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43. L'ANTICO REGNO PERSIANO

 

L'avvento dei Medi e dei Persiani nella storia del mondo segna un'era nuova: ai primi turanici, ai semiti dominatori, fra il 2000 ed il 1599 a.C. succedono due popolazioni di origine indoeuropea, che daranno vita a una nuova civiltà elaborando il materiale da quelli accumulato, sviluppando le sementi cadute d'ogni parte. Questi due popoli simili, provenienti da nord da una stirpe del tutto diversa di quella a sud, si stanziarono nell'odierno Iran: a est la Mesopotamia, a ovest la valle dell'Indo, a sud l'oceanno Indiano.
All'inizio non fecero molto parlare di sé, erano dei grandi lavoratori della terra (soprattutto canalizzatori delle acque) e allevatori di bestiame. Rimasero così sotto l'allora dominazione assira fino al 700 a.C.

Poi prima a nord si imposero i Medi (periodo 700-550 a.C.) e poi nel sud sulle rive del Persico misero sede i Persiani (550-330 a.C.). Questi ultimi, rudi e assuefatti alle fatiche, divennero soldati eccellenti appena ebbero un capo.

Le forze del mondo semitico (come abbiamo visto nel precedente capitolo) si erano esaurite nelle secolari spedizioni militari degli Assiri. Gli Irani si facevano avanti con forze giovani ed ambiziose; una delle loro stirpi, appunto la persiana, raccolse la grande eredità del passato. Essi riuscirono a fondere in unità veramente politica il mondo multiforme dell'Asia occidentale. Le loro alte doti politiche sono attestate dal modo, non mai prima di allora, con cui governarono ed amministrarono lo Stato.

Questa unità diede origine con i loro re alla dinastia degli ACHEMENIDI - Sull'origine del nome la tradizione persiana narra che vi era un "re" (o grande signore) Akhamanis o Achemene, che aveva unito sotto di sè diversi clan creando il primo "regno". Cambise di cui parleremo sotto, sarebbe - quantunque dai monumenti ne appaione tre - il settimo discendente, Ciro il settimo)

La saggezza politica dimostrata dagli Acheminidi nello stabilire l'organismo politico dell'immenso impero, lasciando ad ogni paese, costumi, religione, lingua, magistrati e, in certi limiti, l'autonomia, fu in seguito solo eguagliata dai Romani.
Ma come poi in seguito i Romani, anche questo originale regno persiano dopo appena due secoli dall'avere realizzato progressivamente l'unità dell'Oriente, segna il termine della storia dell'Oriente antico.


Nell'anno 558 a.C., a Cambise I (Kambug'iya), signore della Persia e della Susiana, successe il figlio CIRO (Kurush), il creatore della grandezza della Persia. Il regno persiano doveva essere già fin da allora assai potente. Ma Ciro, desideroso di allargarlo iniziò il suo governo con l'assalire i Medi, della stessa stirpe, Ari pure loro. Probabilmente questi a nord dopo essersi resi autonomi dalla dominazione assira, cresciuti come potere territoriale, volevano imporsi anche anche a sud presso i loro cugini persiani, che non avevano ancora un re unificatore, ma solo tanti clan autonomi, locali sparsi nel vasto territorio.


Ciro, il re ambizioso della Media Astyages prima ancora che agisse, lo prevenne e lo fece prigioniero dopo la espugnazione di Ecbatana (550 a.C.), trattandolo però con grande mitezza. Non sappiamo come si svolgessero le ulteriori singole conquiste; ma nel 547 a.C. Ciro aveva già esteso il suo dominio fino all'Halys. Qui si urtò col regno lidio di Creso, cognato di Astyages il re della Media sottomesso.
Creso pensò - ambizioso pure lui di ingrandirsi - che la lotta con Ciro gli offriva la possibilità di vincerlo e così di estendere il proprio regno verso oriente.
Ma anche un'altra potenza si vedeva minacciata dal sorgere di questo potenziale nuovo regno persiano di Ciro: Babilonia.

A tutta prima l' intervento di Ciro a Creso non le era dispiaciuto; ma non tardò molto ad accorgersi che un sovrano così energico non si sarebbe accontentato del primo successo. A forza bisognava contapporre forza.
Fu stretta pertanto un'alleanza fra Babilonia e la Lidia (547), cui aderì anche l'Egitto. Qui anche Amasis pensò forse che - una volta sconfitto Ciro - una parte dell'eredità asiatica sarebbe toccata anche all'Egitto; e ad ogni modo, un indebolimento degli Stati d'Asia non poteva essere che vantaggioso per l'Egitto stesso. Che Medi, Persiani e Babilonesi si scannassero fra di loro era più che utile.

Questa triplice alleanza orientale avrebbe potuto soffocare le ambizioni di Ciro, se avesse potuto raccogliere le proprie forze in un'azione rapida e comune. Ma Ciro - come aveva fatto con Astyages a Ecbatana - prevenne gli avversari e ne ebbe ragione separatamente.

Creso, a cui persino Sparta aveva mandato truppe ausiliarie, passato l'Halys (546) penetrò nella Cappadocia ed espugnò la fortezza principale di Pteria. Ciro si volse per primo contro di lui e ne sconfisse l'esercito presso Pteria. Creso ritornò a Sardi, inseguito, contro ogni sua aspettativa da Ciro. Sardi fu presa d'assalto e incendiata nell'autunno del 546; pare che Creso cercasse la morte nelle fiamme, ma invece cadde vivo, in potere del vincitore, che lo trattò umanamente e gli assegnò una residenza presso Ecbatana.
Dopo l'espugnazione di Sardi, tutta l'Asia minore fu rapidamente assoggettata. La Lidia fu divisa in due satrapie, di Sardi e di Daskvlion.

Non molto dopo la conquista dell'Asia minore dovette cominciare la spedizione contro Babilonia; già nel 538 Sippar era espugnata. Il generale persiano Gobryas (Gaubaruva) prese Babilonia senza colpo ferire; Naboned, fuggito a Borsippa, si arrese senza fare altra resistenza. Ciro lo confinò nella Carmania, dove viveva ancora quando Dario salì al trono.
Nell'autunno del 538 Ciro stesso entrò in Babilonia, come legittimo successore dell'antica dinastia. Le province dell'impero babilonese, sino al confine egiziano, caddero senza ulteriore lotta, in potere dei Persiani. Ciro ristabilì in Babilonia gli antichi culti religiosi, rimandando nelle loro sedi le statue degli dèi trasportate a Babele; non solo, ma concesse alla comunità ebrea esiliata in Babilonia di ritornare nella Palestina. Concesse perfino la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, restituendo agli ebrei i sacri vasi che erano stati portati a Babilonia quando quel tempio era stato distrutto.

Il regno persiano veniva così a comprendere tutta l'Asia occidentale. Si trattava ora di difenderne l'esistenza contro i barbari del confine orientale e settentrionale. Ciro cominciò col mettere al sicuro il primo, assoggettando, come pare, anche le selvagge tribù montanare della frontiere indiana.
Al nord, presso l'Jaxartes, combatté infine contro i Dahi, tribù brigantesche iraniche. È probabile che iniziasse la costruzione della fortezza di Kyreshata.

Ciro morì in queste lotte (529) e fu sepolto in Pasargadae (l'antica Parsagatu «città dei Persi» vicino a Persepoli, la antichissima capitale dei Parshua), dove si era fatto costruire la tomba.


La sua reggenza era durata circa 30 anni. Senofonte lo fa morire sereno nella reggia. Erodoto in una lotta feroce contro Tomiri, regina dei Massageti; Ctesia in una guerra nella Battriana. Difficile discernere il vero, come per i primi fatti della sua vita, così pure l'ultima sua impresa e per la sua morte, la leggenda ha alterato la verità.

La figura del celebre conquistatore dell'Asia é una delle più grandi e simpatiche nella storia d'Oriente. Pochi lo eguagliano in grandezza politica e umana. Anche ai popoli soggetti il suo nome fu venerato. Egli trattò gli avversari, da lui sconfitti, con una bontà che mostra la nobiltà del suo carattere. Come guerriero ed uomo di Stato fu l'energia personificata; la sua volontà, consapevole e mirante allo scopo, non conobbe incertezze.
Nei rapporti con i Persiani, che da lui ebbero la cultura e l'esistenza storica, Ciro rimase il re popolare aiutato dai dignitari. Certo Ciro fu devoto di Ahuramazda; ma trattò con saggia indulgenza le religioni dei popoli sottomessi. A Babilonia s'inchinò al dio Marduk; e al profeta biblico dell'esilio ebraico egli apparve come il messo inviato da Géova.

Ciro passò gran parte della vita tra le battaglie. Dell'ordinamento interno del regno egli pose solo le fondamenta; il compierlo spettava al degno suo nipote DARIO.
Ciro morì senza aver colpito il terzo elemento della coalizione diretta contro di lui, l'Egitto. Il compito di sottomettere l'Egitto fu assunto da Cambise, suo figlio e successore. Dopo aver accuratamente preparata la spedizione, appoggiata per mare dalla flotta fenicia, Cambise mosse contro gli Egiziani (525), li sconfisse presso Pelusio e nell'estate del 525, dopo lungo assedio, espugnò Menti. Psammetico III fu fatto prigioniero e trasportato, come pare, a Susa. L'Egitto era così ridotto a provincia persiana; i Libi e i Greci della Cirenaica si sottomisero spontaneamente.
Cambise non si scostò molto dalla politica di Ciro; prese il titolo dei Faraoni, considerandosi loro successore; e al pari di essi rese omaggio alla dea Neit, a Sais. La tradizione vuole che Cambise, il quale come seguace di Ahuramazda disprezzava le altre religioni, si lasciasse trascinare, in un momento di capriccio, ad offendere gli Egiziani, popolo di antica civiltà e nervosamente sensibile, deridendone le credenze e forse persino uccidendo un toro, animale sacro; ma le contraddizioni del racconto ci rendono dubbiosi sulla sua autenticità.

Dall'Egitto Cambise pensò di sottomettere Cartagine, ma tale piano fallì per l'ostilità dei Fenici. Una spedizione nell'oasi di Ammone rimase, a quanto pare, anche questa infruttuosa. Gli riuscì invece di assoggettare gli Etiopi. Dario ricorda i Cusciti tra i suoi sudditi; gli pagavano un tributo e gli fornivano truppe. Prima della spedizione in Egitto, Cambise aveva fatto segretamente uccidere il suo fratello minore, Bardija (Smerdi). Un mago, Gaumata, si fece avanti come pretendente, sotto il nome dell'ucciso; il popolo gli credette e si mise dalla sua parte.
Cambise, informatone, lasciò in fretta l'Egitto per riguadagnare il trono ormai perduto. Nel viaggio di ritorno morì in conseguenza di una ferita che si era procurato lui stesso (estate del 522).

Cambise era morto senza lasciar figli; il trono spettava all'erede più prossimo, Istaspe (Hystaspes gr., Vishtâspa pers.). Nemmeno egli osò, come non aveva osato alcun altro Persiano o Medo, di attaccare il mago, la cui potenza pareva saldamente fondata. Ma suo figlio DARIO (Darayavaush), accordatosi con sei nobili persiani, penetrò nella fortezza di Sikayavati nella Media, sede del mago, e lo uccise insieme ai suoi seguaci.
La lunga assenza di Cambise, la signoria dell'usurpatore e la sua caduta avevano però scosso la compagine dell'impero. Specialmente le tribù iraniche e gli Armeni insorsero, con a capo principi indigeni, per rivendicare la loro antica indipendenza. Solo la Battriana e l'Arachosia rimasero fedeli agli Achemenidi. Nell'Asia minore, i popoli assoggettati si mantennero tranquilli. Dario disponeva soltanto di un piccolo esercito di Persiani e di Medi; ma la sua energia e la prudenza nello spartire e dirigere le forze combattenti, salvarono lo Stato.

Babele non offrì resistenza; cosicché nel febbraio del 520 la rivolta vi era già domata. Contro la Media e l'Armenia furono mandati tre eserciti, che nel 520 avevano già riportato diverse vittorie; la decisiva si ebbe nello stesso anno, allorché Dario stesso, sottomessa la Babilonia, marciò con truppe rinforzate sulla Media e sconfisse Phraortas (Fravartish), giustiziato poi a Ecbatana (estate del 520).
Nello stesso tempo Artavardija, mandato in Persia, sconfiggeva per due volte e poi faceva prigioniero il secondo falso Smerdi.

Le lotte per ricostruire l'impero persiano sono narrate in una grande iscrizione trilingue che Dario fece incidere sulla parete - dopo averla levigata - del monte Bagistan (Behistun, Bisutun), sul valico della strada da Babilonia a Ecbatana, attraverso la catena del Zagros.


Questa iscrizione ci fa meglio conoscere anche l'individualità di Dario. Egli si sente il sovrano eletto e protetto da Ahuramazda. Ma non vuole mettersi avanti da solo; ricorda anche i compagni, fedeli sostenitori dell'opera sua e dinanzi al suo pensiero chiaro ed essenzialmente pratico lo Stato sorge come il più alto ordinamento umano, al cui servizio il re consacra anche la propria persona.
E il suo regno segna, innanzitutto, un punto culminante nella storia universale.

L'evoluzione dei concetto di stato, compiuta in Oriente col regno persiano, passa con Dario in Occidente, influenzando i destini del mondo mediterraneo.

Il movimento da cui sorse il regno persiano, partì dalla remota provincia della Perside, dove però si formarono solo gli uomini che lo diressero: perché centro del regno non lo fu mai. Nel suo insieme lo Stato degli Achemenidi rappresenta una grande forza di civiltà. La sua politica si distingue per uno spirito alto ed umano, nuovo in Oriente. Una volta costituito, fu nell' insieme un regno pacifico; sotto la sua potente protezione e sotto un giusto governo, fiorì dovunque il benessere.
Sostiene questo stato la coscienza di essere una forza universale sotto un solo signore, «il re dei re». In realtà i popoli civili dell'Oriente si trovarono in esso congiunti. Chiuso il periodo delle conquiste, si trattava in primo luogo di dare stabile ordinamento alle rendite e alle spese dello Stato, di creare una ben regolata contabilità; e l'esservi riuscito, coerentemente all'organizzazione politica del suo regno, è uno dei grandi meriti di Dario.

Fin sotto Ciro, le esigenze economiche dello Stato si sbrigavano in modo primitivo. I sudditi offrivano al re «donativi» volontari; le conquiste riversavano nella reggia enormi tesori, di cui il re faceva generoso dono al popolo.
Inoltre i popoli assoggettati pagavano regolari tributi.

Dario introdusse in tutto il regno una riforma monetaria e tributaria; seguendo l'esempio della Lidia, stabilì una moneta-valuta di Stato, riservando a quest'ultimo il diritto di coniazione. Gli antichi sistemi di pesi e monete delle singole province rimasero però, com'è naturale, per lungo tempo in uso per gli scambi ristretti. La valuta aurea fu introdotta dopo la riforma monetaria di Dario.

Essendo lo sviluppo economico molto diverso nelle diverse regioni dell'impero persiano, accanto al commercio fatto col denaro, continuò, particolarmente nell'est, il commercio mediante scambio di prodotti naturali. In natura si pagava anche gran parte delle imposte e in primo luogo i rifornimenti per l'esercito. I tributi in natura per la corte, i funzionari e la guardia del corpo erano spartiti fra le province e i comuni, secondo i loro prodotti naturali e industriali. I redditi dello Stato consistevano nei proventi dei possessi della corona, delle miniere producenti, oltre ad oro e argento, anche rame, arsenico e sale.
Gli incassi si concentravano ed amministravano nei tesori di Susa e di Persepoli, in quanto non erano reclamati dai bisogni dell'amministrazione delle province.

Anche sotto il nuovo signore la Media continuò ad essere la parte favorita dell'impero; la sua cultura si trasmise in quella persiana, sì che i Greci chiamarono tutti i Persiani col nome di Medi. Lo stesso Ciro adottò le fogge e le consuetudini della corte del re dei Medi; Ecbatana, la loro antica capitale, divenne una delle residence dei re persiani.
Al regno dei Medi subentrò un solo Stato iranico, le cui forze principali erano costituite dai Medi e dai Persiani. Anche le altre tribù iraniche, rispettando la loro vita e i costumi particolari, furono incorporate nell'impero. Ma la coscienza della unione comune ariana era pur sempre preponderante e trovava la sua espressione religiosa nella fede in Ahuramazda.

La vera capitale dello Stato degli Achemenidi era Susa, l'antico centro della cultura elamita. Nell'estate la corte si trasferiva a Ecbatana; nell'inverno, il re si recava spesso a Babilonia. Questa triplicità ha risalto anche nelle epigrafi reali, recanti, accanto al testo in antico persiano, traduzioni nelle lingue di Babilonia e di Susa.
Non poche prerogative rimasero ai Persiani, come a quelli che stavano in più stretti rapporti col re. I sovrani si facevano consacrare nella loro terra e in questa si erigevano i loro sepolcri. Solo Dario cominciò a costruire una nuova capitale nella Persia, cui Serse aggiunse grandi edifici, senza però che fosse mai compiuta. Il suo nome greco, Persepolis, è forse un'adattamento del nome dell'antico centro religioso elamita, Partipora «della dea Parti».

Prima di ogni decisione importante, il re deve accordarsi coi dignitari del suo popolo. Si formò così un cerchio ristrettissimo di consiglieri reali, costituito in primo luogo dai capi delle sei famiglie di antica nobiltà che presero le parti di Dario, quando questi, abbattuto il Mago, ristabilì il dominio degli Achemenidi. Un ufficio speciale era tenuto dai «portatori della Legge», autorità esperte del diritto popolare tradizionale; avevano facoltà di pronunciare sentenze e di assistere il re in controversie giudiziarie messegli davanti.

Il popolo persiano era, nella sua grande maggioranza, un popolo di contadini; in guerra però ogni uomo si riteneva abile alle armi e in caso di leva il contadino serviva nella fanteria, i grandi proprietari di terreni, nella cavalleria. In tempo di pace, l'ordine nelle province e nelle capitali era mantenuto da un esercito permanente, formato di Persiani e di Medi. Il nocciolo dell'esercito, i cosiddetti «diecimila immortali», costituivano invece la guardia del re.

Oltre a emanare sentenze quale giudice supremo, il re é a capo della amministrazione dello Stato. I governatori delle province riferiscono per iscritto al re su tutti i casi importanti; il re decreta, apponendo il sigillo; e il decreto ha così forza di legge. Tutta l'amministrazione si teneva per iscritto; ad ogni governatore era addetto un segretario. Gli atti del governo eran riuniti in «giornali», conservati negli archivi di Stato; la cancelleria aveva raggiunto un pieno sviluppo, così a corte come nelle province.

La lingua ufficiale degli atti politici era, per l'occidente dell'impero, l'aramaico, entrato già da tempo nell'uso comune. Nei riguardi amministrativi l'impero era diviso in grandi province, a capo di ciascuna stava un satrapo (in persiano, kshatrauavan «protettore dell'impero»). Questi governatorati - 20 da Dario in poi - comprendevano spesso diversi popoli, mentre Stati più antichi, incorporati nell'impero (come la Media, la Lidia, la Babilonia), erano divisi ciascuno in due satrapie.
Le satrapie si dividevano a loro volta in distretti, retti da speciali funzionari. Al satrapo spettava tutta l'amministrazione della provincia, nonché la giurisdizione; aveva anche il comando supremo delle truppe della sua provincia. Poteva anche trattare, indipendentemente, con potenze straniere. Dentro l'impero rimasero, ancora sotto l'alta sovranità persiana, vari antichi principati e comunità cittadine, cui fu lasciata la loro costituzione e amministrazione interna; erano solo soggetti a tributo ed a contribuzione di milizie.

Il nucleo dell'esercito era formato da Persiani e Medi; la guarnigione stabile, nelle città principali, da truppe iraniche. Accanto ad esse si costituivano corpi di milizie dai popoli assoggettati. L'impero era diviso in grandi distretti militari, con determinati punti di concentramento per le truppe. La più antica arma nazionale era l'arco, portato insieme al pugnale. Solo presso i Medi compare la lancia, probabilmente venuta loro dagli Assiri; gli Irani furono bravissimi soldati; ma nell'esercito, nel suo insieme, si sentivano difetti di strategia.

L'antico raggruppamento dei Medi in cavalieri, lancieri e arcieri, cui più tardi si aggiunsero i carri falcati, non fu mai riorganizzato in un corpo che agisse con efficace cooperazione. Anche la disposizione dell'esercito in grandi quadrati, secondo i vari popoli, portava con se una scarsa mobilità delle masse, impedendo loro di intervenire rapidamente nella lotta. La flotta di guerra fu costituita dall'antica marina dei popoli costieri, particolarmente dei Fenici.

Solo dopo aver conquistato il dominio mondiale ed averne espresso nel loro impero la potenza, i Persiani crearono un'arte.
L'arte del giovane impero non poteva che attenersi ai modelli di quella dell'Asia occidentale, e in particolare di Babilonia. I grandi palazzi di Pasargadai, Susa e Persepoli mostrano nelle loro decorazioni le forme dell'arte babilonese, quali i tori giganteschi a testa umana, i bassorilievi rappresentanti ambascerie che recano tributi, le figurazioni del re seduto sul trono sotto un ombrello. Ritornano qui le scene di caccia e gli esseri favolosi dell'arte babilonese, come il grifone e l'unicorno. Ma per quanto l'antica arte persiana dipenda, per il contenuto, dalla babilonese, é però pervenuta ad uno stile proprio, già per il fatto del materiale adoperato: la dura pietra calcare lavorata a quadroni.

A Susa, dove si costruiva in mattoni, spicca, com'é naturale, l'imitazione dell'architettura babilonese, come ad es. nei fregi a smalto policromo. La disposizione interna del palazzo persiano però si allontana del tutto da quella babilonese. Il palazzo non é altro che una grandiosa sala di ricevimento, dove il re ospita anche i propri familiari. Il palazzo di Dario a Persepoli consiste in un'unica sala, sostenuta da colonne. Quello di Serse non aveva nemmeno pareti terminali esterne: era una grande sala chiusa da grosse tende.
Il palazzo dei re persiani serve a mettere in immediato rapporto il sovrano col popolo, mentre il palazzo egiziano e babilonese lo sottrae alla folla, tenendola a grande distanza.
L'edificio persiano è indice di una concezione totalmente diversa.

Come l'impero persiano riunì le forze dell'occidente asiatico in un organismo politico, così l'arte di quell'impero - ché arte di popolo non era - pur accogliendo nella tecnica e nella forma tutte le creazioni delle civiltà anteriori, non ne congiunse gli elementi in maniera puramente esteriore, ma li fuse in uno stile nuovo e che dà l'impressione dell'unità.
Sotto Dario, insieme all'organizzazione dello Stato, essa raggiunse la massima altezza. L'arte serve all'idea dello Stato, della potenza regale. Poi con la rovina di questo, anche l'arte si spegne e cessa ogni sua efficacia.

La religione persiana prese le mosse dalla riforma di Zarathustra; Ahuramazda ne rimane la figura centrale e i precetti etici furono rappresentati come comandamenti del dio. Ma nella religione popolare penetrano anche figure delle credenze più antiche, quali Mithra e Anahita, quest'ultima forse giunta dall'Elam; e sono anche accertati influssi babilonesi nella formazione del pantheon persiano e nelle concezioni escatologiche.
La concezione spirituale degli déi è attestata dal fatto che non esistono templi ad essi consacrati, né immagini di divinità. Si innalzavano soltanto altari, sui monti, e qui si offrivano alle forze celesti dei sacrifici (funzioni sacre), durante i quali il sacerdote recitava le formule della liturgia.
Nell'età degli Achemenidi l'influsso delle credenze popolari e della teologia babilonese modificò senza dubbio, ed in più aspetti, la religione persiana. Si venne affermando una tendenza alla sistematizzazione, estranea a qualsiasi religione popolare e documento dell'efficacia di un sacerdozio pervenuto, dall'esercizio pratico della religione nel culto, alla sua elaborazione teologico speculativa.

E creazione speculativa é innanzi tutto il dualismo persiano, per il quale il contrasto del dio buono e del dio malvagio è il principio del processo mondiale. Il dio del finale, Angra-mainyu, oppone all'opera di Ahuramazda il regno delle tenebre e del peccato.
Coll'apparire di Zarathustra comincia l'epoca nuova, piena della lotta delle due forze. Passati 3000 anni un Messia, nato dal seme di Zarathustra, debellerà lo spirito maligno e stabilirà sulla terra il regno dei beati. L'aver collocato Zarathustra, personaggio storico, in questa evoluzione del mondo, dimostra che questo dualismo non rappresenta la dottrina del profeta dell'Iran, ma una speculazione teologica assai più tarda, che innalza il fondatore della religione in una sfera sovrumana, attribuendogli la forza decisiva nella lotta delle potenze divine.

Non conciliabile con l'esito finale della lotta é l'altra concezione della resurrezione dei morti e del giudizio universale, da attribuire forse all'influsso babilonese, non essendo tale dottrina nemmeno in armonia con le idee di Zarathustra intorno al destino dell'anima dopo la morte.

Anche nel culto si può osservare una diffusa minuta continuazione del rituale del sacrificio e di varie prescrizioni cerimoniali, come dei precetti per la purità. Tutto ciò costituiva il compito dei Magi. Che essi praticassero arti d'incantamenti o di scongiuri, non appare affatto dalle fonti persiane e valide testimonianze greche negano espressamente. Il loro ufficio consisteva invece nel compiere le funzioni sacre (detto anche "sacrificio") e nel cantarne le formule liturgiche. Nella religione popolare accanto ad Ahuramazda spiccavano soprattutto gli antichi déi della fede comune, cui Zarathustra aveva sostituito figure ideali ed astratte.
Mithra era adorato come dio dei sole e il giorno a lui consacrato, la vera festa nazionale, si celebrava con danze e banchetti. Accanto a lui appare l'antica dea della vegetazione, Anahita, propria dei popoli pre-iranici dell'Asia minore e dell'Iran, eguagliata alla Ishtar babilonese e tenuta per dea della fertilità e della generazione.

Dopo che Dario ebbe saldamente stabilita la potenza della Persia, la sua influenza politica si estese al di là dei confini dell'impero, fino alle città greche d'Italia ed a Cartagine. Non di rado le stesse comunità greche ricorsero per aiuto alla corte di Susa. La Persia era l'unica potenza che avesse un peso decisivo nelle faccende greche. I Greci dell'Asia minore erano sudditi dell'impero. Il re di Samo, fratello di Policrate, era vassallo della Persia e sotto la sovranità persiana stava pure Istieo di Mileto, uno dei reggenti più notevoli.

La spedizione di Dario contro gli Sciti portò dei mutamenti; la costa meridionale della Tracia venne occupata e conquistata, dopo lunghe lotte, così la fertile pianura dello Strimone, ricca di miniere d'oro e d'argento. Anche il re di Macedonia, Amyntas, riconobbe la sovranità persiana; si sottomisero pure le città greche sul Mar Nero.
L'impero raggiunse dimensioni enormi: esso si estendeva per oltre 3.000.000 di Kmq, dalle coste occidentali dell'Asia Minore al Caucaso, al confine con l'India, all valle del Nilo.

Il futuro doveva dire se tale estensione della potenza persiana avrebbe incorporato nell'impero, grazie al suo peso di gravità, anche i Greci del continente.
La storia interna dell'impero persiano ci spiega come sorgesse la grande lotta. Esso non era di per sé avido di conquiste; ma la zona estrema fu sempre un territorio in cui i contrasti potevano scoppiare. La cosiddetta «sollevazione ionica» portò con sé le complicazioni svoltesi dopo, con le battaglie di Maratona e Salamina, in uno dei più grandi e decisivi avvenimenti della storia universale.

La Grecia ne fu teatro; e noi lo abbiamo narrato nei capitoli della Grecia.

Fin dalla morte di Artaserse I si erano insinuati nella famiglia reale intrighi personali e politici, che dovevano produrre la rovina dell'impero. Tra il popolo persiano non mancavano valide forze; ma la decadenza della monarchia portò con sé la debolezza del governo, sì che esse non poterono affermarsi.

L'unico figlio legittimo di Artaserse, SERSE II, fu ucciso a un mese e mezzo dal suo fratellastro SOGDIANO. Questi si fece tanto odiare per la sua crudeltà che un altro fratellastro, OCHOS (in persiano Vahuka), satrapo dell'Ircania, lo scacciò dal trono e lo fece giustiziare.

Questo Ochos prese il nome di DARIO II (424-404): i Greci gli diedero il soprannome di Nothos, «bastardo». Sua moglie Parisatide (Parushyatish) era a capo di tutte le macchinazioni e delitti. Nel frattempo la guerra del Peloponneso avevo prodotto in Grecia una corruzione dei costumi; i capi dei mercenari greci al servizio di satrapi e dignitari persiani, erano, non meno delle loro milizie, figure molto sospette. Su tale terreno il denaro divenne la principale forza politica. Essendo insorto Pissuthnes, satrapo della Lidia e cugino del re, Tissaferne corruppe il capo delle sue truppe, l'ateniese Licone; Pissuthnes si arrese e fu ucciso (414).
Tissaferne, la cui ambizione non conosceva scrupoli, ne prese il posto a Sardi. Di contro alla Grecia, la politica persiana era nelle mani di Tissaferne e di Farnabazo, satrapo della Frigia. La debolezza interna dell'impero fu rivelata dalla celebre insurrezione di Ciro minore. Sua madre Parisatide, che lo aveva assistito ne' suoi progetti, lo salvò anche da morte sicura allorché suo fratello maggiore Arsace, uomo di scarse doti, salì al trono, da lui segretamente agognato, col nome di ARTASERSE II (404-358).

Con relativa rapidità Ciro minore mise insieme un esercito di mercenari Greci e riuscì a condurlo a Babilonia prima che l'imperatore si preparasse alla difesa. E' noto come i mercenari greci riportassero una doppia e facile vittoria sulle masse avversarie, molto superiori di numero, presso Cunassa (3 settembre 404).
Ciro stesso con i suoi cavalieri sconfisse la cavalleria del re e lo ferì. Nel bel mezzo della vittoria egli fu colpito dalla lancia di uno dei corazzieri condotti da Tissaferne. Questa ribellione, infruttuosa di per sé, servì però a rivelare la debolezza interna della Persia.

Intanto l'assassinio politico portava la rovina nella reggia. Parisatide tolse di mezzo col veleno la regina Statera. Dei quattro figli del re, il maggiore, Dario, fu ucciso mentre sì preparava ad assassinare il proprio padre. Il secondo, Ariaspe, si uccise, avendogli il terzo fratello, Ochos, dato ad intendere che il re voleva farlo morire. Anche il figlio minore, Arsame fu assassinato. Artaserse ne morì di dolore, a 86 anni.

Ochos, suo successore col nome di ARTASERSE III (358-337), iniziò il regno simili ai precedenti, facendo cioè uccidere tutti i principi della casa reale. Duro e spietato, riuscì ancora a soffocare le aspirazioni, dovunque sorgenti, dei popoli e dei satrapi all'indipendenza; coll'aiuto dei Greci riconquistò l'Egitto (345) e domò la sollevazione dei Fenici mediante l'espugnazione di Sidone, a reggere la quale pose Eshmunazar, come vassallo della Persia (348).

Una rivolta della Giudea fu presto sedata da Bagoas. A calmare l'irrequietezza, molto sensibile, dei vassalli dell'Asia minore fu destinato il vincitore dell'Egitto, il condottiero rodio Mentore. Finalmente, la flotta dei Cari riassoggettò Cipro, che aveva defezionato (351).
I disordini dell'Asia minore attrassero l'attenzione dello statista più illustre di quel tempo, il re Filippo di Macedonia. L'unione di tutti gli Elleni sotto la sua monarchia militare gli mise davanti la meta dell'antica politica nazionale greca: la liberazione dei Greci dell'Asia minore.

Egli intervenne pertanto nelle agitazioni dell'Asia minore e mandò in territorio persiano truppe guidate da Parmenione, però scarse di numero. La lotta che portò alla rovina dell'impero persiano, fu iniziata da Filippo. Alessandro non fece, dall'inizio, che continuare l'opera del padre con forze maggiori. Dopo i grandiosi successi, Filippo si propose più alte mire e più ampi disegni.

Coll'assedio di Perinto, Filippo aveva fatto la prima puntata in Asia, occupando gli stretti che la dividono dall'Europa, nei quali però nessun grande Stato riuscì a mantenersi. Ad onta di tutte le agitazioni, l'impero persiano aveva riacquistato una certa saldezza sotto Artaserse III; uomo crudele, ma con animo di dominatore e di accorto statista, era insomma un degno avversario del prudente Macedone.
La politica dell'impero era nelle mani dell'eunuco Bagoas, che vistosi minacciato da un potente partito di Corte, avvelenò il re (337). Gli successe Arses, che regnò pochi mesi e morì assassinato (336). Le conquiste compiute nel frattempo in Asia da Parmenione, furono riprese da Memnone, fratello del rodiese Mentore; Arses tentò di liberarsi dall'influenza di Bagoas, ma questi lo fece uccidere, insieme con i figli.
L'assassino mise sul trono un bisnipote di Artaserse II, DARIO III Codomanno, l'ultimo degli Achemenidi (335-330). Questi riuscì per prima cosa a sbarazzarsi di Bagoas, costringendolo a bere il veleno da lui stesso preparato per toglier di mezzo, ancora una volta, il re.

DARIO III non era un carattere debole né timoroso; presso l'Isso e presso Gangamela combatté di persona e coraggiosamente; ma l'audace genialità di Alessandro aveva creato un nuovo sistema di battaglia. I Persiani si batterono da valorosi e il loro ultimo re soccombattè con onore.
Spetta alla storia greca di narrare la grande lotta nella quale rovinò l'impero dagli Achamenidi e nella quale dominò la potente individualità di Alessandro, il cui obiettivo non era soltanto l'acquisizione di territori ma la conquista dell'intero impero persiano, e non solo, ma rispondeva all'ambizioso progetto di costruire un grande impero universale.
Le vicende sono ampiamente narrate nei capitoli-periodi dedicati a Lui.

 

Noi vediamo questi Acheninidi in una luce simpatica; era un popolo forte e valoroso, di carattere nobile e virile, fedele, onesto, veritiero.
É il primo popolo della storia cui si deva riconoscere la gloria di schietta umanità. In guerra non furono mai inutilmente crudeli, né mai sentirono la sete di sangue propria degli Assiri; trattarono i vinti con costante generosità. Finché rimasero nell'anima un popolo di contadini, ne conservarono anche la solida qualità: laboriosi nei campi, coraggiosi in battaglia, sintetici nelle parole, temperati nei piaceri.
L'avere numerosa prole era titolo di onore, riconosciuto persino dal re mediante speciale ricompensa. Quando poi si trovò in mezzo ad una civiltà che offriva tutti i mezzi del lusso e raffinati piaceri inoltre dominata da forze intellettuali, nemmeno questo popolo rimase nella retta via indicata dalla dottrina di Ahuramazda. La causa del crollo di tutti gli imperi nella storia del mondo sono sempre questi: il benessere porta alla rilassatezza, e questa all'incapacità di agire con le forze intellettuali e anche e soprattutto con la forza delle stesse armi. Un popolo opulento non combatte bene, e se lo fa lo fa male perchè non più temprato ai sacrifici che la guerra difensiva o offensiva richiede. L'individualismo esasperato non è certo l'elemento che unisce il popolo di una nazione, semmai lo divide; ognuno guarda con egoismo al suo piccolo personale "orticello" che per lui quello è lo "Stato".

Dario il Grande riconobbe i pericoli della civiltà, mettendo in guardia il suo popolo, nella sua iscrizione sepolcrale, contro i peccati dall'ingiustizia e della menzogna.

D'altronde uno Stato non é già l'espressione di un ideale etico, ma essenzialmente della «potenza». Neanche l'intima saldezza del carattere persiano poté sottrarsi alle influenze della cultura e della potenza. Non perì il popolo, ma lo Stato.

La "Potenza" era da quel momento quella espressa da Alessandro,
ma fu un impero il suo di brevissima durata.

Dobbiamo ora accennare alle due dinastie che si succederanno dopo gli Achemidi, fino alla conquista araba

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