HOME PAGE
CRONOLOGIA
DA 20 MILIARDI
ALL' 1 A.C.
DALL'1 D.C. AL 2000
ANNO X ANNO
PERIODI STORICI
E TEMATICI
PERSONAGGI
E PAESI

 

154. LA GUERRA DEI 7 ANNI - LE CONSEGUENZE

La data storica dell'inizio della grande guerra dei sette anni è l'anno 1757 il suo termine il 1763. Le cause che l'anno scatenata le abbiamo viste nel capitolo precedente, mentre i particolari del vero e proprio conflitto li narriamo qui più avanti. Ci preme però subito dire quale fu il promesso aiuto degli Inglesi alla Prussia. Questa a gennaio, dopo l'anticipo positivo a Bosloviz, e dopo aver ricevuto la formale dichiarazione di guerra dalla coalizione nemica, a maggio invade la Boemia, sconfiggendo Carlo di Lorena, il fratello dell'Imperatore Francesco, ponendo d'assedio Praga. 
Più tardi i Prussiani subiscono un contrattacco degli austriaci a Kolim; sono costretti ad abbandonare la Boemia e obbligati a effettuare un drammatico ripiegamento, con la prospettiva di non aver più scampo perchè incalzati da più parti. Federico cade nella più nera disperazione. Non ha più fede in se stesso, né nel suo esercito pur essendo questo una sua creatura, una manifestazione esteriore del suo carattere. Pensò perfino di uccidersi. La situazione era drammatica, messo al bando, dichiarato ribelle, se fosse stato catturato, tutto lasciava prevedere avrebbe subito la condanna alla pena capitale (leggeremo più avanti cosa ci ha lasciato scritto il grande Voltaire su questo terribile momento di Federico).

L'aiuto degli Inglesi ai prussiani a ovest - che ne avevano così tanto bisogno - si risolve in un fallimento, infatti i Francesi nella battaglia di Hastenbeck, nell'Hannover li sconfiggono; poi sbaragliano il resto dell'esercito di Federico nella battaglia di Kloster Seven.
Gli inglesi - in verità pochi reparti- sono costretti a ritirarsi dall'Hannover, ma sollecitati a firmare una convenzione proposta dai francesi, rifiutano. Giorgio II sostituisce solo il comandante inglese duca di Cumberland mettendo alla guida delle strimizite truppe britanniche, il tedesco Ferdinando di Brunswick. Salvano così contemporaneamente la faccia e si tolgono il fastido di questa guerra che fanno fare più solo a Federico nelle più disperate condizioni.

L'impegno del governo inglese con la Prussia sarà d'ora in avanti solo economico. Ma non cambia alleanze. Con lungimiranza gli inglesi individuano nella potente Prussia il più solido baluardo della stabilità continentale, e a Federico non gli fanno mancare i mezzi. Ma non dimentichiamo che a governare sull'Isola ci sono i "wigh", tutti d'accordo a dare il necessario in termini economici, ma non a partecipare alla guerra europea; preferiscono dedicarsi alle Colonie.
L'impegno economico offerto ai Prussiani era motivato da tre ragioni; la prima era che l'Hannover era un possesso personale del Re di Inghilterra; la seconda era - non intervenendo direttamente nel conflitto con chissà quali duraturi impegni - che poteva così concentrarsi sulle colonie di mezzo mondo; infine la terza ragione, era di spingere la Francia in una guerra che l'avrebbe dissanguata e quindi distrutta non solo militarmente ma anche politicamente.
Gli inglesi non sbagliarono nessuna delle tre previsioni !! Infatti venne poi il glorioso giorno del capolavoro di Federico a Rasbach contro ogni aspettativa dei due alleati Austria e Francia, con schierata anche la Russia, subito seguita dalla Polonia (che sta preparandosi a suicidarsi) e la Svezia.

Ricapitoliamo cos'era avvenuto l'anno precedente. Dopo la sconfitta militare patita alle Baleari, all'inizio del 1757 la direzione politica della Gran Bretagna durante la Guerra dei Sette Anni viene assunta da WILLIAM PITT (il Vecchio per distinguerlo da Pitt il Giovane, quello che più tardi guiderà la Gran Bretagna contro Napoleone) Conte di Chatham ( < nell'immagine).
Pitt però rafforza solo la flotta e concentra gli sforzi bellici britannici solo sulle colonie lasciando ai prussiani la conduzione delle ostilità in Europa. A questo scopo vengono concessi ai Prussiani numerose sovvenzioni in denaro. La guerra dei sette anni assume quindi per la Gran Bretagna gli aspetti di una guerra coloniale che si svolge parallelamente agli eventi europei. 
Nel corso di questa guerra - anticipiamo gli eventi nel settore inglese - verranno poste le basi per il successivo ingrandimento dell'Impero Britannico dato che le truppe britanniche sono libere di concentrarsi solo sulle colonie. In America nel 1758 gli Inglesi conquistano Fort Louisbourg e Fort Duquesne che diventerà la città di Pittsburgh. Nel 1759, dopo un'avanzata sul Fiume San Lorenzo, gli Inglesi conquistano Quebec dopo che in battaglia sono morti entrambi i comandanti, l'inglese Wolfe ed il francese Montcalm.  Nel 1760 a Quebec si aggiunge Montreal ed il Canada diventa parte dei domini britannici. 
Nelle Indie Occidentali vengono conquistate la Guadalupa e la Martinica oltre a numerosi possedimenti spagnoli dato che la Spagna era scesa in campo a fianco della Francia. 
In Africa Occidentale le basi francesi sulla costa del Senegal vengono conquistate dagli Inglesi. Ma è in India che si svolge un evento storico. Robert Clive organizza un esercito, riconquista Calcutta ed a Plassey, nello stesso 1757, sconfigge un esercito di maragià filo-francese venti volte superiore e perdendo (così dicono gli aneddoti!) solo dieci uomini. Con questa battaglia ogni velleità di espansione francese in India viene bloccata e da questo evento data il dominio britannico sull'India che durerà, con diverse forme, per 190 anni fino all'indipendenza del 1947. 
La Pace di Parigi del 1763 concederà alla Gran Bretagna gran parte dell'Impero coloniale francese che praticamente cessa di esistere. Si può anche dire che però la Gran Bretagna stravinse e ciò le procurò un seguito molti rancori che si videro durante la Guerra di Indipendenza Americana quando gli sconfitti della guerra coloniale anglo-francese si unirono contro la Gran Bretagna in appoggio ai nascenti Stati Uniti d'America.

E Rancori covarono poi in Francia, per i successivi 30 anni, contro tutto e tutti, fino a quando per la seconda volta, ma questa volta gli inglesi più direttamente - e saranno loro a guidare le coalizioni - metteranno fine al secondo grande sogno dei francesi e a quello del grande Corso, abbattendo gli uni e umiliando l'altro a Sant'Elena.

Ma per la Guerra dei Sette anni che sta per iniziare, ripartiamo da più lontano. Dal clima politico e intellettuale che precedono questo e altri eventi militari che avranno enorme conseguenze in quasi tutti i Paesi europei e come abbiamo appena visto sopra anche sulle Colonie.

Nell'anno 1734 Montesquieu pubblicò la sua opera storico-filosofica "Considérations sur les causes de la grandeur des Romains e de leur décadence". Il secolo XVIII, che lesse questo studio brillante, pieno di riferimenti alla grandezza e specialmente alla decadenza dei Romani, con ingegnose o significanti allusioni, presentava già in sé assai accresciuta l'importanza dello spirito e del carattere romano od appunto quell'accrescimento, che procede di poco il crollo o la rovina precipitosa di un ordino costituito.
Fino a quel tempo per una lunga serie di secoli, di fronte alla competizione od anche alla temporanea prevalenza di altri popoli, il mondo latino si era mantenuto in un vigore sano e spesso invadente, e nel campo intellettuale aveva dominato direttamente o indirettamente il resto del mondo.

Nel secolo XVIII s'innalza a compiere un'ultima opera di vasta efficacia col risultato singolare di distruggere con questa opera d'incivilimento non solo quelle sue proprie condizioni del passato, sopravvissute in questa elevazione, ma anche la forza e la dominazione del romanesimo stesso. Il rivolgimento intellettuale, che precedette la rivoluziono - e non si ebbe in alcun luogo così consapevolmente come in Francia - sollevò sugli scudi l'efficacia del liberalismo e dell'individualismo e volle iniziare con essi una nuova era mondiale.
Ma con ciò si fece anche precursore dell'avvenire del germanesimo, che in linea di massima era predisposto ad un'ordinata cooperazione delle energie individuali. Nei due casi accennati nel raffronto precedente, così in quello degli antichi Romani, come in quello dei nuovi, sono i Germani, che entrano in possesso della eredità, aperta in seguito alla decadenza di quelli.

Là i regni sorti dalla trasmigrazione dei popoli e quello dei Merovingi, qui gli Inglesi, i Tedeschi o, anche soltanto come un debole accenno al futuro, gli Americani del Nord. L'episodio del risorgimento della potenza francese nell'epilogo egoistico o geniale del Corso Napoleone per l'Inghilterra, che vide sorgere la potenza austro-germanica di gran lunga superiore, non significò nulla di più che un pericolo, per quanto grave, ed un danno temporaneo, del quale si rifece subito e più tardi largamente, dopo la vittoria finale.

Però se il francese Napoleone ha coltivato il nazionalismo, il prussiano Federico II il nazionalismo lo ha inventato. E' lo stesso Napoleone a riconoscerlo, purtroppo quando si trovò in Prussia, dopo averlo così tanto ammirato, rimase deluso; ma non dimentichiamo che Federico era morto da oltre vent'anni, e quell'impero tedesco che lui aveva creato già non esisteva più, anche se nei tedeschi (parliamo del popolo e non dei politici) ognuno dentro di sé aveva il glorioso ricordo del loro padre putativo.

Tuttavia per i tedeschi l'epoca napoleonica significò il riscatto definitivo di quanto essi avevano di migliore, il ridestarsi della loro attività, dello spirito patriottico e del sentimento nazionale, la vigorosa consapevolezza di tutti quegl'impulsi, i cui germi si possono far risalire all'opera educatrice e all'ispirazione del grande Federico e in più vasta comprensione alla sua epoca, la quale in se stessa racchiudeva la liberazione intellettuale del suddito e l'emancipazione dell'individuo, per evitare la parola più limitata d'«illuminismo».


L'elevazione dello spirito francese nel secolo XVII si compie in modo duplice. Prima di tutto nell'esprit e nel gusto. Troppo a lungo da noi si é sorriso e si è detto male del rococò e della civiltà, che da lui prende il nome. Noi stessi dovemmo prima educarci ad un sentimento più fino e disabituarci un poco dalla profondità tedesca in seguito ai suoi influssi, che sono in verità benéfici e dannosi allo stesso tempo, per riconoscere che questo secolo XVIII possiede meglio d'ogni altro il gusto più raffinato e più grazioso, sotto l'aspetto intellettuale e mondano, anche più che sotto quello artistico.

E a dire il vero lo possiede al punto che l'haul gout di questo secolo (nel senso disusato di questa parola) può esser paragonato ad una pianta cresciuta e fiorita nell'atmosfera artificiale e soffocante di una serra. Questa civiltà raffinata doveva apparentemente crollare e ridursi al nulla, appena si trovò esposta al sole ed al vento di quei fatti violenti, che terminano il secolo medesimo. Di essa si é conservato e svolto ulteriormente soltanto quello che fu trasmesso ai depositari della evoluzione futura, ai Germani. E cioè agl'Inglesi in quanto si tratta di pittura (Gainsborough e la sua scuola), ai Tedeschi per quello che é fertilità molteplice filosofica e letteraria. Tra questi ultimi poi dal Lessing nella sua «Educazione del genere umano» fu riconosciuto e formulato il principio fondamentale, che condanna e definisce storicamente la civiltà arguta del secolo francese, che cioè «la via, per la quale il genere umano giunge alla sua perfezione deve esser percorsa da ogni singolo uomo - da chi prima e da chi dopo». In altre parole che ogni grande prezioso progresso, sia politico e sociale come di cultura e di civiltà, deve compiersi a pro della generalità e appunto in modo che, ad onta di qualsiasi cosa che sorga ad opporglisi e a ritardarlo, può sempre essere effettuato soltanto per opera della generalità.

I germi e le pianticelle vitali della civiltà aristocratica francese si sono abituate in Germania a un terreno ampio e libero e a una luce più diretta (vedi lo stesso Federico) ed hanno volentieri rinunziato a divenire sopraffini, per essere in cambio accolte in quel mondo intellettuale saldo, dotato di una più larga efficacia e capace di rinnovare un popolo, che é designato coi nomi di Lessing, di Schiller e di Goethe.
Lo stesso poi può dirsi di quella attività intellettuale dei Francesi, impiegata nel preparare la via al pensiero, che dirige la politica e l'evoluzione sociale del secolo XIX, cioé al valore della libertà individuale.

E la messe nata dai semi, sparsi da Montesquieu, da Voltaire, da Rousseau, fu raccolta nel modo più felice dai popoli germanici, dai Tedeschi e dagli Americani dal Nord. E qui dobbiamo dichiarare la ragione di questo singolare e importante fenomeno: quegli scrittori non sparsero una semenza indigena della Francia, una semente romanica, ma una inglese, quindi una semenza, che era il frutto di uno svolgimento secolare di germi nati nel suolo germanico (Sassoni ecc.).
Ma questa semenza trovò che il suolo nazionale francese, su cui si voleva trapiantare, era il più straniero ad essa, il meno preparato a riceverla, dati i suoi precedenti.

Trascurato interamente e troppo a lungo dall'assolutismo capricciosamente egoista, non poté poi riaversi nemmeno quando la rivoluzione volle renderlo frettolosamente fertile, innaffiandolo col sangue. La messe, sorta dalle dottrine della filosofia politica anglo-francese per lo svolgimento vigoroso e durevole di una vera cittadinanza, meglio che dalla Francia, fu raccolta dalla nazione tedesca, che prima appena appena esisteva. E certo fu raccolta lungo la via che va da Federico il Grande, a Lessing, a Kant, a Schiller ed ai cooperatori del Barone di Stein.

Così il secolo XVIII ebbe in certo modo lo stesso fato del Rinascimento. In ambedue i casi furono degli aristocratici intellettuali che condussero alla sua espressione più elevata, molto bene umana e talora anche del male. Questi aristocratici intellettuali in ambedue i casi intrapresero l'opera d'illuminare senza riguardi le menti, opera a cui appena essi stessi, e tanto meno la maggioranza dei loro compatrioti, potevano reggere senza turbamento e senza
danno. Le due età vanno in rovina da se stesse, ed operano, senza averne un presentimento, a favore del vicino germanesimo, che dai francesi ha imparato e che ora li sorpassa.

Poiché così l'aristocrazia intellettuale come l'illuminazione delle menti, in quanto non corrispondono all'educazione e ad un sistema di uguaglianza, si pongono in contraddizione con il carattere storico del vero popolo romanico; favoriscono invece la liberazione del nocciolo stesso dell'esistenza nello spirito germanico e la potenza dell'individualismo che sorge. Questo sentimento personale, che é fin dalle origini indigeno nei Germani, soltanto in Inghilterra era rimasto fino allora in attività e si era andato svolgendo. Nella Germania dei secoli di intimidazione, di soggezione volontaria allo straniero, di depressione della vita intima della nazione e dello stato secondo modelli stranieri lo avevano intralciato e, come pareva, quasi soffocato.

Anche la maggiore opera compiuta dallo spirito germanico, la Riforma, non aveva condotto a termine la liberazione dell'individuo, ma la conteneva soltanto come una conseguenza, come un germe robusto in essa rinchiuso, che richiedeva ancora del tempo per germogliare. Ed allora i Romani, la Francia, dettero quegli incoraggiamenti, tanto più efficaci perché provenivano da paese straniero, di cui abbisognava l'individualismo germanico, per sentire, dopo un leggero sonno, il suo intimo turgore e per divenire consapevole del suo potere. Gli incitamenti irresistibili suscitati dalle « idee » moderne del secolo XVIII, si aprirono una via in Germania.

In parte ciò avvenne grazie all'educazione organica dominata dall'alto; come nella Prussia e in parecchi Stati piccoli e medi, in parte, e meno quietamente, precipitando in una nobile impulsività e già riuscendo meno fecondi per questo che sotto una modernità apparentemente più radicale si rendevano di nuovo dipendenti dal vecchio assolutismo, come negli Stati di Giuseppe II.
In altre parti si prende la direzione dagli stessi sudditi, come nelle colonie dell'America settentrionale, che per un controsenso storico sono tiranneggiate dalla madrepatria, e come in Francia, nella stessa terra nella quale le idee del tempo si coltivano e dove infine si ricorre pure alla rivoluzione.

Qui, nell'America del Nord, nasce un nuovo popolo, giovane, indipendente fin dai suoi primordi, pieno di forza espansiva individualistica e ricco di avvenire; qui, in Francia, il risultato è un libro scritto a caratteri di sangue, pieno di soggetti di riflessione e ricco di esperienze, pagate a caro prezzo, un tesoro d'insegnamenti per il resto dell'umanità, così per indicazioni vantaggiose, come per risultati da evitare, da vigilare cautamente o da fuggire.

Questo trapasso della supremazia storica ai Germani é stato accelerato dagli avvenimenti esteriori, politici. Difatti, in seguito alla brutta posizione presa dalla Francia nella guerra dei sette anni, che essa scontò rinunciando ormai ad essere la potenza terrestre europea dirigente, aumentò rapidamente e fortemente nei suoi avversari la coscienza del proprio valore.

Anche la guerra dei sette anni non è soltanto una guerra tedesca, ma una di quelle d'interesse universale europeo, che dal secolo XVII al XX sono state combattute sul suolo della Germania.
Certo questa volta, come novità storica, si aggiunge un secondo teatro della guerra generale allora combattuta, l'America settentrionale, dove la Francia combatte per conservare i suoi domini coloniali del Canadà e del Mississipi, e li perde. Perciò la Francia deve rinunziare a favore dell'Inghilterra a rappresentare la parte di potenza marittima e mondiale a parità di diritti con essa, e così definitivamente che più tardi rimane perduto lo scopo della vita di Napoleone, di mutare cioè nuovamente questa situazione, di umiliare la potenza della Gran Bretagna, con l'aiuto del continente intero da lui dipendente, e di distruggere la ricchezza materiale, su cui quella potenza si fonda e per cui gl'Inglesi fino dal secolo XVIII esercitano una supremazia economica e quasi un monopolio, come un popolo giunto al sommo della prosperità commerciale e industriale.

Ma anche per la storia particolare tedesca la guerra dei sette anni, il raggruppamento dell'Inghilterra presso la Prussia, della Francia presso l'Austria, che é affatto contrario alle tradizioni, illogico sotto più di un rispetto e spiacevole ai combattenti stessi, ha prodotto ancora qualche cosa di più del trattato di Hubertusburg e del riconoscimento generale dello Stato di Federico il Grande come grande potenza.
La circostanza, favorevole nel fatto, di avere in quella guerra per avversaria la Francia, guadagna a questo re e a questo stato prussiano il cuore del resto della Germania, con un entusiasmo ed una devozione, che non doveva più estinguersi, e alla Prussia fino da quel tempo comincia ad accordare nel dualismo tedesco il predominio morale, come allo stato, che sotto il rispetto nazionale offre la migliore potenzialità. All'indirizzo politico del 1756 e alle successive gravi vergogne francesi nella condotta della guerra si può fare risalire il primo germogliare delle speranze di una nuova età di potenza tedesca nel mondo. Nè meno fertili di conseguenze furono la scossa data all'autorità della monarchia nella Francia già irrigidita politicamente, la decadenza della sua considerazione in Europa, come l'incoraggiamento alle idee individualistiche, diffuse dagli spiriti dirigenti di Francia, ma non bene conciliabili con la potenza storica dei Borboni.

Come si effettuasse il fatale cambiamento di fronte della Francia all'esterno e si stipulasse il 20 aprile 1756 l'accordo austro-francese di Versailles, é stato narrato nel capitolo precedente di questa storia dal compianto Guglielmo Oncken. Quell'accordo di Versailles voleva passare dapprima soltanto per difensivo, e il suo tenore non era più insidioso di quello di altri accordi innumerevoli. Ma, in un senso diverso da quello significato con la locuzione che si volle preferire, era il « primo passo », e questo lo rendeva così grave per le sue conseguenze. La Francia aveva improvvisamente rinunciato a quella politica, per cui si era sempre schierata dal lato degli avversari degli Asburgo, da quasi quattro secoli, da quando la Borgogna le era stata tolta da questi con un matrimonio, e lo aveva fatto in tutte le relazioni di vicinato con Tedeschi e Italiani e in genere in tutte quelle europee, anche quando Federico il Grande assalì l'Austria per conquistare la Slesia e quando fu innalzato alla dignità imperiale un principe non asburghese, ma della Casa dei Wittelsbach (Carlo VII).

Questo contrasto asburgo-francese si era poi integrato in modo del tutto logico col fatto che da altrettanti secoli, quindi da Massimiliano I in poi, l'Inghilterra, nemica ereditaria della Francia dal lontano medio-evo, e l'Austria avevano fatto causa comune nella loro politica europea, perfino durante il conflitto religioso, che sorse ben presto tra l'Inghilterra protestante e l'Austria cattolico-reazionaria. Né é il caso di sostenere che il trattato anglo-prussiano di Westminster del 16 gennaio 1756 abbia dovuto distruggere od anche soltanto turbare questo raggruppamento tradizionale. Senza pregiudizio di quel trattato difensivo, che le doveva salvaguardare l'Annover, l'Inghilterra voleva conservare la sua unione più importante con l'Austria, come Federico la sua con la Francia.
Date le immense somme che l'Inghilterra aveva dissipate per corrompere e per gratificarsi gli uomini di Stato russi e perfino direttamente l'imperatrice Elisabetta, la mira principale di Federico era stata di esser garantito da ogni ostilità attiva da parte della zarina, che lo odiava con una impulsività femminile, e questo otteneva obbligandosi in un punto speciale con l'Inghilterra. Egli, dopo il suo antico accordo con la Francia, accarezzò perfino la speranza di poter prendere, restandole amico, una posizione vantaggiosa di mediatore tra questa da una parte e l'Inghilterra e la Russia dall'altra.

Il trattato di Westminster significa per lui una nuova e importante guaranzia del mantenimento della pace, di fronte al pericolo, che lo minacciava da parte dell'Austria, e di fronte agli incoraggiamenti, a lui ugualmente ben noti, che l'Austria riceveva dalla Russia per l'odio personale di Elisabetta verso di lui.

Frattanto dal 1754 durava nell'America settentrionale e nell'Oceano Atlantico quella guerra coloniale senza riguardi, che l'Inghilterra aveva iniziato con la cattura di navi francesi presso i banchi di Terranova, senza una formale dichiarazione di guerra - e non era questa la prima volta - per quanto durante una diffidente tensione ostile delle due nazioni.
Era la continuazione di quella lotta delle due potenze europee occidentali, cominciata dal 1688 e interrotta sempre di nuovo, per il possesso dell'America del Nord, il cui termine felice per gl'Inglesi coincide con la pace di Hubertusburg, col risultato di rendere britannica per il momento quella parte del mondo e di fare dell'Oceano Atlantico settentrionale un Mediterraneo inglese, escludendo poi per sempre i Francesi da quei territori e da quell'oceano.

Era intenzione dell'Austria di attaccare la Prussia soltanto, nel 1757, dopo aver compiuto i suoi armamenti e dopo che la sua diplomazia, che trovava una via piuttosto agevole, avesse anche più strettamente vincolato a sé la Corte di Luigi XV, la Francia della marchesa di Pompadour, di questa politicante da burla. Sino a quel momento giovava all'Austria tenere in freno l'ardore eccessivo della zarina e impedire che da palesi concentramenti di truppe russe fosse messo sull'avviso Federico, che in quel momento faceva male i suoi conti, o non li faceva del tutto.

Ad onta del trattato di Westminster in Inghilterra non si credeva opportuno d'informare Federico delle notizie assai serie per la Prussia, che giungevano a LOndra da Pietroburgo; dalla parte poi della Francia il re non si aspettava minimamente una cattiva piega delle cose. Ma fin dalla seconda metà di giugno dei 1756 cominciarono a giungere al re per altre vie dei sinistri avvisi. Seppe dall'Aia l'accordo a lui ostile, che si prepatrava tra Russia e Francia; il suo ambasciatore a Vienna poté informarlo più precisamente degli accordi austro-francesi: l'onesto inviato inglese a Berlino, Mitchell, nativo della Scozia, personalmente amico della Prussia, per le notizie a lui pervenute fece conoscere al re il concentramento delle truppe russe nelle province baltiche e la piega molto minacciosa, che prendeva la politica di Pietroburgo.

Federico pertanto fece i suoi preparativi militari, ad eccezione delle misure estreme, ossia della mobilitazione vera e propria. Dopo ciò, e a questo egli mirava, l'Austria svelò chiaramente le sue intenzioni con l'armare in modo palese tutte le sue forze, concentrando in Boemia e in Moravia le truppe dei paesi ereditari.

Tuttavia, ad onta di simili notizie, Federico non poteva ancora credere che la Francia abbandonasse le sue antiche vedute, che cioè il suo proprio interesse richiedeva una Prussia illesa e notevole, la quale pesasse dalla sua parte nella bilancia politica. Ma, a prescindere da altri avvisi allarmanti, che gli giungevano dai vari centri diplomatici, le informazioni del Weingarten, segretario dell'ambasciata austriaca, e la corrispondenza del Menzel, segretario della cancelleria segreta sassone, corrotto dalla Prussia fin dal 1733, e le quantità a lui inviate di documenti segreti non gli lasciavano più alcun dubbio su tutta la trama della lega, che si preparava contro di lui, con la partecipazione d'intrighi sassoni e specialmente sull'inevitabile ed imminente azione comune dei due imperi orientali.

Così pure lo illuminavano abbastanza sulla sua posizione le indiscrezioni di un suo ammiratore personale; il granduca Pietro. Federico richiese perciò una spiegazione a Vienna per mezzo del suo inviato; la ebbe all'inizio di agosto in forma evasiva e indeterminata. Ripeté subito la domanda, aggiungendo questa
volta di essere informato dell'accordo con la Russia e chiese un'assicurazione formale che l'Austria né in quello né nell'anno seguente aveva intenzione di muovergli guerra. Nella sua risposta, ritardata di due settimane, l'imperatrice si contentò di esprimere la sua indignazione per siffatta richiesta; e questo, bene o male, era un'aperta confessione della cosa. Il 18 agosto Federico con la sua guardia partì da Potsdam, nel giorno seguente le sue truppe varcavano già il confine della Sassonia elettorale.

La Sassonia non era entrata formalmente nella lega contro la Prussia, sebbene quella Corte e il suo ministro conte Brühl fossero stati intermediari solleciti e artificiosi della coalizione. Per la sua posizione geografica così esposta al nemico la Sassonia doveva gettare la maschera soltanto dopo sicuri buoni successi degli alleati. Federico non doveva in alcun caso ripetere l'errore della seconda guerra di Slesia, di non potere cioè nei suoi passaggi e nelle sue operazioni avvalersi di un paese, che separava il Brandeburgo dalla Boemia e che col possesso della Lusazia restringeva e rendeva difficile l'adito alla Slesia. E tanto meno doveva lasciarsi alle spalle la Sassonia, questo avversario, che secondo, gli avvisi sicuri ricevuti da Federico e per usare le sue stesse parole, «spiava solo il momento favorevole per piantargli alle spalle il pugnale nel cuore».

Egli perciò doveva o rendere innocua la Sassonia con un'occupazione militare fatta al momento opportuno o, nonostante una vivace opposizione, costringerla ad uscire dalla simulata neutralità e a schierarsi dalla sua parte. Che egli volesse tenersi poi durevolmente quel paese e che anzi abbia cominciato la guerra con questa intenzione é una di quelle opinioni, che non derivano tanto da dati di fatto o da documenti autentici, quanto da supposizioni storiche troppo sottili, e fu confutata più di una volta ed anche recentemente in base a quelli.

Sarebbe stata certamente cosa desiderabile e causa di durevole tranquillità il potere spingere avanti il confine con l'elettorato di Sassonia, che allora non distava sette miglia da Berlino e giungeva fino alla Luckenwald, anzi annettendo tutta la Sassonia procurarsi per confine l'Erzgebirge e un arrotondamento, molto utile verso mezzodì del territorio medio prussiano. Ma se Federico ha mai ben ponderato questa possibilità, le difficoltà e i pericoli che essa presentava non furono in alcun tempo maggiori che nella situazione, dalla quale ebbe origine la guerra dei sette anni, in cui non si trattava di acquistare province, ma di combattere a vita e morte una lotta, a lui imposta per la sua propria conservazione.

Nel giorno della partenza di Federico da Potsdam, il 28 agosto, l'inviato prussiano a Dresda dichiarò al conte Brühl che il re di Prussia, a motivo delle operazioni, che stava per compiere in Boemia, doveva attraversare la Sassonia e che sperava di potere «presto restituire» al re Augusto III (come re di Polonia) il suo territorio sassone.

Era questa la risposta chiara e senza velo alle macchinazioni della politica del Brühl, risposta che doveva produrre costernazione e confusione; e come quella politica era stata fin allora ipocrita, anche dopo ricevuta questa dichiarazione della Prussia, non seppe districarsi da una fiacca irresolutezza e da una ipocrita indecisione. Non si trovò né la coraggiosa onestà di prender partito per l'Austria e di far passare in Boemia le truppe sassoni, prima che giungessero i Prussiani, e nemmeno da stipulare un accordo in certo modo amichevole e degno con la Prussia, e questo tanto meno perché si sapeva quale fatale coalizione di mezza Europa si fosse prestata a raccogliere contro l'odiato sovrano.
Finalmente siccome era troppo tardi per seguire l'una o l'altra via, le truppe furono riunite nel campo di Pirna, quindi su territorio sassone, mentre i Prussiani occupavano il paese. Durante la tempesta d'indignazione, che la «rottura della pace commessa dalla Prussia» sollevava, non tanto nell'opinione pubblica con i suoi rappresentanti intelligenti e sani, quanto nei governi nemici, che simulavano di prendersi a cuore il diritto delle genti, Federico fece aprire con la forza l'archivio di gabinetto, che si trovava nel palazzo di Dresda. Si procurò così il materiale per giustificare politicamente con pubblici manifesti, stampati a Berlino, il suo contegno, senza riguardi per la Sassonia come per Vienna, per quanto questo non potesse essere il mezzo di disarmare i suoi nemici giurati e pronti alla guerra.

Intanto avanzavano gli Austriaci sotto il maresciallo Browne per liberare le truppe sassoni, secondo un piano di operazioni concertato con queste. Federico li vinse il 1.° ottobre in una battaglia sanguinosa durata sette ore, presso Lobositz sull'Elba boema. Tuttavia il successo di Federico non fu tale che Browne non potesse ripetere il tentativo, inoltrandosi per altra via, e giungere fino all'altezza di Pirna. Dipese dalla poca puntualità e dalla insufficiente risolutezza delle truppe sassoni se la loro liberazione non riuscì, ed allora non rimase loro altro che deporre le armi innanzi ai Prussiani il 15 ottobre al piede del Lilienstein.
Si avverò così, ma tuttavia in misura molto limitata, la speranza di Federico di accrescere il suo esercito con i Sassoni. I soldati furono mandati nelle guarnigioni prussiane, dopo aver prestato il giuramento militare per il re Federico, ma durante il viaggio intere schiere fuggirono; degli ufficiali passarono alla Prussia soltanto una cinquantina, per lo più non nati in Sassonia.

L'elettore e re si era rifugiato a Kónicstein, da dove si recò a Varsavia. Il paese fu sottoposto ad un'amministrazione prussiana e tale rimase durante la guerra. Però a questa reggenza prussiana in Sassonia recarono grave danno i buoni successi e gli accantonamenti delle truppe austriache su questa parte del teatro della guerra e quindi entro i confini del territorio sassone, allora notevolmente più esteso che oggi.

La direzione della terza guerra di Federico il Grande contro l'Austria contrasta in genere con quella delle due guerre di Slesia in questo: che al re riuscì molto meno di prendere l'offensiva, come desiderava, sul territorio austriaco, e che egli dovette combattere principalmente nella Slesia e nella Sassonia. Con questo si giustifica certamente (anche sotto l'aspetto militare) il contegno politico del 1756 contro la Sassonia e così pienamente che per es. il ministro francese Bernis, a lui nemico, conveniva nei suoi discorsi confidenziali di non poterlo biasimare.

Nell'anno 1756 il re dovette per il momento rinunziare a rapidi ed efficaci vittorie in Boemia. Aveva infatti perduto molto tempo, in primo luogo per i riguardi politici usati al gabinetto inglese, che doveva trattare cautamente, e alla Francia, e inoltre in seguito alle domande rivolte a Vienna.
Si era poi consumato del tempo di fronte ai Sassoni nel campo di Pirna, e logicamente, trattandosi di un esercito, che si voleva persuadere a passare alla parte opposta, e con cui non era il caso di venire a un combattimento aspro e sanguinoso. Il re perciò dovette decidersi, terminate queste imprese, a prendere i suoi quartieri d'inverno in Sassonia; i colpi arditi e di grandi effetto contro l'Austria, che avrebbero potuto eventualmente agire come un ostacolo sulla coalizioni conclusa ai suoi danni, furono così tralasciati.

Quando poi nel 1757 Federico avanzò in Boemia, gli alleati stavano in armi contro di lui. La politica dei nemici di questo re non poteva rendere al suo valore alcun omaggio più eloquente di questo che non credeva di aver fatto ancora abbastanza per porre in campo nuovi eserciti collegati contro di lui, anche se la preda che si voleva acquistare dalla distruzione della Prussia dovesse poi dividersi in troppe parti.
All'elettore di Sassonia e re di Polonia fu premurosamente accordato che non era colpa sua , «se non aveva adempiuto i suoi impegni», e gli fu assicurato un risarcimento futuro a spese della Prussia. In Svezia il partito dominante nel Senato, quello dei «cappelli» infeudato alla Francia, si lasciò trascinare alla guerra dalle sollecitazioni degli alleati e dalla promessa di territori nella Pomerania, sopraffacendo il re Adolfo Federico della Casa di Gottorp, marito di Luisa Ulrica sorella di Federico.
Il 21 marzo 1757 la Svezia aderì all'alleanza contro la Prussia.

La parti presa dalla Svezia nella guerra dei sette anni é tra le pagine più miserevoli della storia, un tempo così gloriosa, di questo regno nordico. L'esercito svedese, malamente tenuto da un'amministrazione aristocratica, abituata da troppo lungo tempo a impiegare spensieratamente e in modo arbitrario i sussidi in denaro ricevuti dagli stranieri, non giunse a far di più che delle caute marce avanti e indietro o delle ritirate tra Rügen e Stralsunda e la Peene, che formava il confine svedese-prussiano, o qualche invasione senza risultato nella parte settentrionale della Marca, attraverso il Meclimburgo; la Svezia insomma dette poco da fare alle forze combattenti di Federico.

Nella dieta tedesca fin dal 17 gennaio 1757 era stata decisa, contro una minoranza non del tutto insignificante, la guerra dell'Impero contro la Prussia, ed il singolare esercito dell'Impero con i contingenti dei vari circoli aveva preso le armi.
Si schierarono invece dalla parte dell'Inghilterra o della Prussia, nella loro unione tedesca, rivolta contro i piani di guerra della Francia, l'Assia-Cassel, il Brunswick, la Sassonia Gotha e lo Schaumburg-Lippe, per tacere dell'Annover, elettorato del re inglese.

Alla Francia, condotta nella sua nuova posizione per volere del circolo frivolo della Pompadour, non solamente in seguito alle vittoriose insistenze della diplomazia austriaca, ma anche per le intime esigenze della sua posizione di grande potenza, poiché muoveva una guerra in Germania, incombeva la necessità di farla degnamente e vigorosamente, in modo da imporre rispetto. Già nello stesso marzo mise in movimento una gran parte del suo esercito.
(Proviamo a pensare a tutti i parenti dei morti (50.000) nella non lontana guerra di successione, oppure a chi ancora nei ranghi dell'esercito aveva combattuto contro gli austriaci pochi anni prima; odiati da sempre).

La Francia nel secondo trattato concluso a Versailles con l'Austria il 1° maggio 1757, si obbligò, a fornire, oltre i 24.000 uomini già accordati, altri 105.000, a mantenere a sue spese 6.000 alleati wurtemberghesi e 4000 bavaresi ed a pagare ogni anno all'Austria un sussidio di 12 milioni di fiorini.

Fin dal secolo XVII la Francia era il gran banchiere delle guerre europee e, nonostante le sue condizioni finanziarie poco floride e del carico vessatorio delle tasse imposte ai suoi sudditi, non voleva nemmeno ora, di fronte a questa abitudine dell'Europa, confessare di essere una pessima pagatrice di sussidi, ormai spossata ed inquieta. Fra l'altro in cambio di ciò avrebbe guadagno era relativamente piccolo rispetto allo sperpero; nello «smembramento» della Prussia il mezzogiorno dei Paesi Bassi austriaci doveva esser dato al Borbone spagnolo Don Filippo, genero di Luigi XV, che l' avrebbe a sua volta ceduto all'Austria Parma e Piacenza da lui possedute.

A prescindere dalla Svezia e dalla Russia greco-ortodossa, erano in sostanza corti cattolico-romane, alle quali, in pieno accordo con la Francia, governata da abati e dai "favoriti" di una "favorita", era destinata la preda tedesca, rimpiccolendo così la Prussia fino all'antico territorio della Marca elettorale; erano esse l'Austria, la Sassonia-Polonia e la Baviera.

L'esecuzione di questo piano avrebbe annullato la pace di Vesfalia, mentre dall'essere «garanti» di questa, Francia e Svezia prendevano il pretesto per unirsi alla lega, e avrebbe poi pressoché distrutto l'importanza continentale non solo della Prussia, ma anche del protestantesimo.
Nondimeno il re Federico si persuase, fin dai primi suoi passi presso gli Stati Generali evangelici e la Danimarca, che questi non avrebbero mosso un dito in suo favore. Gli Olandesi non avevano perduto quell'egoismo insensibile ad ogni altra considerazione, che é proprio di una potenza commerciale, ricca e dominante e che più volte aveva dovuto sperimentare lo stato brandeburgo-prussiano, nonostante il suo onesto aiuto; questo egoismo perdurava dal momento che gli Olandesi non avevano più il primo posto sui mari e nei commerci e non erano più soliti di curare con impertubabile freddezza il buon andamento dei propri affari.
Mentre in Danimarca la tendenza illuminata e riformatrice del governo si trovava soddisfattissima della neutralità. Vi era qui una debole inclinazione a prendere decisamente parte per il protestantesimo e a rinnovare l'antica politica danese di approfittare delle imprese della Svezia per opporsele come antagonista, alla quale questa volta erano di ostacolo le potenti alleanze della Svezia medesima.
Federico poteva contare soltanto sul piccolo partito anglo-prussiano in Germania e sull'Inghilterra stessa, nella quale per il momento tutto era malsicuro, eccetto il fatto che si trovava impegnata in una guerra coloniale con la Francia e che in terraferma doveva difendere il suo Annover dagli attacchi dell'esercito francese.

Federico era quindi presso a poco solo con la spada della Prussia di fronte alle tre maggiori potenze europee, che gli erano a gara nemiche, oltre ai loro minori alleati.
Federico con la sua logica politica, sempre larga e ispirata dalla storia, non ha potuto per lungo tempo credere che la Francia dovesse partecipare alla distruzione della Prussia e nemmeno
più tardi non lo ha potuto comprendere.
Appunto questo lo impauriva naturalmente in modo speciale. Ed ora avvenne questo fatto singolare e difficile a prevedere che gli fu cioè in genere risparmiato di dovere assumere con le sue forze, già tanto divise, la difesa contro il temuto attacco della Francia e che l'intervento dell'esercito terrestre di questa nella guerra dei sette anni riuscì non meno insufficiente della resistenza opposta all'Inghilterra dalle sue forze marittime.

Tuttavia si dovette prima accettare e subire l'infelice comando supremo del duca di Cumberland sugli alleati tedeschi e sulle truppe al soldo dell'Inghilterra; questo per gli errori e la perplessità del Cumberland stesso fu motivo della battaglia di Hastenbeck (nel circolo di Hameln), combattuta e perduta contro i Francesi il 26 luglio 1757, e della vergognosa convenzione di Kloster Zeven dell'8 settembre di quello stesso anno. Dopo, sotto il ministero Pitt in Inghilterra, il nuovo comandante supremo, principe Ferdinando di Brunswick, con operazioni fortunate e con una serie di splendide vittorie di queste truppe tedesche - le più importanti sono Krefeld (23 giugno 1758), Minden (1° agosto 1759), Vellinghausen (16 luglio 1761), Wiihelmsthal (24 giugno 1762) - riuscì a trattenere i Francesi per tutti questi anni in una situazione indecisa e ingloriosa nella Germania del nord-ovest, nell'Assia e presso Francoforte.
Veramente questo era stato preceduto da un tentativo dei Francesi contro Federico stesso, finito però in modo compassionevole con la giornata di Rossbach, salutata con esultanza in Germania, anche nei paesi ufficialmente nemici della Prussia, e rimasta fino ai nostri giorni la vittoria più popolare e più spettacolare dell'esercito di Federico.

Come non era da aspettarsi, il piccolo effetto dei poderosi armamenti francesi, non riuscirono a compiere quasi nulla, tennero solo un po' occupato un valido esercito di molto inferiore come numero; e così - contro ogni attesa - l'offensiva iniziale dei Russi rimase di gran lunga inferiore alla loro smania di assalire con tutto il loro odio in corpo. Ma anche gli Svedesi e le truppe dell'impero non dettero mai preoccupazioni. Nell'unico scontro, avvenuto nel 1756, il re di Prussia si era dovuto però persuadere che da parte dell'Austria, armata col massimo sforzo e sostenuta finanziariamente dalla Francia, si erano, fatti sotto l'aspetto militare, insegnamenti notevoli dalle due precedenti guerre di Slesia. L'Austria aveva insomma un po' imitato l'efficenza militare prussiana.

Con animo acceso di risoluto eroismo Federico si avviò alle epiche lotte, a quelle nel corso dell'anno 1757: vi si avviò tuttavia anche con quel grave dominio di sé stesso, preparato ad ogni evento; e solo così si può sollevare l'eroismo al suo pieno valore.
Il 10 gennaio 1757 impartì al ministro di gabinetto, conte Finck di Finckenstein, una celebre istruzione, che comprendeva quest'ordine: "se il re per avventura fosse sconfitto ed ucciso, Küstrin, Magdeburgo e Stettino, qualora i nemici irrompessero vittoriosi - doveva essere l'ultimo rifugio della famiglia reale, del tesoro, dei tribunali, del direttorio generale; l'argenteria e il servizio da tavola in oro si dovrebbero senza perder tempo coniare moneta; e gli affari si dovrebbero condurre senza alcun cambiamento. «Se mi dovesse cogliere la sventura di cadere prigioniero nelle mani del nemico, proibisco di tenere nella minima considerazione la mia persona e di non darsi alcun pensiero di ciò che io potessi scrivere dalla mia prigionia. Se m'incogliesse una tale sciagura, io voglio sacrificarmi allo Stato; subito si presti obbedienza a mio fratello" (Augusto Guglielmo, m. nel 1758) "e questi, come tutti i miei ministri e generali mi risponderanno con la loro testa che né una provincia né un riscatto sarà offerto in cambio della mia persona e che si cercherà di conseguire ogni vantaggio, come se io non fossi mai stato al mondo".

Non é questo un programma, alla cui esecuzione egli stesso potesse credere, ma un'istruzione di una grave rigidezza morale, degna di Licurgo, che all'unico uomo, da cui dipendeva il destino della Prussia, riservava anche da prigioniero le decisioni e l'assistere in modo veramente utile i suoi.

Poi si mosse verso la Boemia, contro il principale esercito degli Austriaci. Stava questo sotto il principe Carlo di Lorena, che la predilezione di Maria Teresa per il cognato ha mantenuto nel comando supremo quanto era possibile ed anche al di là, con vantaggio di Federico.
Il 6 maggio 1757 questi vinse presso Praga, dove cadde il maresciallo generale Schwerin, l'eroe delle guerre di Slesia, il primo nella serie dei suoi più familiari capitani - Winterfeldt, Giacomo Keith - che il re, senza poterli sostituire, ha perduto nei primi anni della guerra. Anche ai nostri giorni nei libri di canzoni tedesche il canto soldatesco sulla morte dello Schwerin narra come egli cadde, mentre muovendo all'assalto con la bandiera dei suo reggimento, riconduceva nella mischia la fanteria dell'ala sinistra, sgominata da un terribile fuoco a mitraglia.

Gli Austriaci furono ributtati verso Praga, dove Federico li assediò: l'intimazione alla resa fu respinta con superbe parole dal Browne, gravemente ferito e morente, che aveva comandato sotto Carlo di Lorena. Ma contro le forze superiori del maresciallo Daun, che si avvicinava per liberare la città assediata, Federico condusse una parte dell'esercito di Praga, e avendole assalite sulle alture trincerate di Kolin perdette il 18-19 giugno la battaglia.
Dovette perciò ritirarsi da Praga e principalmente per l'inabilità del principe Augusto Guglielmo, che comandava una seconda divisione dell'esercito di Boemia, dovette rinunciare a restare in questa provincia e abbandonare l'intera campagna, fare una disastrosa ritirata.
Questa prima vittoria dei suoi nemici fu salutata con grande giubilo in Austria, dove Maria Teresa piena di riconoscenza chiamò il Daun salvatore della sua vita e della monarchia. Infatti si era guadagnato molto più che una battaglia. L'aureola d'invincibilità, acquistata dalla Prussia in tre guerre, era quindi perduta, e la campagna di Federico fallita in Boemia con l'avanzarsi vittorioso dei Russi e dei Francesi ad oriente e ad occidente doveva apparire come un fatto di un'importanza politica decisiva.

Appunto allora vennero per Federico i tristi giorni delle notizie di Hastenbeck e di Zeven e della vittoria riportata dai Russi il 30 agosto presso Gross Jagersdorf sul maresciallo Lehwaldt, che comandava nella Prussia orientale. Il luogotenente maresciallo austriaco Hadik con 3.400 uomini fece perfino una scorreria fino a Berlino ed impose una contribuzione a questa città.

Sembra insomma condannata la sorte della Prussia, che dai vari fronti è quasi accerchiata. Non ha scampo. Per il 45 enne Federico II (non ancora "il Grande") c'è solo più la disperazione. Non ha più fede in se stesso, né nel suo esercito pur essendo questo una sua creatura, una manifestazione esteriore del suo carattere.

Lasciamo raccontare questi drammatici attimi a VOLTAIRE, Ecco cosa scrisse nelle sua Memorie:
"...la perdita di una battaglia (quella il Boemia il 18 giugno, con l'arretramento - Ndr.) pareva dovesse schiacciare quel monarca: pressato da tutti i lati dai russi, dagli austriaci e dai francesi, lui stesso si credette perduto. Il maresciallo di Richelieu aveva appena concluso a Stade un trattato con gli esponenti di Hannover e della Hesse, trattato che somigliava a quello delle forche caudine. Il loro esercito non doveva più combattere; il maresciallo stava per entrare in Sassonia con 60.000 uomini; il principe di Soubise stava per entrarvi da un'altra parte con più di 30.000, ed era assecondato dall'armata delle circoscrizioni imperiali; da lì poi si marciava su Berlino.
Gli austriaci avevano vinto una seconda battaglia, ed erano già a Breslau; uno dei loro generali era persino arrivato a Berlino, e l'aveva messa a tributo; il tesoro del re di Prussia era quasi esaurito, e presto non gli sarebbe più rimasto neppure un villaggio; ci si accingeva a mettere Federico al bando dall'impero; il processo contro di lui era già incominciato; veniva dichiarato ribelle; e se fosse stato catturato, tutto lasciava prevedere avrebbe subito la condanna alla pena capitale".
"In tale strettezze -prosegue Voltaire- gli venne in mente di uccidersi. Scrisse alla sorella, la margravia di Baireuth, che aveva intenzione di porre fine ai suoi giorni: non volle tuttavia concludere la commedia senza qualche verso: la passione per la poesia era ancora più forte, in lui, dell'odio per la vita. Indirizzò dunque al marchese d'Argens una lunga epistola in versi, nella quale lo metteva al corrente della propria decisione, e gli diceva addio concludendo "...e in primavera quando fioriranno mirti e rose, rammentati di ornare il mio sepolcro". 
Egli mi mandò questa epistola scritta di suo pugno. Contiene diversi emistichi presi in prestito dall'abate di Chaulieu e da me. Le idee sono incoerenti, i versi generalmente mal fatti; ma ve ne sono anche di buoni; ed è tanto per un re riuscire a comporre un'epistola di duecento cattivi versi, nello stato in cui si trovava. Voleva che si dicesse di lui che aveva conservato tutta la sua presenza e libertà di spirito, in un momento in cui gli altri uomini non ne hanno più. La lettera che invece scrisse a me, testimoniava gli stessi sentimenti; ma conteneva meno mirti e rose, meno Issioni e dolori profondi. Contrastai in prosa la decisione di morire, che diceva di aver preso; e non ci volle molto per persuaderlo a vivere. Gli consigliai d'intavolare un negoziato con il maresciallo di Richelieu, d'imitare il duca di Cumberlandia; mi presi infine tutte le libertà che ci si può prendere con un poeta disperato, in preda alla voglia di non essere più re.
In risposta, mi comunicò che aveva preso la soluzione di battersi, che andava a far guerra al principe di Soubise; chiudeva la lettera con versi più degni della sua posizione, della sua dignità, del suo coraggio di spirito: "Quando si è vicini al naufragio, occorre, affrontando la bufera, pensare, vivere e morire da re".

 

Ma dall'abbattimento e dall'irritabilità di Federico dopo Kolin - e fra l'altro dovette sentire i consigli di Augusto Guglielmo di cedere, di rinunziare alla Slesia, di comprare la pace con sacrifici più accettabili in cambio della propria rovina - egli si sollevò con quello slancio, onde soltanto nei casi più gravi è preso l'animo infiammato da una grande risoluzione, che ne tende tutti i nervi.

Alla dieta di Ratisbona fu presentata la citazione imperiale diretta all'elettore di Brandeburgo. Ci fu anche la vergogna del bando dell'impero che si voleva mettere sul nome di Federico. Ed era già un lieto indizio della fiducia superiore e indomita della Prussia che il suo inviato a Ratisbona (poiché soltanto l'antico diritto imperiale così arabescato era capace di far sì che il sovrano del Brandeburgo e della Prussia, contro il quale per tanto tempo l'Impero fece guerra, tenesse pur sempre il suo inviato alla dieta imperiale) che questi dico, il barone di Plotho, mettesse senza esitare alla porta con la sua citazione imperiale l'avvocato e notaio del tribunale aulico, che glielo porgeva (il bando).

Con una risata beffarda, unanime e gustosa di quel mondo settecentesco francese, ebbe fine la citazione ed anche il bando dell'impero. Goethe già vecchio nel suo «Finzione e Verità» si ricorda ancora con piacere della comparsa di questo von Plotho, inviato prussiano alla dieta imperiale a Francoforte nel 1764, quando fu coronato Giuseppe II, e racconta quale impressione favorevole destasse con la «parsimonia» prussiana dei suoi abiti in mezzo a tutta la pompa del vecchio impero, quell'«eroe diplomatico della guerra dei sette anni», e come si fosse sempre pronti a gridare evviva e bravo, dovunque si facesse vedere quel signore piccolo e tarchiato con i suoi occhi bruni e fiammeggianti.

Ma la fortuna austrica della guerra cominciò a cambiare, conducendo a portata di mano di Federico uno degli eserciti francesi con le truppe dell'Impero. Quello, forte di 33.000 uomini, stava sotto il principe di Soubise, un Rohan; era il beniamino del circolo della Pompadour, dove non solo della condotta della guerra stessa, ma anche del conferimento dei comandi di maggiore importanza si faceva un gioco quasi irresponsabile di capricci e di rivalità. Le truppe dell'Impero, 10.264 uomini erano comandate dal principe Federico di Sassonia-Hildburghausen. Questo valoroso principe, che sempre spingeva all'azione, e il Soubise legato da istruzioni mutevoli, incerto se andare avanti o indietro, si avanzavano o piuttosto si ritiravano già, quando seppero che Federico era vicino con 22.000 uomini, ossia con forze pari alla metà delle loro.

 

Il 5 novembre presso Rossbach, non lungi da Freyburg sull'Unstrut il re li attaccò con una grande determinazione li sconfisse e li disperse in fuga disordinata, in una battaglia di sola un'ora e mezza, che gli costò soltanto 156 morti (lui credeva circa 400) e il doppio di feriti; una decisione così pronta e decisiva seguita da una spettacolare vittoria la si dovette principalmente a una carica irresistibile del maggior generale von Seydlitz e della sua cavalleria. Non meno decisivo fu l'intervento dei cinque battaglioni prussiani guidati da suo fratello Enrico, che rimase anche ferito.

Ecco come Federico comunicò dal suo campo di battaglia a Friedberg la vittoria al suo ministro di Stato Podewils:

"Mio caro Podevils, vi comunico Abbiamo poc'anzi battuto completamente i Francesi e l'armata dell'Impero. Abbiamo fatto un gran numero di prigionieri e preso più di 50 cannoni, delle bandiere e degli stendardi. II luogotenente generale conte di Revel, molti generali e ufficiali sono nostri prigionieri. Il nemico aveva 50.000 uomini, noi 20.000. Il cielo ha benedetto la giusta causa; bisogna far cantare dei Te Deum e tirare salve d'artiglieria a Berlino, a Stettino e a Magdeburgo. Ora è notte oscura. Domani inseguiremo il nemico fino all'Unstrut. Io ero accampato a Rossbach ed esso voleva girare la mia posizione dal lato di Weissenfeldt; l'ho inseguito fino alle prime gole. Mio fratello Enrico è ferito leggermente, come pure il generale Seidlitz; credo che il generale Meinicke sia morto nella battaglia. Al massimo avremo perduto 400 uomini fra morti e feriti. FEDERICO".

 

In Francia tutto questo non lo avevano previsto, perché ai generali non chiesero nulla. Ordinarono - da dentro le alcove profumate- solo la direzione da prendere. E spesso senza nemmeno una logistica alle spalle. Allo sbaraglio. Causando a se stessi e alla nazione sventure e danni irreparabili.
Mai l'esercito Francese scese così in basso come nella Battaglia di Rosbach; Voltaire ne fu indignato! Andò a cercarne un'altra simile nella storia, ma non ne trovò un'altra cosi vergognosa. (Voltaire, Memorie)

Torniamo proprio alle Memorie di Voltaire:

"Marciando contro i francesi e gli imperiali Federico scrisse anche alla sorella, che si sarebbe fatto uccidere piuttosto di capitolare; ma fu più fortunato di quanto non dicesse e credesse.
Il 5 novembre 1757, attese l'esercito nemico in un luogo a lui molto favorevole, a Rosbach, ai confini della Sassonia; e poiché aveva sempre sostenuto di volersi fare uccidere, volle che suo fratello, il principe Enrico, gli fosse solidale in questa promessa alla testa di cinque battaglioni prussiani che dovevano sostenete il primo scontro con le armate nemiche, mentre l'artiglieria le avrebbe fulminate, e la cavalleria avrebbe attaccato quella avversaria. In effetti, il principe Enrico fu leggermente ferito alla gola da una fucilata; e si trattò, credo, del solo prussiano ferito in tutta la giornata.
I Francesi e gli Austriaci si dispersero alla prima carica. Fu la rotta più inaudita e completa di cui la Storia abbia mai parlato. La battaglia di Rosbach rimarrà celebre a lungo. Trentamila francesi e ventimila imperiali fuggirono vergognosamente a precipitosamente davanti a cinque battaglioni e ad alcuni squadroni. Le disfatte di Azincourt, di Crecy, di Poitiers, non furono così umilianti"
.

Cos'era accaduto?

Prosegue Voltaire: "La disciplina e l'esercizio militari che il padre aveva istituito, e che il figlio aveva rafforzato, furono la vera causa di quella strana vittoria. Per cinquant'anni l'esercito prussiano non aveva fatto che perfezionarsi. In Francia - come in tutti gli altri stati- non si era certo riusciti a realizzare in tre o quattro anni, con dei francesi poco disciplinati, quel che era stato realizzato lungo l'arco di cinquant'anni con dei prussiani; in Francia si era perfino arrivati a cambiare le manovre quasi ad ogni addestramento, con il risultato che gli ufficiali e i soldati, avendo male appreso degli esercizi nuovi e sempre diversi gli uni dagli altri, non avevano assimilato niente del tutto, e non avevano realmente alcuna disciplina e alcun addestramento. In breve, alla sola vista dei prussiani tutto l'apparato andò in frantumi, e la fortuna fece passare Federico, in un quarto d'ora, dal colmo della disperazione all'apice della felicità e della gloria".
"La funesta giornata di Rosbach induceva tutta la Francia a mormorare contro il trattato stipulato dall'abate di Bernis con la corte di Vienna (la Pompadour non era assente in questa manovra). Ma Federico voleva negoziare. Il cardinale di Tencin, arcivescovo di Lione, che era stato sempre contrario come nessuno all'alleanza con la corte austriaca, chiese a me di fare da intermediario con la margravia di Baieruth per un negoziato con il fratello. Tutte le lettere tra i due passarono per le mie mani, e provai la segreta soddisfazione di essere l'intermediario. Bernis dette però a Tencin la risposta ufficiale da dare a Federico in persona, che consisteva in un netto rifiuto a entrare in negoziati di pace (*). 
C'era una certa "qual grandezza" (!) , nel gabinetto francese, a rifiutare la pace al re di Prussia, dopo essere stato da lui battuto e umiliato....[...]. 
Federico rispose all'inviato di Bernis, seccamente, che sarebbe stato il suo segretario di Stato a informare la Francia cosa avrebbe fatto la Prussia e che quindi non dovevano scrivere a lui. Ma su altri canali le trattative le condussi io, anche perchè avevo capito che il cardinale si accingeva ad andare incontro a una grande delusione. Inoltre fors'anche provavo un gran piacere nella intermediazione di quel grande affare, volevo prendermi gioco di Bernis.

"Tutti gli altri (Hannoveriani, Hessiani, Brusnwichiani) si erano già messo d'accordo. Ruppero il vecchio trattato "delle forche caudine" quando capirono che saremmo stati battuti a Rosbach e chissà dove ancora. L'indisciplina, la diserzione, le malattie avevano distrutto il nostro esercito, e il risultato di tutto fu, nella primavera del 1758, di perdere in Germania, per Maria Teresa, 350 milioni di franchi e 50.000 uomini, come avevamo già fatto nella guerra del 1741, ma combattendo non con lei ma contro di lei".

"Il re di Prussia invece dopo Rosbach, rinfrancato, andò a combattere l'esercito nemico a sessanta leghe da quella località. I francesi potevano ancora entrare in Sassonia, i vincitori erano impegnati altrove; niente avrebbe potuto arrestarli; ma avevano a Rosbach buttato via le armi, perduto i cannoni, le munizioni, i viveri, e soprattutto la testa. Si sparpagliarono. I loro cocci furono raccolti a stento. In capo a un mese Federico riportò una nuova vittoria, più notevole e contrastata della prima, sull'esercito austriaco; si riprese Breslau, vi fece 15 mila prigionieri, il resto della Slesia rientrò sotto il suo dominio: Gustavo Adolfo non aveva fatto cose così grandi. - Bisognò allora, perdonargli i suoi versi, le sue battute di spirito, le sue piccole malizie, e anche i suoi peccati contro il sesso femminile. Tutti i difetti dell'uomo, scomparvero davanti alla gloria dell'eroe."
(*) "Quando poi con la pace si pose fine a tutto; l'abate ne morì di dispiacere nel giro di quindici giorni. Non ho mai potuto capire come si possa morire di dispiacere, e come dei ministri e dei cardinali, dal cuore tanto duro, possano avere una così grande sensibilità da restare feriti a morte a causa di una piccola delusione; il mio disegno era di prendermi gioco di lui, di mortificarlo, non già di farlo morire". (Voltaire, Memorie, Sellerio ed. Palermo, 1980).

Dunque a novembre sono i Prussiani a sconfiggere i Francesi a Rosbach, mentre questi marciavano su Lipsia. Federico ha vinto una sola battaglia per quanto singolare, ma in effetti ha vinto la guerra. Se non ancora quella sul campo, quella dentro di sè, l'ha vinta di sicuro. Inoltre ha già allarmato i suoi nemici. Il suo nome è sulla bocca di tutti. Le sue gesta fanno il giro degli eserciti. Lo si comincia insomma a temere. Chi vince una battaglia con il rapporto 1 a 1 è già grande, ma chi la vince con un rapporto di 1 contro 4, non è solo grande ma fa impressione, suscita sgomento ai soldati come ai generali. Inoltre Federico agisce fuori dagli usuali schemi. Ogni battaglia è un avvenimento nuovo. Sconcerta a travolge, affascina perfino i nemici.

Un mese dopo la battaglia di Rossbach, il 5 dicembre 1757, a Leuthen presso Breslavia, di nuovo in quell'ordine di battaglia obliquo, fortunato a Praga, disgraziato a Kolin a motivo di ordini male eseguiti, riportò quella splendida vittoria sopra Carlo di Lorena e sul Daun, che terminò una campagna piena di vicissitudini e rimise la Slesia nelle sue mani.

Rossbach e Leuthen sono le due battaglie, che fecero presto dimenticare Kolin e tutto il resto. Quanti tedeschi amanti della pubblica cosa e che in quel secolo si sentissero sempre più stranieri di fronte ai governi monarchici assoluti e alla loro politica di gabinetto, salutarono con giubilo Federico e s'ispirarono ai primi presentimenti fin allora sconosciuti di una partecipazione cordiale agli avvenimenti politici della patria tedesca.
Da Augusta, operose officine d'incisione in rame diffusero le pagine storiche gloriose del re della Germania settentrionale, la poesia si elevò a canti e a ditirambi, che personificano nella Prussia e nel suo capo l'antico eroismo tedesco.

In Francia una gioia maligna si riversò sulla Corte e sui cortigiani con quella impressionabilità vivace a favore delle personalità di forte carattere. Per Federico ebbe una reale importanza che questa onda di entusiasmo per lui si estendesse anche in Inghilterra, nella nazione più d'ogni altra educata politicamente dalle sue vicende storiche, e facesse sentire la sua influenza nel raggruppamento dei partiti inglesi. Essa offri a Guglielmo Pitt l'occasione favorevole per riprendere con maggior fortuna una grandiosa politica universale, nella quale poté essere vinto l'odio di Giorgio II per la Prussia.

Fin dal giugno 1757 Pitt stava nuovamente a capo del governo. inglese. Cominciò con quest'anno il periodo dell'aumento continuo e vittorioso della potenza britannica, il quale rimane indissolubilmente legato al suo nome; quell'ambizioso parlamentare che aveva ormai conquistata una sicura posizione, era abbastanza forte per conservare immutato il suo patriottismo sincero e la sua confidenza. Ed ormai la guerra dell'Inghilterra con la Francia comincia ad essere condotta con quell'energia, che rende pienamente vittoriose le imprese terrestri così in America come nelle Indie orientali e pone al comando gli uomini adatti. Si abbandona quindi la politica annoverese tediosa e gretta per tener più conto invece nella politica mondiale britannica del pieno valore dell'eroe, che combatte vittoriosamente sul continente.

Pitt annullò, non confermandola, la convenzione di Zeven ed affidò il comando supremo a Ferdinando di Brunswick, che fin dalla prima guerra di Slesia e ultimamente a Rossbach aveva combattuto e vinto a fianco dei Prussiani e godeva in modo speciale la fiducia di Federico. L'esercito posto così sotto il comando di Ferdinando fu accresciuto fino a contare 5000 annoveresi e 50.000 uomini arruolati al soldo dell'Inghilterra; fu concesso per il re Federico un sussidio annuo di quattro milioni di talleri e nel trattato angloprussiano della primavera del 1758 fu accolto il solenne patto, richiesto con insistenza non dalla Prussia ma dall'Inghilterra, di voler persistere in una guerra comune e di non concludere una pace separata.

Per contrapposto a questi preziosi incoraggiamenti dell'Inghilterra, nello stesso anno 1758 i Russi in modo assai pericoloso spinsero le loro operazioni militari molto vicino al re. A misura che la Francia diveniva l'avversario di minor momento, andavano crescendo per la Prussia il pericolo e le angustie, in cui la poneva la Russia. Durante l'anno precedente alla guerra la situazione a Pietroburgo parve dipendere da un possibile ed improvviso cambiamento di sovrano, quando Elisabetta rimase per lungo tempo in un grave e durevole deliquio ed era allora già imperatore Pietro III, grande ammiratore di Federico.

Ma nel tempo stesso Caterina moglie del principe ereditario all'insaputa di Pietro e di Elisabetta preparava le vie del suo avvenire, facendo per questo assegnamento sull'appoggio dell'Inghilterra, appunto come Elisabetta era salita sul trono imperiale con l'aiuto della diplomazia francese in Pietroburgo e di una congiura. Anche il ministro Bestushew cercava di assicurare per il futuro il suo potere e riannodava i suoi fili speciali ai piani di Caterina. Dagli inviati di Francia ed Austria, che ne erano preoccupati e vi avevano uno speciale interesse, erano stati già svelati alla zarina questi segreti maneggi; Caterina fu per qualche tempo allontanata dalla presenza della zarina e l'effetto visibile di tutto ciò fu il vivo impulso che si dette nel 1758 alle operazioni militari, e l'irruzione nella Nuova Marca dell'esercito russo sotto il generale Fermor.

Federico in quest'anno aveva incominciato le operazioni sul teatro di guerra da lui preferito, in Moravia, contro il Daun, poiché Maria Teresa per le insistenze degli alleati aveva finalmente privato del supremo comando il principe di Lorena. Il re dovette però rinunziare a impadronirsi della forte Olmutz, chiave della strada di Vienna, perché il pronto ed energico generale Laudon intercettò il grosso treno di vettovaglie e di munizioni, necessario ai Prussiani per quell'assedio. Federico quindi si ritrasse attraverso la Boemia e poi accorse nella Nuova Marca in seguito alla notizia dei movimenti dei Russi.

Il 25 agosto batté Fermor a Zorndorf, a settentrione di Küstrin, vicino a questa città, anche questa volta principalmente per merito delle brillanti operazioni della cavalleria di Seydlitz. Tralasciò d'inseguire l'esercito russo, che si ritirava lentamente verso levante, per accorrere di nuovo in quella parte del teatro della guerra, dove nel frattempo erano avanzati gli Austriaci, che erano allora nell'Alta Lusazia. Qui la sua troppo grande fiducia nella consueta lentezza meticolosa del Daun, mentre gli si avvicinava senza preoccupazioni per attaccarlo, fu punita dolorosamente con la sorpresa di Hochkirch, nella notte precedente al 14 ottobre, dove perdette oltre 100 cannoni e ventotto bandiere.

Peggiori conseguenze di questo infausto avvenimento furono evitate soltanto per la condotta eccellente dell'esercito prussiano, furiosamente assalito di sorpresa e costretto a difendersi di notte e nella nebbia e per il suo eroico contegno durante l'ordinata ritirata verso Bautzen. Federico poté subito dopo sbarrare di nuovo la via al Daun e con un'ardita marcia intorno al suo esercito liberare le fortezze della Slesia assediate dagli Austriaci e poi, respinto il Daun in Boemia, assicurarsi nuovamente della Sassonia.

Federico era allora oltre i quarantacinque anni, nell'età in cui si comincia più o meno sommessamente a ricordarsi che non si é più annoverati tra i giovani. Da lungo tempo il re, che viveva in campo senza concedersi mai un riposo, era tormentato da sofferenze degli organi digerenti, ed anche dalla gotta; a questo si aggiunse una dolorosa perdita: nel giorno di Hochkirch era morta la sua diletta sorella, la margravia di Bayreuth, a lui legata dalla più intima e più fedele delle sue amicizie. Ma non solamente lo abbattevano le disgrazie personali. La vigoria solida e fulminea del suo esercito non era più quella di una volta. Un certo numero dei suoi migliori generali, il fiore dei suoi ufficiali, il nocciolo dei più eroici reggimenti era caduto in battaglia; il re stava in campo costretto ad accettare, ad arruolare e a procurarsi con la forza soldati, che in altri tempi non avrebbe mai scelto.
É questo il tempo delle sue famose leve forzate nei paesi di confine, specialmente nel Meclemburgo-Schwerin. A questo paese, per la sua ostilità dichiarata ma inattiva verso la Prussia, l'accordo con la coalizione preponderante, alla quale aveva voluto accedere, doveva riuscir piuttosto male a motivo del giustificato trattamento senza riguardi usatogli in più modi dal re.

Nel 1759 Federico era stato sul punto di prendere senz'altro l'esercito ducale del Meclemburgo, se questo non si fosse in gran fretta rifugiato nell'isola di Rugen; anche ai nostri giorni non si é dimenticato nel paese come il gran Federico prussiano, per usare le sue proprie parole, "abbia abburattato fino al fondo il sacco di farina meclemburghese". Ma tutti questi erano espedienti, dei quali il re soffriva. L'oppressione del suo corpo e del suo spirito andava a finire in riflessioni e pensieri foschi su quello, che gli prometteva quella guerra interminabile. Le sue lettere ai familiari sono piene di quella malinconia, che egli fino ad un certo punto addolcisce, ma tuttavia non cancella, con delle espressioni alquanto forzate.
Di fronte alle truppe Federico usa sempre di più quel linguaggio duro di rimprovero, con un tono addirittura irritato, che esprime e rivela il suo dolore per le crudeli perdite sofferte, le preoccupazioni per la qualità sempre meno buona dei soldati, per il mantenimento del valore bellico del suo esercito.
Federico si trova nella situazione, appena sopportabile per lui, di non sentirsi capace di una grandiosa offensiva e deve attendere chi dei suoi nemici si avvicini per primo, per poi mostrargli i denti; la sua salvezza dipende dallo scompigliare di volta in volta i piani dei suoi avversari.

Ed appunto in questa profonda depressione di animo, che non cessa più nel corso ulteriore della guerra, cade la giornata di Kunersdorf. Quelli che si avvicinavano per i primi, con le intenzioni più minacciose, erano i Russi. Questi, molto superiori di numero, si muovevano per unirsi agli Austriaci, che manovravano di fronte a loro. Già si trovava presso a loro Laudon, uno dei molti Scozzesi che s'incontrano nell'antica storia degli eserciti tedeschi, il più eminente tra loro sotto l'aspetto militare, il generale austriaco dalla vivace offensiva, dall'aspetto soldatesco veramente bello, impedito nello svolgimento più ampio della sua attività soltanto dalle molte pastoie del suo comandante superiore Daun e dalla gelosia di lui, che non lo apprezzava al suo giusto valore.
Nelle immediate vicinanze di Francoforte, oltre la valle dell'Oder, incassata tra profondi declivi, sull'altipiano della riva destra giace il borgo di Kunersdorf, Federico pensava il 12 agosto 1759 di preparare la rovina dell'esercito nemico con un movimento avvolgente da nord ad est. Ma il terreno sfavorevole e non abbastanza conosciuto mandò a vuoto questo piano, guastandone la necessaria unità, e Laudon, riuscendo così a salvare i Russi già in parte battuti, cambiò l'attacco causando una piena disfatta dell'esercito prussiano, stanco di marciare e di combattere.

Il termine di questa giornata terribilmente sanguinosa fu una ritirata disordinata e quasi una fuga, una totale demoralizzazione delle truppe prussiane. Se i Russi, di cui ancora non si sapeva a quale caro prezzo avessero pagato quella giornata, le avessero inseguite, la rovina sarebbe stata senza misura, sulla riva di quel vallone dell'Oder, alla quale affluiva l'esercito in fuga.
È questa la notte più terribile passata da Federico, e se egli prima o dopo durante quella guerra ha scherzato filosoficamente sul suicidio, in quella notte vi fu molto vicino.
Per il momento la Prussia era militarmente annientata, Berlino esposta senza possibilità di liberazione e di difesa agli eserciti nemici. Se lo Stato fu allora salvato lo si deve al prestigio di Federico, che tuttora durava e col quale si spiegano gli indugi e le riluttanze degli alleati. L'esaurimento dei Russi si giustificava con un orgoglio veramente russo, dicendo che ora toccava agli Austriaci di vincere una buona volta una battaglia, e questi a prescindere da tali malumori, avevano da fare più nella Slesia che a Berlino.
Così i due eserciti, invece di compiere quella riunione, a cui avevano mirato, si allontanarono di nuovo l'uno dall'altro.

Ma le sventure di Federico in quest'anno non erano giunte al loro termine. Nel primo momento di confusione dopo Kunersdorf, aveva rimesso al giudizio del conte di Schmettau, comandante di Dresda, di rendere la città a buoni patti, per salvare quella guarnigione, a cui il re non poteva dare alcun aiuto; e la cosa era già avvenuta, quando giunse il contrordine.
Quando nell'autunno di quell'anno Federico nelle sue operazioni contro il Daun mandò alle sue spalle il generale von Finck, questi fu costretto ad arrendersi con i suoi 12.000 uomini presso Maxen nel distretto di Pirna, nel così detto «Finkenfang» di Maxen. Tirando la somma per il 1757 si aveva un cumulo di disfatte, con la sola consolazione che le cose avrebbero potuto andare anche peggio e che era già visibile negli strapotenti vincitori l'effetto di quel rinnovato coraggio, col quale Federico riprendeva la lotta dopo i giorni disperati di Kunersdorf.

Ma anche così la sua situazione, entrando nell'anno 1760, era piena di sconforto. Sempre più penoso era il rinnovamento dell'esercito, per il quale si dovevano prendere disertori e, specialmente contadini sassoni arruolati a forza. Inoltre Federico non dissimulava che la buona volontà inglese nell'accordare sussidi era ormai al suo termine e che non gli conveniva aggravare con la sua necessità di aiuti la posizione del Pitt, per non scuoterla in modo a lui troppo pericoloso. Federico era persuaso che la conservazione del suo Stato richiedesse che non si perseverasse troppo nella guerra, al massimo soltanto pochi mesi. Ma i tentativi per la pace in Europa, da lui fatti parallelamente all'Inghilterra, facendo assegnamento sulla ben nota stanchezza e impopolarità di questa guerra che si sentiva in Francia, non condussero ad alcun risultato.

La guerra dovette continuare e il principio delle operazioni del 1760, che per Federico potevano essere solo del tutto difensive, non era tale da diminuire le sue preoccupazioni.
Federico voleva espugnare con un bombardamento Dresda, la capitale perduta della Sassonia da lui confiscata, ma dovette ritirarsi discendendo l'Elba dinanzi al Daun. E il 23 giugno Laudon con forze tre volte superiori assalì i 10.000 uomini del valoroso Fouqué in una posizione, a questi raccomandata dallo stesso Federico, presso Landeshut nella Slesia, e li costrinse ad arrendersi, dopo che Fouqué era stato gravemente ferito.

In seguito Laudon occupò Glatz ed avrebbe preso anche Breslavia, se il comandante di questa non fosse stato l'intrepido Fr. B. von Tauenzien. Federico stesso accorse nella Slesia, dove i Russi stavano a distanza non grande dagli Austriaci, comandati dal Daun e dal generale d'artiglieria Lacy, a cui si doveva il piano della sorpresa di Hochkirch. Qui Federico il 15 agosto presso Liegnitz ebbe la fortuna di battere il Laudon, che si avanzava colla sua divisione al primo albeggiare del giorno, e di respingerlo oltre la Katzbach, prima che il Daun e il Lacy assalissero secondo il piano concertato.
Era questa la prima vittoria da tanto tempo penosamente attesa ed ebbe per effetto che i Russi rinunziarono alla loro congiunzione col Daun e col Lacy.

Avvenne non molto dopo questa vittoria, nei giorni dal 9 al 10 ottobre 1760, l'acquartieramento memorabile di truppe russe in Berlino ed austriache in Charlottenburg, 40.000 uomini in tutto. Questo episodio per il contegno onesto del generale russo Totleben e dei comandanti da lui dipendenti verso i cittadini di Berlino, nonostante una contribuzione di un milione e mezzo di talleri e il sequestro delle casse governative e dell'arsenale, passò senza conseguenze relativamente gravi, mentre gli Austriaci, che i Russi non lasciarono entrare in Berlino, commisero in Charlottenburg saccheggi e devastazioni riprovevoli.

Federico all'annunzio di questo colpo si era visto costretto a marciare dalla Slesia verso la sua capitale, e questo bastò perché Berlino fosse prontamente sgombrata. Ma, essendo il re seguito dal Daun, gli Austriaci si sarebbero impadroniti del tutto della Sassonia, se Federico stesso non lo avesse fatto. Si venne così a battaglia il 3 novembre, presso Torgau, dove 44.000 Prussiani, lottando contro 63.000 Austriaci, in una posizione quasi inespugnabile, armati di un numero tre volte superiore di cannoni, dopo lunghi, inutili e sfavorevoli combattimenti, riportarono finalmente la vittoria al cadere della notte.

Questa vittoria non era però tale da mutare notevolmente le condizioni dei due avversari in Sassonia. Federico doveva necessariamente condurre la guerra con la massima cautela, perché una disfatta in quel momento sarebbe bastata per infrangere ogni sua capacità di resistere. Certo egli tenne in piedi le sue finanze, ma anche queste, al pari della forza del suo esercito, soltanto con mezzi dolorosi imposti dalla necessità. Prima di tutto con una brutta alterazione delle monete, di cui fu concessa la coniazione a degli imprenditori, alterazione che screditò queste monete col nome di «efraimiti».
Si ottenne tuttavia con questo di accrescere considerevolmente il valore corrente dei sussidi inglesi, rinnovati per quest'anno in conformità dei trattati. Più che mai il re era reso dipendente dalla situazione esterna, se non dall'Inghilterra. Ed il nuovo anno 1761 doveva strappargli anche quell'aiuto inglese ed offrire ancora un esempio della sleale mancanza di scrupoli, di cui é stata capace la politica inglese, nelle principali epoche della sua predominanza mondiale.
L'Inghilterra già da tempo non si era più trovata in un pericolo imminente e non sentiva più la necessità di stretti accordi con altre potenze, ma badava soltanto ad intascare progressivamente i propri guadagni e a prendersi a questo fine degli ausiliari mal compensati. Una caratteristica storica dell'Inghilterra moderna, che non cancella però le sue qualità morali, é quella di coprire in molti casi i propri atti col mutamento nominale di ministri e con le fluttuazioni dei partiti parlamentari.

Il 25 ottobre 1760 Giorgio II, all'età di 77 anni, uomo straordinariamente sano, prescindendo da una diminuzione di forza dell'udito e della vista, dopo aver fatto una colazione era morto improvvisamente.

Giorgio II, nato nel 1683, era salito sul trono nel 1727, si era sempre occupato assai poco del regno, permettendo però, prima a Walpole, poi ultimamente a Pitt di avere un ruolo di assoluto primo piano nel governo del Paese.
Il grande merito di Giorgio II "fu quello di stare nell'ombra"

Una condotta questa che non solo ha favorito ai due statisti (e quindi allo stesso Parlamento) in grande misura la gestione di tutta la politica estera inglese, compresa quella economica, ma ha contribuito moltissimo a far nascere la grande ammirazione verso quella monarchia costituzionale inglese, a tutti quei personaggi che negli anni del suo regno (33) sono andati di persona a vedere cosa accadeva al di là della Manica. E uno dei primi a sbarcare proprio nei primi anni di regno di Giorgio II, fu un Voltaire in fuga, dopo aver già passato un anno dentro la Bastiglia, e in procinto di ritornarci dentro, non per aver rubato chissà cosa, ma per aver espresso delle idee. In Gran Bretagna gli si aprì un mondo nuovo. Lo chiamò "uno stato dei bottegai", ma fu affascinato nel riscontrare la giusta considerazione che i "bottegai" davano a tutti quegli uomini audaci che le idee le proponevano, senza aver il timore di finire in una fortezza.

Questo nuovo sovrano il giovane 22 enne GIORGIO III, pure lui principe elettore di Hannover era però nato a Londra nel 1738, fu quindi sempre bene accetto dai veri inglesi. Morirà nel 1820; dopo 55 anni di regno. Un po' meno assente del primo, vuole partecipare alla guida politica; ma lo fa in un modo maldestro, emarginando i principali esponenti del partito whig, con l'appoggio dei tories; poi con gli appoggi delle clientele, riesce a costituire un gruppo a lui favorevole (i king's friends= gli amici del re); fin quando i wigh furono eliminati del tutto.
Giorgio controlla così con degli incapaci la politica interna, ma subisce anche i condizionamenti di inetti personaggi. Ancora in misura maggiore in quella estera. Così l'Inghilterra già dal suo primo anno di regno vide quasi vanificare tutti quei vantaggi politici conseguiti (senza impiegare tante risorse umane) in questa guerra dei Sette anni in Europa, ma soprattutto i grandi vantaggi economici che perse poi nelle colonie americane; dalle rivolte fino alla proclamazione della loro indipendenza.
Nel suo lungo regno, Giorgio III, assistette a tutti i grandi eventi traumatici; a quelli americani, a quelli europei, alla Rivoluzione francese, alle guerre napoleoniche, fino alla Restaurazione. E proprio nel 1815, stanco e malato, abdicò. Morirà cinque anni dopo, nel 1820.

 

Si era (nel 1760) allora al sommo dei buoni successi, conseguiti in ogni parte dei mondo nella guerra condotta dagli Inglesi contro la Francia sotto la direzione ferma ed oculata del Pitt. Nei primi tempi della guerra terrestre americana il vantaggio era rimasto ai Francesi; e in non piccola parte in seguito all'odio acerrimo che gl'Indiani nutrivano verso gl'Inglesi, mentre i Francesi avevan saputo guadagnarsene l'animo coi loro buoni trattamenti.
Come abbiamo accennato, Pitt dette un indirizzo fermo ed energico a tutta la guerra di oltremare. Uno sbarco in Inghilterra, col quale la Francia pensava di vendicare le perdite marittime e i sequestri di navi del 1758 e di abbattere la sua avversaria con un solo colpo, fu da lui prevenuto con una vigorosa offensiva contro i porti francesi, dove si raccoglievano i bastimenti da trasporto e le navi di linea. Molte di queste furono distrutte, le altre messe fuoi uso, all'infuori di tre fregate, che partite da Dunkerque comparvero nel febbraio del 1760 sulle coste irlandesi senza però arrecare alcun danno.

Negli anni 1748 e 1759 delle squadre coloniali inglesi si erano impadronite degli stabilimenti francesi sul Senegal e sul Gambia. Nelle Indie i Francesi perdettero Chandernagor, la loro colonia più importante nel Bengala; il comandante supremo francese nelle Indie orientali, il conte Lally-Tollendal, irlandese di modi bruschi, energico e di grandi doti militari, era intervenuto soltanto in modo insignificante con truppe e materiale da guerra; perciò la Francia nel principio del 1761 per riacquistare Chandernagor perdette anche la grande Pondicherry sulla costa del Coromandel, al pari di Mahé sulla costa del Malabar, e nell'aprile del 1761 anche Gingi, l'ultima piazzaforte che ancora occupasse nelle Indie.

Le maggiori squadre francesi erano però destinate al Nord-America, ma il loro passaggio fu impedito dalle forze superiori inglesi; quelle poche che riuscirono a passare non bastarono a sostenere efficacemente, contro il considerevole sforzo dell'Inghilterra, i Francesi che difendevano quella regione, e il loro condottiero valoroso e risoluto, il marchese di Montcalm.
Cadde nel 1758 Louisbourg sull'Isle Royale, ora chiamata Isola Cap Breton nell'Acadia (Nuova Scozia). Il generale inglese Giacomo Wolfe, di trentatrè anni, uomo non adatto a figurare in una società media, ma soldato egregio e dotato di coltura scientifica, dopo aver fatto le sue prove davanti a Louisbourg, nell'anno seguente, nel 1759, sostenuto da una forte flotta inglese, cominciò l'assedio di Quebec. Dopo tentativi sanguinosi, ma instancabili, riportò il 13 settembre una vittoria decisiva, che ebbe per conseguenza la capitolazione della città; così il vincitore Wolfe, come il valoroso Montcalm, caddero ambedue. Montcalm, quest'ultimo valido difensore dei possedimenti francesi nell'America settentrionale, con parole profetiche, che dovevano nella massima parte verificarsi ben presto, aveva già presagito che i giorni del dominio esclusivo dell'Inghilterra nell'America del Nord erano pure contati, che il distacco dalla madrepatria di quelli che erano stati fino a quel tempo coloni inglesi, e la loro costituzione in repubblica indipendente non potevano essere che una questione di tempo e di un tempo non lungo.

Dopo la caduta di Quebec e dopo infruttuosi tentativi francesi di riprenderla, nell'anno seguente 1760 si arrese senza combattere anche Montreal. Con questo gli Inglesi avevano compiuto la conquista del Canada. Dalle regioni polari americane - per la cui investigazione dal punto di vista nautico, l'Inghilterra non aveva risparmiato sforzi da secoli, con lo scopo pratico di trovare il «passaggio del nord-ovest» - fino a Gibilterra, la chiave del Mediterraneo, presa dal 1704, e fino a S. Elena occupata nel 1650, l'Inghilterra possedeva le sue attuali posizioni marittime nell'Atlantico e le aveva integrate col dominio sull'intera costa dell'America settentrionale.

I popoli europei, se si escludono gli Italiani, non sono mai stati veri navigatori. La storia universale ha dimostrato che i Fenici, i Greci, i Germani del Nord e i Polinesiani fino dai tempi più remoti sono stati i navigatori più arditi e più abili. La fama acquistata dai Portoghesi e dagli Spagnoli, sostenuta dai cartografi del Gotland e dai competenti di cose nautiche; per i primi a motivo della via marittima alle Indie orientali, per gli altri principalmente a motivo dell'opera del genovese Colombo. Ma era da tempo impallidita, e intorno a quest'epoca, nel secolo XVIII, gli uni e gli altri passavano già per navigatori di minor valore.
Il viaggio di lungo corso era sempre più passato nelle mani dei popoli nordici, tra i quali gli Olandesi già da un certo tempo avevano dovuto cedere il primo posto agli Inglesi negli affari politici mondiali, conservando tuttavia sempre una parte del loro antico valore.
Anche se poi la stessa dominazione costiera dell'Inghilterra nell'America del Nord doveva per la massima parte andar perduta in un prossimo avvenire.

Giorgio III proprio nel 1760 nel salire sul trono rivolse ai ministri le parole consuete; che cioè egli li pregava del loro concorso e che la politica estera e quella interna sarebbero continuate senza cambiamenti. Il discorso della Corona al Parlamento annunciò che si sarebbe proseguita con vigore e mezzi la guerra contro la Francia, e il Parlamento accordò a questo fine la somma enorme di venti milioni di lire sterline. La nazione era lieta di avere, per la prima volta, un re del tutto inglese, non più uno che fosse personalmente annoverese; aveva poi piena fiducia nel trionfo finale e quindi il premio della vittoria.

A questo punto, come se all'Inghilterra, che già aveva nelle sue mani i principali possedimenti francesi, dovesse offrirsi chiaramente l'occasione di nuove conquiste e di nuove espansioni, la Spagna entrò in intime trattative con la Francia, trattative che condussero a un'alleanza dei due Stati contro l'Inghilterra, conclusa il 15 agosto 1761, nella forma di «patto di famiglia borbonico».
Nella Spagna, per la morte di Ferdinando VI, nell'agosto del 1759 era salito al trono Carlo III, già re di Napoli e della Sicilia. La decisione, che determinò di abbandonare la neutralità del suo predecessore e gli fece prestare attenzioni alle sollecitazioni della diplomazia francese, fu la considerazione che non si doveva tranquillamente accettare l'estendersi dell'Inghilterra in America.

Poiché la Spagna possedeva le colonie molto più sviluppate; nell'America del Nord, la penisola della Florida, che ne dipendeva a mezzogiorno, e inoltre i possedimenti dell'America centrale, ricchi di tesori e di prodotti di ogni specie; questi possedimenti, come già si pensava, avrebbero eccitato ben presto le cupidigie inglesi.
E la previsione era giusta anche se poi le colonie inglesi e spagnole si sono trasformate in repubbliche indipendenti, ad opera degli Americani del Nord, giunti alla maggiore età in fatto di politica estera. Inoltre la Spagna aveva da lamentarsi di molteplici violazioni del diritto internazionale, sofferte nella guerra anglo-francese, che non voleva più sopportare.

La Francia invece ricercò e concluse questa alleanza spagnola, principalmente per giovarsene dal punto di vista politico e per farla poi pesare sulla bilancia, in eventuali future condizioni di pace. La Francia era da lungo tempo spossata, esaurita finanziariamente, e tutte le persone serie vi riconoscevano gli errori gravi, ma pagati a caro prezzo; errori commessi con la capricciosa politica del 1756. Il marchese di Stainville, duca di Choiseul, che fin dall'ottobre del 1758 dirigeva la politica francese nel luogo del Bernis, caduto dal potere, era pure strettamente d'accordo con la marchesa di Pompadour. Cercava però di terminare la guerra, si adoperava per liberarsi dagli stretti legami stipulati con l'Austria, e intendeva avvalersi del rafforzamento arrecatogli dalla Spagna per premere sull'Inghilterra e indurla a cedere.

Si deve però riconoscere che la Francia, nella sua critica situazione di alleata dell'Austria senza alcun proprio vantaggio, si è dimostrata costantemente leale e fedele ai patti, anche nel pagamento fatto più tardi dei sussidi dovuti all'Austria, ad onta delle proprie condizioni finanziarie, divenute sempre più precarie. Era la tradizione di Richelieu e di Luigi XIV, che agiva in questo senso e che aveva fondato la fama della Francia, di essere cioè un'amica sicura o una nemica pure sicura, come il Grande Elettore ebbe a riconoscere con un doloroso paragone.

Maria Teresa aveva favorito e accolto con soddisfazione il patto di famiglia borbonico, poiché anch'essa credeva che avrebbe indotto l'Inghilterra ad una pace separata e nel contempo avrebbe tolto a Federico i sussidi inglesi.
Nel rapporto che a lei più importava, cioè nell'ultima parte, la cosa doveva in realtà avverarsi, per quanto con una diversa concatenazione di fatti e non più per opera di Pitt.
Questi non era stato per niente imbarazzato o spaventato dall'alleanza franco-ispana. Era - in seguito al patto di famiglia borbonico - semplicemente felice di vedere trasformarsi d'ora in poi in preda di guerra, le colonie della Spagna e innanzi tutto Cuba e Manilla nell'Asia orientale con le Filippine. Quindi concepì un suo piano, che doveva portare nuove conquiste all'Inghilterra.
Che non diminuissero i buoni rapporti con Federico di Prussia, che guerreggiava in Germania, gli era necessario dopo come prima, per tenere occupate nella guerra europea le forze terrestri e la finanza francesi.
Inoltre la sua inclinazione personale per Federico e, sebbene in misura non del tutto eguale, la sua costante fedeltà all'alleanza con lui, si manteneva tanto più solida, in quanto Federico non aveva risparmiato la sua arte di esercitare un fascino personale con lettere di geniale omaggio, indirizzate anche al Pitt.

Ma in questo momento di grandissima aspettative il bravo reggitore della politica inglese urtò nella resistenza del proprio re. Già da qualche tempo si trovava nel ministero Lord Bute, un tempo educatore di Giorgio III, uno Stuart di un'antica linea illegittima della dinastia scozzese. Fino dall'ascensione di Giorgio III al trono, Bute aveva preso le sue misure contro l'autorità del Pitt ed aveva potuto allontanare le persone che nel governo o tra i familiari del re riuscivano incomode alle sue mire ambiziose, senza potere ancora arrischiarsi ad attaccare lo stesso Pitt.
Erano questi gl'incidenti, che, dopo i presentimenti del 1760, tenevano molto inquieto Federico e dovevano imporgli di usare riguardi al Pitt e di preservarne, per quanto era possibile, la situazione da nuove difficoltà, anzi di accontentarsi che lo statista inglese nel suo grande amore per la pace universale, di cui in quel momento faceva sempre mostra nei suoi atti diplomatici, trattasse proposte molto singolari e a danno della Prussia.

Ora poi la vasta guerra offensiva che Pitt intendeva muovere alla Francia e alla Spagna in seguito alla loro alleanza, offrì a Bute un motivo opportuno di rappresentare il Pitt alle classi della nazione o ai gruppi dei partiti politici meno interessati alla guerra come un'insaziabile promotore di aggravi finanziari e come l'ostacolo ad una pace favorevole; lo presentò insomma come un guerrafondaio che mandava in rovina le casse dello Stato.
Bute ebbe presto l'occasione di convincere il re, col quale si era inteso ai danni del Pitt, a dare sul nuovo programma di guerra una risposta decisivamente negativa, che rendeva a quel punto naturale le dimissioni di Pitt.

Queste dimissioni puntualmente avvennero il 5 ottobre 1761 e la direzione della politica inglese passò al Bute. Questi prese subito il partito di non rinnovare più per il prossimo anno il trattato per i sussidi da corrispondersi alla Prussia, che scadeva il 12 dicembre.

Dell'alleanza inglese la parte che più premeva a Federico era stato il prezioso aiuto finanziario, più importante dell'opera prestata da Ferdinando di Brunswick in difesa dell'Annover e della Germania occidentale, anche perché Federico poteva utilizzarlo liberamente.
Mentre ora, nel momento che sentiva più urgente che mai il bisogno dei mezzi, era abbandonato al proprio destino e gli erano troncati i finanziamenti. E se per questo non era ancora venuta meno l'alleanza o meglio la comunione degli interessi prussiani ed inglesi contro la Francia e l'Austria, ben presto anche a questo proposito ricevette notizie non proprio confortanti.

L'Inghilterra (di Bute e Giorgio III) cercava premurosamente di ravvicinarsi alla Russia ed all'Austria, alle due principali nemiche di Federico, e dava vaghi accenni alla Corte di Vienna di poterle procurare la Slesia. Ma non si andò più oltre, perché il Kaunitz non era l'uomo da farsi incantare da questa diplomazia disfattista. Egli fiutò nella premura lusinghiera inglese soltanto un intrigo contro l'alleanza francese, da lui considerata come una sua opera, e fece rispondere che non comprendeva il significato di questa comunicazione del governo inglese.

Nello stesso tempo l'Inghilterra aveva presentato alla Spagna un ultimatum, destinato veramente a rimuovere ogni tensione e ad aprire la via alla pace. Ciò però produsse uno stato di cose che mandò a vuoto questa trama poco onorevole. In seguito al modo in cui era formulato l'ultimatum inglese - la quale disconosceva l'orgoglio spagnolo ed era piuttosto goffa - l'ultimatum sortì appunto all'effetto opposto a quello che si ripromettevano Lord Bute e in fondo, dal canto suo, anche la Francia; la Spagna rispose con un rifiuto e l'Inghilterra a quel punto (ma questa era nelle sua spettative) dovette il 4 gennaio 1762 dichiararle la guerra.
Così Bute (proprio lui che non voleva guerre) fu portato a continuare la logica presente nei piani e nelle decisioni di Pitt e l'Inghilterra non riuscì a liberarsi da quell'aggruppamento politico, che stava dalla parte di Federico, in cui un tempo essa si era obbligata a restare fino all'ultimo, insieme con la Prussia.
Inoltre fu distrutta nuovamente per la Francia la possibilità di giungere, grazie alla sua unione con la Spagna, ad una pace separata e in qualche modo favorevole.

L'animo di Federico si era poco rasserenato. Il suo destino gli appariva come un dissanguamento politico e materiale, che poteva esser prolungato soltanto grazie l'abilità del suo modo di condurre una guerra difensiva. Come ultimo rifugio ed ultimo conforto gli rimaneva il suo eroismo personale. Tra tanti foschi calcoli e tanti tristi risultati, Federico sempre ripeteva la stessa cosa che cioè non sottoscriverebbe mai di propria mano la sua «vergogna». E con ragione, perché come egli nel 1756 si sarebbe agli occhi di tutto il mondo condannato - se avesse ceduto senza combattere la Slesia, presentandosi come un prepotente o semplicemente come un falso eroe, così anche questi anni di guerra trascorsi non gli sarebbero contati quale titolo di onorevole difesa.

Se si poteva risparmiare allo Stato una pace sfavorevole, quale esito del suo tramonto, questa pace poteva esser sottoscritta dal suo successore, ma solo quando lui fosse morto. Solo con questa filosofia poteva sollevarsi completamente e personalmente dalle sue riflessioni e dalle sue continue preoccupazioni.

La campagna del 1761 era stata tale da confermare in lui quel sentimento di una lenta e tormentosa agonia mortale. Federico con abili manovre, durate due mesi, non aveva però alla lunga potuto impedire in agosto la riunione dei suoi avversari russi ed austriaci nella Slesia. Rimase poi all'erta accampato per delle settimane presso Bunzelwitz nel circolo di Schweidnitz con i suoi 50.000 uomini, di fronte agli 83.000 Austriaci sotto Laudon e a 47.000 Russi sotto Buturlin, e si mantenne in un modo così sempre "sveglio" che i suoi nemici non seppero mai decidersi ad attaccarlo, anzi alla fine i Russi finirono col ritirarsi. Ma ciò nonostante la conclusione della campagna fu che i francesi di Laudon presero Schweidnitz, senza che Federico potesse impedirlo, e che i Russi s'impossessarono della valorosa Kolberg, successo al quale negli anni precedenti avevano più volte sempre dovuto rinunziare.

Sopraggiunse allora quell'avvenimento, per il quale (dobbiamo dirlo) Federico fu salvo. Se gli era mancato quell'alleato ed appunto quell' aiuto, che alla Prussia era necessario, una perdita molto simile toccò anche a Maria Teresa perdendo il suo alleato migliore.

L'alleanza della Francia, entrata in quella guerra con un grande apparato di forze, era diminuita molto di valore per l'imperatrice Maria Teresa. Questa aveva dovuto acconsentire a rinunziare per continuare la guerra ai sussidi francesi, perché anche quelli del primo anno - una grossa somma - erano rimasti arretrati per la grave crisi francese; questa tuttavia, fu pagata a rate anche dopo la pace di Hubertusburg.
La Russia invece era divenuta di anno in anno l'alleata più preziosa dell'Austria, quella che condannava all' inattività il battagliero re prussiano, preoccupandolo.

Ma ad un tratto l'Austria perdette l'aiuto della Russia. Il 5 gennaio 1762 avvenne quello che spesso si era aspettato ma era poi stato differito, la morte della zarina Elisabetta. Era così imperatore suo nipote ...

... Pietro di Holstein-Gottorp, chiamato da lei stessa a succederle. Il pensiero politico di questo zar, che a trentaquattro anni poteva appena dirsi maggiorenne, era tutto ammirazione personale perfino fanatica per Federico e inoltre nutriva odio per la Danimarca, che si era presa nel 1720 la parte dello Schleswig appartenente alla sua casata di Gottorp.
La Prussia lo doveva aiutare contro questa antica diminuzione di diritti della sua famiglia
; a fianco del più celebre uomo di guerra del mondo egli intendeva compiere con la forza delle armi le sue rivendicazioni.
Prima che fosse passato un solo giorno dalla morte di Elisabetta, le lettere imperiali, che ordinavano la cessazione delle ostilità, erano già in viaggio per l'esercito russo, che stava allora in Germania nei suoi quartieri d'inverno sul territorio prussiano.

L'ambasciatore inviato da Pietro a Zerbst, alla Corte dov'era nata la sua consorte, per annunziare la sua ascensione al trono, era incaricato di visitare Federico, e questi poté da parte sua ristabilire a Pietroburgo nella persona del v. d. Goltz la sua rappresentanza diplomatica, interrotta da diversi anni.
Da lui, che lo aveva saputo dal nuovo zar, Federico venne a conoscere gli sforzi dell'Inghilterra perché durasse l'inimicizia della Russia contro la Prussia; il Bute aveva subito iniziato queste pratiche presso lo zar Pietro, con una mossa balorda e perfida della politica estera inglese.
«É noto - così si esprime Federico a questo proposito (Oeuvres, V, 158) - che un'usanza perniciosa ha introdotto in politica certe bricconate, sanzionate ormai da un uso generale; se si parla di queste é conveniente mitigare le parole che si scelgono. Ma romper fede al proprio alleato, ordire contro di lui trame, che appena potrebbero ideare i suoi nemici, lavorare con passione alla sua rovina, tradirlo, venderlo, assassinarlo per così dire - attentati siffatti, siffatte azioni nere e degne di esecrazione dovrebbero essere segnate con marchio d'infamia in tutta la loro mostruosità, perché il giudizio che i posteri dovranno darne, spaventi coloro che fossero capaci di commetterle".

Il 5 maggio 1762 fu formalmente conclusa la pace russo-prussiana (sopra la medaglia commemorativa con Pietro e Federico). Contemporaneamente, e certo in conseguenza a questi cambiamenti della Russia, la Svezia con la pace di Amburgo, del 21 maggio 1762, rinunciò ad una guerra contro la Prussia, che le aveva fruttato soltanto infamia oltre che gravi perdite, e il Meclemburgo dovette esser contento di unirsi a questa pace.

Ad un'alleanza della Russia e della Prussia contro la Danimarca, Federico non poté sottrarsi, cercando invano di differirla, col raccomandare a Pietro con la sua consueta saggezza di porre in ordine per prima cosa la sua incoronazione a Mosca, così importante, per dare ai Russi coscienza della loro sudditanza.
Riuscì tuttavia a concludere questo trattato di alleanza il 19 giugno 1762 a condizioni tali da essere tenuto a sostenere le pretese di Pietro sul suo amato Schleswig, prima per le vie diplomatiche ma anche tenendo nei pressi per ogni eventualità 20.000 uomini .

I Russi che si trovavano nella Slesia sotto Tschernitscheff potevano ormai essere da Federico considerati come propri, quando tutti questi piani e tutte queste speranze furono improvvisamente distrutte: il 9 luglio Pietro fu da Caterina sbalzato dal trono e il suo esautoramento fu compiuto del tutto quando il 17 luglio fu messo a morte.

Caterina II per salvarsi dall'esilio, che Pietro le riservava, aveva approfittato dell'odio dei Russi verso i Tedeschi e i Prussiani per la riuscita del suo colpo di Stato e per la sua proclamazione al trono dell'impero. Nei fatti Caterina non era mai stata amica di Federico, che pure aveva un tempo favorito e raccomandato il suo matrimonio e la sua carriera in Russia; le inclinazioni politiche di questa principessa tedesca, divenuta poi zarina, verso l'Inghilterra, date le tendenze del governo inglese già ricordate, promettevano tutt'altro che bene a Federico.
Ma Caterina aveva anche altre ragioni per mantenere la pace con la Prussia, e per scegliere una neutralità non sfavorevole per Federico.
Le truppe russe furono richiamate dalla Slegai subito dopo la detronizzazione di Pietro. Federico ottenne tuttavia personalmente da Tschernitscheff che questi si fermasse ancora tre giorni, tenendo segreto l'ordine ricevuto; il re se ne avvalse per dare combattimento vittorioso a Burkersdorf e per tagliar fuori il Daun da Schweidnitz; con questa azione ebbe termine l'azione militare russa in questa guerra.

All'inizio di agosto Federico cominciò l'assedio di Schweidnitz, che riconquistò il 9 ottobre. A Freyberg il principe Enrico batté il 29 ottobre l'esercito dell'impero tuttora in armi, insieme ad una divisione austriaca, che si trovava presso di lui. Dopo la morte dei più abili generali e strateghi di Federico, altri valenti generali Zieten e Seydlitz erano divenuti così popolari, che potevano a ragione vantarsi di guidare dei prodi soldati; il principe Enrico era il loro generale superiore; all'arte personale di guerra, in un certo senso intensa e rapida del suo regale fratello, lui contrapponeva la direzione «scientifica», non risparmiando a quella di Federico un certo biasimo; su di lui però, come condottiero indipendente, Federico poteva fare affidamento più degli altri; secondo il giudizio di questo egli era l'unico, che «non avesse mai commesso alcun errore».
Seydlitz aveva di nuovo avuto parte determinante nella giornata di Freyberg, dopo essere stato, gravemente ferito a Kunersdorf; durante l'occupazione russa in Berlino si era trovato in questa città come convalescente, e come tale era intervenuto a dare i suoi preziosi consigli.
Avevano così ripreso speranza e fiducia coloro che guidavano la guerra in Prussia; l'anno 1762 vide non solo nuove vittorie, ma anche i loro frutti. Federico stava di fronte agli Austriaci in situazione superiore per il buon successo delle sue armi; truppe prussiane facevano scorrerie nell'«Impero» fino in Franconia; nel teatro occidentale della guerra Ferdinando di Brunswick coglieva con i nuovi combattimenti una vittoria dopo l'altra contro i Francesi, e li obbligava a sgombrare l'Assia e ritirarsi oltre il Reno.

Con queste ultime azioni la grande guerra volgeva quasi alla fine. Le finanze austriache furono quelle che affrettarono la sua conclusione; il governo mise categoricamente il suo veto a ulteriori spese; già da lungo tempo il Kaunitz aveva dovuto esortare alla pace, per quanto non si potessero ottenere che misere condizioni. Alla fine di novembre, Maria Teresa afflitta per le svanite speranze sulla Slesia, acconsentì solo a un armistizio con la Prussia; le sue disposizioni pacifiche giunsero a Federico in forma di una mediazione diplomatica di Augusto III.
In seguito a ciò cominciarono le trattative nel giorno di S. Silvestro del 1762 nel castello di caccia di Hubertusburg, edificato sontuosamente dall'elettore e re, quando era ancora un giovane principe, e situato nel circolo di Lipsia della Sassonia odierna, a levante di Grimnia.

Frattanto le potenze occidentali avevano già concluso una tregua. Il tentativo della Spagna e della Francia di sciogliere il Portogallo dalla stretta unione politica (ed economica) con l'Inghilterra, compiutasi nel 1703 col così detto trattato del Methuen, tentativo effettuato prima con un'azione politica e poi con le armi, era del tutto fallito.
Il gran ministro portoghese Pombal é l'uomo che ha saputo ottenere una attenuazione del dominio tirannico dell'Inghilterra sul suo paese, di cui dovremo ancora parlare, e mantenere inoltre buoni rapporti con quello Stato. Il fatto poi che fosse possibile la resistenza di quel debole regno contro le minacce spagnuole aggiunge da quelle lontane regioni una nuova pagina alle gesta gloriose, compiute da personaggi tedeschi a pro di nazioni straniere.

Ad un soldato energico, il conte Guglielmo di Schaumburg-Lippe, il cui piccolo paese nativo, come abbiamo ricordato, durante la guerra dei sette anni tenne per la Prussia e per l'Inghilterra, spetta il merito di aver posto in piedi, per il governo di Pombal e con denaro inglese, un esercito portoghese, che prima era come se non esistesse. Egli lo istruì e lo condusse così fino al punto da respingere felicemente non solo l'attacco nemico, ma poter anche penetrare con successo nel territorio spagnolo.

Esito peggiore aveva avuto per il re di Spagna nel teatro transmarino della guerra la sua politica di unione contro l'Inghilterra, politica troppo ardita per lui, per quanto giusta nelle sue mire future, data la paralisi marittima e coloniale e l'incapacità ad una valida resistenza dimostrata dalla Francia, che dirigeva la lega.
Così l'Avana come le Filippine, così i principali possedimenti delle Indie occidentali come dell'Asia orientale si trovarono in seguito nelle mani degli Inglesi. Il Bute si trovava nella singolare posizione di ricevere da quelle remote regioni notizie frequenti di vittorie, che a lui nuovo responsabile della potenza vittoriosa dovevano riuscire personalmente piuttosto umilianti, perché contenevano la più splendida giustificazione del programma di Pitt.

Nel 1762 si venne a trattative tra l'Inghilterra e la Francia e i loro alleati. In queste il Bute si impegnò per incoraggiare l'Austria, sua avversaria, a continuare la lotta contro Federico, e cercò di spingere ad aiutarla anche la Russia, cui promise in via diplomatica degli acquisti a spese della Prussia.
Al trattato preliminare anglo-borbonico di Fontainebleau del 3 novembre 1762, in base al quale l'Inghilterra cessò di guerreggiare nella Germania occidentale, pur lasciando ai Francesi le fortezze prussiane del Basso Reno da loro occupate, seguì la pace di Parigi del 10 febbraio 1763, alla quale aderì il Portogallo.
L'Inghilterra riacquistò Minorca, conservò ad onta delle pretese francesi l'Acadia (Nuova Scozia) e come nuova preda di guerra acquistò il Canadà con le isole che ne dipendono, i possedimenti della Francia al Senegal e una parte delle isole delle Indie occidentali francesi, tra le quali Granada, S. Vincenzo, Dominica e Tabago. La Luisiana ceduta pure dalla Francia divenne inglese nella sua grande parte ad oriente del Mississippi e spagnola nella sua parte occidentale, in cambio della quale la Spagna dovette lasciare all'Inghilterra la Florida, terra bella e geograficamente importante.
Riottenne Cuba e le Filippine e se ne uscì quindi ancora in certo modo a buon mercato, perché il governo del Bute agiva pur sempre pigramente così nel condurre la guerra come nel concludere la pace.

Nelle Indie orientali i Francesi rinunziarono a mantenere stabilimenti militari, per quanto nel resto fossero ristabilite le condizioni di possesso antecedenti - quelle però del 1749 meno favorevoli alla Francia. Questo significava che anche nelle Indie orientali l'avvenire era lasciato in balìa dell'Inghilterra, soltanto in una forma meno palese che nell'America settentrionale.
Il diritto di pesca a Terranova nell'America del nord fu riservato alla Francia; la Spagna abbandonò i suoi diritti all'Inghilterra, che poi se ne valse come di una concessione da fare ai Francesi per concludere la pace.

Cinque giorni dopo la pace di Parigi fu stipulata quella di Huvertusvurg. Dovunque fu confermato lo stato territoriale del 1756, anche rispetto alla Sassonia; le fu perfino restituita la città di Fürtemverg con la dogana dell' Oder in Lusazia, ceduta nel 1745 dalla Sassonia alla Prussia.
L'Impero, come se si fosse voluto mettere in mostra brutalmente la sua situazione secondaria, fu compreso nella pace fra le due grandi potenze. L'elezione a re dei Romani di Giuseppe, primogenito della coppia imperiale, prima sollecitata invano da Maria Teresa, fu una delle concessioni fatte in quella pace e i buoni uffici di Federico fecero sì che questa elezione di Giuseppe II riuscisse nel 1764 a voti unanimi.

La guerra dei sette anni coi suoi sforzi giganteschi era stata perciò combattuta invano e, come potrebbe parere, anche senza risultato. Ma essa ebbe la singolarità di tornare moralmente a notevole profitto dei due principali avversari, anche dell'Austria; però in misura molto maggiore a profitto della Prussia e della persona di Federico. Questi, senza pregiudizio di quelle piccole concessioni di Huvertusvurg, fu lo splendido vincitore. Il mondo aveva dimenticato che egli era stato vinto più volte, a dire il vero sempre da forze superiori, ma tuttavia anche per propria colpa, e che per lungo tempo egli non aveva potuto superare a causa dell'inferiorità numerica delle sue forze.

Si vide in questa guerra soltanto quali immensi armamenti europei erano stati fatti, che secondo ogni previsione dovevano opprimerlo, e come si fosse Federico sempre liberato da questo eccesso numero di nemici. Premio della vittoria, compenso dello sforzo eccessivo sostenuto dal paese per degli anni, dell'obbligo imposto al re di sacrificare il suo esercito fu quella impressione, che mai doveva in seguito cancellarsi, di un eroismo incomparabile dello Stato e dell'esercito, di genialità e d'invincibilità del loro regale capo.
Certo, continuò nei suoi successivi 20 anni a governare come un sovrano assoluto, tuttavia la sua sensibilità culturale lo portò ad avvicinarsi alla civiltà dei lumi, che ne influenzò il comportamento politico, particolarmente per quanto riguardava la tollerazna religiosa. La sua concezione assai moderna del ruolo del sovrano come primo servitore dello Stato, lo fa distaccare dalle concezioni regie assolutistiche nate nel Cinquecento e maturate nei due secoli successivi.

Con la spada lucente in pugno, oltre il suo valore personale di monarca, Federico ha fatto rispettare la sua parola nel mondo e la nuova autorità della Prussia nel consesso delle grandi potenze d'Europa, ed oltre a ciò ha conquistato la popolarità della Prussia in Germania.
Dalle battaglie e dalle sorti di questa guerra ha preso le mosse il particolare spirito della Prussia.

All'interno poi durante questo ritempramento della coscienza del popolo prussiano germogliano quella stima civica di sé stessi e quella soddisfazione patriottica, che precorrono un futuro sentimento nazionale, consapevole della propria responsabilità.
Da due sorgenti all'inizio distinte, cioè dalla capacità di compiere grandi cose, e poi dall'alto della coscienza intellettuale che liberamente espresse, poteva sorgere quella nazione del «periodo letterario classico», dove confluirono insieme quei sentimenti, che poi hanno potuto prender corpo nello spontaneo desiderio di una patria tedesca, sorto nella cittadinanza colta e nel desiderio sorto nella nazione di una unità politica preparata ad agire.

Il primo dramma tedesco, che conservi tutto il suo valore, la prima commedia cittadina, che sia divenuta un tesoro comune di efficacia duratura così letteraria, come nazionale, scaturisce immediatamente dallo spirito di quei bravi ufficiali pieni di abnegazione, di quei soldati consapevoli del proprio valore ed amanti dell'onore, senza i quali non sarebbe stata possibile una guerra di sette anni ed un simile esito di essa; questo dramma è la «Minna di Barnhelm» di Gotthold LESSING (nel 1760 militare segretario del generale prussiano von Taurentzien in Breslavia - Tornato a Berlino inizia a scrivere e a pubblicare con successo commedie d'ambiente soldatesco).
Lessing è stato il primo autore tedesco ad assurgere al ruolo di classico. Ciò risulta già dal fatto che le sue opere furono oggetto di ininterrotta interpretazione e lettura fin dai suoi tempi. La sua Minna di Barnhelm, è mai scomparsa dalle locandine dei teatri. L'importanza intellettuale di Lessing è paragonabile a quella di DIDEROT in Francia; solo che lo scrittore tedesco non ha mai esercitato un'effettiva influenza. Spiccano però gli aspetti del suo carattere, il coraggio, l'onestà, il suo spirito combattivo che vengono mitizzati, specie sulla fine dell'Ottocento, quali tipiche virtù prussiane e tedesche, e le sue opere idealizzate quale espressione della grandezza prussiana. Questo adattamento dell'interpretazione all'andazzo nazionalistico culmina nella biografia lessinghiana sinora più vasta, quella di E. Schmidt (1884-92), e domina anche l'importante edizione storico-critica realizzata da K. Lachmann e F. Munckner (1886-1924).

Ora accennando sopra a Diderot
dobbiamo necessariamente
tornare in Francia...

L'OPERA ILLUMINATRICE DELLE MENTI IN FRANCIA > >

PAGINA INIZIO - PAGINA INDICE