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109 bis. 10. - Il Meridione nella prima metà dell' '800

Il Meridione d'Italia nel periodo
Restaurazione e Insurrezione

L'insurrezione a Palermo, in piazza del Duomo , il 12 gennaio 1848

 

di Franco Savelli

Sommario
- Riflessi del Congresso di Vienna: processi di restaurazione e movimenti insurrezionali..
- Il regno delle Due Sicilie nel periodo di Ferdinando I: il ritorno sul trono, i moti del 1820 a Napoli e l’insurrezione di Palermo. Il breve regno di Francesco I.
- Il Regno di Ferdinando II nel periodo 1831-1850: attività di governo. Motivazioni e manifestazioni insurrezionali del 1848 a Palermo ed a Napoli. Ribellioni in Calabria.
- Il Regno di Sardegna ed il Piemonte: dai moti del 1821 al Regno di Carlo Alberto fino alla guerra del 1848-49 e l’esilio.

 

Riflessi del Congresso di Vienna
- Processi di restaurazione

Il ritorno dei principi nelle rispettive nazioni sancito dal Congresso di Vienna diede origine a differenti reazioni. E se nella Spagna, nel Regno delle Due Sicilie ed in altre regioni italiane significò l’instaurarsi di una politica interna repressiva ed autoritaria che finì col causare nuove ribellioni, in altri Stati europei, come Baviera, Sassonia e Wurtemberg, (1) si avviò, pur senza la concessione della Costituzione, un programma di valide riforme. Aperture avversate dall’Austria (2) che, mantenendosi nel rigoroso rifiuto di ogni concessione, impose, attraverso l’intensa attività del suo ministro Metternich, in tutti i territori in cui estendeva la sua influenza, un gravoso controllo poliziesco, auspicando che questi, attraverso appositi accordi, si modellassero al suo regime dispotico-illuministico.

Il Congresso di Vienna, nel chiudere l’epoca iniziata con la rivoluzione francese (1789), le cui cronache cruente avevano destato impressione in tutta Europa e le cui idee innovative si erano diffuse con le guerre napoleoniche, diede inizio ad un periodo di transizione che venne definito restaurazione. Termine che non vuole solo significare il ritorno, con Luigi XVIII (*), dei Borbone sul trono di Francia ma piuttosto riassume l’insieme di quei tentativi volti a neutralizzare, con programmi politici di resistenza, gli effetti prodotti dalle idee maturate nel periodo rivoluzionario. Esse, consolidate in diverse esperienze, pur se di breve durata, contribuirono a formare nuove coscienze che, dagli strati più colti, si estesero fino a sensibilizzare, pur lentamente, anche quelle masse solitamente resistenti ad accogliere le novità che i mutamenti politici proponevano. Venne così a maturare una visione di Costituzione che, sulla base di quelle concesse, nel 1812, in Spagna ed in Sicilia e di quella tardivamente proposta da Murat per il Regno di Napoli (*), indicava una maniera per avviare la costruzione di uno Stato rappresentativo dell’intera nazione, in cui il popolo potesse esprimere la sua volontà e garantirsi la libertà. Una eventualità del genere, ritenuta un veicolo permissivo di rivoluzione, mise in allarme i governanti ostili ad ogni cambiamento che concordarono un trattato di mutua collaborazione per il mantenimento della pace, La Santa Alleanza, concordata a Parigi il 26 ottobre del 1815. Essa, promossa dallo zar Alessandro, coinvolse inizialmente l’imperatore d’Austria, Francesco I, il re di Prussia, Guglielmo II, a cui si unirono via via altri sovrani cattolici europei, ma non la Gran Bretagna che si tenne ai margini. (3).

L’atto di mutua collaborazione che legava i sovrani fu, dalla visione restauratrice del cancelliere austriaco Metternich, tramutato in uno strumento di repressione dei movimenti nazionalistici. Questo primo accordo fu completato con uno seguente, del 20 novembre dello steso anno, in cui Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia (quadruplice alleanza) si impegnarono a convocare con regolarità una serie di riunioni che, al fine di valutare lo stato degli eventi, si tennero a Troppau e successivamente a Lubiana (1821) prima che la prassi entrasse in crisi a Verona (1822) (4) per la dissociazione britannica dalle posizioni reazionarie delle altre potenze.

- Movimenti insurrezionali

Ma quali timori contribuivano a mantenere alto il livello di vigilanza dei governanti?
La norma dell’uguaglianza dei diritti, equivalente a libertà di pensiero e di coscienza, acquisita dalla rivoluzione francese e divulgata con l’adozione dei codici napoleonici, era stata, con i processi restaurativi successivi al Congresso di Vienna, accortamente rivista e, se pur fosse stata mantenuta la parte riguardante la sfera privata, una sensibile limitazione avevano subito i diritti politici (suffragio universale) e quelli civili delle donne, la cui posizione risultò drasticamente limitata. Tuttavia, il principio di uguaglianza, pur così contratto, produceva ugualmente effetti destabilizzanti in una società i cui componenti, da secoli strutturati in caste giuridicamente distinte, si venivano a trovare in una situazione di virtuale uguaglianza che avrebbe dovuto essere ordinata in una nuova struttura statale. Cambiamento che avrebbe comportato radicali modifiche nell’assolutismo istituzionale monarchico il quale, dall’emanazione di nuove regole (statuti), ne sarebbe uscito fortemente limitato nelle sue prerogative. Trasformazione che i governanti dell’epoca cercarono contrastare ed allontanare nel tempo, sottovalutando la consistenza del sentimento popolare e l’influenza che avrebbe avuto quel grande movimento ideologico che, sotto il nome di Romanticismo, (5) si era già sviluppato alla fine del ‘700.

Esso investì la vita culturale e politica di tutti i paesi ridestando, attraverso dibattiti ed illustrazioni che raggiungevano le masse, tradizioni e cultura delle varie individualità nazionali. Nei regimi di tipo dispotico come i Regni di Sardegna e delle Due Sicilie dove la diffusione delle idee non poteva realizzarsi liberamente, si organizzarono società segrete (6) che, ispirate dalla Massoneria, si diffusero attraverso l’esercito dove anche i giovani del ceto medio e della nobiltà, ritenendo ormai superato il tempo dei privilegi di casta, aderirono a movimenti di opposizione. A questi si unirono frammenti di classi diverse come intellettuali, artigiani e commercianti che divennero promotori e protagonisti delle prime ribellioni, diversamente dalle masse popolari che non si sentivano ancora coinvolti in un processo di trasformazione istituzionale. I moti del 1820-21 che non videro la partecipazione dei ceti sociali inferiori, misero in evidenza la fragilità dei governi ed il fallimento cui andarono incontro va spiegato nel tentativo di imporre regole che avrebbero ridotto sensibilmente il potere dei sovrani i quali, per conservarlo, si appellarono alla solidarietà delle grandi potenze. Questi moti ebbero un seguito, nell’ambito dello stesso processo politico sociale mirante alla costituzione di libere entità nazionali, in altre due ondate rivoluzionarie negli anni 1830-31 e 1848-49. Questi ultimi assunsero un carattere partecipativo più coinvolgente e, con un adeguamento della strategia, si cercò di concordare un compromesso che coinvolgesse le monarchie.

I moti del 1820 ebbero inizio a Cadice, in Spagna, e coinvolsero il Portogallo, la Grecia e, con motivazioni differenziate il Regno delle Due Sicilie, il Piemonte e successivamente la Russia. Il periodo di restaurazione conseguente a questi primi moti fu caratterizzato da repressione poliziesca avvallata dalla solidarietà delle grandi potenze che, tuttavia, non riuscirono a controllare i movimenti rivoluzionari impegnati in una intensa attività cospirativa svolta principalmente dalla Carboneria.
Nel 1830 a seguito della ribellione di Parigi mossa dalla politica reazionaria di Luigi XVIII, resa ancor più acuta da Carlo X, (8) i moti si estesero, inizialmente con gli stessi connotati missionari del 1789, nell’Europa centrale ed, in Italia, a Modena e Parma (9) suscitando, a seconda della collocazione, timori e speranze.
Tra il 1830 ed il 1848, il patriottismo rivoluzionario, sviluppatosi più sul versante radicale strettamente legato all’idealismo politico che su quello moderato, diede avvio all’ondata insurrezionale del 1848-49 che, ispiratasi alla lotta, teorizzata da Mazzini, (10) contro l’assolutismo ed il dominio straniero, portava con se idee di democrazia e di socialismo. L’insurrezione nacque e trovò impulso soprattutto nelle città a partire da Palermo e Napoli per diffondersi nel Lombardo-Veneto ed in Piemonte, dove la borghesia era numerosa e più sentita l’aspirazione all’unità nazionale, quindi nello StatoVaticano e nel centro dell’Europa.


Il Regno delle Due Sicilie nel periodo di Ferdinando I (1815-1825)

Prima degli anni di dominio napoleonico (1806-1815) i Regni di Napoli e Sicilia erano due diverse entità, pur se governati dallo stesso sovrano che non a caso aveva due differenti numeri d’ordine, Ferdinando IV, come re di Napoli e III, quale re di Sicilia. Regni che il Congresso di Vienna unificò, abolendo il più antico regno d’Italia, quello di Sicilia e riconoscendo Ferdinando I, re delle Due Sicilie con l’impegno di mantenere, secondo gli accordi di Casa Lanza (*) norme ed istituzioni del periodo napoleonico, ritenuti tra i migliori d’Europa. Impegno che di fatto ignorò, comportandosi in maniera arbitraria e dispotica come era suo costume.
Nel 1815, come nel precedente ritorno dalla Sicilia dopo la caduta della Repubblica Partenopea, emerse la volontà del sovrano Ferdinando I di vendicarsi di coloro che avevano avuto parte nel precedente periodo napoleonico utilizzando un vecchio strumento di repressione quale era il principe di Canosa (12). Questi, per opporsi al movimento clandestino, piuttosto che la repressione, usò, con eccesso di zelo ma con scarso successo, metodi di infiltrazione nella carboneria talmente odiosi (n. 7) da collidere con il ministro Luigi de’ Medici (13) e da indurre gli ambasciatori di Austria e Russia a chiederne la rimozione.

- Napoli ed i moti del 1820

Particolare rilevanza ebbe la rivoluzione napoletana che preoccupò l’Austria, timorosa che essa si potesse estendere alle altre regioni del suo dominio. Essa ebbe inizio il 2 luglio (14) 1820 allorché, verosimilmente ispirata da ufficiali di formazione napoleonica che, nel 1812, avevano combattuto in Spagna (15) e promossa dai tenenti ....

Michele Morelli e Giuseppe Silvati, a cui si aggiunse un gruppo di carbonari guidati dall’abate liberale Luigi Minichini, si sollevò la guarnigione (centoventisette elementi) di Nola e di Avellino e si rafforzò con la progressiva adesione di esterni. Da qui la rivolta si propagò ad Aversa e ad altre regioni del Regno (Puglia e Basilicata, Abruzzo e Calabria).

Il governo pensò di inviare il generale Guglielmo Pepe (16) a sedare la rivolta ma, ritenuto non affidabile, si rinunciò al suo apporto. Tuttavia egli, legato alla carboneria, tentò di rallentare l’intervento della gendarmeria e, nel timore di essere arrestato, assemblò una nutrita compagnia di soldati e si schierò dalla parte dei rivoltosi. Il re, sollecitato da ministri e collaboratori, promise (6 luglio) la concessione della costituzione entro otto giorni. Ma, nel sospetto di manovre dilatorie, la ribellione, che si era affidata alla direzione di Guglielmo Pepe, si intensificò e le milizie liberali che, raggruppate ad Avellino e Salerno, si predisponevano ad entrare a Napoli. Per scongiurare ciò Ferdinando, malgrado le sue convinzioni nettamente avverse ad ogni forma costituzionale, si convinse ad emanare (9 luglio) la stessa Costituzione concessa in gennaio a Cadice (n. 16) ed a giurare solennemente (13 luglio) fedeltà ad essa. (17) Concessione che, secondo quanto riferì l’ambasciatore, principe di Cariati, venne accolta con disappunto dalla Corte di Vienna.
Dalle elezioni tenute sulla base della costituzione emanata (18) emersero un parlamento (ottobre 1820) in cui prevaleva la borghesia agraria ed un governo costituzionale dominato dal ministro Zurlo che si rifiutò di assecondare la richiesta di indipendenza delle province e mantenne ai margini del potere le forze radicali che si divisero tra coloro cui bastava una monarchia costituzionale e coloro che auspicavano forme più avanzate di democrazia. Il governo, trascurando le conseguenze derivanti dalla concessione della costituzione, non prese alcuna iniziativa per mantenere contatti con le potenze straniere, presumibilmente perché distratto dall’insurrezione promossa in Sicilia dai movimenti separatisti (15 luglio) che lo mise nella necessità di assumere una posizione di salvaguardia dell’unità del Regno.

Il nuovo assetto del Regno delle Due Sicilie non era stato accettato dalle nazioni della Santa Alleanza, la Francia non lo riconosceva, l’Inghilterra non manifestava apprezzamento. Altre nazioni, come la Spagna, Paesi Bassi e Svezia, con il loro formale riconoscimento, non fecero altro che allarmare le prime che vedevano nella rivoluzione di Napoli, incruenta ed ideologica, non promossa da sofferenze economiche e portatrice di nuova libertà, una minaccia per la sicurezza dei troni.
Nello stesso ottobre del 1820, l’Austria, sulla base degli accordi della Santa Alleanza, promosse una riunione a Troppau in Slesia per esaminare gli eventi dall’insurrezione di Napoli. Mentre l’Inghilterra mantenne una posizione di dissenso (n. 4), le altre potenze riuscirono a controllare le perplessità dello zar Alessandro a cui furono prospettati i pericoli dell’estensione alla stessa Russia delle idee rivoluzionarie, e rinviarono la discussione al gennaio 1821 a Lubiana (Slovenia), dove sarebbe stato invitato anche Ferdinando I. Questi, sulla base della costituzione emanata, doveva ricevere, per quel viaggio, il consenso dal parlamento eletto. Malgrado le molte perplessità ed un acceso dibattito, il consenso al viaggio fu concesso a seguito della promessa e del reiterato giuramento di difendere il sistema costituzionale in atto (19) . Ma giunto a Lubiana, Ferdinando sconfessò la Costituzione che sostenne gli era stata estorta e sollecitò l’intervento della Santa Alleanza al fine di ristabilire il precedente regime. Il cancelliere austriaco Metternich si sentì autorizzato da questa richiesta ad intervenire, (20) malgrado l’Inghilterra ritenesse l’azione puramente repressiva.

Il 4 febbraio 1821 un contingente austriaco (cinquantamila uomini, mentre uno russo era di riserva) varcato il Po, si diresse verso i confini del Regno mentre a Napoli, dove la posizione di Ferdinando aveva destato stupore ed indignazione, si cercava di predisporre le difese che non potevano essere particolarmente efficaci, essendo stati i reparti migliori inviati per controllare la rivolta in Sicilia (v. seguito). Il governo, rifacendosi alla natura pacifica della rivoluzione napoletana, diede alle proprie truppe un mandato puramente difensivo che avrebbe dovuto evitare ogni forma di aggressione e mirare a contenere gli attacchi degli eserciti stranieri. Guglielmo Pepe che, dimessosi dall’esercito era stato nominato comandante della guardia civile (trentamila uomini) ed il generale Michele Carascosa, capo di quella militare, si schierarono sui confini abruzzesi. Il generale Guglielmo Pepe, malgrado i pareri contrari dei suoi ufficiali, decise sconsideratamente di attaccare a Rieti (7 marzo 1821) con la sua guardia civile impreparata ad azioni di guerra, l’esercito austriaco guidato dal generale Frimont, che non ebbe difficoltà a mettere in fuga gli aggressori. Poco poterono fare i generali Carascosa e Giovanni Russo per contenere l’esercito austriaco che, pur sorpreso per la facilità dell’azione, avanzò con cautela ed, entrato a Napoli (23 marzo), accolto da una vibrata protesta di un gruppo di deputati guidati da Giuseppe Poerio (21), si impossessò dei forti dando inizio ad una occupazione che si protrasse fino al 1827.
Il popolo accomunò tutti nel disprezzo, la doppiezza del re, la debolezza dei ministri, l’infamia di generali e soldati e la codardia dei cospiratori.

Napoli venne così restituita al potere di Ferdinando, che, di ritorno da Lubiana, si fermò nella più sicura Firenze. Da qui, dopo aver inviato alla Chiesa della Madonna Annunziata una ricca lampada in argento ed oro per essere sciolto dai giuramenti, richiamava in servizio il principe di Canosa (n.13) a cui impartì, come sua abitudine, disposizioni di ritorsione ed epurazioni con arresti e processi contro coloro che avevano avuto ruolo nel breve periodo costituzionale. Mentre molti cercavano rifugio all’estero (22), gli austriaci imponevano, come capo di governo il ministro Medici che, a causa di vecchi contrasti, rimosse il Canosa, la cui attività repressiva non aveva fatto migliorare la sicurezza pubblica, anzi l’attività settaria si era rinvigorita e bande infestavano Calabria ed Abruzzo.

- La Sicilia ed i moti del 1820

Ferdinando, rimesso sul trono dal Congresso di Vienna, lasciò la Sicilia (1815) per ritornare a Napoli che, con tutti i territori continentali, gli austriaci avevano rioccupato per suo conto. Allontanandosi dai siciliani verso cui dimostrava solo insofferenza e liberandosi dalla tutela della Gran Bretagna, Ferdinando che aveva promesso all’Austria di rompere con ogni forma di costituzionalismo fu felice di operare le sue vendette a cominciare dalla abrogazione della costituzione che, concessa nel 1812 in Sicilia su pressione delle forze britanniche (*) e modellata su quella inglese, egli aveva giurato di mantenere.
Fu abolita la bandiera siciliana e la libertà di stampa. Da allora leggi ed istituzioni, tra cui i codici napoleonici ed i sistemi amministrativi francesi, sulla base di quanto stabilito nella convenzione di Casa Lanza (*), furono importate dal continente sostituendosi a quelle che erano state emanate con la costituzione. Con il paradosso che la Sicilia, ancora impregnata da feudalesimo e che non aveva mai fatto parte dell’impero napoleonico, veniva istituzionalmente ad essere governata da leggi napoleoniche avanzate. Ciò venne percepito come una imposizione esterna che, contribuendo ad eludere ogni precedente forma di autonomia, stimolò sentimenti di separatismo in una regione che per usi, costumi e civiltà si sentiva diversa dal meridione continentale. Tanto più in un periodo in cui, venendo a mancare il contributo che gli inglesi avevano assicurato durante la loro permanenza, si manifestava una crisi occupazionale ed economica. I sentimenti di separatismo si erano risvegliati a seguito del recente inglobamento della Sicilia nel regno delle Due Sicilie facendole perdere quell’autonomia che conservava dai tempi del Vespro (1282) e si diffusero velocemente, sostenute non tanto dai liberali, che o erano in esilio o si erano adattati a dipendere dall’aristocrazia, ma dall’aristocrazia stessa che vedeva nella secessione la possibilità di conservare qualcuno dei suoi privilegi se non proprio di restaurare l’antico ordinamento feudale. Con l’aristocrazia fu solidale la classe borghese nel trovare più vantaggioso il precedente ordinamento e nell’avversare il governo di Napoli più di quanto si era manifestato in tempi passati contro la Spagna. Ciò conferì alla rivolta un carattere apparentemente liberal-democratico.
Va tuttavia sottolineato come i sentimenti separatisti non fossero condivisi dalle classi più avvedute che, consapevoli della mancanza di risorse per una autonoma gestione, temevano che la Sicilia finisse col divenire protettorato di qualche grande nazione.

I moti si manifestarono a Palermo il 15 luglio 1820, a seguito dalla notizia della concessione della costituzione spagnola voluta dai liberali napoletani (23). Le iniziali richieste di riesumare la costituzione anglicana del 1812 (che di fatto stabiliva la separazione della Sicilia dal Regno di Napoli) e di ottenere un federalismo che riconoscesse alla Sicilia governo e parlamento propri esaltarono una folla che, già per le strade eccitata dalla festa di Santa Rosalia, trasformò le rivendicazioni in un tumulto che travolse i tentativi di contenimento, innescò guerre fra bande, aprì le prigioni, acquisì il forte cittadino di Castellamare. Fu creata una Giunta aristocratico-borghese guidata dal cardinale Gravina ed in cui entrò a fare parte il principe di Villafranca mentre il principe Castelnuovo (*) preferì restarne fuori ed i generali Church e Naselli, rispettivamente comandante militare e vicario regio, furono costretti ad imbarcarsi per Napoli. Il moto, intriso di anarchia, manifestò le solite violenze (uccisioni e rapine) ed i capi delle corporazioni artigiane, come altre volte in passato, provvidero a riportare un certo ordine a Palermo con la formazione di una milizia civile di muratori e carpentieri. La rivolta non interessò tutta la Sicilia ma si allargò alle province di Palermo ed Agrigento dove i braccianti occuparono le aree coltivabili da cui erano stati esclusi.

A Napoli, con la concessione della costituzione di Spagna, era stato garantito un parlamento congiunto (territori continentali e Sicilia) per cui il governo liberale si mostrò indisponibile a riconoscere qualsiasi richiesta di autonomia. Altrettanto intransigente si mostrò la Giunta di Palermo a non riconoscere alle province orientali (24) il diritto di discutere la sua direzione politica, trovandosi così isolata allorché il governo napoletano inviò (fine agosto) in Sicilia il generale Florestano Pepe (n. 17) per sedare la rivolta.
L’esercito napoletano (novemila fanti), affiancato da bande armate siciliane sotto contratto e da volontari provenienti dalle province orientali (Messina, Catania, Siracusa) e da Trapani, dopo aver prevalso negli scontri, si accampò sulle alture della città controllandone i rifornimenti. Gli aristocratici presero le distanze dalla rivolta e Pepe, forse fraintendendo le disposizioni ricevute dal ministro Zurlo e certamente per ricomporre i contrasti con Napoli, ottenne, propiziata da un abile intervento del principe di Paternò, la resa dei rivoltosi (5 ottobre) con la promessa della concessione della costituzione siciliana del 1812 opportunamente modificata, a fronte del riconoscimento di re Ferdinando. In sostanza accordando quelle concessioni che il governo aveva rifiutato e che avevano causato l’intervento armato. Promessa che il governo napoletano non poté condividere e si affrettò ad inviare in Sicilia il generale Colletta (25) per ripristinare la legalità in Sicilia. Giunto a Palermo, con fermezza sciolse la Giunta di governo, impose il rispetto alla Costituzione di Napoli e fece eleggere i deputati al parlamento comune, acuendo nel popolo il sentimento di rifiuto nei confronti di Napoli e rafforzando ancor più quello indipendentista. Palermo perse autorità uscendone ridimensionata e se pur rimase capitale dell’isola, i capoluoghi che avevano collaborato a sedare la ribellione, furono liberate della sua dipendenza giudiziaria.
Nel febbraio 1821 giunse la notizia, a seguito della riunione di Lubiana, del ritiro della costituzione concessa da Ferdinando il 9 luglio ed a fine maggio l’esercito austriaco entrò anche a Palermo.
Dopo aver concordato con il Metternich il ritiro delle truppe austriache stanziate a totale carico delle casse del Regno, (ritiro che si concluderà nel 1827), a fronte dell’ingaggio di mercenari svizzeri, quale garanzia per il mantenimento dell’ordine, Ferdinando I morì (gennaio 1825) dopo sessantacinque anni di regno.

Gli successe il figlio Francesco I (1825-1830), personaggio incompetente, inesperto e di modesta levatura, provato da malanni e dal peso di un lungo vicariato. Affidò la gestione al ministro Medici e la responsabilità in Sicilia ad Ugo delle Favare che si distinse per crudeltà ed ingiustizia, permettendo il diffondersi di quella attività che, nata come guardia privata a difesa dei ricchi proprietari terrieri, si rivolgeva ora contro gli stessi al fine di impadronirsi dei loro beni (26). Francesco non avvertì, o ne fu dissuaso, la necessità di assecondare lo spirito liberale e costituzionalista che manteneva sempre accesi gli stimoli alla ribellione, perpetuando invece un sistema repressivo che, nella rivolta del Cilento del 1828 sedata dal marchese Francesco Saverio del Carretto (1777-1861) (27) , lasciò memoria di uno degli esempi più crudi della dinastia Borbone.

Nel suo breve regno Francesco operò prevalentemente nell’interesse di Napoli, accrescendo il divario con la Sicilia che, pur avendo potuto godere negli anni del protettorato inglese (1806-1815) di un processo di modernizzazione analogo a quello realizzatosi nella Napoli murattiana, restava nelle maniere, nelle pratiche agricole ed artigianali, oltre che nella lingua. Tuttavia la consapevolezza del divario esistente diede avvio al sorgere in Sicilia di un nuovo sentimento di emancipazione che, nel superamento della generale avversione per il governo di Napoli, avrebbe potuto trovare espressione solo nell’ambito di una nazione italiana.


Il Regno di Ferdinando II nel periodo 1830-1850

Il figlio ventenne di Francesco I, Ferdinando II (1830-1859) (28) che gli successe suscitò speranze nei suoi atti di esordio che videro la sostituzione di diversi ministri, il tentativo di pacificazione delle parti sociali con l’amnistia per i detenuti politici, richiamo degli esuli, la riassunzione degli ufficiali murattiani destituiti nel 1820, l’impegno nel risanamento delle finanze pubbliche che, a fronte di una contenuta pressione fiscale, riuscì a realizzare entro il 1838, destando, per lo sviluppo conseguito nel settore economico, industriale (tessile e metallurgico), agricolo e della marina commerciale, ammirazione e consenso delle corti europee. (29)
In Sicilia (30) sostituì (1830) Ugo delle Favare con il fratello Leopoldo, principe di Siracusa (31), siciliano di nascita, che diede la sensazione di praticare una gestione autonoma e, pertanto, gradita a tutti. Ferdinando rivolse la sua attenzione ai ceti popolari di cui ne privilegiò gli interessi in contrasto con quelli dei proprietari terrieri che, assieme all’elevata criminalità ed alla dispersione di energie nel contenerla, riteneva responsabile dello stato miserevole in cui versava la popolazione. Questi tentativi di cambiamento non valsero comunque a far accettare ai siciliani l’idea della dipendenza da Napoli.
Nel 1837, a causa del diffondersi di una epidemia di colera (32), predispose per tempo le contromisure fissando pene severe per coloro che trasgredivano le disposizioni sanitarie emanate ed intervenne personalmente nella organizzazione dei vari presidi. L’epidemia lasciò cadaveri dappertutto e nella Sicilia occidentale, Catania, Siracusa ed in altri centri, diede origine al fermento cittadino che esplose in selvagge manifestazioni di collera intrise da egoismi e sentimenti di rivalsa che non trascurò ritorsioni e vendette. A queste si sovrappose l’avversione a Napoli che si manifestò con l’abituale richiesta di indipendenza e l’esposizione della bandiera gialla che ne era il simbolo. L’intervento delle truppe mercenarie svizzere e qualche esecuzione concluse questa estemporanea e malinconica rivolta.

Il viaggio in Sicilia del 1838 consentì a Ferdinando II di rendersi conto del disagio popolare che attribuì alla mancata applicazione delle leggi esistenti. Costume che cercò di contrastare con disposizioni di carattere amministrativo e finanziario, mediante cui revocò la riserva della conduzione degli uffici amministrativi ai funzionari siciliani esposti, per vincoli familiari, all’influenza delle clientele ed alla intimidazione dei potenti cui si aggiunse la riduzione dell’imposta sul macinato che maggiormente gravava sulle classi più povere. Diede disposizione di avviare una nuova suddivisione dei latifondi ecclesiastici sotto patronato reale. Tentativi di riforma di nuovo ostacolati dalla miopia delle classi abbienti che, nemici di ogni cambiamento, non compresero che l’incremento della popolazione accresceva la minaccia della fame e, con essa, la potenzialità rivoluzionaria. Questa, da anarchica che era, nel momento in cui l’orgoglio popolare si rafforzò con l’insoddisfazione verso il governo centrale cui si faceva risalire le responsabilità di ogni malessere, assunse carattere politico in grado di rappresentare l’aspirazione dei siciliani all’autonomia. Questa, raggiungibile attraverso l’adesione ad una confederazione italiana, costituiva l’unica via per sottrarsi al governo di Napoli (34) che, consapevole delle divisioni tra siciliani e della mancanza di una guida, riteneva di poter controllare.
Nel 1839 si inaugurò nel Regno il primo tronco ferroviario costruito in Italia, la Napoli-Portici cui seguirono numerose altre opere tra cui il primo ponte sospeso in ferro.

Ferdinando in politica estera cercò di controllare il tentativo del ministro inglese Palmerston (n. 48) di assumere il controllo del mediterraneo. Ed in questo tentativo si inserisce la sua rottura con l’Inghilterra allorché nel 1838, nel corso del suo viaggio in Sicilia, per compensare la perdita derivante dalla eliminazione della tassa sul macinato sui suoi territori (vedi seguito) e per agevolare l’industria ed il commercio dello zolfo, materia prima per la produzione di esplosivi e più importante risorsa mineraria, stipulò con una ditta di Marsiglia una convenzione notevolmente più vantaggiosa di quella in vigore con l’Inghilterra. Il ministro Palmerston reagì interrompendo le relazioni diplomatiche e, non ottenendo soddisfazione in sede giudiziaria, decise l’embargo di tutti i porti napoletani. Provvedimento quindi revocato per l’intervento mediatore del re di Francia Luigi Filippo che fece revocare il contratto coll’industria francese a fronte di un indennizzo che ricevettero anche i mercanti inglesi per il mancato guadagno. Tutto a carico dei siciliani in cui crebbe il risentimento verso Ferdinando. E gli stessi inglesi non dimenticarono (n. 48).


Le rivoluzioni del ‘48 nel Regno delle Due Sicilie
- Le motivazioni

Alla base di esse vi furono le rivendicazioni economiche politiche e culturali che, in Europa, vanno ricercate nei cambiamenti indotti dalle rivoluzioni industriale e sociale di fine ‘700. Le ragioni di carattere economico sono in buona misura attribuibili al 40% di crescita demografica verificatasi dall’inizio dell’800, senza che, a fronte di questa, si realizzasse un adeguato progresso agricolo ed industriale (35). Nel clima di crescita disordinata, le popolazioni interessate a migliorare il loro stato sollevarono una serie di proteste che potevano essere soddisfatte con una razionale organizzazione del lavoro e con la scomparsa dello sfruttamento. La classe borghese invece, più interessata a perseguire obiettivi di libertà politica, mirava ad abbattere il sistema creato dal Congresso di Vienna ed appena intaccato dalle rivoluzioni degli anni ’20 e ’30, al fine di ottenere la concessione della Costituzione o, dove essa era già in vigore, il corretto funzionamento del sistema parlamentare. Intanto i moderati ed i reazionari, interessati a conservare gli ordinamenti economici e sociali esistenti, erano assaliti dal timore della rivoluzione e dalla la paura della diffusione delle idee socialiste che portava a vedere, in ogni manifestazione popolare di rivendicazione liberale o di richiesta di riforme, l’ombra minacciosa della sovversione e l’attentato alla proprietà.
Le tensioni si acuirono alla fine degli anni ’40 a causa della crisi economica che, derivante dalla caduta degli investimenti ed dalle speculazioni legate alla costruzione della rete ferroviaria, causò in Europa (36) una serie di rivoluzioni che da Parigi (22 febbraio) dilagarono riuscendo a conciliare interessi contrastanti.

In Italia alla fine degli anni ‘40 la scintilla rivoluzionaria si innescò con l’elezione di Pio IX (luglio 1846) (37) (*) che, avvenuta in contrapposizione al cardinale Lambruschini, dichiaratamente conservatore, sollevò nuove speranze con timide aperture (libertà di stampa), inducendo analoghe concessioni in Piemonte ed in Toscana e fornendo ai democratici motivo per riproporre i temi dello sviluppo economico e sociale e delle riforme politiche.
Il 1848, un anno problematico per l’Italia. Si era avviato con manifestazioni a Milano (sciopero del fumo del 1 gennaio), era proseguito con insurrezioni nel Regno delle Due Sicilie e nel Lombardo-Veneto, con la decisione di Carlo Alberto di promuovere la guerra di indipendenza contro l’Austria (vedi seguito) e con la costituzione della Repubblica Romana (n. 38).
Contro l’assolutismo di Ferdinando che rifiutava ogni apertura democratica insorse Palermo (12 gennaio) nella rivolta più generalizzata dal tempo dei Vespri, cui fece seguito Napoli ed altre città del Regno con importanti manifestazioni che indussero Ferdinando II a fare appello all’intervento austriaco. Reso vano tale appello dal rifiuto del Papa di concedere il passaggio delle truppe nel suo territorio, Ferdinando si vide costretto a concedere, il 29 gennaio, la Costituzione, che, proclamata il 10 febbraio 1848 (38), diede avvio ad altre concessioni in Italia dove il 17 febbraio veniva concesso lo Statuto in Toscana, il 4 marzo in Piemonte lo Statuto Albertino ed il 14 marzo la Costituzione nello Stato Vaticano.

- L’insurrezione di Palermo del 1848

Nel mese di luglio del 1847 con l’arrivo a Palermo di Ferdinando II per i festeggiamenti di Santa Rosalia si erano verificati segnali di insofferenza che, prontamente sedati, si ripeterono in novembre quando avvennero i primi scontri con la polizia.

Sulla scia di questa, altre agitazioni si verificarono nelle principali città del Regno, favorite dalla diffusione della Protesta del popolo delle Due Sicilie, di Luigi Settembrini (39).

La sommossa di Palermo, da qualche giorno annunciata confidando sullo spirito cronicamente ribelle del popolo, insoddisfatto per i disagi derivanti dalla crisi economica cui si sovrappose la tradizionale tendenza separatista, scoppiò il 12 gennaio 1848. Senza un orientamento politico riconoscibile, prevalsero i motivi sociali contrapponendo la categoria rivoluzionaria dei contadini ai pastori, nemici dell’agricoltura. Categorie che in comune covavano un desiderio di vendetta contro la società urbana. A questo si aggiungeva la rivalità fra famiglie e tra bande.
La folla abituale dei giorni di festa ricevette il segnale da piccoli gruppi di democratici borghesi guidati dallo studente Giuseppe La Masa ed ispirati dalle società segrete. La rivolta, di violenza inaspettata, si manifestò con l’occupazione del popolare quartiere di Fieravecchia e la costruzione di barricate, dilagando quindi in città e nelle campagne. In città si verificarono crudeli assassini di poliziotti e di informatori di origine siciliana mentre non si manifestava altrettanta ostilità verso i soldati stranieri. Nelle campagne, l’eccitazione scandita dal suono delle campane provocò stragi di greggi e distruzioni di terre coltivate. In tale caotica situazione due noti malviventi, Di Miceli e Scordato con i loro uomini armati, giunsero a Palermo in appoggio all’insurrezione e si misero ai margini del potere costringendo il contingente borbonico, privo di guida e di approvvigionamenti, ad abbandonare la città. Non appena l’esercitò si ritirò divenne necessario sottrarre la città alla furia vandalica dei popolani ed indirizzare la rivolta verso un obiettivo politico separatista con la formazione di comitati composti da membri liberali che ricevettero l’adesione di altre città, Messina e Catania e numerosi villaggi.

Ferdinando II si vide costretto ad offrire la possibilità di autogoverno a condizione che fosse riconosciuta la sua sovranità, ma i responsabili, trascurando di valutare la loro debolezza, rifiutarono, procedendo all’elezione del parlamento secondo la costituzione siciliana del 1812. Non potendo votare i contadini e la stragrande maggioranza dei cittadini analfabeti, risultò eletto un parlamento moderatamente conservatore. Questo, appena insediato (25 marzo 1848), dopo aver dato vita ad un governo presieduto ...

... da Ruggero Settimo e composto, fra gli altri, dal barone Riso al ministero della guerra e Michele Amari alle finanze, proclamò (1 aprile) l’indipendenza (40) e successivamente, 13 aprile, la decadenza di Ferdinando II, dotando la Sicilia di un’autonomia che non conosceva da secoli. Essa fu dichiarata componente di una federazione italiana con l’invio di ambasciatori per il riconoscimento del Regno di Sicilia da parte di altri Stati italiani e di un simbolico contingente che contribuisse alla lotta di liberazione in corso in Lombardia.
Per il mantenimento dell’ordine e per limitare il potere delle squadre armate, fu reclutata una Guardia Nazionale che, costituita con personale borghese e nobiliare, face prevalere la necessità di risposte sociali (pane, lavoro e riduzione dei dazi) in contrasto con gli interessi delle classi benestanti. Questa contrapposizione contribuì a far decadere l’iniziale comune entusiasmo e fece peggiorare il controllo dell’amministrazione e l’organizzazione dei servizi di sicurezza, dando spazio alle scorrerie delle bande armate nei villaggi e nelle campagne. Con il prevalere del disordine rinacque il desiderio di un governo efficiente, che, pur in un susseguirsi di cambiamenti, non si riuscì a recuperare il controllo della situazione.

Ferdinando II, avendo consolidato la sua posizione a Napoli, nel settembre 1848, inviò un contingente guidato dal generale Carlo Filangeri ad assediare Messina che resistette sorretta dalle squadre di Di Miceli e Scordato e da volontari accorsi da molte parti (41). Si verificarono tra siciliani e napoletani scontri corredati da episodi di crudeltà attribuibili all’odio che li divideva. Nel febbraio del 1849, a seguito dell’isterico rifiuto all’offerta di Ferdinando II volta ad assicurare alla Sicilia un parlamento separato ed un viceré, l’esercito borbonico intensificò la sua azione di bombardamento su Messina, sorretta da un esercito siciliano non addestrato, né disciplinato e guidato da un polacco inesperto ed in difficoltà a farsi comprendere. Messina e Catania caddero dopo scontri feroci, Siracusa si arrese per non subire una analoga sorte. Palermo, con la indistinta partecipazione di tutta la popolazione scavò trincee protettive mentre tutta la struttura rivoluzionaria crollava ed i ministri si sottraevano alle loro responsabilità. Il comandante della Guardia Nazionale, il moderato barone Riso, sostenuto dall’industriale Florio e da altri imprenditori, si adoperava per far cessare le ostilità in contrapposizione con i radicali (42) alla ricerca di soluzioni estreme. Allorché la folla, priva di guida cominciò a presidiare le barricate, Riso che aveva ricevuto l’appoggio dei capibanda, desiderosi di trovarsi dalla parte vincente, prese contatto con Filangeri che, con le truppe, entrò in una Palermo ormai controllata dalle bande che avevano disarmato la gente.
L’ingloriosa conclusione della rivoluzione di Palermo procurava sollievo alle province timorose di cadere sotto il suo giogo.

- L’insurrezione di Napoli del 1848

L’esempio di Palermo e le notizie che giungevano da Parigi accese gli animi anche a Napoli ed in altre città del meridione coinvolgendo la classe contadina che si rifiutava di pagare le tasse ed invadeva le terre signorili e demaniali. In città intanto il ceto medio costituito, in gran parte da impiegati e professionisti divisi da tendenze diverse e contrapposti da personali animosità, trovava motivi di tumultare contro le istituzioni, fornendo occasione alle varie fazioni (democratici, legittimisti, moderati) di attivarsi e proporre varie istanze tra cui quella di inviare un esercito regolare a sostegno dei patrioti lombardi, accettata da Ferdinando al fine di limitare i disordini (n. 17).
Dalle elezioni politiche di aprile emerse una maggioranza liberale ed all’apertura del Parlamento del 13 maggio, Ferdinando II lanciava un proclama in cui apriva all’idea di indipendenza italiana ma veniva in contrasto con i deputati sulla formula di giuramento. La diffidenza nei confronti del monarca e voci di colpo di stato sollevò tra la folla tale concitazione da fare uscire le truppe dalle caserme per presidiare la città. Evento che accese ancor più gli animi dei cittadini che incominciarono ad erigere barricate, inducendo il re a proporre (15 maggio) una formula di giuramento “..giuro di essere fedele alla costituzione quale sarà svolta e modificata dalle due camere d’accordo con il re ..” che, pur accettata dai deputati, non valse a sedare gli animi ormai troppo infiammati. Allo scoppio di tafferugli risposero le artiglierie dei fortini rivolti contro le barricate che erano state costruite e che furono assaltate ed espugnate dalle truppe svizzere e napoletane, guidate dal generale Nunziante e sostenute dai lazzaroni (43) causando un numero imprecisato di morti imprecisato e numerosi arresti. Sedata la ribellione il re cambiò la composizione del ministero, sciolse la camera dei deputati, dichiarò lo stato d’assedio ed istituì una commissione per inquisire i reati commessi. Senza abolire la costituzione del 10 febbraio fu indetta l’elezione di un nuovo parlamento e richiamate le truppe inviate in appoggio a Carlo Alberto.

Ferdinando riprese il potere assoluto sferrando una controffensiva coll’intento di mantenere il suo regno isolato ad ogni apertura. Controffensiva che si estese alla Sicilia. Ogni libertà fu cancellata e si cercò di estirpare ogni traccia di quel partito liberale che prima era stato fautore della costituzione ed ora dell’unità. Come nella tradizione borbonica, furono avviati numerosi processi che, impostati sulla base di semplici sospetti e delazioni (44), videro tra i condannati i maggiori esponenti della cultura napoletana tra cui Luigi Settembrini (n. 38), Carlo Poerio (n. 21), Silvio Spaventa, Francesco da Sanctis, Pasquale Villari.(45)

- Rivolte in Calabria

La Calabria si era distinta per le attività rivoluzionarie delle sue genti (46) che a Catanzaro, nel marzo del 1823, avevano promosso una rivolta di breve durata i cui responsabili furono giustiziati.
Alla fine degli anni ’30 una situazione di tensione scandita dall’epidemia di colera fu aggravata da sommosse, nel cosentino e nel catanzarese, controllate dal Del Carretto (n. 28) commissario per le Calabrie e braccio destro del ministro della polizia. Da questa immagine di Regione pronta all’insurrezione furono attratti i fratelli veneziani Attilio ed Emilio Bandiera allorché, nel 1844, da loro esilio di Corfù decisero di tentare di promuovere una sommossa sbarcando a Crotone con un decina di loro compagni. La piccola spedizione si diresse verso Cosenza ma, tradita da un componente, fu intercettata a S. Giovanni in Fiore ed i fratelli Bandiera con una decina di loro compagni catturati e fucilati nel vallone di Rovito (25 luglio 1844). Sembra che questo tentativo fosse stato sconsigliato dal Mazzini che, tuttavia, era accusato dai moderati di sprecare vite umane in tentativi che non ricevevano ancora il favore dell’opinione pubblica.

Nel settembre del 1847, sul versante ionico della Calabria (Roccella, Gioiosa e Gerace), si era registrato, con la richiesta di una costituzione liberale. Tale tentativo insurrezionale si concluse in breve con l’intervento delle truppe governative guidate da Nunziante e con la fucilazione degli insorti.
Nel 1848, a seguito delle rivolte di Napoli avvennero manifestazioni in Calabria dove, a Cosenza, si formò un governo provvisorio che, in nome della libertà nazionale, chiese aiuti alla Sicilia che, ancora in periodo rivoluzionario, il 12 giugno, inviò a sostegno un esiguo contingente guidato dal colonnello Ribotti il quale si mise a capo di tutte le forze che si erano radunate dalla provincia. Il governo di Napoli per sedare la rivolta predispose l’invio di tre contingenti, due via mare sbarcarono a Sapri, quello guidato da Busacca ed a Pizzo quello guidato dal generale Ferdinando Nunziante in maniera da sbarrare la strada ai ribelli da nord e sud, mentre un terzo contingente, guidato da Lanza, giungeva in zona via terra. Ribotti, potendo contare su un esiguo gruppo, peraltro decimato dalle defezioni dei volontari, ripiegò verso le montagne del Tiriolo (2 luglio) dove lo seguì anche il governo provvisorio. Nunziante che contava di accerchiare i rivoltosi, negò loro la facoltà di ritirarsi in Sicilia. Questi trovarono comunque la via per raggiungere la costa ionica ed imbarcarsi per riparare in Grecia dove giunsero, a Corfù, l’11 luglio, inseguiti da un vascello napoletano comandato da Salazar che, per trarre in inganno i fuggitivi, issò la bandiera inglese. Salazar riuscì così a catturare i fuggiaschi e condurli in varie fortezze borboniche dove sarebbero finiti sul patibolo se non fosse intervento l’ammiraglio inglese Parker che, venuto a conscenza dell’inganno, informò il governo napoletano che l’Inghilterra (48) avrebbe disapprovato “qualsiasi atto di severità associato all’abuso della bandiera britannica”. I prigionieri ebbero salva la vita ma molti rimasero per lunghi anni in carcere, in attesa del processo.

Il Regno di Sardegna

Vengono riprese le vicende legate al Regno di Sardegna per il ruolo che esso va assumendo nel processo di unificazione.
Come si è anticipato (*), col Congresso di Vienna che aveva riportato sul trono sardo Vittorio Emanuele I (1802-1821), si verificò nel Regno una piena restaurazione ed un assolutismo gretto e retrivo a cui concorse la struttura ecclesiastica. Ma le tensioni sorrette da speranze di libertà affiorarono inesorabilmente, allarmando il Metternich che, diffidente della politica troppo ottusa del re di Sardigna, temeva sorgesse nei settori più consapevoli la nostalgia del riformismo napoleonico.
Il movimento rivoluzionario di Napoli costituì una fonte di sollecitazione per i movimenti liberali dell’Italia settentrionale e l’intervento austriaco a Napoli (1821) non fece altro che provocare in essi una indignazione tale da intensificare gli sforzi volti ad una strategia di carattere nazionale. Questa prevedeva, in avvio, l’unione del Lombardo-Veneto al Piemonte in un Regno guidato da una monarchia Savoia in una forma costituzionale moderata.

- I moti del 1821 in Piemonte

Nel marzo 1821, i rivoluzionari piemontesi, tra cui si trovavano ufficiali dell’esercito ed esponenti della nobiltà, come Santorre di Santarosa e che potevano contare sul contributo di esponenti liberali piemontesi e lombardi (49), ritenendo di poter far leva sul sentimento antiaustriaco di Vittorio Emanuele I ed utilizzando la mediazione del presunto erede al trono, Carlo Alberto (50), gli proposero, in cambio della concessione della Costituzione, il sostegno per una azione militare contro l’Austria. Questa sarebbe stata finalizzata all’annessione di una Lombardia, al momento sguarnita di difese, essendo le truppe imperiali impegnate contro i patrioti napoletani di Guglielmo Pepe. Proposta che fu respinta da Vittorio Emanuele I in quanto la scelta avrebbe significato sia di porsi contro la Santa Alleanza e scendere in campo contro l’Austria che si era assunto il ruolo di gendarme europeo, sia di legarsi ai liberali da cui egli si sentiva distante e distinto. Questi non riuscirono a fermare il moto rivoluzionario che, già preparato dalla carboneria con minuziosi contatti e fissato per il 10 marzo, si avviò con tumulti di studenti all’Università di Torino cui seguì la sollevazione delle guarnigioni di Alessandria, Pinerolo e Vercelli inalberando il tricolore (51) e da qui il movimento rivoluzionario si estese a Torino, al resto del Piemonte ed a Genova. Il re colto di sorpresa e pressato dai ministri era sul punto di concedere la Costituzione allorché il ministro degli esteri Carlo Emanuele Asinari di San Marzano rientrò da Lubiana con la notizia che le potenze europee sarebbero intervenute a stroncare ogni tentativo rivoluzionario. La notizia sollevò Vittorio Emanuele dal timore di essere sopraffatto dai rivoluzionari ma, sopraffatto da quello ancor maggiore di un intervento austriaco, si decise ad abdicare in favore del fratello Carlo Felice (52) che si trovava a Modena.

Non volendo Vittorio Emanuele restare a Torino (53) affidò la reggenza a Carlo Alberto il quale, tentennando ambiguamente tra rivoluzione e controrivoluzione e non riuscendo a controllare la situazione, dopo una minacciosa manifestazione in piazza Carignano a Torino, cedette alle richieste dei cospiratori concedendo la Costituzione spagnola a condizione della conferma da parte di Carlo Felice. Questi, impreparato al governo ed affidandosi al consiglio del reazionario Francesco IV di Modena (*) sconfessò il provvedimento di Carlo Alberto a cui ordinò di raggiungere i reparti realisti radunati a Novara agli ordini del generale De La Tour, quindi invocò l’intervento austriaco. Decisioni che colsero di sorpresa gli insorti il cui capo, Santorre di Santarosa, nominato ministro della guerra da Carlo Alberto prima di lasciare Torino, si prodigava a tenere unito il piccolo esercito costituzionale che, falcidiato dalle defezioni, si mosse comunque verso Novara con l’intenzione non tanto di affrontare le truppe ammassate in quella città ma con la speranza di attrarle alla loro causa. Invano, perché l’esiguo contingente fu affrontato e disperso (8 aprile) prima ancora dell’arrivo degli austriaci.

Carlo Felice, prima di lasciare Modena, predispose il ripristino del governo assoluto e diede avvio ad arresti e processi mentre molti liberali prendevano la via dell’esilio andando a combattere per la libertà della Spagna o per l’indipendenza della Grecia. Il decennio di regno di Carlo Felice, coincidente con quello della reazione, fu caratterizzato da grigiore culturale ed opposizione ad ogni forma di liberalismo.
Gli successe Carlo Alberto (1831-1849) (n. 50 e 52) che si dedicò al riordinamento amministrativo dello Stato, intervenendo per il risanamento delle finanze, lo sviluppo economico, l’organizzazione dell’esercito ed assumendo, come il suo predecessore un atteggiamento conservatore e filo-clericale che si espresse con una politica repressiva nei confronti degli affiliati alla Giovine Italia (n. 11). Quindi mutò atteggiamento abolendo i diritti feudali (54) e, negli anni ‘40, sotto la spinta di Vincenzo Gioberti e Massimo d’Azeglio (55), diede seguito ad una serie di aperture che permisero lo sviluppo della vita politica che lo portò ad emanare (4 marzo 1848), a seguito di iniziative di altri sovrani, lo statuto che porta il suo nome. Lo Statuto Albertino (56) diventerà successivamente la Costituzione del Regno d’Italia e, come tale, rimarrà in vigore fino al 1946.

- La guerra all’Austria del 1848

La caduta del Metternich, nel 1848, seguente alle rivolte di Vienna, Budapest e Praga, ebbe ripercussione sui domini asburgici in Italia, escluse fino ad allora dal moto di libertà che, nelle altre regioni aveva dato già qualche risultato e le cui iniziative di insurrezione segnarono il passaggio dal moto alla guerra contro L’Austria.

Il 18 marzo 1848 si verifica, spontaneamente e con larga partecipazione popolare una sommossa a Milano che si protrasse fino al 22 (cinque giornate di Milano) e che coinvolse altre città e le campagne lombarde, costringendo la guarnizione austriaca, comandata dal maresciallo Radetszky a ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero (Mantova, Peschiera, Verona e Legnano).


L’insurrezione si estende anche al Veneto dove, il 22 marzo, Daniele Manin e Nicolò Tommaseo (57) proclamano, a Venezia, la repubblica di San Marco. Tali fatti inducono il re di Sardegna, Carlo Alberto, ad assumere la guida della causa nazionale italiana. Egli, in risposta alle richieste di aiuto dei milanesi scese in campo e con 45.000 uomini varcò il Ticino (25 marzo) per penetrare nel territorio Lombardo ed occupare Milano (26 marzo). Prendeva così avvio la I guerra di indipendenza, col sostegno di contingenti del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Vaticano che avevano inviato rispettivamente due divisioni ciascuno, sorrette anche dal contributo di reparti e volontari provenienti dal Granducato di Toscana. Coalizione di difficile gestione e destinata a non durare a lungo. Infatti, in aprile Pio IX, dichiarava di non condividere (n. 38) le finalità della guerra e ritirava le sue truppe, seguito da analoga decisione del re delle Due Sicilie travagliato dalle insurrezioni in Sicilia e nel napoletano. Carlo Alberto restava in difficoltà e, malgrado la vittoria di Goito (30 maggio) che faceva ripiegare gli austriaci su Mantova, rincorreva una soluzione diplomatica.
Questa situazione ridiede vigore all’Austria che, in giugno, riprendeva il controllo del Veneto, in luglio, attaccava i piemontesi sconfiggendoli a Custoza (58) ed in agosto, riprendeva Milano ed avviava la repressione gestita dal maresciallo Radetzky che reggerà con il pugno di ferro il Lombardo-Veneto..
Il generale Salasco firmava l’armistizio per conto di Carlo Alberto che, nel marzo 1849, per reagire alle accuse dei democratici e su sollecitazione del parlamento, decise avventatamente, di riprendere le ostilità contro l’Austria che lo sconfiggeva a Novara (23 marzo). Per evitare pesanti condizioni di pace, Carlo Alberto si vedeva costretto ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II ed a ritirarsi mestamente in esilio ad Oporto, in Portogallo, dove morì pochi mesi dopo.

Si apriva con Vittorio Emanuele il decennio che porterà all’unificazione.

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Note
1) Questi Stati avevano condotto una politica differenziata da quella austriaca e si erano dati una costituzione che non prevedeva una limitazione del potere del principe ma l’introduzione di un governo rappresentativo.

2) L’Austria, Regno di Sardegna a parte (*), aveva in maniera diretta o indiretta il controllo del territorio italiano dove, governando attraverso funzionari, avrebbe voluto creare, con una centrale di polizia a Milano, una lega fra gli Stati italiani, la cui direzione sarebbe spettata all’imperatore d’Austria. Tali progetti non videro la realizzazione perché gli stessi sovrani italiani appartenenti agli Asburgo, sostenuti dalla diplomazia russa e francese che rinfocolava sospetti nell’intento di impedire all’Austria la realizzazione dei suoi piani, erano gelosi della loro indipendenza. Nel Lombardo-Veneto, si poteva tuttavia rilevare, pur in mancanza di libertà, una certa efficienza amministrativa ed altrettanto nei Ducati di Parma e Piacenza, in quello di Modena e soprattutto nel Granducato di Toscana dove venne mantenuta la tradizione riformista di Leopoldo d’Asburgo.

3) Il ministro inglese Castlereagh definì l’accordo “un documento di sublime misticismo ed assurdità”.

4) Tra le molte proposte vanno segnalate quelle di premere sulla Svizzera per espellere i rifugiati, di privare Carlo Alberto del diritto di successione al trono di Sardegna per il suo ruolo nei moti piemontesi del 1821 descritti di seguito.

5) Il Romanticismo, un movimento filosofico letterario si sviluppò in contrasto con la schematizzazione dell’illuminismo il cui fine era stato quello di razionalizzare tutti i modelli della vita civile. In ciò coinvolgendo alcuni monarchi (despota illuminato) che, utilizzando quegli schemi in un opera di livellamento legislativo ed amministrativo, andarono a scontrarsi con gli interessi dei ceti privilegiati, rafforzando di fatto, il potere assoluto. Questo livellamento ha innescato un movimento culturale tendente ad esaltare tradizioni, lingua e cultura delle popolazioni che cercavano di rivendicare la propria originalità. Il movimento si politicizzò allorché i popoli soggetti dovettero subire la politica energica e sbrigativa di Napoleone che applicava schemi amministrativi uguali dappertutto. Il fermento di popolo che si era innescato non si arrestò con la caduta di Napoleone, anzi si accentuò con la restaurazione diffondendosi anche nei paesi politicamente indipendenti. Il desiderio di affermazione dell’individualità nazionale trovò l’unanime consenso di tutti i ceti sociali che, però, si differenziarono sulla scelta delle forme politiche da perseguire. In Italia, G. Mazzini diede una forte connotazione democratica al romanticismo, contrapponendo la centralità del popolo ad una concezione elitaria della politica.

6) In Spagna si diffusero i Comuneros, in Germania la Burschenchaf, in Grecia l’Eteria, in Italia la Carboneria. Questa società, un fenomeno elitario e di minoranza, durante il periodo napoleonico, nacque nelle regioni meridionali, generandosi dalla Massoneria, come associazione di mutuo soccorso dando origine, nel 1813, ai primi tentativi di insurrezione, a Cosenza, Teramo e Pescara, repressi da Murat. La carboneria operava sottoforma con circoli clandestini (vendite o club) che servivano da collegamento fra i suoi componenti provenienti dall’esercito, dalla borghesia terriera e dal basso clero. Essa si diffuse quindi nello Stato Vaticano, nel Piemonte ed in Lombardia, infiltrandosi poi tra tutte le classi sociali, perseguendo un programma politico moderato basato su una monarchia costituzionale in cui era consentita la libertà di stampa, di riunione e di manifestazione del pensiero, pur se non mancarono tendenze di tipo repubblicano o separatista. Nel Regno delle Due Sicilie era avversata dalla società segreta dei Calderai che, organizzata dal principe di Canosa (n. 13) e costituita dal peggio della plebe napoletana, abusò in furti ed omicidi. I calderai avevano come simbolo un caldaia sotto cui arde e si consuma il carbone. La carboneria fu investita dall’ondata repressiva conseguente i moti del 1820 e le strutture che sopravvissero furono influenzate dalle ideologie radicali promosse dalla società segreta Adelphia che, guidata da Filippo Buonarroti (1761-1831), cospiratore toscano naturalizzato francese, operava principalmente in Piemonte.

7) Responsabile della rivolta a San Pietroburgo fu il movimento decabrista (dicembre 1825, da cui il nome). Essa fu organizzata da ufficiali dell’esercito imperiale e volta ad indirizzare la Russia verso una economia liberale con l’abolizione della schiavitù. La rivolta approssimativamente preparata, fu facilmente sedata dallo zar Nicola I (1825-1855, fratello di Alessandro I) che fece impiccare i responsabili e destinò ai lavori forzati in Siberia diverse centinaia i partecipanti.

8) Carlo X (1757-1836) divenne re nel 1824, dopo la morte del fratello Luigi XVIII, rendendosi subito impopolare per le sue concezioni assolutiste e bigotte. Dopo le elezioni del 1830, ancora favorevoli all’opposizione, Carlo reagì con quattro ordinanze (luglio 1830) che sospendevano la libertà di stampa, scioglievano il parlamento e convocavano nuove elezioni, con restrizione del corpo elettorale. La risposta si ebbe, a Parigi, con le tre giornate insurrezionali del 27-29 luglio che indussero il re a promettere il ritiro dei decreti. Promessa che non convinse i rivoltosi e costrinse il re alla fuga. I moderati, nel timore del risorgere della repubblica, offrivano la corona al duca Luigi Filippo d’Orleans (1830-1848) che entrò a Parigi accolto da Lafayette (v. Il Meridione d’Italia Borbone di fine ‘700, I parte; stesso sito). L’affermarsi di questa rivoluzione poneva fine al periodo della restaurazione. Gli avvenimenti di Francia ebbero ripercussioni in Belgio e Polonia.
Il Belgio, con l’insurrezione dell’agosto 1830, si affrancò dall’Olanda, da cui lo dividevano storia religione e lingua ed a cui era stato aggregato dal Congresso di Vienna, e si diede un re, Leopoldo di Sassonia Coburgo (1790-1865) ed una nuova costituzione ritenuta più avanzata di quella francese aggiornata da Luigi Filippo e divenuta modello per i movimenti liberali.
In Polonia fu la classe nobiliare ed alcuni gruppi intellettuali a promuovere l’insurrezione (novembre 1830) mirante a scrollarsi la dipendenza dalla Russia ed a costituire un nuovo Stato nazionale. Il reggente Costantino, fratello dello zar Nicola I, fu costretto a lasciare Varsavia. Il mancato coinvolgimento della classe contadina e la mancanza di sostegno dall’Europa, permisero allo zar di abbattere, nel settembre 1831, la resistenza: “l’ordine regna a Varsavia”.

9) In Emilia i moti, di origine carbonara, furono promossi da un facoltoso commerciante modenese, Ciro Menotti (1799-1831) che prospettò al duca Francesco IV di Modena la possibilità di ottenere, attraverso una sommossa, un ampliamento dei suoi territori e l’eventuale corona di re. Progetto che trovò l’opposizione dei liberali toscani, diffidenti del duca e dei suoi legami con l’Austria e non convinse lo stesso duca che, nella notte del 3 febbraio, arrestò Menotti ed i suoi i compagni, nell’intento di prevenire la sommossa fissata per il giorno 5. Questa si sviluppò ugualmente nelle Marche ed Umbria fino ai confini con il Lazio dove i poteri locali vennero sostituiti da governi provvisori. Ciò indusse il duca a riparare a Mantova, portando con se Menotti imprigionato ed a sollecitare l’intervento austriaco che non ebbe difficoltà a ristabilire l’ordine, mentre alcuni promotori si rifugiavano all’estero. Francesco rientrò e Menotti venne giustiziato il 26 maggio. Il moto non ebbe rilevanza ma diede il segno che, pur in un periodo di generale stagnazione, gli animi erano pronti ad infiammarsi.

10) Giuseppe Mazzini (1805-1872), grande profeta del patriottismo italiano. Ricevette una educazione improntata alla rigida religiosità giansenista (Giansenismo è una dottrina elaborata da Giansenio, XVII sec., che ritiene l’uomo, a seguito del peccato originale, incapace di resistere al male e che la grazia è concessa da Dio secondo la sua volontà), si affiliò alla Carboneria, 1830. Arrestato e rimesso in libertà per mancanza di prove, si reco in esilio a Marsiglia. Venne in contatto con Buonarroti (n. 7) e con le idee di Saint-Simon (n. 12). Si staccò dalla carboneria di cui criticava il settarismo e fondò la Giovane Italia (1831). Egli pose al centro del programma di lotta contro l’assolutismo ed il dominio straniero, l’unità e l’indipendenza delle nazioni oppresse che potevano essere conseguite attraverso una profonda rivoluzione politica, intellettuale e morale di cui il popolo doveva essere protagonista al fine di rispecchiare le esigenze di tutta la comunità e gestire direttamente e democraticamente uno nuovo Stato repubblicano. Qualunque altra soluzione avrebbe lasciato sopravvivere, pur in forma diversa, i vecchi mali. Egli, malgrado abbia avuto, nel meridione, discepoli come Luigi Settembrini a Napoli (n. 40), Benedetto Musolino di Pizzo, fondatore dei Figliuoli della Giovane Italia, ebbe poca attenzione per queste regioni, ritenendo, in particolare i movimenti liberali siciliani, troppo finalizzati alla loro indipendenza per sentire un profondo sentimento di unità nazionale.

11) La parola socialismo divenne comune intorno al 1830 e non nacque da una filosofia politica ma da un sentimento che emergeva dalle miserevoli condizioni di vita cui era costretta la stragrande maggioranza della popolazione. Questa condizione aveva posto all’attenzione dei responsabili e degli intellettuali la questione sociale che doveva essere affrontata con interventi legislativi di politica sociale le cui modalità furono argomento di dibattito politico e di diversi percorsi legislativi. La questione sociale venne affrontata, In Inghilterra, con un’azione congiunta tra movimento riformatore ed organizzazioni sindacali (Trade Unions, sorte in Inghilterra, con l’affermazione del capitalismo la cui origine è controversa ma che si affermò con la rivoluzione industriale del XVIII sec.). In altre realtà, partendo dalla considerazione che il capitalismo cresciuto con la rivoluzione industriale avrebbe prodotto maggiore miseria, si impostarono forme più radicali di trasformazione sociale, abbinando nuovo sistema sociale a nuovo Stato. Prendeva forma, con le varianti caratterizzanti ciascun paese, il socialismo come pensiero politico che, nel subordinare i diritti individuali agli interessi della collettività, si contrapponeva al liberalismo (affermatosi con la dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese, aveva assunto poi varie differenziazioni) teso a valorizzare la libertà individuale. Nella sua prima fase ideale di elaborazione si possono distinguere il socialismo utopistico (Hanri de Saint-Simon, Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon, Luis Blanc) dal socialismo scientifico (Karl Marx, Friederich Engels).

12) Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1763-1838), diede fin dal suo apparire segni di insubordinazione essendo stato arrestato sia dai francesi (1799) perché fervente sostenitore borbonico, sia dai Borboni (1799) per insubordinazione al vicario regio. Riappacificatosi con Ferdinando lo seguì in Sicilia nel 1806 e fu utilizzato per diversi incarichi, dalla gestione delle isole di Capri, Ponza e Ventotene alle formalità per la condanna e fucilazione di Gioacchino Murat (*). Dopo la restaurazione del 1816 viene chiamato al governo come ministro della Polizia, rimosso e richiamato nel 1821.

13) Luigi de’ Medici (1759-1830), appartenente al ramo napoletano dell’illustre famiglia, funzionario dei Borbone, li seguì in Sicilia e fu loro plenipotenziario al Congresso di Vienna. Divenuto ministro, condusse una politica moderata tendente a saldare la classe dirigente borbonica con quella del periodo murattiano che aveva favorito la formazione del ceto borghese. Concluse un Concordato con la Santa Sede (1818). Messo in disparte durante la rivoluzione liberale del 1820, fu reintegrato per imposizione degli Austriaci.

14) Festa di San Teobaldo, patrono della Carboneria.

15) A Cadice, unica città spagnola non conquistata dai francesi, nel 1812, dopo la liberazione della Spagna da parte delle truppe del Duca di Wellington, si era riunita una assemblea che aveva emanato la “Costituzione di Cadice” (nota anche come Costituzione del 1812), abrogata poi da Ferdinando VII, reintegrato sul trono di Spagna dal Congresso di Vienna del 1815 (*). Il 1 gennaio 1820 a Cadice erano state concentrate per imbarcarsi verso l’America meridionale truppe che, senza paga ed afflitte dalla febbre gialla, furono indotti alla ribellione da Ufficiali della setta dei comuneros (n. 7), capeggiati dal colonnello Rafael del Riego. Venne chiesto il ripristino della Costituzione del 1812. La rivolta propagatasi alle regioni circostanti coinvolse numerose città costringendo Ferdinando VII a concedere la costituzione ed accettare l’elezione di un parlamento (Cortes). La insurrezione di Spagna si propagò in Portogallo ed in Grecia, unico posto dove si registrò uno stabile successo. Infatti in Portogallo, nel 1821, anche Giovanni VI fu costretto a concedere la Costituzione sul modello spagnolo e l’indipendenza al Brasile, assegnando la corona al figlio Don Pedro. Mentre in Grecia i patrioti guidati da Ypsanti, capo dell’Eteria (n. 7) ed affiancati da volontari venuti da tutta Europa, combatterono contro l’impero ottomano che, sconfitto a Novarino da una flotta anglo-francese, riconobbe (pace di Adrianopoli) l’indipendenza della Grecia (1830).

16) Guglielmo Pepe (1783-1855), come il fratello Florestano (1778-1851), ambedue generali, aderirono alla Repubblica Partenopea, combatterono negli eserciti napoleonici e, nel 1820-21, nelle fila dei costituzionalisti. Guglielmo, di sentimenti democratici, onesto ed intraprendente ma anche ambizioso ed avventato in alcune decisioni, dopo la sconfitta subita a Rieti, si imbarcò per gli Stati Uniti. Rientrato nel 1836, nel 1848 fu a capo dell’esercito napoletano inviato a sostegno di Carlo Alberto contro gli austriaci, quindi si recò a Venezia dove divenne comandante dell’esercito della Repubblica Veneta ed, alla caduta di questa, andò in esilio e morì a Torino. Il cugino Gabriele (1779-1849) seguì le stesse scelte ed a Firenze si legò al gruppo di Antologia. Nel 1826 sfidò a duello lo scrittore A. de Lamartine che aveva definito “l’Italia, terra di morti”.

17) Nel tempio del palazzo reale, Ferdinando giurò “in nome di Dio e di sopra i santi Evangeli” di difendere e conservare la costituzione e che “se operassi contra il mio giuramento e contra qualunque articolo di esso, non dovrò essere ubbidito ed ogni operazione con cui vi contravvenissi sarà nulla e di nessun valore”.

18) Lo storico Colletta (n. 26) riferisce di “collegi elettorali affollati come in paesi di antica libertà”.

19) Col fraterno amico, il Duca d’Ascoli che, perplesso per le posizioni assunte, gli chiedeva consigli sul comportamento da tenere in sua assenza, Ferdinando si mostrò sorpreso che l’amico pensasse ad un suo qualche ravvedimento rispetto alle concessioni fatte. Ferdinando, nel viaggio di rientro da Lubiana, a costituzione sconfessata, decretò l’esilio del Duca d’Ascoli.

20) Ferdinando, scrivendo al vicario, il figlio Francesco, e riferendosi alle potenze della Santa Alleanza, sminuiva il suo ruolo “Le ho trovate irrevocabilmente determinate a non ammettere lo stato di cose che è risultato da tali avvenimenti ….”

21) Giuseppe Poerio (1775-1843) ebbe ruolo nella Repubblica Partenopea ed, alla sua caduta, fu condannato e liberato nel 1801. Collaborò con i francesi nel periodo napoleonico. I figli: Alessandro (1802-1848) morì nella difesa della Repubblica di Venezia; Carlo (1803-1867) fu ministro nel governo rivoluzionario del 1848, condannato a 24 anni, quindi liberato, divenne deputato nelle fila dei liberali moderati del parlamento italiano (1860).

22) Morelli e Silvati, i promotori della rivolta furono giustiziati e, per altri 28, la pena capitale fu convertita in reclusione.

23) In quel tempo le notizie si trasmettevano attraverso un telegrafo ottico o ad asta che, installato su una torre, consisteva in un braccio rotante che portava all’estremità due bracci minori. Queste potevano assumere configurazioni corrispondenti a lettere e numeri che, con un cannocchiale, venivano captatati da una postazione successiva e, da questa, trasmessi a quella seguente.

24) Erano favorevoli alla costituzione spagnola e non a quella siciliana.

25) Il generale Pietro Colletta (1775-1831) storico, ufficiale con i Borbone, percorse una rapida carriera militare sotto il regno di Gioacchino Murat di cui divenne consigliere. Per le sue eccezionali qualità non venne rimosso, col ritorno del Borbone, dal grado di generale, ma fu tenuto in disparte. A seguito della restaurazione del 1821, andò in esilio, stabilendosi a Firenze. La sua concezione politica che vedeva lo sviluppo politico della società da realizzarsi con una graduale maturazione delle masse e non con la rivoluzione, influenzò la corrente moderata risorgimentale. Alla sua Storia del reame di Napoli, vissuta dall’interno, si fa costante riferimento.

26) Questa pratica che darà origine al sistema mafia, viene cosìdescritta in un rapporto del procuratore del re, Pietro Calà Ulloa: “..vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che si dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa sovviene ai bisogni di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo..”
Fin dall’inizio dell’800 le truppe britanniche si erano trovati a far fronte ad associazioni segrete che avevano fama di onore, crudeltà e completo disprezzo della legge. In effetti erano già presenti tutti gli ingredienti della mafia con sistemi di estorsione, verso i proprietari delle miniere a cui si minacciava di appiccare il fuoco allo zolfo, di pressione sui latifondisti perché assumessero criminali come guardiani dei fondi o guardie del corpo, di sequestri di persona in cui erano spesso coinvolti preti in grado di scrivere messaggi per chiedere il riscatto. Esistevano gruppi in grado di svolgere attività politica a favore o contro i Borboni e di corrompere testimoni e funzionari. Una situazione difficilmente controllabile in cui la debole struttura giudiziaria applicava meno condanne che a Napoli ed in cui l’avversione per la polizia, spesso collusa con i criminali, era uno degli elementi più importanti nel far crescere l’opposizione al regime borbonico.

27) La rivolta promossa dal prete Antonio Maria de Luca al fine della concessione della Costituzione fu prontamente repressa con l’invio di un contingente guidato da un ex carbonaro, il marchese del Carretto che catturò e fece giustiziare numerosi insorti con macabri rituali ed esposizione dei loro resti. Il paese di Bosco che aveva sostenuto i rivoltosi fu dato alle fiamme, raso al suolo e cosparso di sale in maniera che non potesse più risorgere.

28) Ferdinando II, nato in Sicilia nel 1810, sposò nel 1832 Maria Cristina di Savoia che, figlia di Vittorio Emanuele I, morì dopo aver messo al mondo l’erede Francesco II (1836). Sposò quindi l’arciduchessa Maria Teresa d’Asburgo-Lorena da cui ebbe nove figli. Si distinse anche come esponente di un assolutismo illuminato, caratterizzato da equilibrio e mitezza che lo portarono alla sospensione della pena capitale tra il 1851 e 1854 ed alla concessione della grazia per delitti politici e comuni, malgrado la presenza di numerosi aderenti alle sette segrete.

29) La produzione agricola raggiunse il 50% di quella dell’intera Italia a fronte di 1/3 della popolazione. Lo sviluppo economico di quel tempo riguardò prevalentemente l’area napoletana che accrebbe il divario rispetto alle province. La marina arrivò ad essere la terza d’Europa dopo quelle di Inghilterra e Francia.

30) Nel giugno-luglio 1831, a trenta miglia da Sciacca, annunciata in successione da boati, ribollimento delle acque ed emissione di lapilli e scorie infuocate, emerse un’isola vulcanica con un cratere centrale di circa 180 m. Ad essa, con decreto fu dato il nome di Ferdinandea ed inclusa nel territorio del Regno. Altrettanto rapidamente essa fu sommersa dal mare dove attualmente giace a 25 metri sotto il livello per una superficie di circa 500 m.

31) Leopoldo di Borbone (1813-1860), conte di Siracusa, sposò nel 1837, Maria Vittoria Filiberta di Savoia Carignano. Come amministratore della Sicilia, cercò di comprenderne il disaggio che, a seguito dei moti che nel febbraio-marzo 1831 avevano interessato i ducati di Modena e Parma (n. 10), si manifestò, in settembre, con disordini capeggiati a Palermo da un manipolo di popolani malamente armati e guidati da Domenico di Marco. Questi non sostenuti dal popolo, furono agevolmente controllati dal generale del Carretto (n. 28). Leopoldo per alleviare il disagio della popolazione mise in atto una serie di disposizioni a favore dell’industria, dell’edilizia e della viabilità che, insufficienti a dare slancio allo sviluppo economico, non placarono la carica di insoddisfazione sociale. Nel 1835, il fratello Ferdinando II, sospettando che l’eccessiva comprensione di Leopoldo per le cose di Sicilia potesse stimolare le aspettative separatiste, lo sostituì con Lucchesi Palli, principe di Campofranco che riesumò i metodi brutali e dispotici dei suoi predecessori.

32) L’epidemia di colera che si era diffusa in Europa, aveva contaminato Napoli nell’anno precedente. Un riacutizzarsi invernale dell’epidemia si estese a tutto il territorio continentale (14.000 vittime), espandendosi anche in Sicilia in cui (65.000 morti) vi furono timori di un voluto contagio (diceria dell’untore) da parte del governo di Napoli.

33) Un secolare costume di attribuire ad altri responsabilità legate ai comportamenti locali: la carenza non stava nelle leggi ma nella loro mancata applicazione, la giustizia era corrotta ma i giudici erano siciliani.

34) Michele Amari (1806-1889) studioso e politico autore di diverse opere: Storia dei musulmani in Sicilia, tradotta anche in arabo; Guerra del Vespro. In quest’ultima accostava la liberazione dai francesi nel XIII sec. con quella auspicata da Napoli. Il libro non fu gradito al governo di Napoli che costrinse Amari ad espatriare in Francia dove si avvicinò a Mazzini e ne diffuse le idee. Rientrò temporaneamente in Sicilia durante i moti del 1848 e definitivamente nel 1860 per partecipare alla vita politica dell’Italia unita e divenire senatore e ministro della pubblica istruzione.

35) Come si era realizzato in Inghilterra ed in buona misura anche in Germania. Progresso che non era avvenuto senza lotte a tutela degli interessi dei lavoratori.

36) In Francia, il cui governo di Luigi Filippo (n. 9) si era mostrato sordo alle richieste di liberalizzazione, il movimento rivoluzionario aveva prodotto uno scontro in cui la folla parigina rappresentata dalla borghesia ebbe la meglio sulle forze governative. In febbraio il parlamento proclamava la repubblica (II Repubblica) e formava un governo presieduto da Lamartine (n. 17) che prevenne un tentativo di rivolta operaia causata dall’esclusione dal governo del socialista Blanc. Dalle elezioni presidenziali, cui partecipava Lamartine e numerosi altri, emerse a sorpresa ed a stragrande maggioranza, Luigi Napoleone, nipote dell’imperatore, al cui favore giocò il fascino del nome.
L’espandersi della protesta aveva sollevato anche a Vienna una rivoluzione borghese appoggiata da popolo e studenti che aveva portato alla fine del potere di Metternich, rifugiatosi in Inghilterra, ed alla convocazione di una Costituente che aveva prodotto mutamenti democratici con la costituzione di un governo nazionale. Negli stati germanici, coinvolti dal movimento liberale, la riforma non si limitò agli ordinamenti ma mise in evidenza la questione dell’unità nazionale.

37) Il nuovo Papa Pio IX, Giovanni Mastai Ferretti (1792-1878), pur se riteneva necessari alcuni cambiamenti, non era particolarmente attratto dalle idee liberali del tempo. La circostanza della contrapposizione con un conservatore nel corso della sua elezione ed alcuni suoi iniziali intenti, come il desiderio di emancipare lo Stato della Chiesa dalla tutela austriaca e timidi provvedimenti di apertura come l’amnistia per i reati politici (1846), la concessione della libertà di stampa (1847) e della Costituzione, marzo 1848, avevano destato speranzose attese nei democratici. Durante l’insurrezione di Milano (1848) spedì, in soccorso dei patrioti lombardi e contro l’Austria un contingente comandato dal generale Giovanni Durando (1804-1869). Contingente che il mese successivo (aprile) ritirò, su imposizione di una commissione cardinalizia. La motivazione fu esplicitata, in un discorso/allocuzione del 29 aprile, con il timore che, sostenendo una parte fra cristiani in conflitto, potesse rischiare di distruggere il suo regno spirituale. Per fronteggiare quindi l’agitazione che ne seguì, affidò il governo ad un personaggio di valore quale era Pellegrino Rossi (*) che fu ucciso (novembre 1848) in una congiura popolare, costringendo il Papa a rifugiarsi a Gaeta, territorio del Regno delle Due Sicilie. Sostenuta da Giuseppe Mazzini, fu eletta una assemblea costituente (febbraio 1849) che proclamava la decadenza del potere temporale dei Papi e la creazione della Repubblica Romana il cui governo era affidato ad un triunvirato costituito dallo stesso Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Contro questa si mosse la Francia di Luigi Napoleone che inviò un contingente, al comando del generale Oudinot in difesa dei diritti del Papa. Roma, malgrado l’apporto di volontari giunti da ogni parte, fra cui Garibaldi, cadde il 3 luglio del 1849. Il Papa rientrò, nel 1850, solo dopo l’introduzione di pesanti misure repressive e coll’intento di avversare ogni cambiamento, in linea con il comportamento dell’Austria con cui firmò un concordato nell’agosto del 1855 e con il contributo dei gesuiti, la cui posizione intransigente venne diffusa attraverso la rivista Civiltà Cattolica. In questo periodo vennero assunti importanti affermazioni dogmatiche che riguardavano la immacolata concezione di Maria e dell’infallibilità del Papa.

38) Costituzione conteneva un eccesso di clericalismo in quanto la religione cattolica era l’unica ammessa e veniva vietata la professione di altri culti. Fu uno dei motivi per cui gli ebrei si schierarono a favore del movimento unitario e ne finanziarono le attività.

39) Il pamphlet pubblicato anonimo nel 1847, riporta una serie di affermazioni espresse con sincerità in cui nulla è taciuto a cominciare dalle accuse a Ferdinando (stolto, superstizioso, avaro, ecc). Luigi Settembrini (1813-1876), membro della Giovine Italia, fondò la setta Figliuoli della Giovine Italia, ed, accusato di cospirazione passò tre anni in carcere. Partecipò ai moti del 1848 divenendo membro del governo costituzionale, quindi fu coinvolto nella repressione e condannato al carcere a vita. Nel 1859, la nave che lo deportava in Argentina fu dirottata dal figlio Raffaele in Irlanda, da dove rientrò nel 1862 per insegnare letteratura a Bologna e Napoli.

40) Essa prevedeva che il sovrano chiamato a reggere la Sicilia non poteva, pena la decadenza, regnare su altri paesi; al re era negata la facoltà di sciogliere le assemblee parlamentari; i trattati dovevano ricever l’approvazione del parlamento cui apparteneva il potere di fare le leggi; il voto era universale.

41) Garibaldi, pur avendo promesso il suo intervento, fu distratto da altri impegni in Toscana.

42) Francesco Crispi, coinvolto nella ribellione e che successivamente con l’impresa dei mille e con l’unificazione, assumerà ruoli di primo piano, ebbe a scrivere “I moderati temevano più la vittoria del popolo che quella delle truppe borboniche”.

43) Vedi il capitolo “Il meridione Borbone di fine ‘700, parte I” stesso sito.

44) L’inglese William Gladstone visitò (1851) Napoli che, come Palermo, per le sue attrattive era meta turistica. Egli denunciò il clima trovato a Napoli, definendo il regime borbonico “negazione di dio eretta a sistema di governo”.

45) Silvio Spaventa (1822-1893) fratello del filosofo Bertrando, protagonista dei moti del 1848, fu condannato con pena commutata in ergastolo e poi in esilio da cui riuscì a rientrare nel 1859. Ebbe ruolo, come inviato di Cavour, durante la spedizione dei mille. Deputato della destra e ministro nel Parlamento italiano fu fautore della statalizzazione delle ferrovie. Si batté per uno stato forte, una amministrazione imparziale, contro il trasformismo di Depretis e per il bipartitismo.
Francesco De Sanctis (1817-1883), letterato (Storia della letteratura italiana) a seguito della sua partecipazione, fu imprigionato per tre anni prima di andare in esilio. Più volte ministro dell’istruzione nel governo unificato, cercò inutilmente di introdurre nel sistema scolastico criteri educativi di ispirazione laica e democratica.
Pasquale Villari (1826-1917) storico (Storia di G. Savonarola e N. Macchiavelli ed i suoi tempi) fu ministro dell’istruzione (1891-92) ed il primo ad avviare il dibattito sulla questione meridionale (Lettere meridionali).

46) Michele Morelli promotore dei moti del 1820 a Napoli ed i Pepe erano originari di Monteleone (attuale Vibo V.) e Squillace, ripettivamente.

47) L’Inghilterra del ministro Palmerston (Henry John Temple, 1784-1865), già in rotta con il Borbone per i fatti legati alle miniere di solfo in Sicilia (1838), accentuò il suo distacco e finirà con il contribuire all’unificazione italiana che avrebbe potuto bilanciare l’influenza austriaca e francese in quel settore del mediterraneo, sostenendo l’impresa dei mille (1860). Palmerston, come ministro degli esteri inglese (1830-41 e 1846-51), appoggiò i moti riformatori in Italia e decadde per il sostegno fornito al colpo di Stato in Francia da Napoleone III (1851). Come primo ministro (1855-65) svolse un ruolo determinante nella unificazione italiana.

48) Tra gli esponenti liberali piemontesi vi era Cesare Balbo e, tra i lombardi, Federico Confalonieri.
Santorre di Santarosa (1783-1825) esponente della nobiltà piemontese, dopo il fallimento dell’insurrezione, fu esule e morì combattendo per l’indipendenza della Grecia.
Di Cesare Balbo (1789-1853) in verità non è chiaro il peso del suo coinvolgimento nei moti del 1821, fatto sta che dopo il fallimento venne confinato fino al 1826, dedicandosi agli studi storici (Storia d’Italia, 1830; Speranze d’Italia, 1844). Nel 1848 fu chiamato da Carlo Alberto a presiedere il primo governo costituzionale del Regno di Sardegna.
Federico Confalonieri (1785-1846) affiliato alla Carboneria, fondatore del giornale Conciliatore, si impegnò, nel 1821, a sostenere i patrioti piemontesi con una rivolta concordata a Milano. Arrestato, fu condannato a morte e la pena commutata in carcere a vita, nella fortezza dello Spielberg (Moravia), assieme a Piero Maroncelli e Silvio Pellico, graziati rispettivamente nel 1835 il primo e, nel 1830, Maroncelli e Pellico.

49) Carlo Alberto (1798-1849) principe di Carignano, appartenente al ramo cadetto Savoia-Carignano e parente più prossimo del re Vittorio Emanuele I che, come il successore, il fratello Carlo Felice (n. 47), era privo di eredi maschi. Carlo Alberto, incerto nel carattere e nella posizione, in qualità di reggente, concesse la Costituzione, salvo pentirsene e, per riacquisire credito, combatté contro i liberali spagnoli a Trocadero (1823). Rifiutato quindi dal re Carlo Felice si rifugiò in Toscana, presso il suocero Ferdinando III di cui aveva sposato, nel 1817, la figlia Maria Teresa. Il suo nome resta legato alla infruttuosa campagna del 1848 contro gli austriaci. E’ sepolto Superga.

50) La bandiera con l’attuale tricolore nacque ufficialmente il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia come vessillo della repubblica Cispadana. Durante la campagna di Napoleone del 1896, diverse repubbliche adottarono vessilli ispirati ai colori della bandiera francese introdotta dalla rivoluzione. Non è chiaro chi adottò per primo gli attuali colori.

51) Carlo Felice (1765-1831), undicesimo figlio di Vittorio Amedeo III, e fratello dei precedenti re di Sardegna, Carlo Emanuele IV e Vittorio Emanuele I e, come essi, privo di eredi maschi. Convinto interprete dell’assolutismo regio, fu viceré di Sardegna nel periodo 1799-1821 allorché divenne re fino al 1831 distinguendosi per la repressione conseguente ai moti del 1821 e per la durezza dei suoi atti di governo che gli valsero l’appellativo di “feroce”. Non volendo che gli succedesse Carlo Alberto del ramo cadetto Carignano, sospettato di idee liberali, aveva cercato di designare come suo erede il duca di Modena, Francesco IV d’Asburgo Este che aveva sposato la nipote Maria Beatrice di Savoia (1812). Fu dissuaso dal ministro austriaco Metternich che temeva deroghe al principio di legittimità.

52) Andò in esilio a Nizza, poi a Lucca, a Modena, quindi ritornò nel Castello di Moncalieri nel 1822 dove morì il 10 gennaio 1824. E' sepolto nella basilica di Superga.

53) In Sardegna, dopo la formulazione di diversi progetti di abolizione dei feudi che trovarono la pregiudiziale opposizione dei feudatari, con un editto del 21 maggio 1836, venne soppressa la giurisdizione baronale e ricondotto allo Stato i poteri di governo di territorio e popolazioni.

54) Vincenzo Gioberti (1801-1851) sacerdote politico e filosofo, dal suo esilio francese, per fatti legati alle sue attività liberali, pubblicò (1842) il manifesto del neoguelfismo, Primato morale e civile degli Italiani, in cui auspica una confederazione di Stati italiani presieduta dal Papa. Crollato il sogno neoguelfo, con il Rinnovamento civile dell’Italia (1851) auspicava il ruolo guida del Piemonte nell’unificazione d’Itala.
Massimo d’Azeglio (1798-1866), politico, letterato e pittore, espresse (1847) nel Programma per l’opinione nazionale italiana una visione moderata del risorgimento. Al termine della guerra del 1849, in polemica o i democratici, accolse l’invito di Vittorio Emanale II di formare il nuovo governo da cui si dimise nel 1852 a seguito dell’accordo (connubio) realizzato tra la destra di Cavour e il centrosinistra di Rattizzi.

55) Esso non prevedeva un regime parlamentare in quanto il potere esecutivo, affidato al re, non dipendeva dall’approvazione di quello legislativo, il parlamento in cui potevano sedere i rappresentanti sardi, proclamava la religione cattolica quella di stato ed assicurava tolleranza per gli altri culti. La rappresentanza sarda in parlamento fu un risultato effimero in quanto stava per maturare una nuova coscienza autonomistica che voleva un’isola non subalterna al Piemontese prima ed allo Stato Italiano poi.

di Franco Savelli


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