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'800: NUOVE NAZIONALITA' - CRISI NEL PAPATO


212. 21) - L'ITALIA UNITA

* ANNO 1861 ( Primo Regno d'Italia - * Con annessione Regno 2 Sicilie )
* ANNO 1866 ( dopo la conquista del Veneto )

* NELL'ANNO 1870 (con l'entrata a Roma )

(per approfondimenti sull'Italia vi rimandiamo a
"STORIA D'ITALIA" su questo stesso sito)

Roma era stata sempre e continuava ad essere la meta di tutte le aspirazioni italiane. Più volte, dopo la pace con l'Austria, il governo italiano aveva cercato di intraprendere trattative eque per un accordo col Pontefice. Erano state sempre respinte.
Fin che Napoleone III non avesse ritirato le sue truppe, Roma non sarebbe diventata capitale d'Italia. Si attendeva che questo fatto avvenisse con la certezza che in "qualunque modo prima o poi doveva avvenire".

E avvenne per effetto della guerra franco-prussiana, per cui il 2 agosto 1870 furono chiamate in Patria anche le truppe francesi di guardia al Soglio Pontificio. Il 20 settembre le truppe italiane entrarono a Roma, già proclamata capitale del regno.

Facciamo qui un passo indietro.
Immediatamente prima della catastrofe si era svolto in Roma un evento, le conseguenze del quale non furono di minore importanza per tutto il mondo e per l'avvenire.
Sotto l'influsso della precipitosa caduta di Napoleone I gli animi nell'intero occidente si erano rivolti con maggior zelo e con maggior intimità alla fede: e questa propensione aveva fatto crescere nel cattolicesimo una tendenza, che di solito é chiamata ultramontanismo.
La concezione ultramontana si può riassumere, secondo il Dollinger, nella tesi: «Il Papa é la più alta, infallibile e per ciò unica autorità in tutto ciò che concerne la religione, i costumi e la morale; ad ognuna delle sue sentenze in queste materie é dovuta illimitata sottomissione sia interna, sia esterna di tutti, tanto chierici quanto laici ».

I portavoce della Confessione cattolica difesero più aspramente di quanto avessero fatto fin'allora la massima che «fuori della vera Chiesa non vi era salute»; che gli uomini che si trovavano fuori dell'unità cattolica, se morivano in così simile separazione senza pentirsi, erano incapaci di pervenire alla vita eterna.
Da questa «rinascita del cattolicesimo», collegata coi nomi del De Maistre, del Lamennais, del Montalembert, del Gorres, erano derivati, nei successivi decenni, contese a causa dei matrimoni misti, le agitazioni di Colonia ed altri conflitti fra Chiesa e Stato.
Anche nella patria del papato l'autorità spirituale vacillava gravemente. Questo "pericolo", tale era il proposito delle sfere dirigenti della Chiesa, doveva arginarsi aiutando la tendenza ultramontana a conseguire la vittoria, cioè reprimendo ogni libero impulso.

Nel 1864 il papa Pio IX pubblicò un "syllabus errorum", che condannava ottanta proposizioni riguardanti la fede e la Chiesa, fra le altre l'affermazione che esisteva la speranza della salvazione per i vecchi cattolici, che anche per i protestanti era possibile di condurre una vita grata a Dio e così di seguito.

Il suggello a tali orientamenti di far trionfare il sistema papale tanto di fronte a quello episcopale, quanto alla moderna concezione della vita, doveva essere la vittoria del domma dell'infallibilità pontificia: causa che la Compagnia di Gesù difendeva attivamente già da secoli.

La bolla "Aeterna patris" convocò a Roma un concilio universale per l'8 dicembre 1869 per discutere dei mezzi per guarire le malattie esterne ed interne della Chiesa. Subito dopo l'apertura dell'assemblea in una navata della Chiesa di S. Pietro, che porta il soprannome in Vaticano, - di 1037 invitati ne erano venuti 779 - fu annunziato che si era pensato come a panacea universale all'infallibilità del Papa.

Immediatamente nel mondo cattolico numerosi avversari levarono la voce contro un domma, che avrebbe fatto anche della dottrina del sillabo un articolo di fede. Il più gran rumore sollevarono le Lettere romane, che dal 19 gennaio 1870 il maggiore teologo del tempo, Ignazio Dóllinger di Monaco, fece pubblicare nella «Gazzetta universale di Augusta».
Anche il conte Montalembert, l'autentico campione del cattolicesimo, si oppose a quelle teorie minacciose per la Chiesa ed il culto. Siccome era da temersi che l'allargamento del potere universale pontificio, ideato da Roma, avrebbe portato più spesso di prima a turbamenti della pace fra le varie confessioni religiose, il presidente del consiglio dei ministri bavarese, principe Clodoveo di Hohenlohe, fratello del colto cardinali Gustavo Adolfo di Hohenlohe, richiamò con una circolare l'attenzione dei Gabinetti occidentali sul pericolo minacciante gli Stati costituzionali, che ammettevano le parità religiosa fra cattolici e protestanti: ma fu poco ascoltato.

Rispetto alla nazionalità dei membri del concilio, aventi diritto al voto, c'era una stridente sproporzioni; per esempio di fronte ai 29 vescovi tedeschi stavano 176 italiani, fatto, chi fu decisivo per l'andamento delle discussioni.
Mentre i vescovi tedeschi, francesi ed inglesi erano per lo più avversari della proposta, la maggioranza sollecitò l'approvazione più rapida possibile del domma.
Il 26 gennaio 1870 i vescovi tedeschi e austriaci diressero al Papa un indirizzo, compilato dal cardinale arcivescovo di Vienna, Rauscher, che conteneva la preghiera ardente che una dottrina, contro il cui esame ripugnava anche il cuore del più puro credente non fossi posta in discussione.
Non fu però possibile smuovere il Papa, indubbiamente convintissimo. della legittimità e dell'utilità dei suo disegno. Il 6 marzo fu sottoposto ai padri del concilio la fatale dottrina intorno al romano pontefice e alla sua infallibilità per l'esame.

Col richiamo alla parola del Signore: "Tu sei Pietro" e così via fu preteso che il Papa non poteva errare, quand'egli definiva, come maestro dei popoli, ciò che nelle cose della fede e della morale doveva essere osservato dall'intera Chiesa! « Se uno - ciò che Dio non voglia - dovesse arrogarsi di contraddire a questa nostra definizione, egli con ciò si stacca dalla verità della fede cattolica e dell'unità della Chiesa ».

Quantunque con simili minacce la libertà dell'esame fosse considerevolmente pregiudicata, il vescovo Dupanloup di Orleans, il vescovo Kenrick di S. Louis e altri levarono coraggiosamente la voce contro la rivoluzione ecclesiastica. Il vescovo Strossmayer di Diakovar in Slavonia osò addirittura affermare che anche gli acattolici potevano essere veramente religiosi e per ciò grati a Dio; ma egli fu costretto dallo strepito della maggioranza a troncare il suo discorso. I così detti vescovi liberali non poterono più nascondersi che la loro causa era perduta; uno dopo l'altro si astennero dal frequentare le inutili tornate.

All'incontro la città era percorsa incessantemente da processioni, che imploravano dalla Vergine e dai Santi il dono dilla infallibilità pontificia; i parroci, e anche alcuni professori dell'università di Roma presentavano suppliche in favore del domma: perfino i camerieri dei padri del concilio esprimevano apertamente il desiderio di essere al più presto ammessi al godimento dei salutari frutti dell'infallibilità.

Il 18 luglio 1870, quindi un giorno prima della consegna della dichiarazione francese di guerra a Berlino, si procedette alla votazione intorno allo schema de ecclesia et de Romano pontifice. 547 votarono "placet", solo 2 (il vescovo Riccio di Caiazzo e il vescovo Fizgerald di Little Rock in America) non placet; i rimanenti avversari dell'innovazione si erano tenuti lontani per ragioni di salute o con altri pretesti.
Con la decisione del concilio era elevato a domma: «Il papa é la Chiesa insegnante e al tempo stesso legislatrice; chi nega la sua infallibilità, nega l'infallibilità della Chiesa». Tutte le «pretensioni della scienza» potevano da quel momento esser respinte con la frase: «Piace allo Spirito santo ed a noi!»; tutte le propensioni più libere potevano esser represse, si chiamassero gallicane o episcopali o comunque si volesse, con una dichiarazione di permanente ispirazione divina.

La votazione conclusiva non doveva significare la fini del concilio ecumenico: ma non ci furono più sedute. Il 20 ottobre fu annunziata la proroga del concilio, poiché era diventata impossibile una libera discussione a causa della prigionia del Papa. Nel frattempo il dominio temporale pontificio era caduto.

Lo scontro di Mentana era terminato in seguito alle «meraviglie dei Chassepot» (fucili a ripetizione francesi. Ndr.) con la sconfitta dei volontari; Garibaldi stesso era caduto prigioniero durante la sua fuga. Non truppe francesi, ma italiane avevano imprigionato il vecchio eroe nazionale, e tutto il piccolo movimento rivoluzionario era stato compiuto contro la volontà del Governo italiano.

Con tutto ciò la giornata di Mentana produsse dei malumore fra le corti delle due sorelle latine. Alle Tuglierì era vivace la preoccupazione che il Bismarck stesse dietro Garibaldi e volesse sfruttare la questione romana per legare ancor più saldamente l'Italia con la Prussia.
Napoleone sarebbe stato disposto a lasciare che le cose in Italia seguissero il loro corso naturale e il ministro degli esteri, marchese di Lavalette, e il cugino "Plonplon", il principe Napoleone, marito della principessa italiana Clotilde, cercarono di rafforzarlo nella sua arrendevolezza.
Ma il Rouher considerava diversamente il dovere e l'interesse della Francia, e d'accordo con lui procedeva l'Imperatrice, che nella protezione del Papa vedeva un debito d'onore della fedelissima figlia della Chiesa romana.

Vittorio Emanuele era schiettamente grato per i servizi, che Napoleone aveva prestato nella guerra del 1859 e di nuovo nell'occasione della cessione della Venezia, ma anche alla corte italiana vi erano patriotti, che si lamentavano sdegnosamente che la Francia si era fatta pagare i suoi servizi con Nizza e la Savoia e faceva ad ogni occasione sentire all'alleato più debole la sua dipendenza.
Napoleone scorgeva con vivo malcontento che l'Italia riponeva sempre più le sue speranze nella confederazione della Germania del nord e nel suo cancelliere senza scrupoli. Ma siccome egli doveva usare un riguardo ai circoli clericali del suo paese che diffidavano dello scudiero della loggia, nonostante il Messico e Mentana, cercò di addossare la responsabilità dello scioglimento della questione romana ad un congresso europeo.
Di tutte le Potenze però soltanto l'Austria era sinceramente disposta a parteciparvi; le altre rifiutarono o sottoposero il proprio consenso a condizioni, che equivalevano ad un rifiuto.

Nel corpo legislativo la politica italiana dell'Imperatore fu esposta da tutte le parti alla critica più amara. Giulio Favore rimproverò il Governo di aver preparato le cartucce per i fucili di Mentana con i brandelli del Sillabo.
Il Thiers lamentò che l'amoreggiamento fra Prussia ed Italia era un pericolo per la Francia, ma che nonostante tutto ciò il dominio temporale del Papa doveva esser conservato per l'onore della Francia.

Quando anche nelle file dei clericali si levarono alte accuse e dubbi, il Rouher si indusse a fare la solenne dichiarazione: «L'Italia non s'impadronirà mai del territorio romano! Roma non diverrà mai la capitale d'Italia. Giammai! Giammai!».

Ma il Gabinetto italiano nutrì nuove speranze in un mutamento dei propositi di Napoleone, quando i rapporti fra la Prussia e la Francia assunsero un carattere sempre più ostile. Già fin dal 1868 erano state condotte trattative segrete che avrebbero dovuto giungere alla conclusione di una triplice alleanza tra Francia, Austria e Italia.
La cerimonia commemorativa sui campi di battaglia di San Martino e Solferino del 25 giugno 1869 offrì l'occasione a manifestazioni favorevoli a questa triplice alleanza, mentre al tempo stesso alla Camera fu presentata una proposta per sovvenzionare una ferrovia del Gottardo nell'interesse di più stretti rapporti fra la l'Italia e la «giovane Germania».
Il partito conservatore stava risolutamente dalla parte della Francia, la sinistra non voleva per lo meno saperne di un attivo intervento in favore della Francia. Il comitato centrale repubblicano pubblicò addirittura un appello contro ogni idea di far causa comune con la Francia arretrata; il Mazzini dichiarò che « in ciò non poteva scorgere se non un delitto, il quale avrebbe impresso nella giovane bandiera d'Italia un'indelebile macchia d'ignominia ».

Invece Vittorio Emanuele credeva di poter chiedere come prezzo per l'alleanza lo sgombro della guarnigione francese dall'eterna città; dopo ciò l'unione dello Stato ecclesiastico con l'Italia si sarebbe compiuto da sé.
Quando però il ministro degli esteri, Menabrea, cercò di ottenere una simile promessa, Napoleone non acconsentì, ma dichiarò che per il momento sarebbe bastato che i monarchi dei tre Stati alleati virtualmente si promettessero reciproca assistenza in generale. Evidentemente egli sperava di arrivare, allo scoppio di una guerra, a una salda alleanza con i paesi amici, anche senza fastidiose concessioni. (Anche perchè era convintissimo di stravincere i prussiani).

Perfino il 15 luglio 1870, quando al corpo legislativo si trattò della dichiarazione di guerra alla Prussia, il duca di Grammont si sottrasse alla domanda, se la Francia potesse contare su alleanze, con l'osservazione, che se egli aveva fatto aspettare un po' i Deputati, gli servisse di giustificazione la visita dell'ambasciatore austriaco e dell'inviato italiano: egli sperava che non si sarebbe cercato di forzarlo a dir di più con altre domande!

Con tutto ciò la richiesta italiana che Napoleone si impegnasse a indurre il Papa a un modus vivendi con l'Italia urtò di nuovo in un aspro rifiuto.
«Ci é impossibile fare anche la più piccola cosa riguardo a Roma - scriveva Grammont con poco opportuna confidenza in sé stesso, al Generale Türr - se l'Italia non vuole marciare, rimanga a casa! ».

Molto più realisticamente giudicava la situazione il Beust; per lui era manifesto che, senza lo sgombro di Roma e senza il consenso all'occupazione per parte degli Italiani, la triplice alleanza non si sarebbe mai conclusa. «Gl'Italiani non saranno mai con noi con l'anima e col corpo, se non caviamo loro la spina romana »!

Mentre Napoleone a proposito della marcia in avanti dei suoi eserciti si tratteneva in Metz, il conte Vimercati tentò di nuovo di ottenere una decisione più favorevole, ma Napoleone dette di nuovo una risposta negativa.

Pochi giorni dopo i Francesi furono terribilmente battuti a Worth e a Spicheren. Solo a questo punto l'Imperatore cercò di riprendere le trattative. Il principe Napoleone fu inviato a Firenze, per chiedere l'aiuto armato dell'Italia e per offrire in compenso lo sgombro dello Stato ecclesiastico conforme alle stipulazioni della convenzione del 15 settembre 1864; però egli non ebbe ad ascoltare che tiepide assicurazioni d'amicizia e impacciate frasi evasive.

Così giunse la giornata di Sedan, a cui tenne dietro la catastrofe del secondo Impero.

Appena si conobbero a Firenze gli straordinari eventi, il Governo deliberò di trarne profitto il più presto possibile, per prevenire un nuovo movimento radicale. Le ultime truppe francesi per urgente necessità, erano state richiamate da Roma per la difesa della Patria; e a quel punto era decisa la sorte della eterna città.
L'8 settembre truppe italiane sotto il General Cadorna varcarono la frontiera dello Stato POntificio.
Una circolare del ministro Visconti-Venosta annunziò alle grandi Potenze che il Governo sia nel proprio interesse, sia per la sicurezza del Papa doveva muovere all'occupazione di Roma.

Vittorio Emanuele spiegò al Papa in una lettera autografa «con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di Re e con sentimento di Italiano» che egli si considerava responsabile del mantenimento dell'ordine in Italia e della sicurezza della Santa Sede, e per ciò non poteva indietreggiare neanche davanti a un'azione violenta sgradita al Papa.
Insieme con questa lettera il conte Ponza di San Martino trasmise dei progetti per un accordo fra la Italia e la Santa Sede.

In questi progetti il Santo Padre doveva conservare la dignità, l'inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità e, nella città leonina anche il dominio e la giurisdizione, e ricevere dalla cassa dello Stato italiano una dotazione fissa e intangibile, corrispondente alle entrate dello Stato pontificio di allora.
Papa Pio IX però rifiutò l'offerta «indegna di un figlio della Chiesa veramente affezionato», con l'aggiunta che egli voleva "pregare fervidamente Iddio di usare al Re quella misericordia, di cui aveva tanto bisogno".

Dopo il rifiuto fu ingiunto al Cadorna di muovere contro Roma. Le truppe pontificie indigene erano state rinforzate con volontari di tutti i paesi: ma però non si venne ad una lotta seria e accanita.
Il 20 settembre il Cadorna chiese la resa della città; il Generale Kanzler dette una risposta negativa.

Ma quando le batterie italiane ebbero aperto a Porta Pia una breccia nelle mura urbane, i battaglioni degli Zuavi pontifici si ritirarono nella città leonina. Le truppe italiane occuparono tra il giubilo della popolazione all'inizio solo la riva sinistra del Tevere; poi il 22, dopo che attorno al Vaticano erano avvenuti disordini selvaggi, per desiderio del pontefice anche la riva destra.

Un plebiscito il 2 ottobre dette 133.000 voti per l'unione al Regno d'Italia e 1500 contrari. La rappresentanza popolare subito convocata approvò la riunione del territorio romano con l'Italia e l'elevazione di Roma a capitale del Regno.

A quel punto papa Pio IX scagliò la scomunica contro tutti gli autori e partecipi dell'occupazione di Roma; «qualunque possa essere la loro alta dignità anche per specialissimi riguardi».

Le sue proteste rivolte alle Potenze cattoliche si andarono perdendo inascoltate sotto l'influsso delle notizie impressionanti, che giungevano dal teatro della guerra francese.
Dove si poteva trovare - di fronte agli straordinari successi delle armi della Prussia, che con l'arresto di Napoleone era improvvisamente diventata l'alleata corteggiata dell'Italia - un soccorritore del capo angustiato della Chiesa?

La completa unificazione dell'Italia, come appunto la caduta degli ultimi resti di istituzioni medioevali, sembrò arrivasse a termine quasi come una necessità naturale. Molti vollero vedere nell'evento del 20 settembre una giusta punizione dell'idolatrica presunzione del 18 luglio, mentre altri nella perdita della potenza temporale, che aveva imposto ai successori di Pietro una condizione ibrida pericolosa, al loro ufficio pastorale, non scorgevano nessuna perdita deplorevole.

Inoltre il Governo italiano dichiarò che intendeva mantenere spontaneamente, per la tranquillità del mondo cattolico, nonostante l'ostile condotta del pontefice, le condizioni offerte prima della presa dl Roma.
Quindi il Papa doveva nel suo Vaticano godere di tutte le prerogative di un Sovrano per esercitare in piena libertà l'ufficio di capo della Chiesa cattolica.

Dinanzi al Vaticano certo sventolava da quel momento il tricolore, quel medesimo tricolore, che Pio IX stesso un tempo nel primi giorni del suo pontificato (nel '48) aveva benedetto fra le grida entusiastiche dell'Europa.

Il 5 dicembre1870 fu solennizzata l'elevazione di Roma a capitale d'Italia, nella quale occasione Vittorio Emanuele ripeté la promessa dl proteggere l'indipendenza della Sede papale nell'esercizio delle sue funzioni religiose.
Il Governo italiano infatti anche in seguito non tentò di esercitare una qualsiasi pressione sulle decisioni della Sede romana; sulla libertà della Curia non c'è alcun dubbio, anche se Pio IX e i suoi successori hanno seguitato a considerarsi Prigionieri.

Il mondo cattolico si è abituato all'idea, per quanto non si confessi apertamente, della perdita del potere temporale pontificio. Né le speranze, nè i timori, che si erano legati agli avvenimenti romani del 1870, non si adempirono.
In primo luogo la dichiarazione d'infallibilità parve portasse soltanto cattivi frutti. Il Governo austriaco annunziò che considerava abrogato il concordato; altri Governi dichiararono a priori nulle tutte le deduzioni, che potevano ricavarsi rispetto allo Stato dall'esistenza d'un capo supremo della Chiesa infallibile.

E quantunque anche i vescovi, che poco prima avevano dichiarato la nuova dottrina come perniciosa per la vita della Chiesa e dello spirito, si sottomettessero senz'eccezione alla «decisione superiore », pure si giunse alla separazione dl illustri teologi e di numerosi fedeli, che non vollere aderire a riconoscere il decreto del concilio.

Inoltre la formazione di un grande Impero protestante nel cuore dell'Europa, la caduta del protettore della Soglio Romano, il movimento modernistico nel seno della Chiesa stessa, tutto faceva sperare o temere che anche il trono di Pietro, scosso nelle sue fondamenta, sarebbe crollato.

Invece si avverò proprio l'inatteso. Tutto il disgusto contro le arroganti pretese del sacerdozio italiano non valse ad allontanare i popoli cattolici dalla vecchia Chiesa, e mai la potenza e la considerazione del Papa non apparvero più splendide che negli ultimi decenni del XIX secolo, che perfino un Bismarck - non per amor suo, ma della Patria - videro prendere la via di Canossa.

Certo, se all'esterno sviluppo della forza dell'organizzazione della Chiesa, chiusa una volta per sempre, corrisponda l'intima saldezza, è dubbioso, perché anche l'impulso ad una libera indagine della verità è una energia indistruttibile della moderna vita civile. E' questa una evoluzione. Insomma il "relativismo" non è affatto una irragionevole favola messa in giro da una delle tante "bibbie".

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Abbiamo sopra accennato alla formazione del grande impero protestante
e proprio di questo ora parleremo.

segue:


213. 22) - LA FONDAZIONE DELL'IMPERO TEDESCO > > >

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