento leale mantenuto dal dittatore Garibaldi, non avrebbe potuto accettare alcuna richiesta di questi senza alterare i fragili equilibri abilmente tessuti da Cavour che, al fine di condizionarne le mosse, aveva affiancato al re il ministro degli interni Farini. Era quindi nell’interesse di Vittorio Emanuele di mirare ad assorbire nel più breve tempo l’opera portata a termine da Garibaldi.
Accompagnato dal generale Fanti, re Vittorio, che all’inizio di ottobre aveva raggiunto le sue truppe ad Ancona, si era avviato verso il territorio borbonico andandosi a posizionare (13 ottobre) presso l’area di Castel Morrone (Caserta). Successivamente (20 ottobre) ebbe uno scontro, nei pressi del Macerone, con un reparto borbonico cui venne chiusa la via della ritirata verso Isernia.

Dopo il plebiscito del 21 settembre era giunto per il re il tempo di avviarsi verso Napoli e Garibaldi decise di andargli incontro a riceverlo affiancato dal suo contingente. Nel primo mattino del 26 ottobre, Garibaldi si diresse verso il luogo da dove proveniva il suono della fanfara reale e come, presso Vairano (quadrivio della Taverna della Catena) intravide il re affiancato da Fanti e Farini, gli andò incontro e, togliendosi il cappello, lo accolse con “Saluto il primo re d’Italia!” quindi affiancandolo cavalcarono fino all’ingresso di Teano. Tutto qui. Pochi convenevoli, scarso calore e frasi di circostanza.

Garibaldi accompagnò Vittorio Emanuele nel suo festoso ingresso a Napoli (7 novembre) mentre le forze regolari si sostituivano a quelle garibaldine.

Non accettò ricompense, offerti in forma di titoli nobiliari o militari, dimore e pensione, e dovette subire l’amarezza della mancata presenza del re e della proibizione dell’inno nell’atto di commiato ai suoi volontari che ricevettero la medaglia decretata in loro onore dalla città di Palermo. Dal re giunse un formale ringraziamento, redatto e sottoscritto dal generale Della Rocca. Con sua grande amarezza, infine, gli fu imposto di sciogliere il suo esercito di garibaldini (13).
Ignorato dai piemontesi e salutato dal solo Persano, nella notte del 9 novembre, dando un intenzionale appuntamento a Roma, si imbarcò con pochi amici sul Washington diretto verso l’isola di Caprera che aveva acquistato e scelto come sua dimora, nel 1854.
Si concludeva così l’impresa dei Mille .



- L’esilio del re borbone, Francesco II

Vittorio Emanuele, sentendo il bisogno di mostrare una sua partecipazione al crollo del reame di Napoli, aveva dato ordine di attaccare le truppe borboniche sparse per la Campania e principalmente quelle confluite a Capua e comandate da De Corné. Dopo che l’esercito piemontese affiancato da volontari guidati da Sirtori (*) respinse una sortita borbonica, il 1° novembre, iniziò il cannoneggiamento contro Capua, cui Garibaldi aveva rifiutato di parteciparvi e che provocò un elevato numero di vittime tra i civili e la resa del contingente.
Dopo le battaglie del Volturno, la resa di Capua e di altre località sotto controllo borbonico (Mola e Castellone), a Gaeta, con la presenza del re, si era stabilita l’ultima e più consistente resistenza borbonica. L’assedio a Gaeta, iniziato il 13 novembre durò a lungo, per via della presenza della flotta francese che impediva il cannoneggiamento dal mare e si protrasse fino alla resa del 14 febbraio del 1861 . (15)
Prima di partire Francesco II rivolse un ringraziamento alle truppe assediate e sconfitte dall’esercito piemontese. Quindi andò in esilio a Roma dove inizialmente venne ospitato da Papa Pio IX nel palazzo Quirinale quindi si stabilì nel palazzo Farnese fino al 1870 per rifugiarsi quindi in Francia (16).
Il successivo 12 e 20 marzo cadevano rispettivamente la cittadella di Messina ancora presidiata dal contingente borbonico comandato da Fergola (*) e la roccaforte di Civitella del Tronto.


Il Nuovo Stato


Il 18 febbraio 1861 si riuniva a Torino il primo Parlamento nazionale nel quale erano rappresentate tutte le regioni unificate ed, il 17 marzo, ratificò l’unificazione proclamando il Regno d’Italia (17). Vittorio Emanuele II assunse “per grazia di Dio e volontà della nazione “ il titolo di Re d’Italia, senza mutare l’ordinale, con questo sottolineando non solo il principio dinastico sabaudo ma piuttosto l’ampliamento di un regno. Venne proclamato che Roma sarebbe stata sottratta al Papa per diventare la capitale del Regno.
Dopo il plebiscito in Sicilia la carica di luogotenente generale venne affidata a Montezemolo in sostituzione di Mordini ed, a Napoli, a Farini, sostituito quindi da Costantino Nigra, nel 1861.

Nel nuovo Stato che si costituiva con l’affermazione della corrente moderata rappresentata dalla borghesia progressista del nord che aveva stabilito un compromesso con i latifondisti del sud , garantiti circa la continuità dei loro privilegi che escludevano sia le masse contadine che importanti strati della piccola borghesia da ogni influenza nella vita politica, emergevano due necessità:
- completare l’unità nazionale con l’acquisizione del Lazio e del Veneto;
- governare una nazione che si era formata dall’unione di realtà sociali, culturali, economiche ed amministrative profondamente diverse.

E mentre per la realizzazione della prima potevano verificarsi, sia a Roma che nel Veneto, le condizioni per la soluzione in tempi relativamente brevi, per la seconda occorreva un progetto articolato che si sarebbe dovuto proiettare per un tempo piuttosto lungo al fine di poter dipanare, soprattutto nel meridione, il peso di tutte le contraddizioni non affrontate e dei problemi irrisolti, accentuato dalla mancanza di competenze (19) e di tempo per crearle. Competenze che avrebbero dovuto assumere ruoli di responsabilità nella fase delicata in cui governo e parlamento dovevano mettere a punto norme per regolare la nuova struttura sociale in cui, oltre a dover unificare sette diversi sistemi legislativi, amministrativi, metrici e monetari, bisognava creare un mercato unico abolendo dazi interni, costruire infrastrutture e ferrovie inesistenti nel meridione, ponendo attenzione a ripartire gli appalti in maniera omogenea ed affrontare il problema dell’analfabetismo.

Purtroppo in questo delicato momento si dovette registrare la scomparsa di Cavour (6 giugno 1861) a causa di grave riacutizzazione di una sua sofferenza. Egli, pur cinico calcolatore, con il suo acume politico e diplomatico, capace di coniugare l’audacia con la prudenza, era stato capace di muoversi, utilizzando le esigue risorse di un piccolo Stato, conciliando diverse esigenze, eludendone altrettante e forzandone molte altre, per realizzare l’unificazione della nazione.
Cavour, fin dagli ultimi mesi del 1860, aveva iniziato a riflettere sui problemi dell’annessione del Veneto, della riconciliazione con la Chiesa (20) e quello di Roma che riteneva il più tortuoso. La città possedeva i requisiti storici, intellettuali e morali per divenire la capitale d’Italia ma la sua conquista non doveva significare schiavitù per i cattolici. Doveva attuarsi il principio di “libera Chiesa in libero Stato” che voleva significare annessione di Roma con una Chiesa cui era garantita l’indipendenza. Non ritenendo possibile, allo stato delle cose, una contrapposizione con Napoleone III, inflessibile protettore della difesa del potere temporale del Papa, per poterne vincere la diffidenza aveva pensato di offrirgli la garanzia dello Stato Italiano sui territori pontifici in cambio del ritiro del contingente francese stanziato negli stessi territori.

 

Completamento dell’unità nazionale
(questione romana e questione veneta)

Alla successione di Cavour fu chiamato il toscano barone Ricasoli (21) che, capo della maggioranza parlamentare, dovette subito occuparsi del riconoscimento, da parte delle nazioni europee, del Nuovo Regno. Va sottolineato che esso si era costituito inglobando, senza dichiarazione di guerra, un Regno autonomo e sovrano come quello borbonico, nell’indifferenza delle potenze europee. E se poi esse non posero condizioni al riconoscimento, la Francia lo concesse (giugno 1861) con la notazione che essa avrebbe ritirato la sua guarnigione dallo Stato Pontificio solo dopo la riconciliazione del Regno d’Italia con il Papa. Al riconoscimento della Francia seguì quello dell’Inghilterra e delle altra importanti nazioni.

Ricasoli si spese nel tentativo di riconciliazione mentre il re anteponeva, alla questione romana la conquista del Veneto, in ciò incoraggiato da Napoleone III (22) che aveva l’intento di distogliere da Roma l’interesse del governo italiano. Nel momento in cui il contrasto fra i due divenne evidente, Ricasoli si dimise (marzo 1862) e fu chiamato a sostituirlo il piemontese Urbano Rattazzi (23), legato al re e disponibile ad assecondarne le scelte. Egli, quale esponente della sinistra, diede spazio a gruppi di quest’area che avevano istituito una Associazione Emancipatrice ed affidato la presidenza a Garibaldi (24). Questi stava volgendo il suo interesse alla liberazione del Veneto al punto da recarsi in Lombardia (Trescore) per reclutare volontari per l’impresa (metà maggio). Il sovrano, preoccupato, inviò il generale Saifront a vigilare ed, allorché occasionalmente a seguito delle indagini per una rapina in una banca a Genova si rinvenne il piano di Garibaldi per un attacco nel Veneto contro l’Austria, fu dato mandato di intervento alle forze regolari che arrestarono molti volontari e bloccarono i passi. Agli arresti seguirono tumulti (Palazzolo, Sarnico) che la polizia dovette sedare con azioni sbrigative e sanguinose. Garibaldi reagì sostenendo le proteste contro il governo e smentendo le sue effettive intenzioni. Ebbe un alterco con Rattazzi in cui i due si scambiarono reciproche accuse ma non si seppe quanta ambiguità vi fosse stata nei loro rapporti.
Garibaldi, rientrato a Caprera spostò il suo obiettivo su Roma ed, a fine giugno 1862, si recò a Palermo dove, circondato dall’entusiasmo popolare, pronunciò discorsi infiammati al grido di “Roma o morte” incoraggiando l’accorrere di migliaia di volontari, salutati con calore dalle truppe regolari che ritenevano di essere di fronte al rifacimento dell’impresa dei Mille, intimamente sostenuta dal re. Garibaldi fece concentrare i suoi volontari nei pressi di Catania, mentre Vittorio Emanuele II, consapevole che una azione contro Roma avrebbe provocato la reazione di Napoleone III , emanò un proclama (3 agosto 1862) con l’invito a non compiere atti di ostilità ed il monito che essi sarebbero stati repressi. Garibaldi, cui era forse pervenuto il segnale di un possibile appoggio, nella convinzione della pubblica sconfessione e della segreta accondiscendenza, ignorò il monito ma, mentre i più ritenevano il contrasto con il re una finzione, ricevette emissari del re che lo scongiuravano di fermarsi. Garibaldi, giunto a Catania (20 agosto) accolto da entusiastici festeggiamenti, fece requisire (25 agosto) due piroscafi alla fonda con cui traghettare i suoi circa duemila volontari in Calabria, nello stesso luogo di sbarco della sua precedente impresa, Melito di Porto Salvo. L’ammiraglio Albini al comando di alcune navi da guerra, non avendo ricevuto chiari segnali di comportamento, si limitò ad una inefficace azione dimostrativa. Da Melito, per evitare una pattuglia di carabinieri che invece sparava per davvero, si inoltrò verso l’Aspromonte, seguito dal contingente del generale Cialdini che si trovava in Sicilia dove aveva conquistato (marzo precedente) la cittadella di Messina ancora in mano ai Borboni. I due contingenti vennero a contatto (29 agosto) sulle falde dell’Aspromonte (località Forestali) e malgrado Garibaldi avesse ordinato di non rispondere al fuoco, vi fu comunque uno scambio di colpi che provocarono una decina di morti ed una trentina di feriti, tra cui lo stesso Garibaldi, ferito alla coscia ed al piede (26).

 

Catturato e ricevute le prime cure ed, ignorato da un Cialdini borioso e sprezzante, fu trasportato a Scilla dove venne imbarcato sulla fregata Duca di Genova (30 agosto) e trasportato presso la fortezza del Varignano di La Spezia. Qui fu curato e raggiunto da numerosi amici e visitatori mentre in Europa si susseguivano dimostrazioni ed appelli in suo favore. Il re, d’accordo con Napoleone III, colse l’occasione del matrimonio della figlia Maria Pia con il re del Portogallo per promulgare una amnistia che toglieva tutti dall’imbarazzo.
La repressione attuata contro le truppe garibaldine mise in crisi la politica contraddittoria del governo Rattazzi che, per evitare di coinvolgere il re, si dimise (29 novembre 1862), aprendo una difficile successione.

Dopo alcune rinunce e la breve esperienza di Farini (n. 6), costretto ad abbandonare per una grave malattia, il governo fu affidato (marzo 1863) a Marco Minghetti (27) che, sintonizzato sulla stessa linea politica cavouriana, affidò il ministero degli esteri al giovane nobile Lombardo, Visconti Venosta (n. 27) che ripropose la questione romana nei termini enunciati da Cavour, cioè riportandola nell’ambito di una soluzione concordata con la Francia. E per superare le diffidenze di quest’ultima si pensò di allontanare la prospettiva di Roma capitale, trasferendo la capitale a Firenze (28). Su tale base si riuscì a convenire con la Francia (15 settembre 1864) il ritiro, entro due anni, del contingente francese di stanza nello Stato pontificio. La notizia del trasferimento suscitò a Torino il timore di un ridimensionamento del Piemonte che si espresse con manifestazioni di protesta contro cui la polizia agì con decisione (21-22 settembre 1864) fornendo al re, peraltro contrario al trasferimento della capitale da Torino, di pretendere le dimissioni di Minghetti ed affidare il nuovo governo al generale La Marmora (*). Che, comunque, attuò il trasferimento della capitale a Firenze (1865) e trovò, nell’ambito della crisi internazionale che si delineava, lo spazio entro cui inserire la questione del Veneto.


- L’acquisizione del Veneto (1866)

Con l’assunzione al cancellierato da parte di Otto von Bismarck (1862), in Prussia si era avviato il rafforzamento dell’esercito ed iniziato attraverso l’annessione dei ducati Schleswig-Holtein (1863) (29), imporre gradualmente in Germania l’egemonia prussiana fino a porsi in conflitto con l’Austria. Conflitto egemonico cui Napoleone guardava con interesse nell’intento di trarre vantaggi territoriali sul Reno. Come l’Italia che puntava ad inserirsi in contrapposizione all’Austria, tra i cui domini vi era il Veneto.

Nel momento in cui la Prussia decise di risolvere la questione della supremazia con l’Austria, il cancelliere Bismarck avviò approcci con l’Italia (1865), mirando a coinvolgerla nel conflitto per costringere l’Austria a mantenere aperto anche un fronte di guerra a sud. Approcci che furono avviati sia a livello ufficiale con il governo che riservati con il re, ma anche con i mazziniani e con agitatori perché fomentassero disordini nel Veneto. Per evitare l’eventualità di una alleanza dell’Italia con la Prussia, l’Austria era altrettanto interessata a raggiungere un compromesso che avrebbe mantenuto fuori dal conflitto l’Italia. Questa fu coinvolta in un complesso negoziato, in parte concordato con la Francia ed in parte condotto autonomamente. Ed allorché, a seguito della convenzione di Gastein (n. 29), sembrava sopragiungere un’intesa tra Prussia ed Austria, l’Italia cercò di ottenere dall’Austria la cessione del Veneto, per via diplomatica ed in cambio di una consistente indennità. La risposta negativa ricevuta a questa offerta, avvicinò l’Italia alla Prussia e, nell’aprile 1866, fu concordata a Berlino dal generale Giuseppe Govone (n. 56) una alleanza che impegnava l’Italia, nei prossimi tre mesi, a dichiarare guerra all’Austra, nel caso la Prussia l’avesse fatto. L’accordo prevedeva di non concludere armistizio o pace separata fino a che l’Austria non avesse accettato di cedere all’Italia il Veneto e la provincia di Mantova ed alla Prussia territori di popolazione equivalente . (30)

A fronte di questo vi fu un tentativo (maggio 1866) dell’Austria che, per garantirsi la neutralità di Italia e Francia, si impegnava a cedere il Veneto a quest’ultima perché lo trasmettesse all’Italia. La qualcosa, per la grave perdita di prestigio che il baratto comportava, non fu ritenuta accettabile (31).
Valutazione in parte spiegabile con l’errata convinzione di Lamarmora di ottenere da una guerra non solo il Veneto ma anche il Trentino e con il miraggio di condurre una guerra vittoriosa cui il Regno d’Italia aspirava per guadagnarsi il prestigio internazionale che la maniera fortunosa con cui si era arrivati all’unità non gli aveva garantito.
Mentre l’Austria concordava la neutralità con la Francia (n. 31) La Prussia, contestando pretestuosamente alcune decisioni del governatore austriaco nello Holstein (n. 29), rompeva le relazioni con l’Austria e dava avvio alle operazioni di guerra sul fronte tedesco (16 giugno) . L’Italia seguiva e, con la dichiarazione di guerra all’Austria (20 giugno), dava avvio alla III Guerra d’Indipendenza.

A metà maggio il re invitava Garibaldi ad assumere il comando di un corpo di volontari che si stava costituendo in Lombardia. Garibaldi giunse a metà giugno e, costatando il disordine e lo scarso equipaggiamento, cercò di provvedere e sopperire infondendo entusiasmo. Il generale La Marmora cedette a Bettino Ricasoli la presidenza del consiglio, per assumere la carica di capo di stato maggiore, affiancando Vittorio Emanuele II (per statuto comandante in capo ma privo di esperienze militari) e Cialdini al comando di un esercito ingente (più di 200.000 uomini). Più numeroso di quello austriaco ma non addestrato, non amalgamato (napoletani e piemontesi si erano combattuti fino a tempi recenti), non coordinato nei comandi (gelosie dividevano i vari generali) e con piani logistici inadeguati. Le armate di La Marmora si disposero sul Mincio mentre quelle di Cialdini sul basso Po a fronteggiare quelle austriache, parte delle quali erano asserragliate nel quadrilatero (*). Il 24 giugno, il fronte delle divisioni di La Marmora che, nei pressi di Custoza, avanzavano oltre il Mincio, venne spezzato dalle guarnigioni austriache che, comandate dall’arciduca Alberto, avanzavano compatte. Il fronte italiano disarticolato subì una sconfitta pesante ma non definitiva, considerando che l’armata di Cialdini non era ancora stata impiegata. La dispersione del fronte che ne seguì indusse La Marmora, malgrado le esigue perdite subite (750 uomini) ad ordinare la ritirata mentre Cialdini (33), anziché correre in supporto, ordinò, a sua volta, la ritirata verso Modena. Gli austriaci, non avevano le forze sufficienti per insistere nell’offensiva e non pressarono, travagliati dalle notizie dei disastri subiti in Germania (n. 32). Ai primi di luglio, le armate di Cialdini ripresero ad avanzare verso il Veneto, giungendo a Padova (14 luglio).

Frattanto le dodici corazzate della flotta italiana, ancorate ad Ancona e comandate da Persano, dopo la sconfitta di Custoza, ricevettero l’ordine di entrare in azione (15 luglio). Persano che non aveva reagito all’attacco subito dalla flotta ancora in porto da parte della marina austriaca, mise a punto frettolosamente un piano per attaccare l’isola di Lissa, base avanzata austriaca nell’Adriatico. Nello scontro del 20 luglio, la meno consistente flotta austriaca (sette corazzate) abilmente guidata dal vice ammiraglio Tegetthoff, affondò due navi della flotta italiana (Re d’Italia e Palestro) mal disposte per lo scontro. Dopo aver subito il danneggiamento di una delle sue, la flotta austriaca si ritirò verso la base di Pola non inseguita da quella italiana, malgrado gli ufficiali facessero pressanti sollecitazioni su Persano (34).
(
vedi: La Battaglia di Lissa "
"NAVI DI LEGNO CON EQUIPAGGI DI FERRO CONTRO NAVI DI FERRO CON EQUIPAGGI DI LEGNO" > )

 

Solo Garibaldi, tenuto volontariamente lontano dal teatro delle operazioni, con i suoi volontari salvava il prestigio italiano conseguendo, nella battaglia di Bezzecca (21 luglio), una vittoria faticosa ma costosa per le perdite subite che costrinse l’Austria, già prostrata per i rovesci subiti sul fronte prussiano a chiedere l’armistizio. Questo sottoscritto a Cormons (12 agosto) fu il preliminare per la pace conclusa con il trattato di Vienna (3 ottobre) in cui l’Austria cedette il Veneto e la provincia di Mantova alla Francia che, a sua volta, le cedette all’Italia. Non venne accolta la richiesta italiana di mantenere i territori del trentino conquistati da Garibaldi.
La cessione dei territori attraverso la Francia è il segno dello scarso credito in cui l’Austria teneva l’Italia, battuta sul campo, e dell’intenzione di compensare Napoleone per la sua neutralità, offrendogli la possibilità di mantenere una posizione condizionante sull’Italia.

La lapide "ricordo" nel Palazzo del Doge a Venezia
(quel "sotto" � tutto un programma! I Veneti non l'hanno ancora "digerito" )
(vedi: LA GRANDE TRUFFA" (documenti) > )

Il plebiscito per l’annessione diede l’esito largamente scontato. L’Italia, uscita moralmente ridimensionata dal conflitto, assistette al penoso scambio di accuse fra generali che rigettavano la responsabilità di quella disfatta (Custoza e Lissa).
L’Italia aveva fatto un altro passo in avanti nel completamento delle sue frontiere naturali ma l’andamento della guerra non aveva suscitato l’entusiasmo che avrebbe potuto contribuire a creare una salda coscienza nazionale.

- La conquista di Roma (1867-70)


L’ultimo obiettivo per completare l’unità non poteva essere raggiunto attraverso un accordo con Papa Pio IX che già riteneva un sopruso la sottrazione di territori pontifici (Marche ed Umbria) a beneficio del Regno d’Italia. A cui il Papa rispose con una enciclica Quanta cura (dicembre 1864), contemporaneamente alla quale pubblicò il Sillabo che, nell’elencare i principali errori del suo tempo (36), condannava la libertà di discussione (corromperebbe l’anima), la libertà di coscienza e di stampa, il socialismo, il razionalismo e l’affermazione secondo cui il pontefice deve conciliarsi con il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna. Questo decalogo provocò indignazione e la gerarchia ecclesiastica lo accolse nella stragrande maggioranza sebbene la parte meno illiberale del clero si affrettasse a metterne in dubbio l’importanza e l’autorità. Ed il governo italiano accrebbe il contrasto promulgando una serie di leggi che metteva fine ai vistosi privilegi ecclesiastici, sopprimendo congregazioni ed incamerandone i beni immobiliari con la motivazione dell’assunzione di responsabilità da parte dello Stato dell’istruzione e della pubblica beneficenza.

Dovendo ugualmente escludere, per l’acquisizione di Roma, una posizione accondiscendente di Napoleone III dopo quanto concordato con la convenzione di settembre (1864) (37), bisognava puntare sulla possibilità di una insurrezione popolare all’interno dello Stato pontificio che avrebbe costretto il governo italiano ad intervenire.

Le elezioni politiche del marzo 1867 avevano riportato al governo l’esponente della sinistra Urbano Rattazzi e Garibaldi, mosso dal disappunto per la maniera con cui era stato acquisito il Veneto, accese su tutte le piazze la polemica con lo Stato pontificio al punto da indurre Napoleone a richiamare il rispetto della convenzione (n. 37) mediante l’ambasciatore a Firenze. Le intenzioni di Garibaldi, umiliato per la maniera con cui era stato acquisito il Veneto e malgrado l’insolito invito alla prudenza formulato da Mazzini, di indurre una sommossa nello Stato pontificio erano palesi ed i volontari incominciarono a giungere spontaneamente a Monterotondo, nell’iniziale indifferenza delle autorità. Successivamente Garibaldi, mentre si trovava ospite di amici a Sinalunga (Toscana) venne arrestato (24 settembre) dai carabinieri e, malgrado la sua vivace reazione sostenuta anche dall’esterno, ricondotto a Caprera (38). Questo non impedì la penetrazione di volontari garibaldini nello Stato pontificio senza che ciò sollevasse alcun segno di sommossa e di intervento che impedisse il verificarsi di un disastro analogo a quello dell’Aspromonte. Garibaldi riuscì a fuggire da Caprera e col suo ritorno in continente, a Livorno (19 ottobre 1867), e con l’entusiasmo che provocava, mise in crisi l’impotente Rattazzi che fu costretto a dimettersi per essere sostituito da Menabrea (39).
Garibaldi, avvertito da Crispi di un nuovo mandato di cattura, penetrò nel territorio pontificio dove si trovavano già i suoi volontari (40).
Il piano di rivolta registrò solo due episodi, il 22 ottobre l’assalto ad una caserma ed il 23 ottobre un fallito tentativo insurrezionale a Roma con una serie di scontri fra cui quello nel parco di Villa Glori, nei pressi di Ponte Milvio dove trovarono la morte i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli (41).

L’episodio indusse Napoleone III ad inviare in tutta fretta un contingente francese che, guidato dal generale De Faille, giunse a Civitavecchia il 30 ottobre e poco più tardi, il 3 novembre 1867, le forze garibaldine, tra l’indifferenza o addirittura ostilità della cittadinanza romana (in maggioranza ecclesiastici, albergatori e mendicanti), vennero sconfitte a Mentana dalle truppe francesi armate con i nuovi fucili a retrocarica Chassepots.

Garibaldi, ripassato il confine fu di nuovo arrestato e ricondotto a Caprera, dopo aver sostato di nuovo per qualche giorno nel forte Varignano di La Spezia.
La sconfitta di Mentana, seguente a quelle di Custoza e Lissa aveva compromesso le sorti della monarchia e la soluzione della questione romana, ostacolata dall’intransigenza francese, sembrava allontanarsi.
Ma la soluzione si verificò non molto tempo dopo.

Nel dicembre del 1869, Lanza (n. 39) aveva sostituito Menabrea alla presidenza del consiglio.
Nel 1870 la crisi dei rapporti della Francia con la Prussia (42) e la guerra scoppiata nel luglio successivo costrinse Napoleone a ritirare il presidio francese da Roma (agosto 1870). Poche settimane più tardi, a seguito della caduta del II Impero francese di Napoleone, il governo italiano tentò un accordo con Pio IX ed al rifiuto ricevuto, superò le ultime reticenze, ricorrendo all’azione. Il 12 settembre, le truppe italiane al comando del generale Cadorna entrarono nel territorio pontificio senza incontrare resistenza e la mattina del 20 settembre attraverso una breccia che l’artiglieria aveva aperto nelle mura romane, presso Porta Pia, i bersaglieri occuparono Roma, senza penetrare nel Vaticano.


Roma divenne capitale d’Italia (27 marzo 1871) . (43)

Con quest’ultimo risultato, ottenuto anch’esso come i precedenti in maniera casuale, si completava l’unità territoriale dell’Italia che, inoltre, si sottraeva al condizionamento francese.
L’annessione dell’ultimo lembo di territorio italiano, il Trentino e la Venezia Giulia, si realizzerà con la I Guerra mondiale (1918).
Si concludeva anche la vicenda storica del potere temporale dei papi che durava da quando si erano verificate le donazioni dei Longobardi (44).

 

Il Papa si chiuse in Vaticano e lanciò la scomunica contro i responsabili della caduta del suo potere (45) dando avvio ad un contrasto che sarà risanato con i Patti Lateranensi del 1928.

 

Il governo del Meridione

Cavour, male o opportunisticamente interpretando il voto plebiscitario e dimenticando la promessa di autogoverno fatta alla Sicilia nella fase progettuale, nel timore che l’autonomia venisse scambiata con disintegrazione della nazione e che i governi locali potessero cadere in mano a potentati locali, cambiò parere ed optò per uno Stato centralizzato più facile da dirigere cui estese le leggi piemontesi. Che, nel Sud, vennero imposte anche con l’uso della forza risollevando, in Sicilia, il sentimento autonomista e facendo subentrare la delusione all’iniziale entusiasmo con cui era stato accolto l’abbattimento del regime borbonico (46).
Egli, pur non essendo mai stato a Napoli e tanto meno nel meridione più profondo di Calabria, Puglia e Sicilia che riteneva la parte debole e corrotta d’Italia, aveva ben chiaro il problema della fusione effettiva fra Nord e Sud ma, ignorando le condizioni socioeconomiche di quelle regioni, dove l’analfabetismo interessava il 90% della popolazione e c’erano da combattere il rinascente fenomeno sociale del brigantaggio, non aveva avuto il tempo di elaborare in merito una politica globale ed efficace. Questa impostazione di governo centralizzato rafforzò l’idea che una regione, il Piemonte, avesse in pratica conquistato le altre. E che di ciò si fosse trattato veniva confermato dalla evidenza che il parlamento eletto nel 1861 assunse, nella terminologia ufficiale, l’ordinale di ottavo anziché di primo del nuovo Regno come non vi fosse stata alcuna discontinuità col Regno di Sardegna e così Vittorio Emanuele mantenne l’ordinale di secondo e la costituzione del Nuovo Stato fu esattamente la stessa piemontese del 1848 (Statuto Albertino).

I successori di Cavour, presi come erano dalle questioni del contingente, da gestioni di governo piuttosto brevi, da un parlamento in cui regnavano indisciplina ed interesse di parte, non ebbero la capacità o la possibilità di programmare obiettivi a lunga scadenza mentre le necessità e le richieste delle regioni annesse e, particolarmente del meridione, erano impellenti. Bisognava comunque dare risposte alle richieste che provenivano da più parti, da quella di pane e lavoro a quella di infrastrutture (ferrovie e strade) e di scuole (malgrado mancassero i maestri), dalla necessità di presenze di gendarmi nelle province a quella di compensi per i martiri e danni subiti. A questo si aggiungeva il bisogno di agire con moderazione, non abbandonando le competenze che si erano formate con le precedenti amministrazioni, di mantenere le tradizioni ed istituzioni locali e quanto di buono restava nell’amministrazione locale. Ma bisognava agire con altrettanta accortezza ed evitare di far sedere giudici dei passati regimi accanto a persone che avevano perseguitato o condannato.

I funzionari locali si trovarono in difficoltà per la dipendenza dall’amministrazione di Torino che, benché sufficientemente onesta ed efficiente, appariva lontana, imbarazzata e priva d’immaginazione nel suggerire la maniera di affrontare la varietà di problemi che le si proponevano. E la presenza di funzionari piemontesi che estromisero i locali sollevò la protesta dei notabili che mal sopportavano di essere governati da burocrati non appartenenti alla loro classe privilegiata e pertanto insensibili alla loro rabbia che nasceva dal vedere i loro fondi occupati con la forza dai loro stessi salariati. A questa protesta si rispose vendendo loro a costi irrisosi le terre ecclesiastiche confiscate ed a quella dei popolani in cerca di occupazione con il loro impiego nella costruzione delle ferrovie.

L’organizzazione politica e militare creata da Garibaldi nel mezzogiorno fu smantellata e la luogotenenza a Napoli e Palermo, deludendo le aspettative di Garibaldi che sperava di restare in qualità di viceré, fu assunta da rappresentanti del governo piemontese (47) che, al fine di lanciare messaggi rassicuranti ai potenziali investitori nelle strutture del sud, ricevettero l’ordine di impiegare, ai primi segni di protesta, l’esercito con metodi bruschi e di allontanare borbonici e garibaldini. Questi ultimi, sebbene avessero conquistato metà del territorio del Regno, nella gran maggioranza, vennero perfino discriminati a favore dei componenti dello sconfitto esercito borbonico, preferendo gli ufficiali piemontesi fondersi con ufficiali che appartenevano al loro stesso rango che con personaggi pur validi ma di diversa estrazione ideale.

Nelle regioni meridionali si percepiva tuttavia una ostilità diffusa che rese necessaria la presenza di un esercito di 90.000 uomini in regioni in cui la profondità dei problemi e le differenze non potevano essere eliminate in breve tempo attraverso il rigido controllo del territorio (48). E dopo le attese suscitate dal movimento che aveva abbattuto il vecchio regime borbonico e le cui finalità non erano penetrate nelle coscienze della moltitudine, l’occupazione militare diffuse tale disappunto da collocare all’opposizione anche coloro (tra questi Garibaldi e Mazzini) che erano stati ispiratori ed artefici del movimento unitario ed ora temevano che tanti eroici sacrifici potessero vanificarsi.

Il processo di centralizzazione con la celere introduzione delle leggi del nord accanto alla sensazione di annessione, provocò il risveglio di sentimenti locali che fecero fallire il tentativo di sopprimere il Banco di Napoli mentre le filiali del Banco di Torino cominciarono ad operare in perdita e gli operatori locali si mostrarono riluttanti a servirsi di banconote del Nord. Il Sud che si era ribellato al malgoverno dei Borboni si accorse incapace di accettare una qualsiasi forma di governo che non avesse lasciato la gestione ai potentati locali e diminuito le tasse. Questa insoddisfazione aggravata dall’indignazione per la repressione poliziesca avviata con l’arrivo di Cialdini (ottobre 1860) che faceva fucilare sul posto ogni contadino trovato in possesso di armi, si intensificò nell’anno successivo, in un clima di insubordinazione e di anarchia, favorendo l’inasprimento del brigantaggio o banditismo (49), non nuovo in quelle regioni ed a cui, in diversi periodi, i re Borboni avevano ricorso come strumento di lotta contro i nemici del momento. Anche Francesco II, dal suo esilio romano e col favore del Papa, ricorse al reclutamento di briganti come strumento di lotta e destabilizzazione contro il governo dei piemontesi, questi stessi ritenuti briganti dal Papa a causa della sottrazione dei domini centrali (Umbria e Marche).


- Il brigantaggio nel meridione continentale (1861-65)


Esso deve essere ritenuto prevalentemente un fenomeno di protesta sociale prodotto dall’endemico malessere e sottosviluppo della classe contadina che sconfinò il livello della semplice delinquenza ed, a modello di coloro che dopo regolamenti di conti si erano dati alla macchia per sfuggire alla giustizia, trovava nella rapina la maniera di sopravvivenza.
Il brigantaggio, un fenomeno non nuovo né locale ma che nel meridione assunse sempre caratteristiche peculiari, si rinvigorì con la caduta della fortezza di Gaeta (febbraio 1861) allorché gruppi di soldati ed ufficiali del disciolto esercito borbonico cominciarono ad organizzarsi per continuare la guerra all’invasore piemontese, fu favorito dalla endemica predisposizione alla rivolta degli strati più emarginati della popolazione che reagirono alla introduzione di leggi, regolamenti e codici avvertiti come estranei, a nuove imposte particolarmente impopolari come quelle sul pane e sul sale ed dalla leva militare obbligatoria (50) sconosciuta sotto i Borbone. Si diffuse in tutte le regioni continentali a partire dall’Abruzzo si era esteso in Calabria, Irpinia, Molise e Puglia, concentrandosi particolarmente, nel Beventano ed in Basilicata. Esso assunse, in questo passaggio storico, il livello di guerriglia organizzata, accogliendo fra le sue fila oltre ai giovani che fuggivano dalla coscrizione, contadini assetati di vendetta, evasi, avventurieri attratti dal miraggio del bottino, preti rinnegati, popolani frustati dalla difficoltà della sopravvivenza. Le bande, che nel 1861 arrivarono ad essere circa 350 alcune delle quali particolarmente numerose (sfioravano le 400 unità), controllavano minuziosamente il territorio, colpivano i notabili e i sospettati di essere liberali (ritenuti filoitaliani), imponevano taglie e riscatti, assaltavano centri abitati sopraffacendo le guarnigioni minori, massacravano i soldati fatti prigionieri, incendiavano gli archivi degli uffici delle imposte.

Molti cittadini, assimilando i briganti alla stregua di combattenti contro i proprietari terrieri e contro un governo remoto e straniero che aveva arbitrariamente introdotte le proprie regole, li elessero a simbolo delle loro stesse aspirazioni frustrate e, dimenticando le pratiche di saccheggio e di rapina, li sostennero in quanto capaci di procurarsi quella giustizia che la legge non riusciva a fornire e diedero loro diverse forme di protezione (informazioni ed ospitalità).
Il governo, che aveva sottovalutato il disordine economico e sociale prodotto dall’unificazione, prima di organizzare la controffensiva nelle province, dovette assicurarsi il controllo delle città dove operavano numerose organizzazioni di ribelli ed a tal fine vennero tentati contatti, con la vecchia aristocrazia, con i radicali e persino con la malavita organizzata cui vennero affidate funzioni di polizia. Quindi, essendo risultato infruttuoso un contenimento non violento del brigantaggio affidato a Gustavo Ponza, il governo, per rispondere alla efferata violenza del brigantaggio, inviò (giugno 1861) il generale Cialdini con un esercito iniziale di 22.000 soldati per operare una sanguinosa repressione militare che si macchiò in tutto il meridione di atrocità, massacri ed atti ignobili tali da essere paragonati a quelli di vecchi campioni della violenza utilizzati da Ferdinando IV di Borbone (n. 49). Persone vennero fucilate per semplici sospetti, intere famiglie punite a causa di un loro membro, villaggi saccheggiati ed incendiati per aver dato rifugio a briganti e venne perseguitato lo stesso clero, il principale amico dei poveri.

Nel gennaio 1863, la commissione parlamentare guidata dal deputato Giuseppe Massari (1821-84) per indagare sul brigantaggio rilevò che questo era più debole là dove esistevano soddisfacenti rapporti fra lavoratori e datori di lavoro e dove vigeva il sistema della mezzadria che vincolava alla terra gli interessi dei contadini (52). La relazione, esplicita nel denunciare l’aiuto prestato dal governo pontificio che trasmetteva ordini attraverso l’episcopato, rivelava come fosse indispensabile dimostrare alle popolazioni locali i vantaggi che, con la libertà, ne sarebbero derivate per il loro benessere. In essa si suggeriva una serie di interventi necessari quali: frazionare e distribuire le proprietà ecclesiastiche tenute in manomorta, tutelare la sicurezza pubblica allontanando il timore della gente di subire rappresaglie essendo remota l’eventualità di una restaurazione borbonica e così indurla alla collaborazione, migliorare la sicurezza delle carceri per evitare che facili evasioni alimentassero il brigantaggio. Tali misure dovevano servire a disincentivare il brigantaggio ma intanto era necessario abbatterlo e la severità appariva la strategia più facilmente applicabile.

(vedi: I LAGHER SABAUDI IN PIEMONTE" >

In forza della legge che porta il nome del deputato abruzzese Giuseppe Pica (53) fu posto in stato d’assedio quasi tutto il meridione d’Italia (ad eccezione di Napoli, Teramo e Reggio Calabria) con un esercito che arrivò a raggiungere le 120.000 unità e che, affidato ai generali Ferdinando Pinelli (in Abruzzo) e Pallavicino di Priola (Campania e Basilcata) succeduti a Cialdini venne dislocato nelle regioni meridionali col mandato di applicare norme restrittive e la legge marziale anche nei riguardi di semplici sospetti. Le rappresaglie da ambo le parti furono atroci con il coinvolgimento, loro malgrado, delle masse che, vedendo distrutti i loro villaggi, furono costretti a trovare rifugio altrove, portandosi dietro odio e sete di vendetta.

Il brigantaggio, con l’uccisione di quasi diecimila briganti (54) le cui teste sovente venivano esposte sui crocicchi delle strade e un centinaio di miglia di imprigionati o fuoriusciti, fu sconfitto nel 1865 ma, nelle campagne, rimase in forma endemica fino al 1870. Alcuni capi (n. 54) ripararono nello Stato pontificio ed i loro affiliati continuarono l’attività di rapina sulle maggiori vie di comunicazione, anche se molti contadini, affrancati dal timore di rappresaglie, cominciarono a denunciare i reati subiti.
Il costo di questa lunga e crudele guerra civile contro il brigantaggio fu enorme. Il numero di soldati morti di malaria fu superiore a quelli periti in combattimento, il cui numero complessivo fu rilevante ma imprecisato.


- Rivolta in Sicilia (1866)

Cavour, come si è detto in precedenza, per non dar spazio al dibattito ed ignorando le promesse di una certa autonomia, decise per una annessione in tempi rapidi, imponendo alla Sicilia le istituzioni piemontesi, confidando nel consiglio di notabili locali e di esuli siciliani che avevano ormai perso il contatto con la loro terra e che talvolta nascondevano motivi personali non sempre apprezzabili. L’amministrazione dell’isola fu affidata a persone che non godevano il favore di Garibaldi iniziando a far nascere nei siciliani quei sentimenti antigovernativi che prima avevano aiutato Garibaldi contro i borboni e che poi si diressero contro il governo piemontese. Sentimenti che si acuirono man mano che venivano varate quelle norme, come coscrizione e nuove imposte.

Già nel 1861 funzionari piemontesi delusi nel trovarsi immersi in una società così diversa dalla loro ed a contatto con una lingua quasi incomprensibile, riferivano che le stesse bande che avevano prestato aiuto a Garibaldi erano ricomparse ed avevano ripreso ad operare contro il governo del Nord. Esse, assieme a miglia di disertori alla macchia ed a vasti strati di popolazione che viveva uno stato di semibarbarie, erano difficilmente controllabili e protette dal clero che, a causa delle enormi ricchezze e superfici agricole confiscati alla Chiesa , si era schierato contro il nuovo Regno coprendo l’inosservanza verso la legge e l’ordine.
Nel 1863 fu inviato in Sicilia con pieni poteri il generale Giuseppe Govone (56) che condusse operazioni pianificate su vasta scala che, non tralasciando la tortura e la crudeltà, perseguivano l’obiettivo di catturare migliaia di renitenti alla leva, senza tener conto del conseguente inasprimento del sentimento di ribellione. E quando, ultimata nel nord la guerra del 1866, furono trasferite nuove truppe in Sicilia, si verificò una rivolta (16-22 settembre 1866) iniziata a Monreale e proseguita con una marcia verso Palermo da parte delle bande armate (57) che, sostenute da tutti coloro che erano ai margini della società o estromessi dalla nuova amministrazione, diedero l’assalto agli uffici amministrativi lasciando soltanto il porto ed il municipio al controllo del sindaco marchese di Rudinì (58).
Gli insorti, favoriti dalla classe benestante fino a quando questa stessa non venne da essi obbligata al versamento di ingenti somme di denaro, costituirono un governo provvisorio cui furono costretti a partecipare alcuni nobili e prelati.
Il governo centrale inviò la flotta a bombardare Palermo causando diverse centinaia di vittime. Quindi, dopo negoziati mediati dal console francese, la rivolta si placò e la repressione mandò in prigione migliaia di individui e numerosi ecclesiastici.
Garibaldi si dimise dal parlamento per protestare contro il brutale trattamento riservato alla Sicilia.

Mentre i personaggi che avevano avuto ruolo nella costruzione dell’unità dell’Italia scomparivano (59), il Meridione d’Italia, non solo a seguito della lotta al banditismo ma anche di scelte economiche che avevano aumentato le imposte, sostituito la moneta aurea ed argentea borbonica con carta moneta piemontese (60), abolito le tariffe protezionistiche ed affidato gli appalti per la costruzione di infrastrutture alle imprese del nord, vedeva devastata la sua economia.
Con l’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche chiuse, il commercio inaridito in moltissime province, la disoccupazione divenuta un fenomeno di massa, si allargò nella popolazione la fascia della miseria e della fame che fece dilagare il malessere già esistente all’atto dell’unificazione e lasciò alla deriva economica e sociale tutto il meridione. I politici preferirono ritenere che le regioni meridionali fossero condannati alla miseria dal malgoverno borbonico dimenticando il fatto che la Sardegna si trovava in condizioni peggiori della Sicilia nonostante i 150 anni di governo sabaudo piemontese.
Ci vollero decenni prima che il Mezzogiorno d’Italia fosse oggetto di indagine che identificò, nel sottosviluppo del Sud, il problema cruciale della vita italiana,
la questione meridionale.

e sarà proprio questo il contenuto della prossima puntata
GLI ASPETTI ECONOMICI E SOCIALI
DEL SUD UNIFICATO

 

Note:
(2) Francesco, accompagnato da pochi aiutanti, portò con se l’archivio personale e lasciò nella Reggia e nel Banco di Napoli la sua personale e favolosa fortuna, i gioielli e gli abiti della moglie ed i depositi privati di questa. Prima di partire, il 5 settembre, emanò un proclama in cui affermava di allontanarsi da Napoli per evitare danni alla città ed evidenziava di non aver reagito alle innumerevoli cospirazioni ordite contro di lui, non per debolezza, ma per non macchiarsi di crudeltà. Nello stesso proclama, rivolgendosi ai sudditi li ammoniva profeticamente “…sognate l’Italia ma, arriverà il giorno che non avrete più nulla, nemmeno gli occhi per piangere”. A Gaeta fu istituito un nuovo governo affidato al generale Casella ed il re ricevette il saluto dei diplomatici di molte nazioni, tranne Inghilterra e Francia.
(3) Giorgio Pallavicino Trivulzio (1796-1878), componente della società segreta del Federati, fu arrestato dalla polizia austriaca e, con sue ammissioni, causò l’arresto di Federico Gonfalonieri con cui scontò la pena presso il carcere austriaco dello Spielberg. Condannato e rilasciato nel 1835 fu animatore delle cinque giornate di Milano (1848). Rifugiatosi in Piemonte, fu tra i fondatori della Società Nazionale (*). Dopo l’impresa dei Mille, divenne senatore.
(4) Agostino Depretis (1813-87) deputato al Parlamento subalpino del 1848, mazziniano ed oppositore del governo fino al 1859. Prodittatore in Sicilia (luglio-settembre 1860), ministro nei governi Rattazzi e II-Ricasoli, nel 1876 diresse il primo governo di sinistra con l’appoggio della destra in una maggioranza che, prescindendo da posizioni ideologiche, si costituiva, di volta in volta, su specifici problemi. Maniera che, definita trasformismo, consentì il superamento di alcune rigidità parlamentari e l’attuazione di una politica moderatamente progressista che fu adottata anche nei governi di Giolitti. Depretis diresse diversi governi negli anni: 1876-78, 1878-79 e 1881-87.
(5) Ambedue le ipotesi avrebbero allontanato l’annessione e favorito percorsi e soluzioni di ardua gestione da parte di Cavour. Mazzini, uscendone dal colloquio con Garibaldi amareggiato nel constatare la debolezza politica di “.. quell’uomo..”, si convinse dell’inutilità dei suoi progetti (esule in patria). Criticò allora la scelta monarchica del Risorgimento italiano e fondò “Il popolo d’Italia” per promuovere l’idea di una Repubblica del Sud che si esaurì con il plebiscito del 21 ottobre.
(6) Luigi Carlo Farini (*) (1812-66), stretto collaboratore di Cavour, dittatore in Emilia (1859) di cui ne gestì l’annessione. Luogotenente generale (1860-61) nel Meridione dopo l’annessione. Presidente del consiglio (dicembre 1862-marzo 1863), si dimise per una grave malattia. Era un dichiarato avversario di Garibaldi al punto di vantarsi di non avergli mai stretto la mano.
(7) Napoleone non intravedeva altra possibilità di intervento se non concordato con l’Austria e, piuttosto che ridestare le forze repubblicane, accolse l’idea di un allargamento della Stato Sardo prevedendo che esso, dominato dai conseguenti problemi sociali, sarebbe stato debole ed ancor più bisognoso della protezione francese.
(8) Manfredo Fanti (1808-65), combattè nella I e II Guerra d’indipendenza e partecipò alla spedizione in Crimea. Ministro della guerra nel 1860-61, guidò l’occupazione di Umbria e Marche e l’assedio a Gaeta. Fondò l’accademia militare di Modena.
(9) Enrico Cialdini (1811-92), prese parte ai moti del 1831 a Parma, quindi andò esule in Francia. Rientrato nel 1848, prese parte alla spedizione in Crimea. Dopo la partecipazione ai fatti del 1860, divenne luogotenente del re a Napoli (1861-62) e diresse le operazioni che fermarono Garibaldi in Aspromonte (1862). Partecipò con scarso successo alla III Guerra d’Indipendenza.
(9) “…per far mettere giudizio a Garibaldi e gettare al mare quel nido di repubblicani rossi e di socialisti demagoghi che si era formato attorno a lui…” (pensiero di Cavour espresso in una lettera a Nigra).
(10) Le forze borboniche vantavano circa 50.000 uomini comandati da Ricucci, affidati ai generali Afan de Rivera, Tabacchi, Ruiz, Colonna di Stigliano, Von Mekel e sorretti dalla presenza di re Francesco II e due suoi fratelli, il conte di Trani ed il conte di Caserta.
(11) Una di queste era la istituzione di una Costituente che, patrocinata da Crispi (come da Mazzini, n. 5), avrebbe allontanato il plebiscito e ridestato i sentimenti di ispirazione indipententistica o democratica repubblicana.
(12) Il voto venne esteso ad una fetta di popolazione più ampia di quella (2% circa) che partecipava al voto politico. In Sicilia votò il 75% degli iscritti alle liste elettorali (575.000 rispetto ad una popolazione di 2.232.000 abitanti) e solo 667 espressero voto contrario. Anche nel continente votò il 75% degli iscritti alle liste elettorali (1.650.000 su 6.500.000 abitanti) e solo 10.302 espressero voto contrario. Il voto era completamente pubblico in quanto veniva depositato in due urne, una per il “SI” e l’altra per il “NO” sotto l’occhio vigile ed intimidatorio di vari funzionari che, solidali con il nuovo corso, gestivano il voto dei numerosi analfabeti. Mazzini e D’Azeglio rimasero disgustati di tali modalità. In Sicilia, molti si sottrassero al voto nascondendosi in montagna nel timore che esso fosse collegato ad un nuovo sistema di riscossione delle imposte ed i più ritennero di aver votato per l’autonomia. Il ministro degli esteri inglese, Lord John Russel, approvò con una circolare diplomatica (ottobre 1860) l’Unificazione Italiana anche se in un dispaccio al ministro Palmerston rilevò che “I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore” e l’ambasciatore inglese scrisse al suo governo: “moltissimi vogliono l’autonomia, nessuno l’annessione ma i pochi che votano sono costretti a votare questa”. Lo stesso Cavour ricevette diverse segnalazioni che lo invitavano a non lasciarsi ingannare dal risultato del plebiscito spiegabile con l’odio per il regime borbonico, in quanto i fautori dell’annessione erano in netta minoranza.
Come si può dedurre e secondo lo storico Mack Smith “non fu chiara e libera manifestazione plebiscitaria della volontà dei Siciliani ma un vero e proprio atto di forza”. Tuttavia l’annessione, per Inghilterra e Francia, si inseriva nell’ambito degli eventi previsti, mentre Russia (da sempre protettore del Regno Borbone), Austria e Prussia, pur avendo preso in esame la nuova situazione (25 ottobre a Varsavia) non concordarono alcuna azione.
Due settimane dopo, 4 novembre, si svolse il plebiscito nelle Marche ed Umbria con risultati analoghi in quanto votarono rispettivamente il 63% ed il 79% degli iscritti alle liste, esprimendo, in ambedue le regioni, un consenso del 99% e meno dell’1% di dissenso.
(13) L’ingratitudine con cui fu ricompensato Garibaldi destò sorpresa in Napoleone che consigliò tuttavia di non farne un martire ed il primo ministro inglese Palmerston (*) che si era adoperato a favore dell’unificazione non nascose la sua indignazione per il trattamento riservato a Garibaldi.
(14) L’impresa dei Mille, che senza dubbio ebbe il merito di provocare il definitivo collasso del Reame borbonico e favorirne l’annessione, per quanto coatta si voglia (n. 12), al Regno di Vittorio Emanuele II, è stata rivisitata ed analizzata rispetto alle modalità di realizzazione. Come si può desumere dall’illustrazione degli eventi è fuor di dubbio che essa sia stata agevolata dall’appoggio finanziario e dalla protezione del governo britannico, senza trascurare la presenza, ricca di risorse finanziarie e solo apparentemente ostile, della flotta piemontese guidata da Persano. Perché un gruppo così esiguo di volontari non addestrati ed approssimamene armati poco avrebbero potuto fare contro un esercito ampiamente più numeroso come quello borbonico se non si fosse verificata la fellonia di molti amministratori politici e generali borbonici, gli uni e gli altri vecchi, incompetenti e preoccupati della personale sopravvivenza. I primi assunsero un ruolo in mancanza delle migliori personalità del Regno di Napoli, esuli in Piemonte. I secondi, in parte venduti, in parte intimoriti dall’ostilità popolare, erano attanagliati dalla sindrome della disfatta che ne condizionò i comportamenti al punto che alcuni di essi vennero uccisi dai loro stesi soldati indignati per la chiara rinuncia a combattere. All’impresa di Garibaldi ha giovato in particolare l’endemica disponibilità alla ribellione del popolo siciliano che ritenne di trovare occasione di affrancarsi dalla sopraffazione che da secoli subiva, a ciò inizialmente attratto dal carisma dell’eroe e dai primi suoi decreti giudiziosi e popolari. In sostanza il popolo, per quel poco di politico che vi era nella sua azione, combatté con il miraggio dell’autonomismo non certo per l’annessione che invece fu favorita dalle classi che trovarono nel nuovo regime protezione per i perpetuarsi dei loro privilegi. Le genti di Calabria e Basilicata favorirono il passaggio dell’eroe inconsapevoli degli esiti che sarebbero maturati. L’affrettata e cinica annessione di un mondo ad un altro distinto e distante non favorì l’integrazione ed i metodi e criteri di governo applicati produssero risentimenti malintesi e rancori che provocarono malcontento e sconfortanti delusioni che fecero germogliare il seme della ribellione.
(15) La fortezza, difesa da oltre 20.000 uomini, era dotata di numerose ma obsolete bocche da fuoco. In città risiedevano circa 3000 cittadini e mancava il vettovagliamento per resistere a lungo senza rifornimenti. Già dopo pochi giorni si era verificata una epidemia di tifo petecchiale che causò parecchie vittime. Verso la fine di dicembre i bombardamenti dell’esercito piemontese comandato da Cialdini divennero più serrati ma gli assediati riuscirono a ricevere vettovagliamento da Marsiglia. Cavour, d’accordo con la Gran Bretagna, riuscì a convenire con Napoleone la partenza della flotta francese da Gaeta entro il 19 gennaio in cambio della cessione di Mentone e Roccabruna (trattato del 2 febbraio 1861). Partita la flotta francese l’accesso del porto venne bloccato (21 gennaio) dalla flotta di Persano. Da allora Gaeta fu sottoposta ad un continuo bombardamento da terra e dal mare, inizialmente con scarso successo quindi con maggior precisione. Dopo una tregua (6 febbraio) per seppellire i morti ed evacuare i feriti, il 9 febbraio il bombardamento riprese con violenza e precisione. Il giorno successivo iniziarono le trattative per la cessione della fortezza, dopo che questa fosse stata abbandonata dai sovrani. Durante le trattative, Cialdini anziché sospendere il bombardamento lo intensificò sottoponendo la popolazione ad un inutile massacro. Il 14 febbraio il re e la regina, salutati da civili e militari commossi, uscirono dalla fortezza per imbarcarsi sulla nave francese Mouette. Subito dopo entrò la brigata piemontese comandata da De Regis che, secondo gli accordi, avrebbe mantenuto prigioniera la guarnizione borbonica fino alla caduta delle roccaforti di Civitella del Tronto e Messina.
(16) Il palazzo era di proprietà di Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V di Borbone, re di Spagna, da cui venne la discendenza Borbone di Napoli (v. capitolo “Il meridione d’Italia conteso da Savoia, Asburgo e Borbone”.
Francesco II e la moglie, dopo la presa di Roma si stabilirono a Parigi dove vissero senza grandi mezzi economici perché il Regno d’Italia aveva confiscato tutti i beni dei Borboni, proponendone la restituzione a condizione della rinuncia, da parte di Francesco, ad ogni pretesa sul Regno delle Due Sicilie. Compromesso che non accettò “il mio onore non è in vendita”. Francesco morì nel 1894 durante un soggiorno in Trentino. La moglie Maria Sofia sperò nella restaurazione del Regno e, mantenendo contatti con socialisti ed esuli anarchici, fu sospettata di essere stata ispiratrice dell’attentato di Giovanni Passannante al re d’Italia Umberto I (1878) e del regicidio di Umberto I ad opera di Gaetano Bresci (1900). Maria Sofia morì a Monaco nel 1925 e, dal maggio 1984, è sepolta con il marito nella Chiesa di Santa Chiara in Napoli.
(17) Nella formazione dello Stato unitario i moderati prevalsero, rispetto alle altre correnti di pensiero, mazziniani, radicali e socialisti, ma trovarono resistenze da parte della Chiesa e dei sostenitori dei precedenti regimi.
(18) Questi inizialmente avevano assunto una posizione di non interferenza rispetto all’impresa di Garibaldi quindi, nel timore di essere travolti dal disordine e dall’anarchia per periodo rivoluzionario, pensarono di collaborare, prima con Garibaldi, quindi con il Piemonte da cui si sentivano più protetti, con la speranza di restaurare un ordine che consentisse loro di conservare quanto più era possibile del loro passato.
(19) Molti fra gli elementi migliori erano morti nelle varie guerre, logorati dai lunghi anni di lotta o riparati all’estero o in Piemonte. Là avevano modificato mentalità e, nel lungo esilio, perso la sensibilità che il diretto contatto con il territorio e gli eventi consente. Interpellati o coinvolti nelle decisioni, finirono con il suggerire o condividere interventi rivelatisi del tutto inadeguati.
(20) La Chiesa aveva scomunicato i capi del nuovo Stato, benché formalmente cattolici e punì il frate che assistette Cavour sul letto di morte.
(21) Bettino Ricasoli (1809-80), conservatore cattolico non clericale, esponente della destra più austera, rigido, inflessibile e tenace (barone di ferro), non possedeva la vivacità, l’iniziativa e l’intuizione del grande politico. Fondò con altri del giornale La Patria con cui stimolò la costituzione della nazionalità italiana, assumendo un ruolo nell’annessione della Toscana (*). Dopo del dimissioni del 1862, ritornò a presiedere il consiglio dei ministri in occasione della III Guerra d’indipendenza.
(22) Nigra (*), ambasciatore a Parigi, avvertì Ricasoli che il re manteneva con Napoleone contatti al di fuori della diplomazia ufficiale. Ricasoli chiese a Napoleone di astenersi da questi contatti e questi avvertì Vittorio Emanuele, il quale (1864) manteneva contatti riservati anche con Mazzini che lo incitava, al pari di Garibaldi, a marciare su Venezia, minacciandolo, nel caso di tentennamenti, di riprendere la propaganda repubblicana.
(23) Urbano Rattazzi (1808-73), si accordò con Cavour per la coalizione parlamentare del 1852 (connubio *). Da ministro degli interni nel ministero La Marmora (1859-60) elaborò la legge che estese gli ordinamenti piemontesi ai comuni e province lombarde e che divenne la base del sistema amministrativo italiano. Presidente del consiglio anche nel 1867, dovette, entrambe le volte, dimettersi per crisi legate ai tentativi di Garibaldi (Aspromonte e Mentana) di conquistare Roma.
(24) Egli godeva all’estero di ampia popolarità e prestigio ed era in contatto con diplomatici, giornalisti, politici, ex garibaldini e popolo di vario genere che andavano a trovarlo a Caprera e con cui faceva progetti di ampia portata che uscivano dai confini nazionali. Lincoln gli aveva offerto il comando di una armata di nordisti nella guerra di secessione americana che egli rifiutò.
(25) Napoleone non si era lasciato convincere dalle motivazioni con cui gli si prospettava che era preferibile lasciare occupare Roma agli italiani, per evitare che i radicali la potessero conquistare con le armi.
(26) Alcuni soldati regolari che avevano disertato per unirsi a Garibaldi furono giustiziati sul posto.
(27) Marco Minghetti (1818-86) emiliano, partecipa alla I Guerra d’indipendenza nelle fila dell’esercito piemontese. Nel 1859 divenne presidente dell’Assemblea delle Romagne e ministro degli interni con Cavour e Ricasoli e ministro delle finanze con Farini. Nel 1870, con l’appoggio di Quintino Sella, riformò l’accademia dei Lincei sul modello dell’Istitute de France. Ad egli, quale ministro degli interni, si deve il disegno di legge che avviava, con la creazione delle regioni, una politica di decentramento dell’ordinamento amministrativo che, a differenza del federalismo, non implicava sovranità territoriale ma affidava ampi poteri agli enti locali, regioni, province e comuni. Questa legge, presentata da Cavour, trovò la decisa contrarietà dei conservatori e Ricasoli, dopo un anno di dibattito, riuscì a bloccarla provocando le dimissioni di Minghetti. Questo disegno di legge fu ripreso approvato ma non completamente definito dall’Italia repubblicana. In sostituzione del progetto Minghetti, il Regno fu diviso in province (59), circondari (193) e mandamenti (1601).
Emilio Visconti Venosta (1829-1914), deputato dal 1860 subito si distinse in missioni diplomatiche, ricevette da Cavour un incarico stabile al Ministero degli Esteri quindi ricoprì più volte la carica di ministro degli esteri fino al 1876 durante i quali condusse delicati negoziati connessi alla guerra franco-prussiana (1870) ed all’occupazione di Roma (1871). Senatore dal 1886, impegnato in una missione diplomatica nel 1894 e di nuovo ministro degli esteri (1896) con Di Rudinì nel difficile passaggio della disfatta in Abissinia ed ancora nel 1899, nel secondo governo Pelloux.
(28) L’eventualità che la capitale fosse trasferita a Napoli, la più grande città del nuovo Regno, venne accantonata per la decisa contrarietà dei siciliani.
(29) I ducati di Schleswig-Holtein, di tradizioni tedesche e facenti parte della Confederazione germanica ma sotto la sovranità della corona danese, dopo la morte di re Federico VII (1863) ,vengono sottratti alla Danimarca per incorporarli nello Stato. La Prussia, ponendosi in conflitto con l’Austria ma garantendosi la neutralità delle grandi potenze, prese l’iniziativa di annessione dei due ducati. Nell’agosto 1865 a Gastein, Prussia ed Austria si accordarono per la spartizione dei due ducati (Schleswig alla Prussia ed Holtein all’Austria).
(30) Il tentativo dell’Italia di fare entrare nella trattativa l’acquisizione del Tirolo e Trentino che facevano parte della Confederazione Germanica, non trovò concrete risposte. Bismarck aveva concordato con Garibaldi, e trovato il consenso di Vittorio Emanuele, una azione in territorio slavo (Serbia e Croazia) per promuovere una rivolta contro l’Austria. Il progetto ricevette il veto di La Marmora e ciò spiega perché l’Italia non riuscì a ricevere dalla Prussia tutti i vantaggi dell’alleanza.
(31) Vi fu un successivo accordo in cui l’Austria, in cambio della neutralità della Francia (giugno 1866), si impegnava, in caso di vittoria, a non mutare lo stato dei domini in Italia senza il consenso della Francia che, oltre a ricevere compensi territoriali, non avrebbe ostacolato la distruzione dell’unità italiana.
(32) Le armate prussiane, con rapidità grazie ai trasporti ferroviari, si concentrarono per invadere Sassonia Hannover ed Assia, prima di penetrare in Boemia e travolgere le guarnizioni austriache (22-23 giugno). Queste vengono di nuovo sconfitte ad Hannover e Langensalza (29 giugno) ed ancora nella battaglia decisiva di Sadowa (3 luglio). L’Austria fu costretta ad avviare trattative di pace che, dopo i preliminari di Nikolsburg (26 luglio) in cui Bismarck rifiutò la mediazione di Napoleone III, si tennero a Praga (23 agosto). L’Austria ne uscì notevolmente ridimensionata avendo dovuto cedere Holstein (n. 29) e territori della Slesia mentre la Prussia acquisì tutti i territori del nord ed estese la sua influenza nella Germania meridionale.
(33) Cialdini, arrogante ed altezzoso, se avesse varcato il Po invece di ritirarsi senza motivo, avrebbe potuto capovolgere le sorti dello scontro.
(34) L’opinione pubblica rimase sbalordita. L’ammiraglio Persano che, dopo lo scontro, aveva telegrafato di essere rimasto “padrone delle acque” cercò di incolpare del disastro i suoi ufficiali. Egli subì un processo e, riconosciuto colpevole di imperizia, fu destituito con la perdita della pensione e delle decorazioni.
(35) Lo storico Pasquale Villari (1826-1917), nel commentare l’esito della guerra nel settembre 1866, sul Politecnico di Carlo Cattaneo, dava un quadro allarmante delle reali condizioni del Paese V’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale e la retorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e di 5 milioni di Arcadi”.
(36) Il Sillabo era diviso in dieci paragrafi tematici riguardanti, fra altri, razionalismo assoluto e moderato, socialismo, comunismo, società segrete, diritti e privilegi della Chiesa e suoi rapporti con la società civile, morale naturale e cristiana, il matrimonio, il potere temporale del pontefice, il liberalismo.
(37) La Convenzione di settembre prevedeva il trasferimento della capitale a Firenze a garanzia del ritiro del contingente francese da Roma, cosa che si era regolarmente verificata entro la fine del 1866, sostituito da un gruppo di volontari provenienti da Antibes. Operazione con cui Napoleone, sostanzialmente sfuggiva alla convenzione che, peraltro, impegnava il governo italiano a non attaccare dall’esterno ma non escludeva un rovesciamento dall’interno. Rattazzi pensava che, nell’invio di volontari, vi fossero gli elementi per denunciare la convenzione ed operare l’annessione ma non osò realizzare il proposito.
(38) Il motivo del passaggio dalla apparente indifferenza all’azione da parte del governo forse va spiegata con il timore di un presunto accordo con Mazzini per una soluzione repubblicana della questione romana.
(39) Luigi Federico Menabrea (1809-96) generale aiutante di campo del re e politico esponente della destra, già ministro della marina e dei lavori pubblici.
- Giovanni Lanza (1810-82) esponente della destra storica, fu presidente del consiglio fino al 1873 con Quintino Sella (1827-84) al ministero delle finanze.
(40) Il re confidava al ministro britannico Paget che il suo debole esercito non gli consentiva di sostenere Garibaldi contro i Francesi e si riprometteva invece di condividere l’eventuale reazione di questi, a meno di schierarsi con Garibaldi ove fosse risultato vincitore.
(41) Giovanni non morì in battaglia ma a seguito delle ferite riportate. I loro fratelli Ernesto e Luigi erano già scomparsi in altre imprese garibaldine, con i cacciatori il primo e con i Mille il secondo. La loro madre rifiutò ogni ricompensa ed onorificenza. L’altro fratello Benedetto Cairoli (1825-89), ferito nell’impresa dei Mille, fu presidente del consiglio nel 1878 e nel 1879-81.
(42) I rapporti tra Francia e Prussia si erano incrinati nel 1863 allorché Bismarck aveva rifiutato l’intromissione di Napoleone nella controversia con l’Austria. Dopo la guerra del 1866 la Prussia aveva acquisito tale potenza e prestigio da sembrare inevitabile, per la supremazia in Europa, uno scontro con la Francia dove Napoleone aveva consolidato la sua autorità interna (plebiscito del maggio 1870). Il momento del contrasto si verificò allorché Bimarck, senza consultare i francesi, propose il principe Leopoldo di Hohenzollern per il trono di Spagna, da cui una rivoluzione aveva allontanato la regina Isabella II (1868). Una eventualità inaccettabile per la Francia che si sarebbe venuta a trovare stategicamente accerchiata. Una Francia costretta a reagire impreparata fu sconfitta dalle armate prussiane di von Moltke, a Sedan, (2 settembre 1870). Sconfitta che causò la caduta del regime imperiale di Napoleone. La guerra si protrasse con l’istituzione della Repubblica e con un governo di difesa nazionale, che, malgrado la sconfitta a Metz (27 ottobre), resistette fino al 28 gennaio 1871 prima di chiedere l’armistizio e cedere Alsazia e Lorena ad una Germania unificata (v. Garibaldi, n. 51).
Leopoldo di Hohenzollern rifiutò il trono di Spagna che venne assegnato (1870) al figlio di Vittorio Emanuele II, Amedeo di Savoia Aosta (1845-90), il quale dovette poi (1873) abdicare per l’ostilità degli aristocratici.
(43) Il 2 ottobre del 1870 si tenne il plebiscito, come al solito addomesticato, con cui il Lazio con quasi la totalità (99%) dei votanti (80% rispetto agli aventi diritto) sceglieva l’annessione al Regno d’Italia.
(44) Liutprando nel 728 donò a Gregorio II i castelli di Sutri, Ameria, Bomarzo ed Orte (capitolo Caduta dell’Impero romano e dominazioni straniere, stesso sito).
(45) Enciclica Resipiscientes ea del 1 novembre 1870. Nel precedente 18 luglio 1870 era stata pubblicata la costituzione dogmatica Pastor Aeternus con cui si definiva il dogma dell’infallibilità del Papa perché sostenuto ed ispirato dallo Spirito Santo.
Il 15 maggio 1871 fu approvata la Legge sulle guarentigie con la quale lo Stato italiano regolava le prerogative del sommo pontefice e le relazioni fra Stato e Chiesa, garantendo al Papa l’inviolabilità e l’immunità nei luoghi in cui risiedeva (vaticano e Castel Gandolfo) fu respinta da Pio IX con l’enciclica Ubi nos (15 maggio 1871), rimase in vigore fino alla Conciliazione del 1829.
(46) In verità la mancata concessione dell’autonomia non dispiacque ai singoli comuni che ritenevano di acquisire così maggiore autonomia gestionale che se dipendessero dalle capitali regionali.
(47) Montezemolo in Sicila, Farini (n. 6) già sofferente a Napoli.
(48) Molti e D’Azeglio (*) fra questi si chiesero se fosse necessario a sud del Tronto (confine delle Marche con i territori appartenuti ai Borbone) un tale dislocamento di forze quando al nord non se ne ravvisava la necessità.
(49) Il brigantaggio, un fenomeno presente nel meridione già in epoca spagnola-aragonese, assunse rilevanza nel 1799 all’epoca della repubblica Partenopea ed in periodi successivi (capitolo Il meridione d’Italia Borbone di fine ‘700/ II parte, Il meridione d’Italia nel periodo Napoleonico (stesso sito) con l’utilizzo di bande di irregolari da parte di Garibaldi durante l’impresa dei Mille (*).
(50) Circa metà dei richiamati in Sicilia ed i tre quarti in Basilicata, per sottrarsi, fuggiva regolarmente sui monti unendosi alle bande di briganti. Particolare risentimento suscitò il fatto che i ricchi potessero comprarsi l’esenzione come avvenne per lo scrittore siciliano Giovanni Verga.
Rilevando che giornalisti del tempo descrivevano questi giovani come “… soldati che hanno rifiutato di arruolarsi…” mentre erano definiti briganti dai piemontesi, va comunque sottolineata l’analogia con la situazione che si verificò nel 1943 allorché molti giovani delle province del nord, occupate dai tedeschi, per sfuggire alla coscrizione imposta dalla Repubblica di Salò presero la via dei monti unendosi alle bande partigiane. Queste erano definite banditi dai tedeschi e partigiani dai sostenitori della resistenza al nazi-fascismo. Molti vedono nelle attuali aree di crisi mediorientali la medesima dicotomia fra terroristi e resistenti o patrioti.
(51) Un esempio emblematico riguarda il sarto sordomuto Antonio Cappello che viene torturato a morte perché ritenuto un simulatore; il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli verrà insignito della Croce dei SS Maurizio e Lazzaro.
Le violenze vennero di pubblica conoscenza al punto da indurre Napoleone III a rilevare al re Vittorio Emanuele “I Borboni non commisero in cento anni gli errori e gli orrori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno” e da essere denunciate da lord Henry Lennox alla camera dei Lords (8 maggio 1863), occasione in cui rivelò che l’Inghilterra, più di Garibaldi, aveva avuto ruolo nel processo di unificazione del meridione italiano.
(52) Nella relazione si legge “...La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare ….. il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche secolari ingiustizie …….. la sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciato nelle province napoletane. Questi mali sono l’ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia …. L’amministrazione che non procede, le leggi antiche distrutte ma non le usanze antiche né rimosse da quegli uffici le persone che quelle usanze praticavano, le leggi nuove e male eseguite …. Da tutte queste cose consegue una prostrazione degli spiriti, un languore da cui i tristi si studiano continuamente di tra profitto ……… La diffusione dell’istruzione pubblica, l’affrancazione delle terre, la equa composizione delle questioni demaniali, l’attivazione dei lavori pubblici ….. valgono ad innalzare le plebi a dignità di popolo…. e produce in pari tempo il salutare effetto di trasformare le condizioni del contadino e di distruggere quel proletariato selvaggio che sotto l’impulso della fame e della miseria non obbedisce ad altra voce se non quella dell’avidità e fornisce si ampio contingente al brigantaggio”
(53) Rimasta in vigore fino alla fine del 1865 prevedeva rastrellamenti alla ricerca di evasi, pregiudicati, renitenti alla leva e semplici sospetti; la pena di morte mediante fucilazione per tutti i briganti che avessero opposto resistenza e lavori forzati a vita per chi si arrendeva e per i complici. La legge mise un freno all’arbitrario esercizio della forza che, negli anni precedenti, aveva condotto la repressione senza regole.
(54) Tra esse le bande a cavallo del brigante più noto Carmine Crocco, con quelle di Vincenzo Mastronardi, Giuseppe Summa ed Antonio Locaso che operavano in Basilicata, quelle di Luigi Alonzi e Nicola Napoletano nel Beneventano, ed altre di Michele Caruso nel Molise, Gaetano Manzo e Gaetano Trachella nel Salernitano, ecc. Il più noto di questi, Carmine Crocco, si era dato alla macchia nel 1860 ed, a capo di un manipolo di ricercati, si mise alle dipendenze del re Borbone scontrandosi ripetutamente con le forze regolari. Allorché queste cominciarono a prevalere (luglio 1864), si rifugiò nello Stato Pontificio dove venne arrestato e, nel 1872, processato dalla giustizia italiana che lo condannò a morte, pena quindi commutata in ergastolo.
(55) Esse ammontarono a circa 250.000 ettari che finirono col divenire appannaggio dei latifondisti e solo un esigua porzione finì a gente che coltivava attivamente.
(56) Giuseppe Govone (1825-72), combatté nella III Guerra d’Indipendenza operando una serie di contrattacchi che, se sostenuti, avrebbero potuto mutare le sorti della battaglia di Custoza. Nella missione in Sicilia adoperò tale brutalità da essere indicato come “criminale di guerra” e, malgrado un contrastato dibattito in parlamento, non venne censurato ma promosso. Nel 1866 fu inviato a Berlino per trattare l’alleanza italo-prusiana.
(57) Di esse facevano parte anche elementi che avevano partecipato alle insurrezioni del ’48 e ’60, tra cui Miceli (*) che trovò la morte nel tentativo di liberare i carcerati dell’Ucciardone.
(58) Antonio Starabba marchese di Rudinì (1839-1908), divenuto popolare per i suoi tentativi di reprimere il contrabbando, rimase al suo posto. Il suo palazzo, presso i Quattro Canti fu bruciato e successivamente gli risultò difficile continuare a vivere a Palermo, ndignato per il comportamento della sua gente che riteneva la più corrotta d’Italia Fu uno dei più autorevoli esponenti della destra, ministro degli interni nel governo Menabrea (1869) e presidente del consiglio nel 1891-92 e 1896-98 allorché si dovette dimettere per la decisione con cui fece reprimere i moti di quell’anno.
(59) Gli epiloghi :
Mazzini (*; n. 5, 10, 22, 38) ripetutamente eletto in Parlamento vide la sua elezione annullata. Nel 1870 venne catturato, ad opera del suo allievo Giacomo Medici, dopo aver incoraggiato un tentativo di rivolta in Sicilia. Liberato, morì due anni dopo a Pisa (10.3.1872), sotto falso nome, ospite della famiglia Rosselli ed in polemica aperta con Marx e Bakunin. Lasciò, con numerosi scritti politici, l’esempio di concezioni anticipatrici e della sua onestà e coerenza. Egli, in forte anticipo sui tempi, accanto all’idea repubblicana, sostenne con coerenza la riforma sociale, la libertà di coscienza, l’eguaglianza fra sessi ed un’Europa Federale.
Vittorio Emanuele II (*), nel 1873, dopo Giovanni Lanza (n. 39) chiamo Agostino Depretis (n. 4) a presiedere il primo governo di sinistra. Scomparve il 9 gennaio del 1878, dopo un breve malattia dovuta ad infezione malarica. Pio IX, facendo decadere la scomunica che aveva inflitto a Casa Savoia, inviò un prelato per somministrare i sacramenti. Fu tumulato a Roma nel Pantheon. Gli successe il figlio Umberto (1878-1900) che assunse il numerale I, anziché IV, relativo alla numerazione sabauda.
Pio IX (*), accusato da molti di ambiguità e cinismo per l’uccisione di molti oppositori, per le numerose e macabre esecuzioni operate su delinquenti comuni (il boia Mastro Titta!) e per l’accusa di forzare la conversione giovani ebrei al cattolicesimo (il caso di Edgardo Mortasa!), dopo la perdita di Roma, istituì il non expedit (1874) con cui vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica. Morì l’8 febbraio 1878 e subito il Terz’Ordine Francescano di Vienna lo propose per la beatificazione, il cui processo, iniziato nel febbraio 1907, si concluse con il riconoscimento di venerabile (luglio 1895) e di beato (settembre 2000).
Garibaldi, nel 1870, malgrado l’avversione per Napoleone III e per il suo regime liberticida e clericheggiante, allorché fu informato che i tedeschi dilagavano a Parigi lasciò una Caprera presidiata dalla flotta italiana per accorrere in aiuto dei francesi. Messo a capo di una brigata di volontari male equipaggiati e di diversa estrazione, riuscì con la sua strategia da guerrigliero ad ottenere gli unici, se pur non significativi, successi di parte francese, mettendo in difficoltà le armate di von Moltke (n. 42). Quale riconoscimento popolare, fu eletto deputato in sei dipartimenti francesi. Elezione che rifiutò per ritornarsene a Caprera e trascorrere un lungo tramonto. Nel gennaio 1875 ricevette dalla Stato italiano una pensione ed un dono nazionale che rifiutò per accettarlo nel 1876 dal primo governo di sinistra presieduto da Agostino Depretis. Scomparve il 2 giugno 1881.
(60) Provvedimento del ministro dell’economia Quintino Sella del 12 luglio 1862.

di Franco Savelli


nella prossima puntata
Il Meridione dopo l'unificazione
GLI ASPETTI ECONOMICI E SOCIALI DEL SUD UNIFICATO

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