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84. L'IMPERO TEDESCO NEL 14° SECOLO - LE LEGHE

 

L'improvvisa morte dell'imperatore Ludovico (che abbiamo letto nel precedente capitolo) spianò al suo rivale la via per arrivare all'effettivo possesso dell'autorità regia.

Il rivale era CARLO di Moravia, (poi Carlo IV) il primogenito di Giovanni di Boemia, che l'11 luglio 1346 era stato eletto re su indicazione e pressioni del papato, dopo che questi - Benedetto XII - con le solite pretese e la solita arroganza aveva scomunicato e deposto Ludovico il Bavaro dopo 32 anni di regno e che campò ancora per qualche mese; poi l' 11 ottobre 1347 morì colpito d'apoplessia.


CARLO, mediante un imparentamento, seppe guadagnarsi anche Alberto d'Absburgo, il fedele alleato dell'imperatore defunto. I Wittelsbach del Palatinato e del Brandeburgo ed i loro più fidi seguaci rimasero peraltro all'opposizione e dopo molti vani tentativi riuscirono finalmente nel gennaio 1349 a far trionfare la candidatura del conte Gunther di Schwarzburg che venne eletto re con quattro voti e fu accettato come tale dalla città di Francoforte.

Ma Carlo seppe a sua volta suscitare ai suoi avversari delle difficoltà in casa propria, specialmente nel Brandeburgo. Qui spuntò un impostore che si spacciò per il margravio Waldemaro, della famiglia degli Ascani, morto nel 1319; egli affermò che a quell'epoca si era recato in pellegrinaggio in Terra Santa, d'onde ora ritornava. I vicini dei Wittelsbach, ad essi ostili, fecero buon viso a costui, che ebbe molto seguito nel paese. Anche il re Gunther di Schwarzburg lo appoggiò; ma non era nell'indole di Carlo di portare le cose all'estremo, e quando poteva raggiungere lo scopo con le trattative le preferiva all'impiego della forza.

Così egli cominciò col guadagnar dalla sua parte il conte palatino sposandone in seconde nozze la figlia. Con ciò Gunther perdette uno dei suoi principali sostegni, ed essendosi per giunta ammalato in maniera inguaribile, acconsentì a rinunziare dietro compenso a favore di Carlo alle sue pretese alla corona; poco dopo morì, e la fedele città di Francoforte lo onorò di una tomba reale nella chiesa di S. Bartolomeo.
In seguito Carlo si accordò pure coi figli eredi dell'imperatore Ludovico; lasciò loro persino il Tirolo ed abbandonò ad essi pure il « falso Waldemaro », il quale però trovò protezione nel conte d'Anhalt e fino alla morte mantenne una specie di corte a Dessau.

In questo modo Carlo riuscì a consolidare il proprio trono in un'epoca in cui la massima parte d'Europa veniva colpita da un tremendo flagello.
La «morte nera», vale a dire la peste bubbonica, nel 1348, si insinuò dall'Oriente per varie vie in Europa e devastò specialmente l'Italia, la Francia e la Spagna, ma non risparmiò neppure il nord. In Europa essa apparve per tre anni di seguito, con durata e virulenza varia nelle diverse regioni. Il contagio arrecò quasi senza eccezione la morte un po' dappertutto, né ci é possibile calcolare neppure approssimativamente quante vite abbia mietuto.
Ci fu in certi territori (Italia, Francia, Spagna) una diminuzione della popolazione anche del 40-50 per cento, del 20-30 per cento nei paesi germanici; solo nei paesi slavi, come in Ungheria la mortalità fu piuttosto bassa, nell'ordine del 5-10 per cento (del resto l'epidemia proveniva dall'Asia, e gli abitanti dell'Ungheria che erano poi i discendenti delle torme di Attila, erano - per averne gli avi scampate di epidemie più di una nei loro paesi - furono del morbo i più immuni dei paesi occidentali).


Sotto l'infuriare del drammatico flagello si ebbe la piena dissoluzione di ogni ordine sociale ed ogni sentimento d'umanità rimase soffocato; le passioni scatenate si concentrarono sugli ebrei, odiati per le loro pratiche usurarie; essi vennero incolpati di aver provocato la peste avvelenando le fonti; ne seguirono terribili persecuzioni e massacri spietati di questi innocenti. Viceversa si credette di poter placare l'ira divina sottoponendosi a uno smoderato martirio della propria carne. Orde sempre crescenti di penitenti cominciarono a vagare intonando tetre litanie e flagellandosi pubblicamente le spalle ignude. Ben presto a questi fanatici si mescolò ogni sorta di canagliume, che con il pretesto della penitenza si diede a rubare ed a commetterne ogni nefandezza; il movimento assunse anche un certo carattere ostile alla chiesa, tanto che la Santa Sede nel 1349 dichiarò queste flagellazioni pratiche eretiche.

Col dileguarsi della peste anche questo movimento si esaurì e cessò. Ma le conseguenze economiche dell'epidemia si fecero sentire per lungo tempo, perché essa aggravò la grave questione della mancanza di braccia necessarie specialmente per l'agricoltura.

Re Carlo IV, nato nel 1316 ed educato alla corte francese, era stato assai presto iniziato agli affari di Stato dal suo irrequieto padre, prima in Italia, poi in Moravia ed in Boemia. Egli non fu certo un genio, ma un valente ed accorto uomo di governo che comprendeva appieno i vantaggi di una amministrazione ordinata e di una buona finanza; inoltre possedeva una magistrale abilità nel condurre i negoziati diplomatici, che preferì alla sorte aleatoria delle armi e seppe rendere anche più efficaci con l'aiuto di una borsa sempre piena.
Calmo e ragionevole, ben lontano dal correre dietro ad abbaglianti miraggi, questo monarca di uno stampo sotto molti aspetti moderno fu pure amico delle scienze e delle arti, il primo mecenate fra i re tedeschi; re Carlo, assai colto egli stesso e capace di parlare cinque lingue, come autore di una propria autobiografia che va fino alla sua elezione al trono, appartiene alla scarsa schiera dei principi medioevali che hanno svolto una seria attività letteraria.

La sollecitudine del re si indirizzò in modo particolare alla Boemia, dove nel 1348 fondò a Praga la prima università tedesca. Carlo inoltre ampliò ed abbellì la sua capitale; sottraendo poi il vescovado alla subordinazione all'arcivescovo di Magonza, lo elevò a sede metropolitana.
Promosse pure alacremente il progresso economico del paese, provvide alla buona amministrazione della giustizia ed al mantenimento dell'ordine, e protesse le classi inferiori contro la prepotenza dell'aristocrazia, la quale a sua volta con la sua ostinata resistenza impedì l'introduzione del codice per il regno di Boemia, composto sotto gli auspici di Carlo, la cosiddetta Maiestas Carolina.

Ciò nonostante le condizioni della Boemia divennero esemplari per quanto concerne sicurezza, ordine e tranquillo svolgimento del lavoro agricolo, commerciale ed industriale. Finalmente il re aumentò i suoi possedimenti con acquisti di territori nella Slesia e nell'Alto Palatinato e con il riscatto del Lausitz.

Mentre la casa di Lussemburgo assurgeva così a maggior potenza, quella di Wittelsbach decadeva in seguito alla perdita del Tirolo e del Brandeburgo.
Il primo ad andar perduto per essa fu il Tirolo, in quanto che, estintasi nel 1363 la linea di Ludovico, il primogenito dell'imperatore, il duca Rodolfo IV d'Austria si impossessò della regione.
Il Brandeburgo era già prima stato ceduto dallo stesso Ludovico a due suoi fratelli, LUDOVICO «il Romano» ed OTTONE, riservando a sé stesso l'Alta Baviera. Alla sua morte, avvenuta come fu detto nel 1363, un altro fratello, Stefano, che dominava nella Baviera inferiore, si impadronì dell'Alta Baviera escludendone i due fratelli del Brandeburgo; ma costoro iniziarono a serbargli rancore fino al punto di passare dalla parte di Carlo IV, il quale li lavorò così sapientemente da indurli a legargli la marca del Brandeburgo nel caso morissero senza discendenti (1365).

Alcuni anni dopo infatti Ludovico il Romano morì senza figli; allora Ottone tentò di recedere dal patto successorio concluso; ma Carlo IV, che al momento opportuno sapeva usare anche le armi, mosse contro di lui alla testa di un esercito e lo costrinse a cedergli fin d'ora il Brandeburgo, accontentandosi di una somma di denaro.
Da questo momento la casa di Wittelsbach passò nella storia della Germania ad un posto secondario, e sulla scena principale rimasero soltanto le giovani dinastie d'Absburgo e di Lussemburgo. Anche tra queste non mancarono attriti, specialmente a tempo di Rodolfo IV (1358-1365), un principe ambizioso, ma geniale ed intelligente, il quale rese memorabile il breve periodo del suo governo con riforme nell'amministrazione della giustizia, nella circolazione monetaria e nel campo finanziario, con la fondazione di una università a Vienna (1363) e con la costruzione della chiesa di S. Stefano.

L'ambizione più grande di Rodolfo era quella di fare del suo ducato uno Stato press'a poco indipendente e non indugiò neppure di ricorrere alle più sfrontate falsificazioni di documenti per dimostrare la maggiore antichità e la superiorità del ducato d'Austria. Tutto ciò provocò un conflitto con il re; tuttavia Carlo IV preferì ancora la via diplomatica, e concluse con Rodolfo il trattato di Brunn del 1364, in seguito al quale l'Austria tornò al livello di un ducato vassallo diretto dell'impero ma in compenso Rodolfo conservò il Tirolo che avrebbe dovuto a suo tempo andare alla casa di Lussemburgo.

Ma di gran lunga più importante fu il patto successorio stretto allora fra le due dinastie che rimasero avvinte l'una all'altra dalla solidarietà d'interessi, il patto cioè con cui ciascuna istituì l'altra erede dei suoi domini nel caso di estinzione della rispettiva famiglia. Probabilmente re Carlo IV sperò di spianare alla sua casa la via verso la conquista dell'Austria. In seguito le sue mire si spinsero anche più in là, in quanto egli fidanzò il suo secondogenito Sigismondo con Maria, una delle due figlie ed eredi di re Luigi «il Grande» d'Ungheria e di Polonia, della casa d'Angiò-Napoli.

Per quanto non somigliasse affatto al suo romantico avo, il restauratore dell'impero, pure Carlo IV non considerava la corona imperiale un acquisto privo di utilità, a patto che potesse ottenerla senza eccessivi sacrifici e dispendio. Ed almeno da parte della curia egli non aveva da temere ostacoli. Non che la curia fosse addirittura contenta del suo amichevole componimento con i Wittelsbach e dell'atteggiamento indipendente che egli riservava verso la Chiesa; ma la situazione generale obbligava il papa ad andar d'accordo con il re tedesco. Soprattutto il tentativo fatto dal «tribuno» Cola di Rienzi di costituire in Roma un governo autonomo su base democratica (1347), per quanto fallito dopo breve successo, non poteva non ammonirli entrambi di non abbandonare così l'Italia alla sua sorte.

Cola di Rienzi poi nel 1350 si recò personalmente presso il re Carlo, per incitarlo a collaborare alla riforma dell'impero e della Chiesa; ma questi, poco accessibile alle utopie, lo trattenne prigioniero e finalmente nel 1352 lo consegnò al nuovo papa Innocenzo VI (1352-1362), il quale rivolse ora maggiore attenzione alle cose d'Italia e preparò una spedizione militare al comando del cardinale Albornoz per restaurare il dominio della Santa Sede nello Stato della Chiesa.
Insieme con l'esercito egli spedì pure a Roma l'ex-tribuno nella speranza di poter sfruttare per i propri fini la sua popolarità non ancora spenta. Così Cola di Rienzi assunse per la seconda volta il governo di Roma, ma ora il suo governo degenerò ben presto in una arbitraria tirannia. Alcuni dissero che ormai era un venduto. Perciò l'affetto del popolo si mutò nei suoi riguardi in odio e dopo circa solo dieci settimane di dominazione Cola venne ucciso dalla plebe sollevata (8 ottobre 1354), la stessa che lo aveva in precedenza esaltato.


Verso la stessa epoca re Carlo IV scese in Italia con un seguito di appena duecento persone. Egli trovò padroni della massima parte dell' Alta Italia i Visconti di Milano, i quali avevano esteso la loro signoria fino a Bologna ed a Genova e minacciavano persino Firenze.
Gli avversari dei Visconti, sperarono che il re avrebbe messo fine a questa dominazione tirannica; ma Carlo IV - come al solito - preferì intendersi amichevolmente con i Visconti e li nominò vicari imperiali dell'Alta Italia.
Così il 6 gennaio 1355 lui poté cingersi a Milano la corona lombarda. Poi nella fedele Pisa Carlo ricevette pure l'omaggio della maggior parte delle città toscane; dovunque lasciò le cose come stavano; dovunque le signorie esistenti ne uscirono meglio consolidate in grazia dei titoli e delle cariche che egli generosamente dispensò
; ma naturalmente questi signori dovettero pagar salato tutto ciò.

A principio d'aprile Carlo IV raggiunse Roma, dove entrò prima sotto l'umile veste di pellegrino; ma il 5 aprile vi fece l'ingresso solenne e subito dopo fu incoronato in S. Pietro da due legati allo scopo inviati da Avignone dal papa. Lo stesso giorno dell'incoronazione, secondo la promessa che aveva dovuto fare al papa, il nuovo imperatore abbandonò Roma e riprese in tutta fretta, quasi come un fuggiasco, la via del nord; il 3 luglio 1355 era già ad Augusta.
Fu quella la spedizione in Italia più pacifica, ma anche più ingloriosa, che il mondo avesse mai visto; disillusi, gli Italiani distolsero con disprezzo il loro animo dall'imperatore. Ma questi aveva raggiunti i suoi fini; egli aveva, almeno nominalmente, ottenuto ovunque il riconoscimento della sua alta sovranità, era tornato a casa con le tasche piene, e si era guadagnato, senza concedere nulla, il titolo imperiale.

Né quest'ultimo acquisto rimase infruttuoso per la Germania. Carlo iniziò a sfruttralo ed infatti procedette subito a disciplinare l'elezione dei re ed a regolare la posizione dei principi elettori, con una legge imperiale emanata in seguito ad una dieta generale tenuta a Norimberga nel 1355 e ad una dieta di corte che ebbe luogo a Metz nel 1356: la così detta «bolla d'oro»,

 

 

... il cui scopo fu di codificare la consuetudine e di evitare irregolarità e interpretazioni ambigue. Essa dispose che l'elettorato spettava d'ora in poi ai tre arcivescovi renani ed ai titolari dei seguenti principati Iaici, che vennero dichiarati indivisibili ed ereditari secondo il diritto di primogenitura: il regno di Boemia, il Palatinato renano, il ducato di Sassonia-Wittenberg e la Marca di Brandeburgo. Ad una valida elezione sarebbero bastati quattro voti, compreso quello che per avventura uno degli elettori desse a sé stesso; vietata fu l'elezione di un successore durante la vita del re o imperatore.
Del rimanente, l'eletto regolarmente dalla maggioranza degli elettori, a senso di questa legge, é senz'altro re ed esercita i diritti dell'impero. La bolla d'oro quindi sotto quest'ultimo riguardo calca le orme della dichiarazione di Rense, giacché anch'essa esclude ogni ingerenza del papa nell'elezione del re di Germania.

Ai principi elettori venne poi confermata la posizione privilegiata che occupavano nell'aristocrazia del regno; ad essi fu riconosciuto il godimento delle più importanti regalie redditizie e l'esclusivo esercizio della giurisdizione sui propri sudditi; privilegi che, come é naturale, furono in seguito reclamati anche dagli altri principi e contribuirono perciò grandemente allo sviluppo delle sovranità territoriali.

Del resto altre disposizioni della bolla d'oro ebbero anche direttamente in mira gli interessi della generalità dei principi, in quanto tutelarono meglio i loro diritti di fronte ai rispettivi vassalli e vietarono alle città di far leghe tra loro o coi sudditi dei principi e di dar asilo a gente del contado.

Nel corso ulteriore del suo regno Carlo si recò in Italia una seconda volta nel 1366, resse la staffa a papa Urbano V (1366-1370) appunto allora tornato a Roma, con poca edificazione degli Italiani.

Il cardinale Albornoz, il braccio destro che Urbano aveva in Italia, cessò di vivere, forse colpito dalla peste o da una febbre malarica. Era da quattordici anni che era in Italia (chi dice temuto, chi dice amato) per rimettere un papa sulla cattedra di S. Pietro, e proprio mentre aveva raggiunto lo scopo, non riuscì a vedere il compimento della sua opera.

Urbano V nuovamente insediatosi nella cattedra di San Pietro, riaffermò, almeno nominalmente, la sovranità dell'impero sulla penisola e spillò grosse somme di denaro dai dinasti d'ogni luogo; col che non si vuol dire che abbia ottenuto nulla di serio. Già precedentemente Carlo si era cinto ad Arles la corona dell'antico regno burgundo (Arelatensé) che dopo Federico I nessuno dei suoi predecessori aveva portata. Ma il possesso di questa corona non impedì che Carlo lasciasse perdurare nelle regioni occidentali il predominio dell'influenza francese; anzi egli stesso legalizzò per così dire le mire espansioniste della Francia nominando il delfino di Francia vicario imperiale del Delfinato.

Finalmente questo imperatore ottenne negli ultimi anni della sua vita ancora un grande successo; Carlo cioè riuscì (cosa che dopo Federico II non aveva più potuto conseguire nessun altro re o imperatore tedesco) ad indurre i principi elettori ad eleggere fin dal 1376 re e futuro suo successore il proprio figlio quindicenne primogenito VENCESLAO. Senza dubbio questa fu una palese violazione della Bolla d'oro e inconciliabile con lo spirito di questa legge fu il contegno di Carlo che si affrettò a chiedere l'adesione della curia all'elezione del figlio.
Ma lo stesso trionfo illegalmente ottenuto doveva convertirglisi in castigo. Il giovane Venceslao (era nato appena nel 1361) non mancava di buone disposizioni naturali che una accurata educazione aveva cercato di sviluppare; egli si mostrava amante rigoroso della giustizia, economo ed amico delle classi povere. Ma la troppo precoce elevazione alla suprema dignità trovò tuttora immaturo il suo carattere ed impedì che si consolidasse; ond'é che col tempo presero sempre più il sopravvento i brutti istinti latenti del suo temperamento: l'impulsività, l'irascibilità ed il vizio del bere, ben presto lo distolsero dagli affari dello Stato.

Cosa tanto più funesta in quanto, già da ora il suo futuro regno si delineava gravido di difficoltà all'interno ed all'estero. Ed anche di queste (almeno delle difficoltà interne) una parte di colpa spettava allo stesso imperatore Carlo IV per la linea di condotta tenuta in occasione delle lotte scoppiate sotto di lui tra le città ed i principi e la nobiltà.
Un antagonismo politico tra città e principi, provocato dalla loro differente condizione sociale, esisteva già dal XIII secolo; invece l'antagonismo tra città e nobiltà data soltanto dal tempo in cui le corporazioni cittadine d'arti e mestieri si ribellarono alla dominazione dei patrizi e ruppero ogni vincolo che fino allora aveva unito la borghesia alla nobiltà del contado, la quale a sua volta divenne sempre più una classe chiusa distinta.

D'ora in poi le città e la nobiltà, organizzate così le prime come la seconda in leghe, presero una reciproca attitudine ostile. Una particolare importanza assunse una lega costituita nel 1370 fra le città sveve, contro la quale si diressero varie leghe di nobili. Ben presto scoppiò la guerra aperta. Dopo il primo scontro notevole, avvenuto il 7 aprile 1372 ad Altheim, a nord di Ulm, e terminato con la peggio delle città, anche l'imperatore si schierò dalla parte dei loro nemici appoggiando in tutti i modi il più pericoloso di essi, il conte Eberardo di Wurttemberg. Carlo IV estorse poi dalle città - col preteso motivo di riportare la pace - grosse contribuzioni in denaro; mentre il motivo era quello procurarsi i mezzi per ungere le mani agli elettori di suo figlio Venceslao; e addirittura Carlo ricorse persino al criticabilissimo espediente di pignorare le città regie.

Conseguenza fu la fondazione di una nuova lega fra le città sveve sotto la guida di Ulm con il programma dichiarato di opporsi alla politica interna dell'imperatore. Carlo IV pose al bando le città e mosse contro Ulm senza tuttavia riuscire a concludere nulla. Allora affidò la cura di eseguire il bando ad Eberardo di Wurttemberg; ma il costui figlio Ulrico subì presso Reutlingen una grave disfatta (14 maggio 1377).
Ne derivò che l'imperatore fu costretto a scendere a patti con le città, a tollerare la loro lega, o per lo meno indirettamente a riconoscerla.

Visto però che l'autorità centrale rinunziava a questo modo a cercare di conciliare gli antagonismi politici e sociali interni, la nobiltà della Germania centrale e meridionale si procurò ancor più di prima i mezzi per difendersi da sé; ovunque si costituirono leghe di nobili, che diedero a loro volta nuovo impulso al movimento federativo tra le città. In particolare, accanto alla lega sveva, sorse una lega tra le città renane la quale nel 1381 si alleò strettamente con la prima; le due federazioni si promisero reciproco aiuto.
Ben presto anche sul Reno scoppiarono guerre tra la nobiltà e le città; quest'ultime trionfarono sui loro avversari, ma l'intervento del duca Leopoldo d'Austria le privò sostanzialmente dei frutti delle loro vittorie. Dopo ciò cominciarono pure ad aggravarsi sempre più gli attriti fra principi e città; anche fra i primi vediamo costituirsi delle leghe, come quella conclusa nel 1381 dai principi elettori renani «contro una quantità di associazioni di città ed altra gente».

Nel frattempo Carlo IV era morto nel novembre 1378 e Venceslao (17 enne) aveva assunto il governo. All'inizio non mancò di adoperarsi del suo meglio per conciliare e far da paciere; anzi la tregua quadriennale di Heidelberg del 1384 (la così detta « Heidelberger Stellung ») fu in sostanza opera sua. Però le città la accettarono con riserva, ed in special modo non vollero rinunziare alla loro alleanza con la confederazione svizzera, con la quale condividevano l'odio contro Leopoldo IV d'Austria, il signore dei così detti «Paesi anteriori».
E difatti tra quest'ultimo e la borghesia svizzera il conflitto si risolse in guerra aperta. Dal tempo della vittoria di Morgarten la confederazione si era non solo consolidata internamente, ma anche ampliata in seguito all'adesione delle città di Lucerna, Zurigo, Berna, Zug.
Ma quando essa si alleò anche con le città tedesche il duca Leopoldo non intese rimanere ulteriormente passivo senza pericolo; egli mosse contro gli Svizzeri nel 1386 con uno scelto esercito di cavalieri, ma alla battaglia di Sempach (9 luglio) le milizie cittadine ruppero le linee dei suoi cavalieri e ne fecero un macello; nel più folto della mischia trovò la morte lo stesso duca Leopoldo IV.

Due anni dopo suo figlio Leopoldo V, irritato oltre tutto per l'ingresso nella confederazione della città austriaca di Glarona, si propose di vendicare la morte del padre; ma i valorosi cittadini di Glarona inflissero quasi da soli, con scarsi aiuti dei confederati, una nuova sconfitta presso Nàfels all'esercito ducale dieci volte superiore di numero, sconfitta che pose fine di fatto alla dominazione absburghese sulla Svizzera.

Ciò nonostante le eroiche gesta degli Svizzeri non arrecarono alcun frutto alle città tedesche loro alleate. Allorché le due leghe riunite dichiararono la guerra ai duchi Federico e Stefano di Baviera che avevano gettato in prigione l'arcivescovo Pilgrim di Salzburg amico della borghesia, divampò nella Germania meridionale la guerra generale da gran tempo contenuta (1388). Ma se i principi non si mostrarono capaci di conquistare le città fortificate, le milizie borghesi si rivelarono a loro volta inferiori in campo aperto.

Due sconfitte subite dalle città a Dóffingen (23 agosto) ed a Worms (6 novembre) fiaccarono il loro coraggio; esse si adattarono al trattato di pace di Eger del 1389, prima condizione del quale fu lo scioglimento della grande lega. Da questo momento le città perdettero ogni influenza sull'ulteriore svolgimento politico della Germania; essa si concentrò tutta nelle mani dei principi; le città peraltro rimasero i più importanti centri del progresso della cultura, ed appunto nell'epoca immediatamente successiva raggiunsero il più alto grado di floridezza materiale acquistato da esse in tutto il Medio-Evo; dopo cioè che cessarono le guerre esterne coi principi e sparirono le fazioni e le lotte interne con l'ammissione delle corporazioni al governo cittadino.

Una sorte assai migliore toccò alle città della Germania settentrionale, in grazia della larghezza di idee da cui furono animate e della elevatezza dei fini che si proposero; cose entrambe che invece difettavano nelle città meridionali. La lega anseatica mirò a consolidare ed ampliare i privilegi commerciali dei suoi membri nei paesi litoranei del Baltico e del Mare del Nord, al qual fine occorreva assicurarsi il dominio dei due mari.
Ma questo risultato non poteva raggiungersi senza ricorrere alla guerra per eliminare la concorrenza delle nazioni scandinave che, dato lo sviluppo tuttora scarso a quel tempo della marina inglese, costituivano le rivali più pericolose del commercio anseatico. Alla testa delle potenze scandinave si trovava allora la Danimarca, il cui re Erich Menved all'inizio del XIV secolo aveva rinnovato il tentativo dei suoi predecessori di assoggettare il Mecklenburgo e la Pomerania. La sua morte provocò in seguito una serie di lotte intestine che non cessarono finchè, con l'aiuto degli stessi anseatici, interessati alla restaurazione dell'ordine in Danimarca, Valdemaro IV « Atterdag » riuscì ad insediarsi sul trono ; egli dimostrò alle città anseatiche la propria riconoscenza con la concessione di larghi privilegi.

In generale durante questo periodo di indebolimento della Danimarca il prestigio della lega anseatica crebbe considerevolmente; si diede un'organizzazione più compatta, riconoscendo a suo capo il comune di Lubecca. Poco dopo però il suo protetto, re Valdemaro, tornò a rendersi pericoloso per gli interessi della lega. Questo re, dopo aver riconquistato la Scania (Schonen) che era caduta in mano alla Svezia durante i tempi dei torbidi interni della Danimarca, non volle confermare agli anseatici, che la esercitavano su vasta scala la pesca delle aringhe, i loro privilegi; nelle azioni poi della guerra contro la Svezia si impadronì dell'isola di Gotland e distrusse la floridezza di Wisby con l'imposizione di gravose contribuzioni di guerra.

A tal punto Lubecca armò insieme con le città vendiche una flotta, che assaltò Helsingborg, ma fu respinta (1362). In seguito si venne ad un aggiustamento; ma siccome Valdemaro continuò a violare dentro i suoi domini i privilegi anseatici, la lega alla fine nella dieta di Colonia (1367) deliberò la guerra, in cui ebbe alleate la casa di Mecklenburgo, compreso re Alberto di Svezia che discendeva da questa famiglia, e la nobiltà dell'Holstein.

Sotto il comando del borgomastro di Lubecca, Bruno Warendorp, gli alleati nel 1368 conquistarono Copenaghen e la distrussero; poi gli anseatici devastarono la Scania e le isole danesi; nel 1369 cadde Helsingborg, mentre gli Olandesi contemporaneamente battevano il re di Norvegia, alleato di Valdemaro.
Da ultimo, essendosi anche l'aristocrazia danese ribellata al suo re, questi fu costretto a fuggire dalla Danimarca, ed il consiglio di Stato da lui istituito concluse nel 1370 a Stralsunda un trattato di pace che suggellò la decisiva preponderanza della lega anseatica. Quest'ultima raggiunse il pieno ed esclusivo predominio mercantile in Danimarca ed in Norvegia; essa ammise la restaurazione di Valdemaro sul trono, ma stipulò che non gli sarebbe stato dato a successore se non un re che le città avrebbero approvato dopo aver avuta conferma dei loro privilegi.

Il fatto che la lega anseatica abbia potuto conseguire così grandi successi desta molta ammirazione, in quanto essa difettava di una vera e propria organizzazione statuale. La lega non aveva né un'amministrazione finanziaria comune, né una organizzazione militare stabile; solo all'occorrenza (come abbiamo visto sopra) e mediante accordi presi nelle singole contingenze le città federate davano il loro concorso in navi ed uomini. Anche le diete, che si indicevano per lo più a Lubecca, quando occorreva discutere e deliberare su argomenti di comune interesse, non erano affatto frequentate di solito da tutte le città, benché le loro deliberazioni (« recessi ») obbligassero tutti i membri della lega, e la inosservanza di esse da parte di una città ne provocasse la decadenza da tutti i privilegi della lega.
Ed il vincolo infatti che teneva unite queste città consisteva appunto in questi vantaggi economici, giacché essi non potevano ottenersi e sopra tutto conservarsi senza la solidarietà ed il reciproco appoggio fra i confederati; solo la lega poteva garantire all'estero ai singoli mercanti sicurezza della persona, esenzione da tasse e dazi, esenzione dalla responsabilità per i debiti di connazionali, tutela giudiziaria, ecc.

Alla lega anseatica appartenevano non solo le città marittime da Reval sino ad Amsterdam, ma anche molte città interne come Berlino, Stendal, Magdeburgo, Halberstadt, Gottinga, Goslar, Braunschweig, Hildesheim, Hannover, Luneburg, Munster, Soest, Dortmund e persino Breslavia e Cracovia. A differenza delle città meridionali che erano quasi tutte città libere, delle 80 a 100 città anseatiche era incontestabilmente città libera la sola Lubecca.

Fra gli stabilimenti anseatici all'estero emergono quelli di Nowgorod (il così detto « Peterhof »), di Bergen, di Londra (lo « Stahlhof ») e di Bruges; i mercanti qui residenti stabilmente o temporaneamente vivevano col proprio diritto, avevano funzionari propri, e, salvo a Bruges, possedevano un fondaco proprio.

Un centro importantissimo di attività per gli anseatici era la Scania a causa della pesca delle aringhe; ad estate inoltrata, che era l'epoca adatta per questa pesca, vi convenivano migliaia di uomini al servizio delle città anseatiche per la pesca e preparazione del pesce che in seguito veniva esportato in tutta la Germania, in Francia ed in Inghilterra. In complesso gli anseatici potevano dirsi gli intermediari di tutto il commercio marittimo dalla Russia ai Pirenei.

Col periodo del massimo fiorire della lega anseatica coincide anche quello del consolidamento dell'Ordine Teutonico in Prussia e del suo sviluppo progressivo. L'espansione dell'Ordine si arrestò all'inizio del XIV secolo con la conquista del territorio tra la Netze e la bassa Vistola (Pomerellen); appunto qui, accostato alla fiorente città di Danzica, si levò la « Marienburg », dove nel 1319, dopo la caduta di Acri, il gran maestro dell'Ordine trasferì la sua residenza.
Dopo ciò l'Ordine poté costituire in Prussia una organizzazione statale senza abbandonare le antiche forme della propria organizzazione, ma vivificandole di uno spirito nuovo. Accanto al Gran Maestro funziona un capitolo generale composto di sei Gran Commendatori (ciascuno dotato di proprie competenze) e del Provinciale, che é chiamato a deliberare sugli affari di Stato più importanti ed elegge il Gran Maestro, la cui carica é vitalizia. A ciascuno dei venti distretti in cui è diviso il territorio dell'Ordine é preposto un Commendatore, cui servono da consiglieri ed ausiliari in pace e da ufficiali in guerra i fratelli del rispettivo Convento; le minori circoscrizioni sono amministrate da un Cavaliere.
I vuoti che si facevano nelle compagnie dell'Ordine furono costantemente colmati dall'affluire di nuovi elementi provenienti dalle classi cavalleresche del popolo tedesco. E così pure fino alla metà dei XIV secolo continuò ininterrotta l'emigrazione nel territorio dell'Ordine di borghesi e contatini tedeschi.

Circa quaranta nuove città, fondate per iniziativa privata, sorsero accanto alle venti antiche colonie che l'Ordine aveva trasformate in città; tutte godettero di larghissima autonomia. Nelle campagne inoltre si stanziò una numerosa classe di contadini tedeschi, obbligata a tributo ed a prestazioni personali verso i signori fondiari, ma esente dal servizio militare e garantita nella libertà. I pochi contadini prussiani erano invece soggetti anche al servizio militare. Lo stesso per la nobiltà locale che era in condizione di feudataria dell'Ordine.
Questa nobiltà era formata da discendenti della nobiltà prussiana conservatasi fedele, da elementi polacchi, ma soprattutto da immigrati tedeschi d'ogni paese e stirpe.

L'Ordine Teutonico ci si presenta anche come una potenza mercantile; esso possedeva navi proprie ed esercitava fra altro il monopolio dell'ambra. In materia di organizzazione ecclesiastica si mantenne assai indipendente da Roma; i vescovadi dipendevano in sostanza dall'Ordine; anzi dopo un certo tempo sospese di proprio arbitrio il pagamento dell'obolo di San Pietro.

L'Ordine curò pure gli interessi intellettuali; abbiamo esempi di Gran Maestri che si impegnarono in attività letteraria; altri promossero la compilazione della storia dell'Ordine. Molto fu fatto per la scuola, specie nelle città, e sorse anche un seminario vescovile per l'educazione dei giovani aspiranti alla carriera ecclesiastica.
Il periodo della massima potenza dell'Ordine é secondo l'opinione generale quello del governo del Gran Maestro Winrich von Kniprode (1351- 1382). Questi fu l'ultimo che abbia potuto vantare una grande vittoria in una battaglia campale: quella riportata da lui nel 1370 presso Ruau nel Samland sui principi lituani Olgierd e Kynstut.
Ma in seguito le cose mutarono. Pochi anni dopo vediamo il figlio di Olgierd, Jagiello, unico principe di tutta la Lituania e nel tempo stesso (in conseguenza del suo matrimonio con la figlia di re Luigi di Polonia e di Ungheria) re di Polonia. Questo Stato combinato venne a formare come una sola diga contro l'invasione sinora sempre vittoriosa dell'elemento germanico, il quale d'ora in poi non solo non progredì più verso oriente, ma nel corso ulteriore della storia sino ai tempi moderni ebbe a subire forti perdite.

D'altro canto Jagiello, che era tuttora pagano, si convertì in quest'epoca al cristianesimo, e quindi l'Ordine Teutonico, che dopo la conversione dei Prussiani aveva proseguito la lotta per imporre la fede ai Lituani, perdette la sua principale ragion d'essere. Col venir meno dell'ideale che lo aveva reso capace di operare grandi cose esso degenerò immediatamente; i cavalieri si abbandonarono molto di frequente ad una vita lussuriosa e dissipata e con la loco alterigia offesero la nobiltà locale che divenne così a loro profondamente ostile, tanto che nel 1397 la lega tra i nobili, sorta nel territorio di Kulm col nome di « società delle lucertole » (Eidechsengesellschaft) si pose alla parte dei nemici esterni dell'Ordine, tra i quali, oltre ai Lituani, che anche dopo la conversione al cristianesimo rimasero fieri suoi avversari, sono da annoverare i Polacchi che non gli avevano mai perdonato la perdita della Prussia subita per opera sua.

La tensione divenne pertanto così acuta che non si poteva evitare una soluzione sanguinosa. Ed alla fine questa si ebbe il 15 luglio 1410 con la battaglia di Tannenberg, dove il Gran Mastro Ulrico di Juningen rimase sconfitto completamente di fronte a forze doppie delle sue e trovò la morte con i migliori dei suoi cavalieri. Il disastro fu tale, che, data anche la generale decadenza dell'Ordine, il dominio di quest'ultimo sarebbe già a allora crollato se il commendatore di Schwetz, Enrico di Plauen, non avesse strenuamente difeso e conservato la Marienburg; dietro questo baluardo l'Ordine si potè riorganizzare e col trattato di pace di Thorn, concluso l'anno successivo, riuscì persino a mantenere quasi intatto il suo territorio.

Ma la decadenza dell'Ordine non si arrestò, anzi precipitò sempre più con l'andar del tempo. Enrico di Plauen, eletto Gran Maestro, fu poco dopo, nel 1413, deposto perché volle mostrarsi energico nel restaurare la disciplina dei suoi cavalieri. La sua caduta suggellò per così dire la sorte dell'Ordine. Esso continuò a vivere stentatamente ancora per cinquanta anni, poi si sottomise senza lottare alla Polonia.
In seguito alla seconda pace di Thorn del 1466 la Prussia occidentale passò alla Polonia e venne polonizzata. La Prussia Orientale, benché feudo della Polonia, conservò il suo carattere germanico, sinché all'epoca della Riforma tornò ad essere unita alla madre patria per non distaccarsene più.

Lo Stato tedesco come tale non condivise né i pericoli né i trionfi della lega anseatica e dell'Ordine Teutonico. Esso si avviò sempre più verso la dissoluzione, specialmente perché non vi era alcuno che impersonasse gli interessi generali e li tutelasse con energia. In parte ciò dipese alle difettose qualità personali del giovane successore di Carlo IV; ma bisogna convenire che egli si trovò in una situazione straordinariamente difficile.

Dei dominii familiari dei Lussemburgo Venceslao non possedeva che la Boemia e la Slesia, ed anche qui egli vide sorgersi dinanzi continue difficoltà, specialmente per le trame di un suo cugino, il vile ed intrigante margravio Jobst di Moravia. D'altro canto dovette curare gli interessi di suo fratello minore Sigismondo, il quale, dotato dal padre della Marca di Brandeburgo, aveva acquistato, in seguito al matrimonio con una delle figlie di Luigi d'Ungheria e di Polonia, titolo alla corona d'Ungheria rimasta vacante, ma non riuscì a venirne in possesso se non dopo molti anni di lotte.

Allo scopo Venceslao gli prestò l'aiuto fraterno, ma per questo fatto trascurò di recarsi come aveva progettato a Roma, e così perdette l'occasione di esercitare una influenza decisiva sugli scismi che allora dividevano la Chiesa. A quel tempo, come vedremo meglio in seguito, sedeva un papa a Roma come ad Avignone, e la cristianità si era scissa in due campi di cui uno obbediva a Roma, l'altro ad Avignone.

Venceslao si accontentò di riconoscere, senza chieder nulla in compenso, il papa romano, Urbano VI (suo padre nel 1366 al suo rientro a Roma gli aveva retto la staffa), e di guadagnare alla sua causa la Germania, ciò che ottenne, salvo nei riguardi di Leopoldo d'Austria che invece parteggiò per Avignone.
Del rimanente il re lasciò andare le cose per la loro china, così in ordine alle questioni ecclesiastiche, come in ordine alle lotte interne del regno, dove non fece che alcuni deboli tentativi iniziali di conciliazione. In fondo egli era favorevole piuttosto alla borghesia cittadina che alla nobiltà, di modo che la vittoria della nobiltà fu per così dire una sconfitta anche per la corona a tutto detrimento del prestigio della monarchia.

Venceslao poi rimase completamente assorbito per molti anni dagli affari interni della Boemia. Egli vi ebbe a sostenere gravi lotte tanto con la nobiltà che pretendeva di compartecipare al governo del paese, quanto col clero. Ad un certo momento i nobili suoi avversari lo presero persino prigioniero, ed occorse l'intervento dei principi elettori per liberarlo. Quanto al clero, l'anima dell'opposizione al re era specialmente il superbo e pretenzioso arcivescovo di
Praga, Giovanni di Jenzenstein. Costui alla fine fu costretto a fuggire; ma Venceslao si impadronì dei suoi consiglieri, li fece sottoporre alla tortura, e siccome non riuscì ad onta dei tormenti a strappare al vicario generale Giovanni di Pomuk alcuna delazione a carico del suo vescovo, lo fece affogare nella Molava (1393).

Nel frattempo la Germania sfuggi di mano a Venceslao. Egli entrò nel territorio ancora una volta nel 1397 per calmare la crescente opposizione, tenne una dieta a Francoforte ed emanò d'accordo con i poteri territoriali una tregua; ma poi se ne tornò in Boemia, lasciando come aveva fatto prima in seconda linea il regno tedesco.
Alla fine i quattro principi elettori renani strinsero fra loro nel 1399 una lega, allo scopo di provvedere agli interessi del regno, citarono nel 1400 il re a comparire a Lahnstein per sentire le rimostranze dei suoi sudditi tedeschi, e siccome Venceslao non si presentò, il 20 agosto lo deposero dal trono tedesco.

La deposizione non era prevista da nessuna norma di legge; e infatti i principi elettori giustificarono il loro decreto di deposizione dichiarando che Venceslao era un sovrano incapace ed indegno e per di più un «mutilatore per il regno», volendo alludere alla concessione da lui fatta nel 1395 del titolo ducale a Galeazzo Visconti, signore di Milano, concessione che non era in verità di così grande rilievo, ma che aveva indispettito contro Venceslao i Fiorentini, i nemici mortali dei Visconti. E difatti l'influenza fiorentina contribuì non poco presso i principi tedeschi alla deposizione di Venceslao.

Lo stesso conte palatino RUPERTO III, che i principi elettori alleati elevarono al trono il 21 agosto, quale successore di Venceslao, dovette prima d'ogni altra cosa promettere di riacquistare Milano al regno tedesco. Nell'autunno del 1401 Ruperto infatti calò in Italia, facendo particolare assegnamento sull'appoggio dei Fiorentini, giacché le forze del nuovo re non erano affatto sufficienti a condurre a buon esito l'impresa. Ed infatti questa terminò subito pietosamente; Ruperto era appena arrivato sotto Brescia che il suo scarso esercito, dopo il primo successo riportato dal Visconti, si diede alla fuga. Ruperto passò l'inverno a Padova nella meschina situazione di ospite dei Carrara, signori della città, consumando il tempo in inutili negoziati con Firenze e Venezia per ottenere denaro e truppe; poi non avendo ottenuto un bel niente, nella primavera del 1402 se ne tornò solo soletto in Germania.

Tutto questa meschina avventura condannò Ruperto, il cui potere in Germania già poggiava a priori su deboli basi. A lui non giovò infatti che Venceslao a causa delle lotte interne della Boemia e delle scissioni esistenti in seno alla stessa famiglia dei Lussemburgo non poté intraprendere nulla contro il suo rivale, come non gli giovò né la morte di Galeazzo Visconti (1402), né l'ottenuto riconoscimento da parte del papa (romano) che era (nel frattempo) venuto a rottura con Venceslao (1403).
Ruperto rimase in sostanza sempre un usurpatore, afflitto per di più da una debolezza cronica: la mancanza di mezzi finanziari. Si aggiunga che egli deteriorò i suoi rapporti col principale sostenitore della sua elezione, l'astuto arcivescovo Giovanni di Magonza della famiglia di Nassau. Costui nel 1405 fondò con altri nobili la lega, detta di Marbach, con non celati intenti di fare opposizione al re.

Così fallì il tentativo fatto dai principi renani di spostare verso occidente il centro di gravità del regno. Ché anzi appunto al tempo di Ruperto l'influenza francese progredì notevolmente nell'occidente; il Brabante, il Limburgo ed il Lussemburgo caddero allora nelle mani della Francia.
Anche da parte della chiesa le cose presero una cattiva piega per Ruperto; il concilio convocato a Pisa per metter fine allo scisma riconobbe re di Germania Venceslao; Ruperto, che parteggiava per il papa romano, si trovò isolato in Germania, dove la maggior parte si schierò con la decisione del concilio di Pisa. Perciò la morte che lo sorprese il 18 maggio 1410 fu per lui una liberazione a innumerevoli difficoltà, oltre alla miseria in cui era sprofondato.

Con lui si spense l'ultimo re tedesco che abbia ardito di portare il pesante fardello della corona senza l'appoggio di un forte nucleo di dominii personali.

 

Dopo il territorio germanico dobbiamo ora
parlare degli altri Stati di questo stesso periodo

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