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153. FEDERICO II IL GRANDE E MARIA TERESA D'AUSTRIA

Nello stesso anno 1740 che Federico II saliva sul trono di suo padre,
a Vienna veniva incoronata Maria Teresa imperatrice d'Austria.

Questa incoronazione della figlia di Carlo VI privo di figli maschi e che in base un editto di origine romana emanato fin dal 1913, col nome di "Prammatica Sanzione" riservava alla discendenza diretta dell'imperatore anche la linea femminile.
Nel 1717 era poi nata Maria Teresa, dunque era lei a divenire l'erede del titolo imperiale. Si era poi sposata con Francesco Stefano duca di Lorena, marito destinato dal padre fin da quando aveva sei anni, ma alla morte di Carlo VI nel 1740, questa incoronazione non venne però accettata dagli elettori di Sassonia e Baviera, dal nuovo re di Prussia Federico II, dalla Francia (che pure in precedenza aveva dichiarato di accoglierla) e inizialmente neppure dal regno Sabaudo di Sardegna. Cioè quelle nazioni che si erano impegnate a rispettare la "Prammatica Sanzione" fecero presto a dimenticare le loro promesse.
Forse perchè l' Austria, retta da una giovane donna di 23 anni ed inesperta dell'arte di regnare, era una facile preda, inoltre regnava su uno stato che era una accozzaglia di popoli per lo più scontenti delle loro condizioni.

L'Austria e la Prussia nell'anno 1740

Il 28 ottobre 1740 il ministro di Stato von Podewils e il maresciallo conte Schwerin s'incontrarono presso il re Federico nel castello di Rheinsberg per un lungo e grave consiglio. L'oggetto di questo possiamo rilevarlo dalle note prese intorno ad esso da Podewils il giorno seguente. «Approfittiamo di questo momento - cominciò il re - per acquistare la Slesia. È lo scopo più rilevante, che da lungo tempo si sia offerto a noi per arrecare alla nostra Casa reale un ingrandimento solido e glorioso. Anche la rinunzia a Jülich e Berg non sarebbe un sacrificio troppo grande per giungere a un simile acquisto. Poiché quei paesi renani sono molto meno importanti dell'intera Slesia, che offrirebbe una buona aggiunta in superficie alle antiche province e le grandi risorse di una popolazione agiata, prolifica e ricca di commerci».

In queste parole era contenuto quello, in cui fin da principio si trovarono d'accordo il re e i suoi due consiglieri. Era la mira, lo scopo di una politica, che non aveva alcun bisogno di discutere se la Prussia dovesse o no ingrandirsi e trarre partito per questo della prima occasione che si presentasse. Ma l'accordo tra il monarca e i suoi consiglieri non andava oltre questa questione preliminare. Unanimi nel fine, non lo erano più nel modo e nei mezzi. I consigli a Rheinsberg erano terminati, il ministro von Podewils era già ritornato a Berlino, quando il 1° di novembre il re gli scrisse: «Vi do a sciogliere un enigma. Quando si ha un vantaggio, se ne deve profittare o no? Io sono pronto con le mie truppe e con tutto. Se non mi avvalgo di questa circostanza, tengo nelle mie mani un bene, che non so adoperare ; ma se io lo metto a profitto, si dirà che non mi manca l'abilità di servirmi della condizione superiore, in cui mi trovo di fronte ai miei vicini».

Arrivate poi da Vienna le notizie, che mostravano come a quella corte mancasse ogni coscienza delle necessità del momento, il re scrisse il 3 novembre al medesimo ministro «A Vienna sono pieni di boria, si lusingano di poter conservare i paesi ereditari con le proprie forze, credono che il duca (di Lorena) sia già imperatore, vanità, follie e ridicole illusioni; guasteremo un poco i loro conti, ma questo piccolo saggio Le farà vedere quanto avessi ragione di giudicare che noi ci comprometteremmo volendo trattare con Vienna».

Questo era quindi il punto, in cui non si erano trovati d'accordo a Rheinsberg. Podewils aveva insistito sull'opportunità di tentar prima la fortuna a Vienna con dei negoziati, per indurre Maria Teresa ad abbandonare pacificamente la Slesia, promettendole aiuto di denaro e di armi dalla Prussia e l'appoggio di questa nell'elezione dell'imperatore. Il 6 novembre il re ricevette la notizia che il conte Perusa aveva annunciato a Vienna le pretese dell'elettore di Baviera all'eredità dell'imperatore Carlo VI, egli scrisse allora il saggio classico «Idee sui disegni politici da concepire nell'occasione della morte dell'imperatore», da cui togliamo il passo seguente:

«La superiorità delle nostre truppe su quelle dei nostri vicini, la mobilità con la quale le possiamo mettere in azione, il vantaggio che sotto tutti gli aspetti abbiamo su di loro, é assoluto e in un'occasione impreveduta come questa ci dà un'immensa preponderanza su tutte le altre potenze dell'Europa. Se aspettiamo che la Sassonia e la Baviera comincino le prime ostilità, non possiamo impedire alla Sassonia d'ingrandirsi e questo sarebbe del tutto contro il nostro interesse ed inoltre per questo caso siamo privi di un buon pretesto. Se invece assaliamo con un'azione immediata, teniamo indietro la Sassonia, le impediamo di comprare dei cavalli e la poniamo in condizione di non potere intraprendere nulla. Da tutte queste considerazioni ricavo la conclusione che noi dobbiamo prender possesso della Slesia prima dell'inverno e trattare poi durante l'inverno stesso; allora si potrà sempre scegliere da quale parte dovremo porci e le nostre trattative riusciranno bene, se ne saremo già in possesso. Procedendo diversamente, ci lasciamo sfuggire tutti i nostri vantaggi, e con delle semplici trattative non otterremo nulla o piuttosto ci porranno delle condizioni molto gravose e ci offriranno in compenso delle piccolezze».

Il 7 novembre il re emanò gli ordini di marcia ai suoi reggimenti; il 10 novembre seppe che l'imperatrice di Russia era morta e con questo era scomparsa l'ultima preoccupazione, quella della Russia; allora il 15 novembre scrisse a Podewils:
«Il mio gran colpo sarà dato l'8 dicembre; dò inizio all'impresa più ardita, più energica, più grande, alla quale si sia mai accinto un principe della mia Casa. Il cuore mi promette presagi propizi e le mie truppe un felice successo
».

Nel frattempo alla giovane regina Maria Teresa, in mezzo alle circostanze sconfortanti, in cui l'aveva lasciata suo padre, l'imperatore Carlo VI, si era aperto uno spiraglio luminoso, che doveva rafforzare in modo sorprendente la sua fede nell'inviolabilità del suo diritto ereditario. Dalla fine di ottobre del 1740 l'ambasciatore bavarese conte Perusa aveva ufficialmente presentato la precisa affermazione che l'imperatore Ferdinando I aveva disposto per testamento che nel caso, in cui egli e i suoi tre figli Massimiliano, Ferdinando e Carlo morissero senza eredi maschi, la sua figlia maggiore Anna, consorte del duca Alberto di Baviera, fosse unica erede dei suoi domini, cioè dell'Ungheria, Boemia ed Austria.

Con l'imperatore Carlo VI era morto l'ultimo rampollo maschile di Ferdinando I e perciò il diritto ereditario passava ai discendenti della duchessa Anna. L'elettore di Baviera, Carlo Alberto, allora regnante, rivendicava tutti i diritti di questa, ed in suo nome il Perusa richiedeva che tutti gli ambasciatori accreditati a Vienna tralasciassero prima di tutto di fare qualsiasi passo, in forza del quale Maria Teresa fosse riconosciuta in altra qualità all'infuori di quella di granduchessa di Toscana.

Per confutare del tutto questa precisa affermazione non vi era altro mezzo che la presentazione e l'esame del documento in questione nel suo originale. Questo ebbe luogo solennemente il 3 novembre 1740. Nella sera di quel giorno, invitati dal cancelliere von Sinzendorff nella sua casa, si raccolsero gli ambasciatori di Russia, Inghilterra, Prussia, Annover e Sassonia con diversi ministri, per esaminare personalmente il documento.
Stavano esposti sopra una tavola il testamento di Ferdinando I del 1° giugno 1543 e il codicillo addizionale del 4 febbraio 1547. In quest'ultimo si leggeva il passo decisivo: «E per quanto abbiamo posto e ordinato nel predetto testamento, quando tutti i nostri diletti figli morissero senza eredi legittimi, allora poi questo vada alle nostre figlie, ecc.».

Se nel documento originale si parlava soltanto di «eredi legittimi», mentre nella copia, che si aveva a Monaco, si leggeva «eredi maschi», la copia doveva contenere una falsificazione e da parte dell'Austria si era subito espresso il sospetto che un certo barone di Hartmann, un tempo inviato dell'elettore palatino in Vienna, fosse stato il falsificatore.
Il 4 novembre i documenti furono presentati anche al conte Perusa. Questi si diede un gran da fare per scoprire in essi una qualche alterazione, ma invano perché non se ne poté trovare una minima traccia. Il 19 novembre partì da Vienna, lasciando una protesta scritta contro la presa di possesso degli Stati austriaci da parte di Maria Teresa, ma senza aver in nulla mutato il fatto che la piena insostenibilità delle pretese bavaresi alla successione austriaca era ormai indubbiamente dimostrata.

Maria Teresa fu molto contenta di quest'esito dell'attacco mossole dalla Baviera, tanto più che il cardinale Fleury dopo il 19 di novembre ripudiò la causa dell'elettore di Baviera e disapprovò tutto il suo procedere come sbagliato. Da questo essa concluse che non vi fosse ormai nessuna preoccupazione dal lato della Francia e che fosse tolta via ogni ragione di pagare le offerte prussiane con sacrifici da parte dell'Austria. In uno scritto del 31 ottobre il re francese aveva cercato di far comprendere al consorte di Maria Teresa che egli era pronto a prestarle aiuto, ma non per niente; egli doveva trovarci il suo tornaconto.
Che cosa questo significasse era stato bene inteso, ma non se n'erano curati. Il re aveva dato un simile accenno a Maria Teresa. Sull'indirizzo di una lettera, che le aveva inviato il 5 novembre, aveva scritto «Alla Serenissima Potentissima Principessa Maria Teresa, Regina di Ungheria, Boemia, Dalmazia, Croazia e Slavonia, Arciduchessa d'Austria».

Di questo aperto riconoscimento appunto dei diritti sovrani, a lei contestati dall'elettore di Baviera, Maria Teresa si compiacque, ma non aveva degnato della sua attenzione che poi tra i diciotto altri titoli seguenti, scritti per disteso, fossero state omesse appunto le parole «Duchessa dell'Alta e della Bassa Slesia». Soltanto al luogotenente maresciallo marchese Botta Adorno, che andava a Berlino attraverso la Slesia, e a cui al di là di questa si fece incontro un intero esercito di Prussiani, che marciavano sulla via verso i confini, apparve chiaro un fatto, la cui importanza egli giustamente interpretò, quando alla fine di novembre scrisse da Berlino alla famiglia: «Fra 14 giorni avremo i Prussiani nella Slesia».
Il re si trovava ancora a Rheinsberg, quando il Botta arrivò a Berlino e con impazienza febbrile da un giorno all'altro aspettava di essere invitato ad un'udienza. Il re lo ricevette soltanto il 6 dicembre, dopo aver fatto partire per i confini l'artiglieria, gli equipaggi da campagna e i tre reggimenti di stanza a Berlino. Il Botta presentò le lettere, nelle quali il granduca Francesco e la sua consorte Maria Teresa. chiedevano alla Prussia il suo voto per l'elezione imperiale. Il 5 dicembre il re lo ricevette per la seconda volta e soltanto allora - gli ultimi reggimenti erano già in marcia - gli svelò al Botta atterrito quello, che per mezzo del conte Gotter voleva far sapere a Vienna: la Prussia prende la Slesia ed é pronta ad ogni servizio di alleata e di amica, se la regina cede pacificamente quella provincia.

«Maestà», esclamò il Botta, «voi distruggete la Casa d'Austria e vi precipitate nell'abisso con lei». Il re rispose: «Spetta alla regina soltanto di accogliere le offerte che io le faccio». Il re interruppe le rimostranze, nelle quali il Botta si agitava, e fattogli un inchino lo lasciò. Il 14 dicembre Federico partì per raggiungere l'esercito, il 16 passò la frontiera e scrisse a Podewils: «Il mio cuore mi presagisce un pieno buon successo, ed un certo istinto, di cui non conosco l'origine, mi promette fortuna e vittoria».

Pareva che i granatieri prussiani, che entravano nella Slesia, sentissero il profondo respiro di sollievo, con la quale la popolazione protestante vedeva giungere i suoi protestanti liberatori, appunto nel momento, nel quale essa aveva invece temuto dai regnanti cattolici persecuzioni e nuovi processi per eresia.
Il fatto che i Prussiani non rapinavano ma pagavano in contanti tutto quello di cui abbisognavano, e così durante le marce o quando si acquartieravano tenevano un contegno esemplare, confermava l'impressione che stava avvenendo tutto quello che si voleva, eccetto un'invasione nemica.

La condotta meravigliosa, tenuta dalla città di Breslavia, non aveva finalmente mancato di dissuadere da ogni tentativo di resistenza armata contro i Prussiani. Le autorità austriache avevano appena fatto al magistrato municipale di Breslavia un primo accenno intorno alla necessità di rinunziare all'antichissimo ius praesidii, e di accogliere le truppe del sovrano per la difesa contro i Prussiani, quando la piccola borghesia delle corporazioni artigiane, prevalentemente evangelica, si mise nella più viva agitazione.
Il 14 dicembre una folla eccitata invase il palazzo comunale per ottenere a forza la revoca della decisione di accogliere in città le truppe. Il suo capo dichiarò che la cittadinanza non voleva truppe straniere austriache, che poteva difendersi da se stessa, e il vecchio comandante in capo della milizia cittadina assicurò di esser pronto a spargere il suo sangue per la città. Ne seguì un tripudio generale, il consiglio intimorito revocò la deliberazione presa, e fu deciso che Breslavia non si sarebbe difesa contro i Prussiani. Il 3 gennaio 1741 fu stipulato il trattato di neutralità, concluso tra la città e i plenipotenziari di re Federico; nel giorno stesso con un seguito brillante fece in città il suo ingresso solenne e poi disse con compiacimento a Podewils: «La Breslavia é mia! ».

Quello che era venuto nelle mani dei Prussiani senza spargimento di sangue nel marzo e nell'aprile fu conservato in seguito a due splendidi fatti d'arme. L'uno avvenne nella notte dall'8 al 9 marzo, quando fu espugnata con gran valore la fortezza di Glogau dal principe ereditario Leopoldo di Anhalt-Dessau; l'altro fu la battaglia di Mollwitz del 18 aprile 1741. Questa parve perduta dalla cavalleria e il re aveva già abbandonato il campo di battaglia, quando i granatieri la mutarono in una brillante vittoria.

Alle fonti della storia di questa battaglia si sono recentemente aggiunte delle relazioni sulla campagna, la prima delle quali ha per titolo: «Relazione del Maresciallo Conte Neipperg sulla battaglia di Mollwitz del 10 aprile 1741».

L'ufficiale austriaco racconta:
«La prima linea era già formata, quando i Prussiani cominciarono a cannoneggiare la nostra ala sinistra con tanta violenza che appena con i fucili si sarebbe potuto avere un fuoco più rapido. Nel tempo in cui si dice un pacer nosier, furono tirati 10 colpi di cannone, mentre noi non potevamo rispondere, perchè l'artiglieria non era ancora in posizione».

La battaglia fu decisa quando dalla parte degli Austriaci non si poté più far avanzare la fanteria e la cavalleria.
«Ma poiché la nostra fanteria non voleva avanzare, la nostra cavalleria fu così disorientata che non poté più muovere all'assalto, sebbene il generale Berlichingen la incitasse con il suo esempio; spronato il suo cavallo giunse esortando i suoi prodi fino a 20 passi dal nemico, ma senza alcun risultato, e questo lo mosse così a sdegno che spaccò la testa a due soldati di cavalleria, che se ne andavano correndo via e parecchi altri li gettò giù da cavallo a sciabolate. Le cose prendevano sempre una piega peggiore, la nostra fanteria non si avanzava di un solo passo, sebbene sopportasse un fuoco continuo, i battaglioni si disordinarono ed era una desolazione il vedere quelle povere reclute, che si riparavano l'una dietro l'altra, tanto che i battaglioni avevano una profondità da 30 fino a 40 uomini e gli spazi divenivano così grandi che vi si sarebbe potuto entrare con interi reggimenti di cavalleria, sebbene tutta la seconda linea fosse stata avvicendata nella prima. E certo che la nostra fanteria sarebbe stata distrutta, se avessimo avuto da fare con un nemico più impetuoso e più risoluto».

Nell'opera diplomatica venuta allora a dare il cambio all'opera militare, il re ebbe a rallegrarsi dell'aiuto di due grandi potenze, che ambedue, soltanto dopo gravi sforzi di abnegazione, dovevano scoprire che agivano a loro profitto quando agivano «pour le roi de Prusse».
Queste grandi potenze erano la Francia e l'Inghilterra, una delle quali contribuì a porre ad effetto il trattato di alleanza del 5 giugno e l'altra l'accordo del 9 ottobre 1741. L'opera di ambedue innalzò a grande potenza la giovane Prussia. Negli otto articoli principali, come negli articoli segreti addizionali del trattato di alleanza, stipulato a Breslavia il 5 giugno, i quali contenevano la parte essenziale dell'accordo, furono del tutto garantiti così i diritti del re, come la sua libertà di decisione.
Nel primo dei quattro articoli segreti la Francia garantiva al re di Prussia e a tutti
i suoi successori il tranquillo possesso di tutta la Bassa Slesia con Breslavia; la Prussia in compenso si obbligava a non mettere mano nella nuova provincia ad alcun cambiamento in pregiudizio della religione cattolica e cedeva nel tempo stesso in favore della Casa Palatina di Sulzbach e dei suoi eredi tutti i propri diritti su Jülich e Berg.

Tuttavia questa cessione doveva aver vigore soltanto quando la cessione della Bassa Slesia con Breslavia fosse concessa e garantita in un trattato formale di pace. Nel secondo articolo segreto la Francia si obbligava a difendere la Prussia contro la Russia, compromessa già con ogni sorta di piani ostili, a spingere la Svezia a una rottura immediata con la Russia, mentre la Prussia stipulerebbe subito un'alleanza con la Svezia. Nel terzo articolo le due potenze si obbligavano a fare ottenere la dignità imperiale all'elettore di Baviera. Nel quarto la Francia prometteva di assistere con tutte le sue forze l'elettore contro l'Austria.
Gli accordi stipulati con la Francia erano per Federico un grosso passo, pieno d'immense responsabilità. L'ambasciatore francese, marchese di Valory, che aveva condotto le trattative preliminari per l'alleanza, attesta esplicitamente che Federico non volle sapere di unirsi alla Francia, finchè gli rimase qualche speranza di intendersi con l'Austria, che soltanto la scoperta della lega, conclusa proditoriamente contro di lui dai re d'Inghilterra e di Polonia, pose fine alle sue incertezze.

Nell'alleanza si garantì una piena indipendenza. La rinuncia a Jülich e a Berg non gli riuscì gravosa, ottenendo egli in compenso la Bassa Slesia con Breslavia, mentre il passaggio della dignità imperiale alla Baviera rispondeva del tutto ai suoi interessi nell'impero. Non si era obbligato con alcuna parola a sostenere ulteriori piani della Francia contro l'Austria e non era in alcun modo tenuto a rimanere un solo giorno nell'alleanza, dopo che l'Austria avesse ceduto la Slesia.

Fu un questo atto di legittima difesa contro la Francia, comparsa in Austria al fianco della Baviera come potenza belligerante, l'accordo di Klein-Schellendorf, col quale il re tirò indietro la regina Maria Teresa dall'abisso, permettendo in parte e in parte causando nella guerra un pieno stravolgimento.

Trattenuto dall'assedio di Neisse, Federico prese la mano, che gli si porgeva con la mediazione dell'ambasciatore inglese, per assicurarsi senza assalto la forte Neisse e per lasciar libero alla regina Maria Teresa l'esercito, che le permettesse di riprendere lena contro Bavaresi e Francesi.
Il 9 ottobre 1741 nel castello di Klein-Schellendorf, situato a nord della piccola città di Steinau, ebbe luogo un convegno, al quale si trovò presente il maresciallo conte Neipperg, accompagnato dall'ambasciatore inglese, Lord Hymedford. Verso le tre del pomeriggio comparve il re Federico II di Prussia e subito cominciarono le trattative.

L'abbozzo di convenzione, presentato dal Neipperg, non fu accettato; lo fu invece con alcune modificazioni il testo francese, redatto dall'ambasciatore inglese secondo le proposte verbali del re di Prussia. Dei diciotto paragrafi sono più degni di nota i seguenti: 5°) Dopo l'occupazione della città di Neisse, S. M. il re di Prussia non procederà ad atti di guerra offensiva contro S. M. la regina d'Ungheria e di Boemia, ne contro il re d'Inghilterra come Elettore di Annover, né contro qualsiasi degli alleati attuali della regina, fino alla conclusione della pace generale. 6°) Il re di Prussia non domanderà mai nulla più della Bassa Slesia con la città di Neisse. 7°) Fino alla fine del prossimo dicembre si faranno pratiche per concludere una pace definitiva. 9.°) Il 16 corr. il maresciallo conte Neipperg predetto si ritirerà con tutto il suo esercito in Moravia.

Tra gli aspetti singolari di questo atto diplomatico é quello che esso non fu sottoscritto da alcuna delle parti contraenti, ma soltanto dal mediatore inglese e che anche per la promessa del segreto la parola d'onore fu data soltanto dal negoziatore austriaco, ma non da un rappresentante della Prussia.
L'importanza di tutto questo procedimento ha dato occasione al re di pronunciarsi nel quarto capitolo della sua Histoire de mon temps sui motivi di questo armistizio con una ampiezza, della quale altrove appena conosciamo un altro esempio. Egli si diffonde nel mostrare che agiva soltanto per l'accrescimento della sua Casa e si guardava dall'accordare alla Francia con troppa larghezza la parte di arbitro.
Poi dice: «Per conseguenza pareva che la prudenza richiedesse da parte del re un procedere moderato, col quale mantenesse una specie di equilibrio tra le due case d'Austria e di Borbone. La regina d'Ungheria stava sull'orlo di un abisso; una tregua le dava modo di respirare, e il re era certo di rompere questo armistizio, quando credesse giunto il momento opportuno, poiché la politica seguita dalla corte di Vienna la spingerebbe a svelare il segreto. A piena giustificazione del re aggiungiamo che egli aveva scoperto le relazioni segrete che il cardinale Fleury manteneva in Vienna col signore di Stainville, ministro del granduca di Toscana. Sapeva che il cardinale era deciso a sacrificare gli alleati della Francia, se la corte di Vienna gli avesse offerto il Lussemburgo e una parte del Brabante. Perciò si decise a destreggiarsi abilmente e soprattutto a non lasciarsi sopraffare da un vecchio uomo di Stato, che nell'ultima guerra aveva ingannato più d'una testa coronata».

Il grande beneficio del 9 ottobre 1741 fu quello di lasciare a Maria Teresa le mani libere contro la Francia e la Baviera, come essa gli necessitava e poteva ottenere soltanto da una tregua con il re Federico, come difatti le fu concesso dal compromesso di Klein-Schnellendorf.

Per le esortazioni, che il suo ministro plenipotenziario, il consigliere intimo von Borcke, doveva rivolgere alla giovane Maria Teresa, il re Federico il 5 novembre 1740 gli aveva mandato una guida con queste parole: "l'imperatore è morto, l'impero e la casa arciducale sono senza un capo, le finanze esauste, l'esercito distrutto, le province devastate dalla guerra, dalla peste e dalla carestia, dissanguate dai carichi spaventosi finora sopportati, le pretese ereditarie della Baviera sono abbastanza conosciute, in Sassonia cova sotto le ceneri un incendio prossimo a divampare, i segreti disegni della Francia, della Spagna, della Savoia stanno svelandosi".

Tutto questo sembrava tanto vero quanto notorio, ma una sola cosa non era giusta: l'Austria non era senza un capo; l'arciduchessa ventiquattrenne lasciata dall'imperatore Carlo VI, era nata con la testa e il cuore di un vero re, era dotata di un'abbagliante completezza di tutti quei doni, con i quali si regna.
In una situazione, in cui l'accortezza dei più saggi per lo più si manifestava nella forma di una comoda disperazione, senza una scuola e una preparazione precedente, essa aveva scorto che la massima parte di tutti i pericoli sono spettri dell'immaginazione e della pusillanimità, che si dileguano da sé stessi dinanzi alla maestà della decisione e del fatto.

Non sappiamo quanto le fosse nota la storia segreta della legge di famiglia di Carlo VI, della «prammatica sanzione» del 1713, sulla quale riposava il riconoscimento da parte dell'Europa del suo diritto di sucessione al trono; noi sappiamo però che tutti i documenti in pergamena, derivati da quella e accumulati negli archivi della sua Casa, non importavano per far valere il suo diritto, quanto la serena noncuranza, con la quale ella si comportò come se dei dubbi su questo diritto non fossero mai esistiti.


Appena l'imperatore ebbe chiuso gli occhi, la giovane principessa, ricevette i ministri e le autorità che le prestarono omaggio come «Regina d'Ungheria e di Boemia e arciduchessa d'Austria». Il 23 radunò per la prima volta la conferenza segreta di Stato, avendo a fianco suo marito Francesco Stefano, che presto - pur non avendone il titolo - agì come coereggente.

La pretesa bavarese alla successione fu smascherata e distrutta con una sola decisione. Quando poi il 18 dicembre l'ambasciatore di Federico II, conte Gosser, comparve alla sua presenza, dichiarando che egli recava in una mano la salvezza della Casa d'Austria e nell'altra la corona imperiale per il granduca, ma che la regina non poteva dare al suo re meno del ducato di Slesia, allora fu trovato il segno infallibile, dal quale Maria Teresa credette di poter riconoscere i suoi veri amici.
Fino a quel momento ella aveva considerato il segretario di Stato von Bartenstein come il cattivo genio della monarchia, come l'autore di tutti i malanni, che avevano colto l'Austria negli ultimi anni del regno di Carlo VI. Subito all'inizio del nuovo regno sarebbe stato licenziato, se si fosse potuto fare a meno di lui, che era l'unica energia attiva del gabinetto. Ma siccome questo era impossibile, ella lo aveva lasciato in ufficio con le parole: si adoperasse per fare tanto bene quanto gli era possibile; di fare il male saprebbe lei certo a impedirglielo.

Quando poi essa vide che la maggioranza dei ministri del suo consiglio si pronunciava per le trattative con il re Federico sulla base di cessioni territoriali nella Slesia e che invece il Bartenstein, d'accordo con lo Starhemberg, non solo respingeva ogni trattativa, ma anche dava i motivi per questo rifiuto in un modo che aveva il suo pieno consenso, allora lo guardò subito con un altro occhio. L'indivisibilità dei paesi austriaci, disse il Bartenstein con l'efficacia di un uomo competente, forma la base giuridica della prammatica sanzione; se questa é violata anche in un solo punto, cadono tutte le guarentigie che le potenze estere hanno dato a quella; non si potrebbe allora negare più ad alcun richiedente quello che ad un altro si fosse concesso e la base giuridica della successione stessa sarebbe allora scossa. Se poi il re di Prussia avesse soltanto una piccola parte della Slesia, troverebbe certo il mezzo per appropriarsi anche del rimanente, col pretesto di un risarcimento dell'aiuto che avesse prestato. «Perisca piuttosto la Casa d'Austria anziché dovere la sua salvezza al re di Prussia».

Questo egli diceva a Maria Teresa dal fondo dell'anima. I grandi errori della sua ideologia divennero comuni anche ad essa; al pari di lui la regina credette all'amore della Francia per la pace, alla saggezza dei consigli ed alla prontezza degli aiuti dell'Inghilterra e dell'Olanda, e il cieco odio del Bartenstein per la Prussia, incapace di insegnamento e di conversione, divenne anche per lei una religione politica. Fu per lei un vero trionfo, quando, respinte le proposte prussiane, si riuscì ancora ad ingannare i due prussiani Gotter e Borck col miraggio che si volesse cedere la Slesia in forma di feudo apparente, e ad indurli a dare la forma autentica di protocollo alle offerte di ricambio del re.

Questo protocollo della conferenza del 3 gennaio, fu presentato il 4 gennaio agli ambasciatori delle potenze estere e finalmente fatto conoscere nel mondo con un manifesto, equivalente ad una dichiarazione di guerra, per imprimere su Federico il marchio di traditore.
Il re prussiano allora fece pubblicare uno scritto composto dal cancelliere von Ludewig «Proprietà ben fondata», in cui si rivela la storia dei rovesci del 1686 e delle loro conseguenze, scritto che ai nostri giorni si é dovuto riconoscere come giusto da parte della stessa Austria.
La questione della Slesia fu decisa militarmente dalla battaglia di Mollwitz il 10 aprile 1741, politicamente dal trattato di alleanza con la Francia, concluso il 5 giugno a Breslavia; dalla tregua di Klein-Schnellendorf del 9 ottobre fu poi salvato per sempre per la saggezza di Federico l'avvenire dell'Austria come grande potenza contro la Francia e la Baviera.

Il 28 maggio 1741 il maresciallo Belleisle concluse a Nymphenburg presso Monaco il trattato ispano-bavarese, che procurava all'elettore Carlo Alberto di Baviera un sussidio mensile di 80.000 fiorini, oltre ad un pagamento per una sola volta di 800.000 livres per la guerra contro l'Austria. Secondo un piano di guerra, che gli aveva dato, come suo contributo, Federico di Prussia, una divisione bavarese sotto il generale Minuzzi mosse due mesi più tardi da Scharding a Passau e prese questa città senza spargimento di sangue, come poi anche la fortezza di Oberhaus.

I Bavaresi riposarono in seguito per cinque settimane sugli allori di Passau, per aspettare che avanzassero le truppe ausiliarie francesi. Il 2 ottobre l'elettore ricevette in Linz l'omaggio solenne della provincia, a cui prese parte in gran numero la nobiltà dell'Alta Austria. Frattanto nel mese di agosto quattro colonne di Francesi, delle quali la prima era forte di 10.000 uomini, avevano passato il Reno; nel settembre erano seguiti a questi altri 20.000 Francesi. Il 21 ottobre Carlo Alberto era a S. Polten, ancora a 10 miglia da Vienna; egli però non si mosse verso questa città, ma, contro la volontà di Federico, verso Praga. In questa deviazione Federico scorse una rinunzia alla buona riuscita di tutta la guerra.

Come era avvenuto questo? Nel giornale di Carlo Alberto troviamo come spiegazione che si era già convenuto innanzi col maresciallo Belleisle di andare in Boemia. Ma il re Federico non tralasciò di consigliare la marcia in avanti su Vienna, per dare un colpo al cuore del nemico e conseguire in un solo tratto la decisione. «Ma poiché», scrive Carlo, «non disponevo di artiglieria, era per me senza nessuna utilità marciare su Vienna, dove io non poteva nulla ottenere senza un assedio regolare; che cosa significava penetrare fin là per poi ritirarsi di nuovo? Ad onta di queste buone ragioni cedetti alle vivaci rimostranze del re di Prussia, non guidato da altro motivo che di compiacere il re e di non perdere la sua amicizia. Mi volsi quindi contro Vienna, contrariamente alla mia persuasione e al piano prima adottato di muovere contro Praga".
Ma non era di questo parere il Belleisle, che invece persisteva nel volere che la conquista della Boemia dovesse precedere, come impresa più necessaria e più facile. Questo bastò per rendere Carlo Alberto indeciso, e un intrigo abilmente ordito lo indusse infine a tornare indietro.

L'imperatrice vedova cioè fece sapere alla figlia, moglie di Carlo, anche come avvertimento, che non vi era più da dubitare della conclusione della pace tra l'Austria e la Prussia; altre lettere da Vienna confermavano almeno che erano in corso delle trattative e infatti poco prima il re Federico nel castello di Klein-Schnellendorf era entrato in accordi segreti con Maria Teresa.
Finalmente l'Elettore convocò un consiglio di guerra e in esso tutti furono unanimi nel non volere intraprendere alcun colpo temerario, e nel considerare come una pazzia il passaggio del Danubio, esponendo durante l'intera marcia il fianco al Neipperg, poiché inoltre non si sapeva qual via si dovesse prendere. «Fu presa la via della Boemia e Vienna fu salva».

Sotto le mura di Praga 21.000 Sassoni sotto il generale Ratowsky si congiunsero con i Bavaresi e con i Francesi; in un consiglio di guerra, convocato a richiesta del generale sassone, il 24 novembre fu deciso di muovere senza indugio all'assalto. Questo fu dato da quattro lati nella notte dal 25 al 26 novembre e all'alba la città si trovava nelle mani degli assalitori.

 

L'elettore Carlo Alberto si considerò qui come sovrano e assunse il 7 dicembre il titolo di re di Boemia; il 19 dicembre con una pompa sfarzosa ebbe luogo la solennità dell'omaggio, alla quale presero parte 400 membri degli Stati del regno.
Il 24 gennaio 1742 nella chiesa di San Bartolomeo a Francoforte avvenne l'elezione unanime del re di Boemia a imperatore, in quel medesimo giorno Linz e Passau caddero di nuovo in mano degli Austriaci.

Il 12 febbraio fu coronato il nuovo eletto e il 14 febbraio fece il suo ingresso in Monaco il Menzel, capo di partigiani austriaci, dopo che centinaia di villaggi e di borghi bavaresi erano stati dati alle fiamme. Il sogno imperiale della Casa di Baviera finiva in un terribile risveglio, quando cominciò a ridarsi vigore la potenza militare austriaca, che nel paese di origine dell' imperatore eletto volle la sua prima vittima indifesa.

Il maresciallo conte Khevenhuller con 16.000 uomini aveva pulito il paese da Francesi e da Bavaresi.
Per dare tempo di respirare all'imperatore, che «malato, senza stati, senza denaro si paragonava a Giobbe, l'eroe del dolore», Federico di Prussia prese di nuovo le armi, dato che era stato violato da parte dell'Austria il segreto dell'accordo di Klein-Schnellendorf; il 18 maggio 1742 batté gli Austriaci del principe Carlo di Lorena tra Chotusitz e Czaslau, in una battaglia, nella quale la cavalleria prussiana riportò l'onore della giornata, e pose termine l'11 giugno alla prima guerra di Slesia con i preliminari di pace di Breslavia, in cui Maria Teresa cedette «la Bassa e l'Alta Slesia fino a Teschen, Troppau e il paese oltre l'Opper e le alte montagne, come pure la contea di Glatz».

Conclusa questa pace, il proseguimento della guerra di successione non aveva più alcun significato. Perchè allora é durato ancora?
Perché Maria Teresa non voleva la pace e per continuare la guerra aveva a sua disposizione in abbondanza gli aiuti di denaro e di truppe del re Giorgio II d'Inghilterra e del suo nuovo ministro Lord Carteret.
Maria Teresa cercava un compenso alla perdita della Slesia e persisteva nel volerlo trovare nella Baviera, il cui sovrano doveva essere risarcito a spese della Francia con l'Alsazia, la Lorena e la Borgogna.
In Italia poi, dove le sue armi, unite a quelle del re di Sardegna Carlo Emanuele III, erano state decisamente fortunate contro gli Spagnuoli, voleva riconquistare Napoli e la Sicilia e dare quest'ultima come risarcimento alla Casa di Savoia.

Quando giunse la fine dell'anno 1742, le potenze belligeranti cominciarono una dopo l'altra ad abbandonare il campo della lotta. Nell'ottobre e nel dicembre i Francesi sotto i marescialli Broglie e Belleisle si ritirarono dalla Boemia e in questa ritirata ottennero tutto quell'onore, che le loro armi potevano ancora salvare. Il novantenne cardinale Fleury sopravvisse ancora a questo esito miserevole della sua avventura boema e finì la sua vita il 29 gennaio 1743.

Ai Francesi Broglie e Belleisle tennero dietro le truppe del duca di Noailles, dopo aver dato il 27 giugno 1743 presso Dettingen al così detto «esercito prammatico» sotto il re Giorgio II d'Inghilterra una battaglia, nella quale il regale capitano si mostrò così inetto al comando che il celebre uomo di stato Guglielmo Pitt in pubblico parlamento nella «vittoria» di Dettingen non volle riconoscere al massimo che un «fortunato scampo» concesso dal vincitore.

Il 5 giugno 1744, nel terzo anniversario della sua prima alleanza con la Francia, il re Federico di Prussia, per mezzo del maggior generale conte di Rothenburg, concluse in Versailles un nuovo accordo col re Luigi. La duchessa di Chateauroux, favorita del re, era l'anima della sua politica guerresca. Sulla carta si era provveduto egregiamente agli interessi dei monarchi di Francia e di Prussia ed al loro scambievole aiuto, ma solamente sulla carta. La campagna boema del re Federico fallì per il mancato promesso aiuto francese, che doveva trattenere gli Austriaci dall'avanzarsi alle spalle dei Prussiani. Ma verso la fine dell'anno 1744 avvennero due morti, che mutarono del tutto la situazione generale; l'8 dicembre 1744 mori la duchessa di Chateauroux e il 20 gennaio 1745 l'imperatore Carlo VII. Quella era stata l'anima del partito prussiano alla corte francese e senza di questo non si poteva concepire una nuova politica imperiale con tutte le sue nuove mire.
Per il trattato di Fuessen del 22 aprile 1749, il giovine elettore di Baviera Massimiliano Giuseppe recuperò il possesso dei paesi bavaresi della sua Casa, in cambio della rinunzia ad ogni pretesa di eredità austriaca e della promessa del voto della Baviera per l'elezione a imperatore tedesco del consorte di Maria Teresa. A questo accordo però tennero dietro quattro splendide vittorie delle armi alleate, dei Francesi a Fontenai, dove il maresciallo di Sassonia vinse Inglesi, Olandesi e Annoveresi (11 maggio 1745) di Hohenfriedberg (4 giugno) e di Soor (30 settembre), dove il re Federico battè Austriaci e Sassoni, e di Kesselsdorf (15 dicembre), dove questi ultimi furono sconfitti dal principe Leopoldo di Anhalt-Dessau.

Dieci giorni dopo la battaglia di Kesselsdorf, il 25 dicembre, fu stipulata a Dresda la doppia pace della Prussia con l'Austria e la Sassonia. La pace di Fuessen significò che la Baviera non cessava di esser bavarese, la doppia pace di Dresda che la Slesia rimaneva prussiana.
Dopo che Maria Teresa ebbe espresso validamente nei trattati di Breslavia e di Dresda la sua rinuncia alla Slesia, non tralasciò di manifestare, nel modo più chiaro possibile la riluttanza profonda, con cui lo aveva fatto. Non si poteva ormai cancellare quello che stava negli articoli preliminari di Breslavia e di Dresda, ma si poteva diminuire e indebolire il suo valore, giungendo ad impedire che fosse accolto nell'atto finale di pace del congresso di Aquisgrana.

E fu questo che Maria Teresa volle considerare quale suo dovere speciale rispetto al più abile dei suoi diplomatici, e fu una prova singolare di vigore dell'accordo pacifico delle due potenze Francia e Inghilterra che il conte Kaunitz, con tutta la pena e tutto il da fare che si dette in questo senso, dovette sottomettersi. Del tutto impotente si dimostrò la sua arte politica nel congresso per la pace di Aquisgrana (dal marzo al 18 ottobre 1748) e non meno impotente la sua continua lotta contro il bisogno necessario di pace, che assecondava l'opera diplomatica del re di Prussia.

Già durante la sua ambasciata a Parigi (dall'ottobre 1750 alla fine del 1752) il Kaunitz giunse alla conclusione che la sua tesi era inattuabile non soltanto allora, ma in generale. «Il re di Prussia - scrisse il 1° dicembre 1750 - è alleato della Francia e noi non lo siamo. E inoltre lui che alleato è ? È tale che senza la sua potenza ed autorità la Francia non potrebbe rappresentare nel mondo la bella parte, che pure vi rappresenta. Si comprende quindi che a lui si abbiano maggiori riguardi e si dimostri maggiore interesse che non a noi».

Pochi giorni più tardi scrive: «Il ministero di qui segue il suo piano; ciò mi sembra naturale e noi non possiamo far di meglio che imitarlo in questo. Bando alle meschine gelosie, all'ostinatezza, miriamo a un solo fine, all'interesse della nostra monarchia».
Nella primavera del 1751 prepara per l'imperatrice un lunga relazione-parere, dove abbandona tutto il sistema della sua sovrana, che fin allora era stato anche il suo. «Adattiamoci al nostro destino - dice - come è già accaduto spesso, dimentichiamo la Slesia, seppelliamo il nostro rancore e facciamo onorevolmente con la Prussia pace e amicizia. Qualunque sia la differenza dei loro interessi, le due potenze Francia e Inghilterra ne hanno uno in comune; esse fanno ugualmente a gara per conservare e per rafforzare il re di Prussia nel possesso della Slesia».

Questo fatto era innegabile, ma nella ricerca dei suoi motivi il Kaunitz non è felice; quello che tira fuori non è molto plausibile, e gli sfugge quello che è decisivo. Nè la Francia nè l'Inghilterra hanno voluto che la Prussia acquistasse la Slesia; ambedue si sono malvolentieri adattate al fatto di questa conquista; ma una volta che questa era avvenuta e si era mantenuta incrollabile in due guerre sanguinose, consideravano la nuova situazione come fondato sul diritto, per amore della pace europea, ed ogni tentativo di scuoterla era da esse trattato come un disordine pericoloso per tutti.

Due righe su questo diabolico Kaunitz:
A mettere sottosopra la pace di Aquisgrana non furono eventi bellici particolari, ma un giovane statista austriaco. WENZEL von KAUNITZ (nato e morto a Vienna - 1711-1794).
34enne già Plenipotenziario nei Paesi Bassi (1745-1746), poi ambasciatore a Parigi dal 1748 al 1751, infine cancelliere dal 1753 al 1792. (83 enne, morì due anni dopo, nel 1794 - Non fece in tempo a vedere il disastro napoleonico)
Fin dall'anno 1749 (mentre è cancelliere a Parigi, nella "tana" dell'atavico nemico degli Asburgo) diventa fiduciario di Maria Teresa e cerca di convincere l'imperatrice che per riconquistare la sua amata Slesia, dovrebbe cambiare tutta la storica politica asburgica, sempre stata antifrancese. Insinua questo tarlo a Maria Teresa, che pur di ritornare in possesso della Slesia, emotivamente da questo tarlo si fa anche dolcemente rodere; la rapina della Slesia è sempre stato il suo tormento interiore, ha sofferto moltissimo per quella aggressione del re prussiano, appena salito sul trono ("L'ambizione, l'interesse, il desiderio di far parlare di me, lo imponevano, così decisi quella guerra" scrisse il re prussiano nelle sue memorie che diede a correggere a Voltaire per giustificarsi, ma che Voltaire soppresse ritenendolo un azione non da "re illuminato". Memorie di Voltaire) quindi prepotente, senza dare ascolto alla ragione ma solo al suo spirito ardente, con Maria Teresa debole, poco più che ventenne, appena salita al trono. Quasi un trauma giovanile nel veder aggredito l'impero di suo padre, senza poter far nulla e solo perchè era donna; si ritrovò perfino i suoi parenti contro, per mettersi loro sul trono. 
Quando Kaunitz (non poteva essere diversamente per il rapporto fiduciario che era nato tra lui e l'imperatrice (che conserverà sempre fino alla morte di M.T.) diventa poi suo Cancelliere nel 1753, da abile statista qual'è, insiste nella sua paradossale ma diabolica idea; nel frattempo altre qualità a Kaunitz non gli mancano e se ne serve: cerca di rafforzare lo stato che la sua protettrice con tanta fiducia gli ha affidato e quindi di consolidare innanzitutto la potenza austriaca in tutti i campi, da quello militare a quello religioso, da quello economico a quello culturale.
Ma il suo capolavoro di statista è la realizzazione dell'alleanza con la Francia, che è poi all'origine della guerra dei Sette Anni.
Secondo alcuni storici fu la intrigante Pompadour a influenzare Kaunitz e Luigi XV. Altro protagonista l'abate Bernis, più impiccione della prima.
Ma da come andarono poi le cose, su questa influenza si possono avanzare dei dubbi. Semmai fu l'incontrario. Perchè l'abile statista Kaunitz ne venne fuori vincente solo lui. Riuscì a trascinare la Francia e gli uomini del suo esercito (non motivati, anzi con gli atavici nemici molto demotivati - basterebbe ricordare la figuraccia fatta poi a Rosbach davanti ai Prussiani - che ricorderemo più avanti con le memorie di Voltaire) nella sciagurata guerra; permettendo a Kaunitz di riuscire a rafforzare lo stato di Maria Teresa e a consolidare la potenza austriaca. Se questi erano i suoi obiettivi, ci riuscì in pieno, si prese gioco della "gonnella" e del "libertino" francese . 
Se l'Austria non era mai riuscita a togliere l'egemonia alla Francia con le guerre, ci riuscì in questi sette anni, stringendo con la corte di Versailles un alleanza. Un patto scellerato, perfino diabolico, che non solo ridimensionò la Francia negli equilibri delle potenze europee, ma la sprofondò in una grave crisi. 
In seguito, dopo la pace di questa guerra, Kaunitz continuò il suo eccellente lavoro per altri circa trent'anni, rimanendo al suo posto di Cancelliere fino a 81 anni. Sue le moltissime riforme di Maria Teresa ("teresine"), riprese poi anche dal "giuseppinismo", anche se ci fu la diminuzione della sua influenza quando mori l'imperatrice con l'ascesa al trono appunto di Giuseppe II, che finita la sudditanza alla madre (che non gli concesse mai il totale governo) si mise a fare l'assolutista e il cinico (vedi spartizione della Polonia), fino al punto che Kaunitz insofferente ai suoi metodi, diede le dimissioni, proprio nei tre anni critici della Rivoluzione francese; quando prima Giuseppe II (morto nel 1790), poi Leopoldo fra luci ed ombre nella gestione della guerra antirivoluzionaria insieme alla Prussia, morto anche lui subito dopo nel 1792, Francesco II l'erede andò a rovinare anni e anni di lavoro diplomatico del bravo Kaunitz. 
Francesco -rifiutando ogni pacificazione- impegnandosi sconsideratamente nelle campagne antifrancesi, costarono poi all'Austria mutilazioni territoriali, e lui dovette inchinarsi davanti a Napoleone perdendo pure il titolo di imperatore; e anche se (con tradimenti e voltafaccia) si prese la rivincita con la coalizione che battè il Corso e riuscì così a sedersi tra i vincitori al Congresso di Vienna, non lasciò buoni ricordi del suo operato, anche perchè sia nelle guerre antinapoleoniche, come negli anni della Restaurazione, si mise sotto l'ala protettrice del diabolico Metternich. Morto nel 1835, Francesco I non fece in tempo a vedere nel '48 il totale fallimento della politica del terrore di Metternich, quando il giovane Francesco Giuseppe lo mise alla porta; e purtroppo quando la maggior parte dei danni erano già stati fatti (guerre in Italia, rivolte in Ungheria, sconfitta a opera della Prussia, e rivolte nella stessa Austria).
 

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Torniamo a questi anni.
Il Kaunitz è sempre di opinione che l'Inghilterra e la Francia abbiano un interesse urgente affinché la Prussia rimanga in possesso della Slesia; questo fatto si può lamentare, senza che per questo esso cambi qualcosa; e si chiede che cosa segue da ciò? «In simili circostanze quale altro mezzo ragionevole rimane per raffermare la nostra sicurezza se non finire col dimenticare del tutto la perdita della Slesia, togliere al re di Prussia ogni preoccupazione a questo proposito e per questa via attirarlo un giorno insieme alle potenze marittime nell'alleanza contro l'Austria?».

Kaunitz si risponde da solo alle domande: "Ad una compiuta conciliazione si oppongono gl'interessi particolari della Prussia. Che cosa sta sopra tutto a cuore al re di Prussia? La sicurezza dell'acquisto della Slesia. Ma come può raggiungerla meglio se non per mezzo dell'Austria?
Se l'imperatrice conferma la sua rinunzia alla Slesia, fa rinnovare dai suoi alleati la garanzia del possesso della Prussia e d'accordo con l'Inghilterra adotta un sistema potitico contrario alla Francia, la Prussia trova in questo una piena sicurezza, ha le mani libere per pensare a nuove conquiste e a quel punto può sciogliersi dalla sua insofferente dipendenza dalla Francia.

"Da questa potenza prima o poi essa deve temere una rappresaglia per averla lasciata in asso non meno di tre volte durante l'ultima guerra. Certo il re Federico deve alla sua propria accortezza e alla cecità straniera se finora l'Inghilterra e la Francia hanno agito contemporaneamente in suo favore «Ma chi è intelligente al pari di lui non si fida a lungo di simili artifici e cerca di prendere misure che meglio lo assicurino, misure e chissa cos'altro appena se ne offra un'occasione opportuna».

Questo memoriale stava come un incubo sull'animo del conte Kaunitz; la relazione che inviò all'imperatrice porta la data del 3 maggio; ma l'abbozzo della relazione è datato dal 12 aprile 1751. Non conosciamo la decisione dell'imperatrice, ma possiamo sicuramente ammettere che deve aver contenuto un rifiuto.
Quando poi nell'aprile del 1753 il Kaunitz prese a Vienna la direzione della cancelleria di Stato, con una risolutezza, non più turbata da alcuna voglia di ricadute, si fece l'istigatore di una guerra mondiale, di fronte alla quale le due prime guerre di Slesia diventavano soltanto un gioco da ragazzini.

Durante la contesa interminabile, che a motivo dei confini della Nuova Francia e della Nuova Inghilterra nell'America settentrionale, inimicò le due potenze marittime Francia e Inghilterra, l'8 giugno '53 presso Terra Nuova si era venuti ad un'aperta rottura della pace da parte di una squadra inglese contro una francese. Alla sorpresa, che era costata due vascelli a quest'ultima, senza dichiarazione di guerra era poi seguita una caccia generale, data dalla flotta britannica alle navi francesi quasi ad oltranza, fino al punto che nei porti inglesi vi finirono sequestrate 300 navi mercantili del valore di 30 milioni e prigionieri 6000 marinai. Fu una violenza così enorme e così inaudita che anche uno storico inglese non poté fare a meno di riconoscere che i Francesi avevano avuto un «certo diritto» di lamentarsi della perfidia punitiva e degli atti di pirateria della nazione inglese.

Non mancarono indignati richiami; il ministro francese Rouillé chiese la restituzione di tutte le navi predate contro il diritto delle genti ed aggiunse che un rifiuto sarebbe considerato come una dichiarazione di guerra. Nè il parlamento nè il gabinetto di S. Giacomo dettero una risposta soddisfacente e le navi predate, come in uso in Inghilterra, non furono proprio per nulla consegnate e così si ebbe un'aperta guerra marittima.


Questo però non voleva dire ancora che dovesse seguire una guerra terrestre. Il conte Kaunitz sapeva benissimo che la Francia non la voleva, intendendo soltanto condurre a termine solo la sua lotta marittima con l'Inghilterra, e sapeva che questa era nella stessa situazione, poichè altrimenti avrebbe dovuto soccorrere i Paesi Bassi.

In quanto poi alla Prussia, Kaunitz ammetteva come cosa certa che Federico non era certo desideroso di guerra, e pur contro la sua abitudine «se ne sarebbe stato tranquillo».

Perchè dunque vi avrebbe dovuto essere una guerra, se appunto le tre potenze Francia, Inghilterra e Prussia non la volevano ed anzi evitavano tutto quello che avrebbe potuto esserne la causa?

A questa domanda rispose il conte Kaunitz in una relazione, che fu letta il 21 agosto 1755 in una seduta della conferenza di Stato ed a cui questi periodi servono di proemio:

«È VERO che la Prussia deve essere abbattuta, se la Casa austriaca deve sostenersi. Altrimenti siamo non utili a noi ed ai nostri alleati. Il pericolo continuo è là. Abbiamo minore influenza e considerazione in tutti gli affari europei. Nell'Impero la Prussia si oppone apertamente all'autorità imperiale e noi sappiamo sicuramente che conta sulla nostra rovina e che agirà secondo una simile benevola considerazione, se noi non la preverremo".
« È vero che senza esporci ad un gravissimo pericolo non la possiamo assalire, se non abbiamo degli aiuti esterni e se non siamo sicuri di fronte agli altri nostri vicini.
« È VERO che i nostri alleati non ci aiuteranno mai a farlo, almeno per ora. Al contrario vi è ogni ragione di supporre che s'intendano con la Prussia, almeno per quello che riguarda lo starsene tranquilli.
« È VERO che in una guerra contro la Francia, l'Olanda non farebbe nulla e l'Inghilterra troppo poco, ma ne imporrebbero a noi il maggior carico.
« È VERO che noi da soli non siamo in grado di tener fronte a questa potenza, che perderemmo i Paesi Bassi e che nel caso più fortunato rovineremmo i nostri Stati, le nostre truppe e le nostre finanze, senza avere da sperare il minimo vantaggio, mentre il nostro vicino più pericoloso godrebbe della pace, risparmierebbe le sue forze ed aspetterebbe l'occasione di coglierci all'improvviso per assalirci con ogni sua possa.
« È VERO che sarebbe imperdonabile esporci a siffatti événements e correre temerariamente alla nostra rovina. Ma se vogliamo evitare questo è anche vero che dovremmo abbandonare al caso la sorte dei Paesi Bassi e dell'Annover, disgustare i nostri alleati e se non perdere addirittura il credito e la considerazione, mettere questa a dura prova e noi nel pericolo di fare il sacrifici in tempo di pace.
« E POICHE' E' PUR VERO che si ha da scegliere l'uno o l'altro fra questi due extremes e che così l'uno come l'altro sono un giuoco falsissimo e nocivo, si tratta di sapere se non si possa trovare un altro mezzo, non solo per evitare il danno, ma anche per trarre un gran profitto da queste pericolose circostanze.
« Questo mezzo sarebbe trovato, quando noi potessimo: 1°) con adeguati motivi indurre la Francia ad abbandonare l'alleanza prussiana e quando 2°) si potesse persuadere la Russia ad attaccare nello stesso tempo la Prussia con un esercito di 80.000 uomini od anche più forte ».

In queste parole abbiamo davanti la figura primitiva di quella congiura guerresca, da cui ebbe origine la guerra generale dei sette anni, che doveva decidere dell'esistenza stessa della Prussia.
Si stanno insomma ribaltando le alleanze, provocando l'avvicinamento delle due tradizionali nemiche Austria e Francia per contrastare l'Inghilterra e l'emergente potenza della Prussia.

La condizione prima ed indispensabile era lo scioglimento dell'alleanza difensiva, che dal 15 giugno 1741 legava per 15 anni la Francia e la Prussia, e che a questo si potesse nel fatto riuscire, dopo che l'alleanza durava da 14 anni, sembrava un pensiero addirittura temerario.

Nulladimeno si fece già portare l'esca, con l'aiuto della quale si riuscì finalmente a concludere l'alleanza del 1° maggio 1757. Con la data «Parigi 1° settembre 1755» il conte Starhemberg annotava:
«Ieri ho fatto con la debita cautela la prima mossa presso la marchesa di Pompadour, che l'ha accolta benissimo».

Queste linee servono ad eternare la memoria di un fatto in verità memorabile, che cioè la prima parola di questa grande macchinazione di guerra non fu rivolta al re, ad un ministro o ad un generale, ma all' «amica dei re», alla marchesa di Pompadour.

Insolita al pari del proemio fu anche l'ulteriore manipolazione della cosa. Questa si svolse all'insaputa dei ministri e specialmente di quello competente, del ministro Rouillé degli affari esteri. La risposta ufficiale alla domanda confidenziale fu data per mezzo dell'abate conte di Bernis, già ambasciatore francese a Venezia, che da un biglietto della marchesa fu invitato ad un abboccamento del tutto segreto col conte Starhemberg, il quale dette così una piega inaspettata alla sua vita di uomo di Stato.

Il 9 settembre 1755 il conte Starhemberg ottenne per mezzo dell'abate di Bernis una risposta scritta, che esprimeva la premura del re di Francia nel mantenere i più intimi rapporti con l'imperatrice e nello stabilire fra le due corti un costante ed invariabile accordo; nel tempo stesso però gli sorgeva una preoccupazione non piccola per l'affermazione che il re di Prussia pensasse a «sacrificare la Francia ai suoi disegni particolari ed alla lega, che mirava a concludere con l'Inghilterra con la mediazione di alcune potenze protestanti».

Questa notizia giungeva al re prussiano tanto più nuova e improvvisa per non esservi egli stato preparato da alcun avvertimento e da alcun sospetto.
«Fedele alla sua parola, agli obblighi assunti e alle leggi dell'onore, senza le prove più chiare e senza le più gravi ragioni, egli non soltanto non poteva romperla coi suoi alleati ma nemmeno sospettare della loro buona fede e crederli capaci di simili slealtà e di tradimento".
Anche l'imperatrice, guidata dagli stessi sentimenti non solo non poteva senza ragioni particolari lagnarsi di segrete trame dell'Inghilterra, ma nemmeno pensare a spogliare il re di Prussia di ciò che gli aveva ceduto con solenni trattati, sotto la garanzia accordata ad Aquisgrana dalle potenze di Europa».

Questa risposta parve a Vienna di una intonazione da una parte così « inglese » e dall'altra così « prussiana » che il cancelliere di Stato conte Kaunitz disse nel suo rapporto del 24 settembre che la risposta francese «in sostanza era riuscita un rifiuto». (di abbandonare e voltare le spalle alla Prussia)
Anche Maria Teresa ne fu malcontenta e dette poi istruzioni a Starhemberg di far notare al momento opportuno a voce e di propria iniziativa l'ambiguità del contegno della Prussia. Questo in avvenire potrebbe sempre giovare. La risposta dell'Austria si regolasse quindi in modo da esprimere il desiderio che, dopo il rifiuto della Francia di abbandonare l'alleanza con la Prussia, tutta la richiesta si considerasse come non avvenuta.

Così rimasero le cose, finchè nel contegno delle grandi potenze non avvenne quel cambiamento sensibile e ben presto decisivo, determinato dal trattato anglo-prussiano di Westminster del 16 gennaio 1756 e dalla missione a Berlino, affidata dalla Francia al duca di Nivernais.
Il trattato di Westminster fu il trattato più innocente, che sia stato mai sottoscritto, la missione del duca di Nivernais fu la misura fittizia più innocua, che mai sia stata presa in diplomazia; se quel trattato e questa missione ebbero delle conseguenze, che di gran lunga oltrepassarono ogni previsione, questo dovette esser determinato da ragioni da ricercare fuori di ogni logica naturale.
La situazione che il re Federico pensava di creare al suo paese col trattato di neutralità del 16 gennaio 1736, differiva fondamentalmente da quella che in realtà ne derivò.
Nel suo testamento politico del 1752 il re ha scritto: «Il mio sistema attuale è di mantenere la pace tanto a lungo, in quanto ciò possa avvenire senza detrimento della maestà dello Stato». Alle prime comunicazioni intorno alle proposte dei ministri inglesi che gli furono fatte da Michell, suo incaricato d'affari a Londra, rispose il 7 dicembre 1755 che con piacere accoglierebbe - simili proposte e, avendo intenzione di agire con ogni suo potere per il mantenimento della pace in Europa, non vedeva nulla di più ragionevole che cominciare ad assicurare la tranquillità in Germania: «La cosa secondo il mio modo di vedere, si potrebbe fare concludendo un trattato di neutralità per la Germania, tra il re di Inghilterra e me, finchè durino gli attuali torbidi in Europa, senza nominare Francesi e Russi, per non far torto ad alcuno, e per darmi modo per mezzo di tali riguardi delicati di esercitare l'opera più efficace per la riconciliazione delle due nazioni ostili e discordi».

Il colloquio decisivo con l'inviato straordinario del re di Francia, il duca di Nivernais, avvenne soltanto dopo la stipulazione di Westminster, il 24 gennaio 1756, e fu subito messo su carta integralmente. La questione di diritto se si potesse da lui esigere che attaccasse l'Annover è da lui esaurita con tre periodi:
«1°) Io non ho garantito i possedimenti americani, ma la guerra proviene dall'America e in conseguenza non mi riguarda. 2°) La mia alleanza è solamente difensiva e perciò non sono obbligato ad atti offensivi. 3°) Il tempo della mia alleanza è spirato e per conseguenza sono esente da ogni obbligo quale alleato».

In quanto alla questione di fatto egli analizza così il problema dell'alleanza:

«Io non posso mettere in campo più di 100.000 uomini; l'Annover ne mette 40.000, l'imperatrice regina 100.000, la Russia 60.000. Io sono perciò più debole di loro della metà. È prudente - e corrisponde alle regole della guerra - il trovarsi di fronte al nemico più deboli della metà? No; se questi 200.000 uomini fossero in un accampamento ed io stessi loro di fronte coi miei 100.000 uomini, io li assalirei; ma poichè si disporranno in modo da obbligarmi a dividere le mie forze combattenti, io sarei in ogni luogo più debole di loro. È forse il caso di cominciare una guerra, che si debba poi condurre stando sulla difensiva? No, poichè di tutti i modi di condurre una guerra questo è quello, che reca con sè i carichi più gravi e i maggiori pericoli.
«Posso io rimanere inattivo e lasciar fare ai miei nemici quello che vogliono? No, perchè se i Russi penetrano nell'impero, io non debbo sopportarlo ed eccomi allora in una guerra, che io debbo evitare per la conservazione del mio Stato. Perchè si deve impedire ai Russi di penetrare nell'impero? Perchè i miei nemici, unendosi ad essi, diverrebbero troppo forti, ed io posso meglio combatterli uno dopo l'altro che tutti ad una volta. Ma come si evita l'invasione dei Russi? Con lo stipulare con l'Inghilterra il trattato di neutralità che essa mi offre. Per conseguenza questo io debbo fare ».

Quando Federico scriveva questo, credeva che l'Inghilterra con la potenza del suo denaro dominasse la politica russa. Non gli era noto l'odio per la Prussia, che suo zio, il re Giorgio, aveva alimentato alla corte di Pietroburgo. Il trattato di Westminster concluso il 16 gennaio 1756, era in ogni sua parte di neutralità e difesa. In un articolo addizionale segreto era detto espressamente che il patto di neutralità in esso stipulato riguardava solamente la Germania e che in nessun caso poteva essere esteso ai Paesi Bassi austriaci.

Insieme a queste trattative se ne conducevano altre, che avevano per oggetto la missione straordinaria del duca di Nivernais presso il re di Prussia. Il primo pensiero dei ministri francesi alla notizia infausta della sorpresa, compiuta dalle navi da guerra inglesi a danno della flotta commerciale francese, fu espresso dalle parole, che il ministro Rouillé rivolse al barone di Inn und Knypphausen, ministro plenipotenziario prussiano:
«Scrivete al re di Prussia che ci aiuti nelle campagne dell'Annover; là vi è da far preda; il tesoro del re d'Inghilterra è ben provvisto; il re di Prussia non ha che da assalire; si tratta di una bella presa».

Il re Federico rispose che tali proposte si fanno ad un contrabbandiere; se il Signor Rouillé, avesse da fare qualche nuova trattativa, considerasse meglio dapprima le persone con le quali doveva trattare.
Di quest'affare appunto, così in modo balordo intavolato dal Rouillé, il re di Prussia non ne volle sapere nel modo più cortese ma deciso, e quando il duca di Nivernais si prestò ad attuare l'idea spiritosa di offrire al re Federico la sovranità dell'isola di Tabago, respinse questa proposta e questo dono, pregando il duca di Nivernais di gettar gli occhi sopra qualcuno più adatto di lui e far la parte di «governatore dell'isola di Barataria» (Sancho Pansa nel Don Chisciotte). Declinò il rinnovamento dell'alleanza del 5 giugno 1741 insieme alla guerra generale, che gli era stata generosamente offerta.

Ma per procedere con la massima schiettezza verso la Francia e dimostrarle il nessun pericolo dei nuovi obblighi da lui assunti verso l'Inghilterra, fece vedere senza difficoltà al duca di Nivernais l'originale del trattato poco prima giuntogli da Londra. In generale tutta la sua tattica col duca di Nivernais fu un giuoco a carte scoperte.
Quando il 14 gennaio lo ricevette, gli parlò subito di un carteggio con i ministri inglesi, e gli ricordò che ne aveva informato il gabinetto di Versailles, che quel carteggio del resto nulla conteneva, che non gli potesse mostrare apertamente e notificare.
Il 17 gennaio il duca fu ricevuto una seconda volta, il 27 gennaio fu poi chiamato dal re, perché sapesse dalle sue proprie labbra che il 16 la convenzione era già stata sottoscritta. Alla fine di febbraio il duca, invitato dal re, dimorò tre giorni nel palazzo di Potsdam, e ritornato a Berlino, riferì il 27 febbraio 1756 al Rouillé: «Il re di Prussia è oppresso dal dubbio, a cui crede esposta presso di voi la sua delicatezza di coscienza. Questo principe mi ha dato le assicurazioni più solenni sul suo onore e sulla sua parola regale che la convenzione non contiene una sillaba in più di cioò che mi ha detto».

Il trattato di Westminster è venuto in cattiva fama per il motivo degli scopi, perchè se ne abusò e perchè offri ai loro fautori dei pretesti, non per il suo tenore del tutto innocente, ma unicamente per essere stato tenuto celato alla corte di Versailles fino alla sua conclusione.
Il re di Francia poi, che all' insaputa dei suoi ministri era pronto già da tempo con la marchesa di Pompadour ad una stretta unione con l'Austria, fin dal 19 febbraio 1756 dichiarò di acconsentire e trattare ulteriormente con la corte austriaca sulla base della proposta di trattato segreto da questa già fatta. Già il 16 febbraio fu riferito al Nivernais che la sua missione era finita e che egli poteva con un conveniente pretesto allontanarsi da Berlino.

L'imperatrice Elisabetta di Russia, dopo avere esitato per dei mesi, aveva sottoscritto un trattato di sussidi con l'Inghilterra, per il quale il suo cancelliere, conte Bestushew, aveva dovuto arrischiare la minaccia di ritirarsi; appunto due giorni dopo l'ambasciatore inglese le aveva comunicato che l'Inghilterra, «l'unica sua amica», come la chiama il Bestushew, "si era a sua insaputa collegata con la Prussia, la sua nemica mortale". L'imperatrice era fuori di sè. «Così - esclamò - non mi lascerò io prostituire; si vedrà presto chi è qui l'ingannato».

In circostanze eccezionalmente favorevoli il 13 marzo 1756 il Kaunitz le fece pervenire l'avviso che la corte di Vienna aveva iniziato delle trattative con quella di Versailles per sciogliere l'alleanza di questa con la Prussia e per assicurarsi il suo aiuto, almeno indiretto, nella riconquista della Slesia. L'ambasciatore austriaco pose mano subito alla pronta conclusione di una speciale alleanza offensiva, e l'imperatrice dimostrò in questo un'energia, che fu a tutti motivo di sorpresa. Si dovevano raccogliere più di 100.000 uomini, molestare con la flotta le città del litorale prussiano, bombardare le fortezze.
Immense forze militari si dicevano tutte pronte alla guerra. Occorreva soltanto una parola dell'imperatrice Maria Teresa per scatenarle, già nell'agosto del 1756.

Nel frattempo il 1° Maggio a Versailles si concluse il trattato di neutralità e di alleanza difensiva tra l'Austria e la Francia. In uno scritto del re, pure del 1° maggio, esso era considerato soltanto come il prodromo di una lega offensiva segreta contro la Prussia, da stipularsi subito dopo nel senso delle proposte austriache del settembre 1755.

Nei nuovi negoziati, che cominciarono all'inizio di giugno, la Francia alla richiesta dell'Austria intorno alla restituzione della Slesia e di Glatz oppose la sua pretesa della cessione dei Paesi Bassi austriaci. Poichè ai Francesi importava più che l'Inghilterra fosse punita e che la Prussia fosse mutilata, il Kaunitz credette conveniente di ricercare la «pietra di paragone» della sincerità del suo cambiamento di sistema di alleanze nella cooperazione veramente seria, e non solo apparente, che avrebbe comportato la distruzione della Prussia.

Da una potenza, che fino allora aveva molto apprezzato la Prussia come un necessario contrappeso alla Casa di Asburgo, il Kaunitz esigeva che partecipasse ad un'opera di distruzione, per la quale della monarchia prussiana sarebbe rimasto poco più della Marca elettorale di Brandeburgo.

Da questo dipese l'ostinazione, con la quale il Kaunitz volle estorcere la partecipazione effettiva alla guerra e insistè perchè pagasse un sussidio annuo, che ascendeva fino a 12 milioni di fiorini, mentre l'Austria si rifiutava di cedere tutti i Paesi Bassi alla Francia.
Maria Teresa faceva dipendere la sua rinuncia ai Paesi Bassi dalla concessione della maggior parte di questi e sopratutto del littorale all'infante Don Filippo, come sua dotazione, mentre si annetterebbero alla Francia solo alcune città interne, che erano già state francesi.

Questi negoziati giunsero ad una conclusione, quando alla fine dell'anno 1756 si fu d'accordo sui 25 articoli preliminari, che furono poi posti in testa al trattato segreto di Versailles del 1° maggio 1757.
L'articolo 13 contiene il disegno dello «smembramento» della monarchia prussiana, da attuarsi appena abbattuto Federico II, in mezzo al giubilo dei piccoli, che avevano congiurato per la sua caduta. Se a questo articolo si pone insieme il trattato concluso il 22 gennaio 1757 (vecchio stile) a Pietroburgo dall'imperatrice di tutte le Russie con l'imperatrice regina di Ungheria e Boemia, si ha dinanzi il disegno di una guerra di vendetta e di distruzione, nel quale nulla si era dimenticato, da quanto si potesse provvedere sulla carta.

Federico II però aveva egregiamente tratto profitto del tempo trascorso nella pace. Egli scrive a questo proposito nella sua storia della guerra dei sette anni quanto segue: (notare che parla sempre in terza persona)

«La pace, di cui godeva l'Europa, permise a tutte le potenze di rivolgere la loro attenzione alla vita interna dei loro Stati. Il re cominciò col far cessare tutti gli abusi che si erano insinuati nell'amministrazione generale dello Stato. Con nuove disposizioni diede opera al miglioramento delle finanze; si dedicò a rafforzare la disciplina delle sue truppe, alla costruzione delle fortezze e all'aumento di tutte le provviste di armi e di munizioni, di cui si ha un così grande bisogno durante la guerra. L'amministrazione della giustizia, che sotto i regni precedenti procedeva male e non con equità, meritava un'attenzione speciale. Il pubblico si era abituato a farsi beffe della legge. I procuratori esercitavano un commercio vergognoso della loro fedeltà e della fiducia in essi riposta; chi era ricco vinceva, chi era povero perdeva. Questi abusi; divenuti di giorno in giorno più insopportabili, richiedevano imperiosamente una riforma, così per quello che riguardava le persone dei giudici, degli avvocati e dei procuratori, come per ciò che concerneva le leggi stesse, che dovevano essere rese più chiare e liberate da certe formalità che, senza toccare il nocciolo della cosa, ritardavano puramente il corso del procedimento.
Il re incaricò di questo lavoro il suo gran cancelliere Cocceji. Era un uomo di carattere incorruttibile e retto, la cui nobiltà d'animo e la cui integrità erano degne dei giorni, nei quali la repubblica romana era in fiore; dotto e di mente illuminata, sembrava nato per essere un legislatore, come Triboniano, per render felici gli uomini.
Questo grande giureconsulto prese sopra di sè un assunto difficile e penoso con tanto ardore che dopo un anno di lavoro diligente le corti di giustizia furono purificate di tutte quelle persone, che avevano ad esse recato disonore, e furono provvedute di giudici integri. Già nella primavera del 1748 comparve la celebre ordinanza della corte suprema, «concepita» secondo il disegno prescritto da S. M. stessa di Prussia, in forza della quale tutti i processi in un anno dovevano e dovettero esser condotti a termine attraverso tutte le tre istanze. Si aggiunse a questa il disegno di una ordinanza sulle sportule e di un consiglio per i pupilli. In questo codice memorabile fu prescritto al giudice prussiano
: «di amministrare una giustizia equa ed imparziale a tutti gli uomini, senza riguardi a persone, a grandi e piccoli, a ricchi e poveri, ricordando di doverne rispondere dinanzi al giusto tribunale di Dio, in modo che i sospiri delle vedove, degli orfani e di altri oppressi non potessero ricadere sul loro capo e su quello dei loro figli».

"Ai giudici fu ingiunto solennemente: «In modo speciale il nostro tribunale camerale e gli altri tribunali, in tutte le cause e le azioni giudiziarie tra il nostro fisco da una parte e i nostri vassalli e sudditi dell'altra, devono badare solamente alla giustizia, secondo quanto hanno promesso e giurato e non devono fare assegnamento su alcun ordine corrente contrario alla giustizia, poichè simili ordini serviranno così poco a loro discolpa, come per avventura il nostro preteso interesse ».

"Il governo, di cui andò lieta la Prussia sotto il re Federico, era allora considerato come una fortuna invidiabile. Il 26 maggio 1744 nel principato della Frisia orientale per la morte del principe Carlo Edgar si era spenta la stirpe maschile della casa Cirksena dopo un'esistenza di circa tre secoli, e si era evitata una contesa ereditaria, altrimenti inevitabile, per la energica risolutezza con la quale il maggiore prussiano von Kalkreuth, insieme al consigliere Homfeld, dirigente il distretto, avevano compiuto la presa di possesso del paese in nome del re di Prussia quale più prossimo tra gli aventi diritto all'eredità.
In un'assemblea generale, che si radunò il 20 giugno 1744 in Aurich per loro ordine, i rappresentanti del paese conclusero col re il 7 luglio 1744 una convenzione, per la quale fu loro lasciato il «consentire, riscuotere ed amministrare tutte le rendite del paese», mentre lo stesso sovrano «nè in tempo di guerra nè in tempo di pace non doveva su questo pretendere alcuna ingerenza o direzione».
Mediante il pagamento annuo di 40.000 talleri il paese fu poi esente da ogni obbligo di fornire o di fornire truppe. La nuova amministrazione finanziaria, esclusivamente locale, rimase in funzione per cinque anni e poi l'assemblea di Aurich il 1° febbraio 1749 pronunziò contro di essa la sentenza di morte in forma di una petizione, che fu sottoscritta da un gran numero di rappresentanti e mandata a Berlino per chiedere il «trasferimento da Emden ad Aurich della cassa provinciale e del collegio amministrativo» e per dispensare il re dalla rinunzia alla sovranità finanziaria. «Questa parte rilevante della prerogativa sovrana V. M. la esercita in tutte le altre sue province, che perciò sono in miglioramento e vedono crescere ogni giorno il loro benessere, per cui noi ci aspettiamo sicuramente una uguale fortuna da questo nuovo ordinamento».

"Contemporaneamente fu proposta una riforma degli istituti criminali di Emden del tutto corrotti e l'abolizione degli appalti riguardanti le gabelle. Il 6 febbraio eran già approvate tutte le richieste della petizione e da allora soltanto il re di Prussia poté considerarsi come sovrano anche della Frisia orientale sulla base di una decisione spontanea dell'assemblea di questa provincia, determinata da un suo tentativo, durato inutilmente cinque anni, di governarsi da se stessa.

Nelle memorie di Federico cerchiamo invano un ricordo del trionfo, riportato dal suo governo nella Frisia orientale. Non abbiamo invece bisogno di cercarvi a lungo delle notizie sul suo lavoro prediletto della colonizzazione, nel quale divenne un ammiratore del proprio padre.

«Lungo il corso dell'Oder - racconta nel primo capitolo della sua storia della guerra dei sette anni, - da Swinemund e Küstrin vi erano paesi paludosi, deserti e incolti, che eran forse stati da tempo antichissimo luoghi del tutto selvaggi; si fece allora un progetto per porre questa regione a coltivazione. Si tracciò un canale da Küstrin a Wriezen, che prosciugasse il suolo paludoso, dove furono stabilite 2000 famiglie. Si continuarono queste opere da Schwedt fino oltre Stettino, dove 1200 famiglie trovarono una vita comoda e agiata; questo creò una nuova piccola provincia, conquistata dalla industria a spese dell'ignoranza e dell'inerzia. I lanifici, che pure erano già importanti, mancavano di tessitori; se ne fecero venire dall'estero, formandone diversi villaggi, ognuno di 200 famiglie.

"Nel ducato di Magdeburgo da tempi immemorabili v'era l'uso che gli abitanti del Vogtland vi si recassero per il lavoro del raccolto, dopo di che tornavano nel loro paese. Il re concesse loro di stabilirsi nel ducato e con questo ne fissò una gran quantità nei suoi Stati. Con le varie opere di colonizzazione il paese guadagnò durante questo periodo di pace 280 villaggi, fondati di sana pianta.

"Oltre alle cure date ai villaggi non furono tralasciate quelle per le città. Il re ne fabbricò una nuova, che è pure un porto sulla Swine e ne ha quindi il nome, approfondendo il canale e pulendo il bacino. La città di Stettino guadagnò con questo i diritti doganali, che pagava fino a quel tempo alla Svezia, per il passaggio da Wolgast, cosa che contribuì molto a far fiorire i suoi commerci e ad attirarvi quelli dei forestieri. In tutte le città si aprirono nuove manifatture; quelle di stoffe ricche e di velluto trovarono in Berlino la sede che loro meglio si confaceva; quelle di velluti leggeri e di stoffe di un solo colore si stabilirono a Potsdam; a tutte le provincie Splitgerber forniva lo zucchero, che faceva raffinare in Berlino.
Una fabbrica di tessuti a spina trasformò Brandeburgo in una florida città. Fabbricanti di cuoio russo lavorarono a Francoforte sull'Oder; calze di seta e fazzoletti da naso furono fabbricati a Berlino, a Magdeburgo e a Potsdam; la fabbrica di Wegely raddoppiò il suo lavoro. In tutte le provincie s'incoraggiarono le piantagioni di gelsi; il vicario del parroco nelle chiese dette ai contadini l'esempio, per insegnare loro l'allevamento di quel prezioso insetto, proveniente dall'India e da cui è prodotto il filo della seta.

"In regioni, dove il legno sovrabbondava e a motivo della lontananza dei fiumi non poteva essere smerciato, si eressero e alimentarono fucine, che in poco tempo sfornarono i cannoni di ferro, le palle e le bombe per le fortezze e pee le necessità avrie dell'esercito.

"Da varie operazioni finanziarie risultò che, senza contare le entrate della Slesia e della Frisia orientale e senza un centesimo di nuove imposte, nell'anno 1756 le entrate della corona ammontavano a 1.200.000 talleri, e secondo un censimento, fatto in tutte le province, la popolazione dello Stato era salita a 5.300.000. E poichè è un principio accettato che il numero degli abitanti costituisce la ricchezza degli stati, la Prussia si poteva allora considerare come il doppio più ricco di quello che era stata negli ultimi anni di Federico Guglielmo I, padre del re".

"Nei giorni agitati del giugno 1756 il re ebbe la sfortuna di perdere l'unica bussola, per mezzo della quale si era fin a quel tempo orizzontato nelle tenebre dell'ambiente politico che lo attorniava. Un certo Weingarten, segretario del La Puebla, ministro austriaco a Berlino, aveva prestato i suoi servizi al re, comunicandogli il carteggio più segreto, che il suo signore manteneva con le corti di Vienna e di Pietroburgo.
Questi dispacci gettavano qualche luce sulle intenzioni delle potenze. Ma il Weingarten, questo tipo di servizi divenivano più importanti che mai nella situazione tesa di quel momento, suscitò i sospetti del suo superiore; fu così fortunato da accorgersene, fuggì e invocò la protezione del re. A fatica fu sottratto alle indagini e alle ricerche del ministro, e mandato a Kolberg, gli si cambiò nome".

"Inariditasi questa fonte di notizie rimasero ancora al re l'ambasciatore olandese a Pietroburgo von Svart, e il Menzel, segretario privato dell'elettore di Sassonia. Ambedue gli fornivano notizie sicure ed importantissime. Da queste risultò che la corte di Pietroburgo si scusava di non potere più incominciare ora la guerra, perchè la flotta non era in grado di prendere il mare; prometteva però sforzi tanto maggiori per l'anno prossimo.
«In seguito a queste dichiarazioni il re decise di mandare in Pomerania 10 battaglioni e 20 squadroni per formarvi una specie di corpo di riserva. Queste truppe presero stanza nelle vicinanze di Stolp, dove non potevano inquietare la Russia, ed erano tuttavia abbastanza vicine per rinforzare il maresciallo Ewaldt, appena potesse temere qualche impresa da parte del nemico».

Col linguaggio di una coscienza tranquilla, il re - sempre in terza persona - passa a raccontare con un tono guerresco:

«La Prussia era in grado di fare alcune campagne con i propri mezzi: in una parola il sovrano era pronto a scendere al primo segnale nell'arena e a misurarsi coi suoi nemici. Si vedrà quanto questa previdenza era opportuna e quanto importasse ad un re di Prussia, per la situazione distorta delle sue province, di essere armato ed preparato per ogni pericolo, per non divenire il zimbello dei suoi vicini e dei suoi nemici. Egli avebbe dovuto fare anche di più a questo scopo, se i mezzi del suo Stato glielo avessero permesso. Poiché nella persona dell'imperatrice regina (Maria Teresa) il re aveva una nemica ambiziosa e vendicativa, che era tanto più pericolosa, per essere una donna ostinata ed implacabile, se altra ve n'è stata. Questa donna superba, consumata dall'ambizione, voleva ad ogni modo giungere alla gloria. Nelle sue finanze stabilì un ordine, sconosciuto ai suoi antenati, e per mezzo di buoni provvedimenti non solamente riparò alle perdite subite in seguito alla cessione di alcune province al re di Prussia e al re di Sardegna, ma raggiunse perfino un aumento rilevante delle sue entrate. Il conte Haugwitz divenne controllore superiore delle finanze; sotto la sua amministrazione le entrate dell'imperatrice salirono a 36 milioni di fiorini o a 24 milioni di talleri. Suo padre, l'imperatore Carlo VI, non ebbe altrettanto, per quanto possedesse il regno di Napoli, la Serbia e la Slesia. L'imperatore suo marito, che non si arrischiava a immischiarsi negli affari di governo, si gettò in quelli di denaro.
Risparmiò ogni anno somme considerevoli delle rendite della Toscana, che impiegava in affari commerciali e nell'impianto di manifatture; prestava denari a interesse, assunse la fornitura di uniformi, armi, cavalli, corredi di ordinanza per l'intero esercito. In società con un tale conte Bolza e con un mercante, chiamato Schimmelmann, aveva preso in appalto le dogane della Sassonia e nell'anno 1756 aveva perfino fornito foraggi e farine, all'esercito del re di Prussia, che era in guerra con l'imperatrice, sua consorte. Durante la guerra l'imperatore prestò alla propria moglie somme considerevoli contro buone garanzie; era in una parola il banchiere della Corte.

«Nelle guerre precedenti l'imperatrice aveva compreso la necessità di dare una miglior disciplina ai suoi eserciti; scelse perciò generali operosi e capaci di fare imparare la disciplina alle loro truppe; dei vecchi ufficiali, non più atti al loro grado, furono congedati con pensione di riposo e sostituiti con dei giovani pieni di ardore e di amore per il mestiere delle armi. Ogni anno si formarono campi di addestramento nelle province, dove s'istruivano le truppe sotto esperti commissari ispettori, già abili nelle grandi manovre. L'imperatrice stessa comparve più volte negli accampamenti di Praga e di Olmiitz, per accendere d'entusiasmo le truppe con la sua presenza e con la sua liberalità. Faceva doni agli ufficiali, che gli erano raccomandati dai loro generali, e dovunque destava l'ambizione, l'abilità e il desiderio di piacerle. Nel tempo stesso istituì una scuola d'artiglieria sotto la direzione del principe di Liechtenstein; costui portò questo corpo a 6 battaglioni e l'uso dei cannoni all'inaudito eccesso, a cui è riuscito ai nostri giorni. Per zelo verso l'imperatrice spese in questo più di 100.000 talleri del proprio denaro. L'imperatrice finalmente per non trascurare nulla, che avesse relazione con la milizia, fondò in Vienna un collegio, dove la gioventù nobile fu istruita in tutte le scienze che hanno attinenza alla guerra; vi attirò abili professori di geometria, di arte della fortificazione, di geografia e di storia, che vi educarono delle buone teste; da questo crebbe un vivaio di ufficiali per il suo esercito. Per mezzo di tutte queste istituzioni l'elemento militare raggiunse in Austria un grado di perfezione, non mai raggiunto sotto gl'imperatori di quella dinastia, e fu una donna che condusse a termine simili piani, che sarebbero stati degni di un grande uomo ».

In un memoriale destinato alla corte inglese, re Federico mise sulla carta verso la fine di luglio i primi contorni del suo piano di guerra:
«Secondo tutte le notizie più sicure, che abbiamo sui disegni e sulle trame degli Austriaci, così in Russia come in Francia, al re per la sua sicurezza non rimane alcun'altra decisione che quella di prevenire i suoi nemici. Il re è informato della marcia delle truppe russe; egli crede, basandosi su queste notizie, di essere al sicuro contro le loro male intenzioni durante il corso dell'inverno. Il re non domanda al re d'Inghilterra aiuti di sorta. Se questo principe nell'anno prossimo vorrà inviare una squadra nel Baltico, sarà un nuovo titolo di riconoscenza, che obbligherà la corte prussiana a quella di Londra. Se il re d'Inghilterra crede che la sua flotta sia necessaria altrove, specialmente per la difesa della sua isola, il re rinunzia a questo aiuto ed è pronto perfino per amicizia verso il re d'Inghilterra a rimandare l'inizio delle sue operazioni fino alla fine di agosto, circa fino al 24, perchè i Francesi non abbiano per quest'anno nè un pretesto nè una possibilità di passare in Germania.

« Prega il re d'Inghilterra di adoperare utilmente questa dilazione per indurre gli Olandesi ad aumentare le loro forze di terra, per arruolare soldati, per accordare sussidi ai Bavaresi, per aggregarsi i 3000 soldati di Ansbach e per accrescere gli Annoveresi fino a 22.000 uomini; tutto questo farebbe una forza di almeno 74.000 uomini. Se quest'esercito nella primavera ventura avanzasse nel ducato di Berg e con un atteggiamento difensivo trovasse modo di arrestare i Francesi, sia nell'elettorato di Colonia, sia nel Palatinato, tutti i piani dei nostri nemici sarebbero rovinati».

Non doveva passar molto tempo che in una guerra di sette anni e piani e progetti avrebbero dato luogo a gesta violente, a gravissime stragi, alla grande catastrofe, che Federico prevedeva nella lettera a sua sorella Guglielmina. Ma neppure una zolla mutò in Europa di padrone. Tutto rimase nell'antico stato. La storia ha perciò pronunciato la sua condanna sugli intrighi e sugli artifici, che hanno provocato questa guerra che interessò i principali paesi europei tra il 1756 e il 1763, ed ebbe importanti conseguenze anche sul mondo coloniale. Una guerra che può essere considerata un ideale spartiacque tra la fase della Guerra di successione e la nuova era del Dispotismo illuminato.

Nel capitolo che segue tratteremo
proprio questa oscena e tragica guerra,
anche se le guerre sono tutte oscene e tragiche.

LA GUERRA DEI 7 ANNI - LE CONSEGUENZE > >

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