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40. LA CULTURA DEL MEDIOEVO INDIANO

Dall'unione del brahmanesimo con le svariate forme della religione popolare nasce e fiorisce la cultura sociale del medioevo dell'India. Il brahmanesimo non dà un'intima spinta alla vita del popolo; i brahmani diventano ogni giorno più la casta avida di beni e di dominio, che vive di per sè in speculazioni infeconde. Accanto ad esso, sopravvivevano nel popolo la magia primitiva e un culto di carattere spesso rozzissimo.
Solo perché in possesso della scienza vedica e delle pratiche sacrificali, scrupolosamente conservate, il bramanesimo continuò sempre a godere di un certo rispetto, riconosciutogli nonostante l'inferiorità morale della maggioranza dei suoi membri. È vero però che, come già osservammo, le più influenti personalità e intellettuali si reclutarono sempre tra le sue file.

La società e la civiltà del medioevo indiano, quale la vediamo - sia pure fortemente stilizzata ma pur spesso vivacemente ritratta - nella letteratura sanscrita e soprattutto nel dramma, ci offre un quadro multiforme e multicolore, in cui spiccano i contrasti del carattere indiano. Il pensiero perviene ad una concezione pessimistica del mondo; certo gl'Indiani ebbero una sottile comprensione dei dolori della vita e delle debolezze della natura umana. Il distacco dalla vita, con l'abbandono di tutti i suoi beni, fervore di ascesi sono fenomeni frequenti; ma nello stesso tempo una brama spesso smodata dei piaceri e delle gioie di questo mondo.

Nelle corti dei principi e nei palazzi dei nobili, in particolare, si svolge una vita brillante e rumorosa; un appassionato amore del fasto vi accumula gioielli, oro e stoffe preziose. Musica, spettacoli, pantomime e danze non mancavano in nessun festeggiamento, accolte con gran gioia. Gli Indiani erano specialmente appassionati per gli spettacoli teatrali, quantunque l'arte dei loro attori non si sollevasse certo a grandi altezze.
La smania dei piaceri della società indiana si rivela in modo notevole nella posizione delle etere nella borghesia: si ripete all'incirca quel che avveniva in Roma antica. Il diritto ufficiale aveva un bel condannare la prostituzione; le etère colte e finemente educate godevano nella vita di una posizione spesso cospicua. La «bella della città» formava l'orgoglio del luogo dove soggiornava e i suoi favori, comprati a caro prezzo, eran tenuti come distinzione per chi li riceveva.
Spesso l'etéra é rappresentata come una signora di squisita coltura e di nobili sentimenti. È giusto che noi misuriamo la moralità degli Indiani alla sola stregua della loro religione e giurisprudenza. Ma anche in tal modo non si può disconoscere una certa mancanza di disciplina morale nel carattere volubile del popolo indiano. L'adulterio, assai frequente, non era giudicato con severità. Troppo facilmente l'indiano si abbandonava alla passione per il gioco dei dadi, per la quale talvolta sacrificava la sua stessa libertà. Una prova di senso commerciale, ma non di coscienza sociale, risulta dalla partecipazione dei sovrani ai guadagni ricavati dalle innumerevoli case pubbliche da gioco. Però il giocatore di professione godeva di cattiva fama.
Importante il commercio di esportazione, specialmente di gioielli, profumi, finimenti, tessuti di pregio e prodotti artistici. La ricchezza prodotta nelle città portava di conseguenza un lusso smodato.

Per la storia della civiltà merita di esser specialmente apprezzata la famiglia e la giurisprudenza ad essa attinente. Il matrimonio é un elemento necessario nella regola di vita brahmanica; suo scopo, la procreazione di figli maschi, o per compiere i sacrifici ai Mani. Sopravvive in ciò il culto degli antenati, appartenente ad una fase antichissima della evoluzione religiosa e inconciliabile con la teoria brahmanica della metempsicosi.
Per motivi di culto, la progenie era tanto indispensabile da venir rimpiazzata mediante l'adozione o il levirato. La poesia epica ricorda ancora matrimoni per ratto, ma essi appartengono al periodo leggendario eroico.
Una forma curiosa di matrimonio consiste nella scelta del marito fra una schiera di aspiranti, il cosidetto svayamvara. Il giure, sistematizzando, enumera quattro forme buone di matrimonio e quattro cattive; esso é però sempre un contratto privato.
Nell'età antica la monogamia dominava; nel medioevo invece é molto accentuata la poligamia, permessa dalla legge. La poliandria é più volte ricordata; pare che derivi dall'influenza di popoli barbari; essa è tuttora praticata presso tribù tibetane e dravidiche. La posizione giuridica della donna indiana, soggetta sempre a tutela (*), era molto bassa.
(*) Così per es. nel Codice di Manu (IX, 3) : "Il padre veglia su di lei nella fanciullezza, il marito nella gioventù, i figli nella vecchiaia; la donna non può mai disporre di sè stessa").

Solo era vietato al marito di uccidere la moglie; ma alla donna non era lecito possedere nulla in proprio. La perfetta devozione della moglie al marito, celebrata dalla poesia in figure come Damayanti e Sâvitri, trova la più alta espressione nel bruciamento delle vedove, non mai imposto dalla legge indiana, che prescrive solo che la vedova non si rimariti e viva ritirata, dedita ad opere pie.
La forte sensualità propria della vita civile degli Indiani passa facilmente nell'altro estremo; la trasformazione delle concezioni morali ebbe profonda influenza sulla vita del popolo. Non le ricchezze, non i piaceri dànno valore alla vita, solo la rinunzia libera l'uomo dalle false apparenze delle cose terrene e di ogni gioia passeggera, cui aderisce il dolore, il legamento dell'anima alle forme fenomeniche.

Questo movimento, culminante nelle Upanishad e nel buddismo, ha dato in realtà alla vita indiana le idee morali e gli ideali più profondi. È merito degli Indiani di aver fatto della pietà la radice della moralità; d'altra parte è vero che i precetti morali, per quanto alti, sono prevalentemente negativi. Fu loro negato di concepire il mondo come azione e come teatro di forze etiche.

I primordi della scienza indiana risalgono ad età molto antica; in quasi tutte le discipline essa deriva in parte dalla interpretazione del Veda, in parte dal rituale del sacrificio. Due generi letterari, i Sûtra e i Vedânga, costituiscono gli scritti esegetici e i manuali scientifici della letteratura vedica. I Sutra si riallacciano alla rivelazione del Veda (Çrautasûtra), ovvero alla vita pratica (Smârta-sûtra). Specialmente importanti sono i manuali relativi al rituale del sacrificio; vi si trovano gli inizi della geometria indiana. Ma le facoltà matematiche degli Indiani si esplicano massimamente nell'algebra. L'invenzione dello zero, che stabilendo per prima il valore relativo dei numeri fondò il sistema di computo moderno, si deve probabilmente agli Indiani.
Il metodo per la soluzione di equazioni indeterminate di secondo grado, ritrovato solo nel 1769 da Lagrange, segna il punto più alto della matematica indiana. La determinazione cronologica, il calendario, ha sempre altissima importanza per una religione culminante nel sacrificio e conduce ai primordi dell'astronomia.

Il secondo gruppo dei Sûtra comprende da un lato le prescrizioni per la vita privata quotidiana dalla nascita alla sepoltura (Grhyasûtra), dall'altro gli ordinamenti giuridici (Dliarmasûtra). Da questi ultimi si svolge la voluminosa letteratura giuridica dei Dharmasâstra.
L'elaborazione del diritto é essenzialmente opera del brahmanesimo: La giurisprudenza indiana si può dividere in due scuole: occidentale e orientale; quella si compendia nel gran Codice attribuito al mitico Manu. Esso predomina in tutto l'ambito della civiltà indiana: le sue teorie hanno penetrato e per più lati trasformato tutta la vita degli Indiani. Dall'oriente deriva l'altro testo, meno antico, attribuito al celebre brahmano Yâjnavalkya.

Dallo studio del Veda si svolsero, già nel periodo antico, le discipline della grammatica, retorica, metrica ed etimologia. La tradizione del Veda creò una particolare tecnica didattica. Il testo fu tramandato in doppia forma: nella prima (padapâtha) ogni parola era considerata come stante di per sé, nella seconda (samhitâ-pâtha) con le mutazioni fonetiche (samdhi) prodotte dall'incontro delle lettere finali con le iniziali. Vennero poi le osservazioni sulla pronuncia dei suoni, sull'accento, sulla metrica. Qui si manifesta luminosamente lo spirito di osservazione linguistica, proprio agli Indiani, del pari che la loro penetrazione nella struttura grammaticale e nell'essenza della lingua.

Anche i manuali di grammatica sono composti nello stile dei Sûtra, che trova la sua classica espressione nell'opera di Pânini (IV o III secolo a. C.), poggiante su di una copiosa letteratura grammaticale di scuole e di dotti più antichi. L'ideale del grammatico indiano si realizza nel testo di Pânini, consistente in una raccolta di formule, spesso semplici combinazioni di sillabe e lettere, incomprensibili senza l'aiuto di un maestro o di un commento. A Pânini, che muove dalla lingua arcaica dei Brâhhana, si riattaccano vari importanti grammatici, che diedero maggior chiarezza e completezza al suo sistema. L'opera di Vararuci, che si vuole suo contemporaneo, ci é conservata solo nell'ampio commento (Mahâbhâshya) di Pataíïjali (II secolo a. C.).

Ai sei Vedânga, appendici della letteratura vedica, appartengono, oltre alla grammatica, le discipline della metrica, della didattica (sikshâ, generalmente tradotto con « fonetica ») e dell'etimologia. Dall'esegesi vedica si é inoltre svolta la lessicografia.
Grandissima importanza per tutta quanta la cultura indiana ha preso la retorica. Gli strumenti dell'espressione poetica, le forme e la tecnica stilistica sono in essa elaborati fin nei più minuti dettagli. Questa tecnica poetica detta poi legge nella più tarda poesia artistica e perfino nelle epigrafi officiali dei sovrani. Come prodotto della high-life e della educazione cavalleresca indiana sono inoltre da considerarsi i curiosissimi manuali di erotica, del tutto fondati sulla dottrina filosofica dei motivi delle azioni umane: l'utile, il bene e l'amore.
La più antica di queste opere, il Kâmasûtra (Ars amandi) di Vâtsyâyana (I-II secolo d. C.) é sommamente interessante per la storia della cultura e dei costumi indiani. Attraverso al tono didattico del manuale di erotica si scorge l'immagine di una società elegante, che in molti tratti ricorda l'Alessandria ellenistica o il Rinascimento italiano.

Le pratiche della medicina primitiva, le formule di scongiuri e d'incantamenti sopravvivono in numerose sentenze dell'Atharvaveda ed appartengono al patrimonio più vetusto della cultura indiana. All'Atharvaveda andava perciò unito anche un antichissimo trattato di medicina, l'Àyurveda. Al primo secolo d. C. appartiene un'opera medica in otto libri, composta in massima parte da Caraka, protomedico del re Kanishka. Il testo che fa legge e quello di Susruta (V secolo d. C.). La materia della letteratura medica é assai estesa: vi troviamo già formate l'anatomia e la fisiologia elementare e svolte soprattutto le cognizioni di patologia, terapia e chirurgia, fondate sull'esperienza pratica, la farmacologia e la dietetica.

Quanto alla filosofia, essa pervenne ad ipotesi acutissime per via del problema della coscienza e della cognizione. Gli Indiani non conoscevano il sistema nervoso e non avevano idea delle funzioni fisico-psichiche del cervello. Kapila, il creatore della filosofia Sâmkhya, ricostruì in via puramente teoretica, mediante la dottrina del l' «organo interno», i processi che si svolgono nel sistema nervoso periferico e centrale.

Chi voglia considerare storicamente la letteratura poetica indiana, in quanto é composta in sanscrito, deve partire dalla constatazione che essa non é di origine popolare, ha creazione artistica di un ceto professionale. Il poeta appartiene però all'ambiente cortigiano; tutta la letteratura sanscrita, probabilmente, è nata nelle corti dei sovrani; il popolo non avrebbe potuto comprenderne né la lingua né le forme artificiose né le eleganze stilistiche e retoriche. Oltre a ciò, solo col favore dei principi un ceto di poeti poteva campar la vita anche durante il medioevo indiano.

L'alto pregio in cui era tenuto il sanscrito, è attestato da numerosi aneddoti; senza la cognizione di esso, nessuno poteva dire di esser veramente colto. Durante il soggiorno di Megastene a Pâtaliputra (circa il 300), a corte si parlava certamente il sanscrito, secondo che appare dal modo con cui egli trascrive in greco i nomi indiani. Il ministro brahmano Cânakya, uomo di stato di gran valore, scrisse in sanscrito un ampio trattato di politica, il Kautilyaçâstra, celebre fin nel VI secolo d. C. (l'abbiamo già accennato nel precedente capitolo - Tornò all'inizio del XX secolo inaspettatamente alla luce questo prezioso testo; si veda l'edizione di SHAMA SASTRI, The Arthas'astra of Kautilya, Mysore 1900) composto per il re Candragupta, la cui lingua materna, venuto lui dal basso ceto, non era certamente il sanscrito. Senza dubbio Cânakya voleva procurargli la necessaria cultura, nella quale era compresa anche la conoscenza del sanscrito.

Si può dimostrare che il sanscrito fu la lingua dei circoli di corte dal III sec. d. C. in poi. Come poeti e cultori della poesia appaiono due figure caratteristiche della reggia indiana: l'auriga e il bardo.
L'auriga é spesso dipinto come conoscitore della grammatica; sa discutere questioni etimologiche ed é non di rado poeta egli stesso. Le composizioni di questa classe di cantori sono confluite nel Mahâbhârata che però, nella redazione oggi da noi posseduta, consta di elementi molto vari, essendovi stati inseriti lunghi brani di contenuto didattico e speculativo. È un poema epico destinato a re: il che spiega innanzitutto l'inserzione di libri interi sul diritto,
la politica e l'erotica, materia di educazione per i giovani principi; scorgiamo in essi la parte presa dai dotti brahmani, al servizio del re, nella costruzione del poema.
Il nocciolo ne è certo costituito da elementi dell'antica leggenda; ma resta dubbio se gli Indiani possedessero nelle loro leggende un patrimonio popolare comune a tutta la nazione, ovvero se la leggenda non appartenesse già, essenzialmente, alla nobiltà guerriera.
Ad ogni modo il Mahâbhârata non é un'epopea popolare, ma poesia cortigiana, già in quella forma originaria in cui dobbiamo presupporlo. La seconda epopea indiana, il Râmâyana di Vâlhiki, mostra una molto più grande coerenza nella composizione ed una elaborazione più perfetta. È già da cima a fondo opera di poesia di corte, preparazione ai più tardi poemi artistici dei poeti cortigiani.

Nemmeno la lirica è in alcun tratto popolare, radicata com'é nella vita della reggia. Già i poeti di professione erano impiegati di corte; spesso vaganti da una reggia a un'altra per recitare le loro poesie e raccoglierne ricompense. Il carattere cortigiano della lirica indiana appare già dalla sua materia, spesso attinta alla vita di corte ed alla persona del re. Al pari del bardo nordico, anche l'indiano accompagna il re nelle spedizioni guerresche, per poterne subito celebrare le gesta col suo canto.
E innanzitutto, le forme artificiose della lirica, la raffinatezza della lingua, l'espressione ingegnosa ed elegante, l'arte squisita di ritrarre pensieri e ambienti mostrano che tale poesia doveva servire solo al godimento delle classi più alte.

Di carattere del tutto cortigiano sono pure il dramma e il romanzo; compagnie di attori frequentavano le corti. Si riducevano in forma drammatica episodi mitici o del Râmâyana. Il dramma artistico indiano ci conduce sempre negli ambienti di corte: il re ne è di regola protagonista e gli intrighi di harem occupano spesso gran parte dell'azione. Uno di questi drammi, il Mudrârâkshasa, é persino di contenuto tutto quanto politico. Infine assai spesso i sovrani sono menzionati come autori dei drammi. Anche i racconti romanzeschi si svolgono negli ambienti di corte: il celebre Daçakumâracarita, «Le avventure dei dieci principi», fa vedere le disgrazie che incolgono ad un re che trascura lo studio delle scienze politiche.

La letteratura didattica e filosofico-morale, cui appartengono specialmente le raccolte di favole, come il celebre Paficatantra, si propone di insegnare il raggiungimento dei tre oggetti nei quali l'indiano ravvisa lo scopo della vita umana. Forse non vi é cosa più significativa per i profondi intimi contrasti del carattere indiano, di questi tre scopi principali della vita, cioè l'adempimento dei precetti religiosi, della morale e della legge (dharma), la ricchezza e il guadagno (artha) e l'amore sensuale (kâma) ; oggetti trattati sistematicamente nei testi filosofici.
I sovrani devono inoltre intendere alla scienza di Stato (niti), rappresentata come il modo di direttamente condursi nella vita privata e pubblica, come «saggezza» (nîti).

La letteratura ci offre un quadro evidente dello stato della civiltà indiana; la storia della letteratura, invece, ci é offerta in misura assai ristretta. Gli Indiani non hanno prodotto opere di storia letteraria.
Per tale storia ci mancano pertanto le basi più importanti; solo il caso ci offre talvolta punti cronologici stabili. Un'esatta conoscenza delle individualità letterarie ci manca quasi del tutto; i nomi di autori, apposti a molte opere letterarie, sono puramente leggendari o pseúdonimi. Neanche la lingua, artificiosamente regolata, può servirci a determinare l'età delle opere, sottratta com'é alle forze trasformatrici dell'organismo di una lingua vivente.
Né ci é dato, quasi mai, di riconoscere la evoluzione letteraria; gli stadi preparatori delle singole formazioni letterarie sono scomparsi, non appena si produsse l'opera modello che li presuppone. Oltre a ciò gli Indiani non pensarono nemmeno a conservare le opere l
etterarie nella forma in cui le creò il poeta.
Tutti i testi non vedici furono rielaborati con la massima libertà. Si possono chiaramente riconoscere tre regioni nelle quali uno speciale sentimento letterario guidava le elaborazioni dei testi: il Kashmir, il Bengala e il Dekkan. Specialmente profonda é l'influenza di sétte religiose che hanno trasformato varie opere letterarie: per es. la nota raccolta di favole, il Pancatantra, dopo aver assunto una forma speciale nel Kashmir e nell'India meridionale, ha subìto un nuovo rifacimento per opera dei Jaina.

Il fiorire della letteratura sanscrita classica comincia solo col IV secolo d. C., allorché la vita nazionale si rinnovò sotto la dinastia dei Gupta. Al più antico patrimonio della tradizione appartengono i racconti, per i quali gli Indiani ebbero sempre un particolare interesse. Già nell'età vedica si trovano singole tracce di leggende divine ed eroiche. Anche le novelle e le favole sono antichissime. Al Buddha e a Mahâvîra piaceva di ornare i loro sermoni con racconti e specialmente con novelle e favole in cui vi è dentro un pensiero morale o edificante.

Le novelle, patrimonio schiettamente popolare, furono già in tempo antico raccolte in un'opera della letteratura profana, la Brhatkathâ, composta persino in un dialetto popolare, in Paiçâci. L'autore, Gunâahya, viveva forse nel II secolo d. C. Quest'opera é perduta, ma se ne conservano due rifacimenti in sanscrito composti nel Kashmir nell'XI secolo. La redazione poetica di Somadeva, il Kathâsaritsâgara, é la più importante dal lato letterario e storico. Troviamo in essa il gran tesoro di materiali e motivi novellistici, che dall'India si sono diffusi in tutto il mondo civile. Anche la disposizione della materia ha servito di modello per raccolte di racconti: i singoli racconti, indipendenti in origine, sono collegati mediante una novella-cornice.

Al pari delle novelle, ebbero efficacia storica le favole, nelle quali spiccano la tendenza moralizzante e didattica degli Indiani, non meno della loro esperienza della vita e talora un'arguta ironia. La principale raccolta di favole é il Panciatantra (Pancat.), li cui varie redazioni, fortemente divergenti, mostrano già la sua profonda connessione con la vita intellettuale e il pensiero dell'India. Quest'opera ha parte importantissima nella storia della letteratura mondiale. Ma il prototipo indiano è stato del tutto soppiantato dai vari rifacimenti. Non ne differiva molto una traduzione in medio persiano, preparata per ordini del re Sassanida Chosru Anushirvan (circa il 540 d. C.). Anch'essa é perduta, ma è riprodotta con piena fedeltà in una traduzioni siriaca (circa il 570) intitolata «Kalilag e Damnag».
Questo testo, tradotto poi in persiano, greco, ebraico, antico spagnolo, latino i tedesco è divenuto la fonte (o una delle fonti) della favolistica europea. Ad esso risalgono gli animali esotici e le loro caratteristiche nei nostri libri per i ragazzi.
Il Hitopadeça di Nârâyana, estratto dal Paficatantra e da un'altra raccolta di favole più antica, è uno dei libri prediletti degli Indiani, destinato all'educazione dei ragazzi, per quanto il contenuto sembri spesso poco adatto a tale scopo. Non si sa, di questa come di altre opere, in che tempo sia stata composta. Fra le raccolte posteriori, alcuni ebbero grandi diffusioni, come le «Settanta novelle del pappagallo» (Çukasaptati), divenuta mediante la traduzione persiana e turca uno dei più diffusi libri popolari dell'oriente.
Ancor oggi la novellistica ha una grande diffusione nella vita popolare indiana; le opere antiche sono tradotte in quasi tutte le lingue locali (dialetti).

I primordi dell'epica sono per noi avvolti nell'oscurità; non é possibili stabilire con sicurezza quando sorgesse la forma più antica del poema. Si può però ammettere un'origine prebuddistica per le leggende del Mahâbhârata e per la loro più antica redazione. La forma in cui possediamo il poema e che esso aveva già - come é dimostrato - nel VI secolo d. C., é il risultato di una lunga storia. Secoli e secoli hanno lavorato a costruire quest'opera gigantesca; le vicende della civiltà indiana hanno lasciato traccia nel Mahâbhârata, parte negli ampliamenti del poema, mediante i materiali più eterogenei e ad esso del tutto estranei, parti nella trasformazione della leggenda antica, appartenente alla casta guerriera, in una forma fissata dalla casta sacerdotale.
Il Mahâbhârata ha avuto innanzi tutto grande efficacia nella letteratura classica, fornendo gli argomenti per l'epopea artistica e per il dramma.

Il carattere di poema artistico é più accentuato nel Râmâyana, ritenuto il primo di tal genere e composto da un poeta, Vâlmiki, in età ancora incerta. Anch'esso é divenuto importante fonte di materiali per la successiva poesia artistica, anzi, sebbene in origine epopea artistica, è divenuto la poesia propriamente popolare dell'India, grazie alle numerose traduzioni nelle lingue moderni ariane e dravidiche. La versioni in hindi di Tulsi Dâs (t 1624 d. C.) lo ha in particolare reso accessibile a tutte le classi del popolo indostano; con essa il Râmâyana é divenuto un libro sacro e di norma per la vita, una sorta di legame spirituale tra le classi più alte e più basse della popolazione.

Per la materia e l'origine il Râmâyana appartiene certamente ad un'età molto antica; ma per lo stile e la composizioni forma il passaggio alla poesia artistica. L'essenza del poema artistico indiano (Kâvya) consiste nella maggior importanza assunta dalla forma, dominata dalla grammatica e dalla retorica. I poeti trattano la materia in modo da mostrare innanzi tutto la loro arte, erudita e raffinata, con effetti davvero sorprendenti. La metrica si raffina e si elabora in forme artificiosissime e mutevoli. Il disporre le righe in modo da raffigurare vari oggetti é un gioco in cui riuscirono anche poeti ellenistici e scrittori della cosiddetta scuola di Slesia. Ma gli Indiani hanno creato opere d'arte linguistica, insuperate e insuperabili da altri. La peculiare fusione delle parole rende possibili in sanscrito una doppia e tripla lettura di esse, cosicché una stessa poesia può intendersi in più sensi o leggersi in più lingue.

Il più antico rappresentante della poesia artistica indiana é Vâlmiki stesso in certi brani del Râmâyana. Quale opera d'arte composta tutta nel nuovo stile, abbiamo il Buddhacarita, il rifacimento poetico della vita del Buddha, di Asvaghosha, vissuto alla corte di Kanishka (I secolo a. C.). In essa sono già svolti e fissati uno stile poetico e determinati artifici retorici.
Con la dinastia dei Gupta (319 d. C.), fondatrice di un regno nazionale, s'inizia il fiorire della letteratura sanscrita, che dal 320 giunge sino alla fine dell'VIII secolo. Le iscrizioni dei Gupta (dal 320 al 550 circa) ci offrono punti fissi di riferimento. Il rappresentante più cospicuo della poesia artistica indiana é per noi Kâlidâsa, che viveva alla corte del re Candragupta II di Mâlava. L'età di questo sovrano é determinata dalle sue iscrizioni del 401 e 402 d. C. Di Kâlidâsa, poeta insigne, sappiamo solamente che condusse una vita molto sregolata e che fu ucciso da un'etèra.

Kâlidâsa non è forse tanto uno spirito poetico creatore, quanto un maestro della forma, da lui maneggiata con arte perfetta e dipendente non solo dall'ingegno ma da uno studio approfondito della grammatica, della retorica e della metrica. La prima opera di Kâlidâsa in ordine di tempo, il Raghuvamsa, è uno schietto poema artistico, svolgente la storia leggendaria degli antichi sovrani di Ayodhyâ. In seguito Kâlidâsa si va sempre più liberando dalla tecnica poetica raffinata, come già nel poema mitologico Kumârasambhava (« La nascita del dio della guerra »).

Ma sono i drammi che hanno reso famoso Kâlidâsa. Il suo primo dramma «Mâlavikâ e Agnimitra», svolge un motivo già più volte trattato prima di Kâlidâsa, l'amore del re e di un'ancella della regina, riconosciuta infine come principessa. Il dramma «Urvaçî» si basa su di un'antica leggenda: la drammatizzazione di Kâlidâsa segna, così nell'intenso sviluppo dei personaggi come nell'azione più robustamente svolta un gran progresso in confronto alla rozzezza ed esteriorità di altri drammatisti.
Il dramma indiano non ha raggiunto il necessario svolgimento e scioglimento interno dell'azione; la concezione mondiale e la poesia indiana non sono arrivate al tragico. Il precetto estetico che escludeva qualsiasi morte alla chiusura del dramma, bastava per rendere impossibile la tragedia. Il dramma indiano non si è svolto come il greco, dalla leggenda e dalla concezione della vita, ma ha servito, come l'inglese, allo svago del popolo o delle corti. Solo con «Çakuntalâ» ci si presenta chiara la grand
ezza di Kâlidâsa come drammaturgo: con arte delicata e sottile egli ha rielaborato l'antico materiale offertogli dal Mahâbhârata, trasformando il grossolano racconto degli amori del re Dushyanta e di Çakuntalâ in un dramma di squisita e gentile poesia.

Il dramma indiano non ci presenta la vita umana nella pienezza delle sue aspirazioni e dei suoi dolori, o quanto ha di alto e di vile; si tratta di un'arte un po' anemica ma raffinatissima; e tra il favoloso e il romantico di queste composizioni spira anche schietta poesia. L'eccellenza di Kâlidâsa si rivela nelle parti liriche del dramma: il suo capolavoro è il poeticissimo Meghadûta, «Il nuvolo messaggero», opera puramente lirica, in cui Kâlidâsa appare soprattutto gran maestro nella descrizione del paesaggio. La ricchezza e la varietà dei quadri e l'arte di ritrarre le diverse disposizioni d'animo pongono quest'opera tra le più squisite della letteratura indiana. Kâlidâsa riunisce in sè la perfezione della tecnica poetica - spesso meta esclusiva degli Indiani - la vivacità di osservazione, la schiettezza del sentimento e la finezza nel ritrarre i vari stati d'animo.
Egli fa vivere i personaggi delle sue poesie in un ambiente schiettamente umano; se pur non è stato il più grande dei poeti indiani, sembra non gli si possa negare il primo posto tra i poeti dell'arte.

Nell'età classica aveva già raggiunto pieno sviluppo una forma poetica, significativa per il pensiero e i costumi dell'India e nello stesso tempo di alto valore letterario. L'inclinazione, sempre propria degli Indiani, a riflettere intorno alla vita, trova la sua espressione nella poesia gnomica, che in forma artistica ed ingegnosa condensa in una breve strofa un pensiero.
Questa lirica didattica e di riflessione ha per suo primo rappresentante classico Amaru (*), che nelle sue sentenze rivela acutezza psicologica e dono inesauribile d'invenzione. In tale poesia gnomica il carattere del popolo indiano ha lasciata la sua impronta più fine.
(*) Amaru è senza dubbio «il poeta del momento erotico» (OLDENBESC, Die Lit. des alien Indie', p. 2 12); ma al disopra di tutti gli gnomici va certamente posto Bhartrhari, l'autore delle celebri Centurie dell'amore, della morale e della rinunzia)

Dalla vita del popolo attinge la materia, plasmandola con maestria realistica, il primo rappresentante del romanzo in prosa, il meridionale Dandin (VI sec. d. C.). Il suo Daçakumâracarita «Avventure di dieci principi» é documento importante di una civiltà, moralmente assai decaduta.

Nel Dekkan é stato composto anche il celebre dramma Mrcchakatikâ, «Il carretto d'argilla», appartenente esso pure al tempo di Dandin, che forse ne fu l'autore (ancora oggi si è incerti), mentre il re Çûdraka, cui é attribuito, fu certamente il patrono del poeta. Nessun'altra opera della poesia indiana ci rappresenta in modo altrettanto vivace e fedele la vita multiforme e multicolore del popolo indiano. Il senso realistico del poeta non è inferiore all'arte con cui plasma e dà vita ai personaggi. Tutti gli strati sociali, tutte le caste ci passano davanti in figure tipiche, mirabilmente caratterizzate pur nel dialetto e nell'elocuzione. Neanche il poeta della Mrcchakatikâ sa rinunziare al nocciolo politico-cortigiano, richiesto dalla precettistica del dramma; ma appena si avverte nel pullulare delle variopinte scene della vita popolare.
Figure tipiche ci si fanno davanti: il monaco buddista e l'etèra colta e intelligente, il mercante in rappresentanza dell'alta borghesia ; accanto ad essi, vagabondi, mezzani, giocatori, ladri e parassiti d'ogni specie, elementi cospicui della vita indiana fin dall'età vedica; il governo è rappresentato dai suoi più umili funzionari, poliziotti e carnefici, accanto ai quali il dissoluto cognato del re mostra il basso livello morale della corte.

Nel VII secolo la corte del re Çilâditya di Sthânesvara (606-648) raccoglie intorno a sé i cultori della poesia. Dominò qui la rettorica che ricorre a tutti i mezzi artistici e artificiosi, rappresentata dal poeta Bâna. Negli ambienti di corte furon composti tre drammi, dei quali il Nâgânanda ha importanza per la storia della cultura, mostrando che bramhmanesimo e buddismo godevano tuttora della stessa considerazione, come ci fa sapere anche Hiuen-Thsang.
Assai più importante é il Mudrârâkshasa («Il sigillo del ministro R.») di Viçâkhadatta, cui spetta un posto notevole, essendo in esso rappresentati personaggi e avvenimenti storici: l'ascensione al trono di Candragupta (315 d. C.) e la parte principale che vi ebbe il brammano Cânakya, celebre statista indiano.

Lo sviluppo dell'arte indiana è strettamente connesso con la storia della religione, che su quella esercitò una potente efficacia creatrice. L'età vedico brahmanica ha posseduto un'arte importante e varia, a noi nota solo per notizie letterarie. I monumenti dell'arte antica sono andati perduti; costruiti com'erano in legno e in materiale leggero di mattoni rivestiti di stucco colorato, non hanno potuto resistere al clima umido dell'India. Questa antica arte dovette raggiungere una notevole altezza e certo fece sentire la sua efficacia nelle creazioni successive.

Dall'epoca buddistica in poi vediamo un'arte chiusa in sé stessa, nella quale si può a mala pena riconoscere uno sviluppo storico interno, nonostante varie differenze locali ed influssi stranieri. Circa col 250 a. C. s'inizia la storia dell'arte indiana da noi riconoscibile, e precisamente con le costruzioni in pietra di Açoka, derivanti da forme dell'Asia anteriore; fino al 750 d. C. l'ispirazione le viene dal buddismo.
Col rafforzarsi del brahmanesimo le succede un'arte neobrahmanica, che prende spesso a modello le opere buddistiche e nella quale il carattere indiano si svolge pienamente e in ogni aspetto. La storia del pensiero artistico non si può però ben riconoscere; forse anzi, nonostante l'abbondanza della produzione artistica, si deve constatare un certo regresso. La conquista mongolica introdusse nell'arte indiana le nuove forme dell'arte islamica e persiana, che ebbero poi qui notevole sviluppo.

Le opere conservateci appartengono a un'età meno antica ; nessuna risale oltre il tempo di Asoka. Gli edifici di questo re mostrano una forte dipendenza dall'arte del regno degli Achemenidi; anche lo stile delle iscrizioni di Asoca si modella su quello delle iscrizioni persiane. È probabile che solo con lui cominciassero le grandi costruzioni in pietra. Lo stile nazionale indiano s'inizia coi lavori in legno. I ricchi bassorilievi sui portali di Sânci e così pure i monumenti di Amaravati sono incisioni in legno trasportate sulla pietra. Specialmente nelle figure degli animali si riconoscono le forme antichissime dell'arte dell'Asia occidentale, passate in India attraverso la Persia.

Un singolare indirizzo artistico mosse dal regno greco-battriano, continuando fin sotto gli Indosciti. L'arte del Gandhâra, sorta da influenze greche e durata fino al IV secolo d.C., penetrò anche nella regione del Gange: Mathurâ e Buddha-Gayâ, insieme ai resti di conventi nel Pengiab, sono sedi importanti di quest'arte. Specialmente nel modo di rappresentare il Buddha, in piedi e con veste greca, si sente un soffio dello spirito ellenico.
Una statua di Athena, nel Lahore, mostra all'incontro, nella mollezza delle forme, tratti tipici indiani. Un «sileno» di Mathurâ, ora a Calcutta, ha tratti greci, che si affermano nei ricchi fregi scolpiti sullo stûpa di Amaravati.

Sembra che soprattutto le figure del ciclo dionisiaco si siano congiunte con forme indiane. Anche il brahmanesimo, pur così resistente agli influssi stranieri, ha fatto posto, nell'arte, a quelli ellenici. Così il dio del sole, Sûrya, è raffigurato come Helios, con la biga; può darsi che anche la struttura dei corpi nelle rappresentazioni çivaitiche di Ellora derivi da modelli greci, mentre lo spirito indiano che non pervenne mai alla bellezza ed armonia naturale, ritrae questi esseri in modo fantastico e con molteplicità di membra. E quello spirito appunto finì poi per liberarsi del tutto dagli influssi greci.

Nel considerare l'arte nazionale indiana, noi mettiamo per prima la pittura, sebbene ne abbiamo scarsa conoscenza. Nella letteratura si parla spesso di ritratti. Una certa impressione ci fanno gli affreschi di vari templi scavati nella roccia a Ajanta, rappresentazioni tratte dalla leggenda del Buddha e dalla vita indiana. Appartengono al II-VII secolo e dal lato artistico offrono lo stesso stile dei bassorilievi : domina qui pure la stessa confusa e indistinta abbondanza di figure.
Non si conosce ancora la prospettiva; il paesaggio è accennato con forme tipiche. La trattazione del corpo umano mostra una maggiore abilità nella rappresentazione pittorica dei tratti tipici indiani. Probabilmente in queste pitture è da ravvisare l'influsso della morente arte ellenistico-romana, mediatrice di forme e di motivi all'arte indiana del Gandhâra.

La plastica indiana, ricca e varia, ci offre rappresentazioni non di rado eccellenti ed eseguite con grande perizia tecnica. La scultura religiosa rispecchia le fantastiche speculazioni degli Indiani nelle figure policefale e poliartiche, che a noi appaiono, dal lato artistico, come un brutto svisamento della natura. Non sono infrequenti neppure le figure umano-bestiali, come il dio Ganega con la testa di elefante. La scultura non si è ancora staccata, si può dire, dall'architettura. La maggior parte delle sculture si compenetrano con i bassorilievi e pilastri degli edifici. Le stesse immagini del culto sono essenzialmente determinate dallo spazio. Non si può parlare di una storia della plastica: non vi è opera che segni la maniera di rappresentazione dell'India prebuddistica; ma pure dobbiamo presupporre un'attività nella plastica, poichè nei bassorilievi di Sânci e di Buddha-Gayâ si afferma già una notevole abilità artistica.

L'arte indiana dà le sue prove migliori nella parte ornamentale, in cui il sottile sentimento della natura concepisce e rende felicemente la ricchezza delle forme viventi. Accanto alle piante, i fregi mostrano animali come l'elefante, la tigre, il pavone, il pappagallo, ecc., tutti pieni della peculiare vita indiana.

L'arte indiana ha trovato il suo più grandioso sviluppo nell'architettura, creazione indipendente e caratteristica, in cui lo spirito indiano si afferma potente e persuasivo. Forti impulsi le vennero dal buddismo, cui appartengono i più antichi edifici dell'India, tra i quali i tumuli reliquari o stûpa. Il coronamento semisferico dell'edificio rappresenta una bolla d'acqua, simbolo dell'instabilità delle cose.

Il tetto, spesso riconoscibile nelle riproduzioni pittoriche, imita l'ombrello simbolo del dominio. Il santuario era chiuso da steccati, più tardi costruiti in pietra. Questi stûpa si trovano sparsi in gran numero per tutta l'india e a Ceylon: fra i più grandiosi è quello di Sânci (nell'immagine sopra) in cui sono conservate le reliquie di due discepoli del Buddha.
Caratteristiche dell'India sono le grotte scavate nella roccia, che servivano di abitazione o di convento, ed anche come tempio, ai monaci buddisti. Le più antiche costruzioni di tal sorta si trovano presso Râjagrha; dal nome di questi conventi (vihâra) la regione è detta tuttora Bihar. Il più grandioso di questi templi (quello di Kâli, del I secolo a. C.), imponente per la grandezza e l'audacia del lavoro, è formato da una grotta fra Bombay e Poona. A buon diritto famose sono pure le grotte di Ajanta (all'incirca dal II-VIII secolo d. C.), in alcune delle quali sono conservate pitture murali. Famosissimi sopra tutti i templi sotterranei di Ellora (IV-XII secolo), in parte di origine brahmanica; il brahmanesimo trasformò le grotte in templi. Nel piano sono disposti numerosi templi, sale, corridoi ed alloggi, collegati mediante scale e ponti. Il più grandioso di questi edifici è il Kailâsa (Castello degli dèi), opera di brahmani. Anche il lato esterno della rupe
granitica è qui lavorato con innumerevoli figure e fregi. Pure brahmanico è il famoso tempio nell'isola di Elephanta (XII secolo), costruzione monolitica di grandiose dimensioni e con ricchi fregi scolpiti (l'abbiamo visto nell'immagine di apertura nel capitolo 37).

Al brahmanesimo, ed in parte al giainismo, appartengono i templi propriamente detti, sorti nel tardo medioevo o nell'età moderna. Nel nord dominano gli edifici più semplici, le cosiddette pagode, pesanti e austeri templi a piramide, con un peristilio. Nel sud il tempio, spesso di piccole dimensioni, è circondato da ampi cortili e sale, chiusi fra grandi muri, dei quali si aprono grandiosi portali. In queste costruzioni, particolarmente nei templi hindu del nord, spicca nel modo più chiaro il carattere peculiare dell'architettura indiana.

La esuberanza della natura indiana e l'intemperanza della fantasia risolve le forme costruttive in una farragine caotica di figure e fregi innumerevoli, che ricoprono tutte le linee fondamentali, senza dar mai l'impressione di chiarezza armonica e di riposo.

Eppure, nonostante tutto il sovraccarico, si ha l'impressione potente della strana bellezza dell'insieme, vittoriosa su tutti i dettagli. Dall'XI al XV secolo anche i Jaina hanno costruito grandi templi ; ne restano parecchi soprattutto nel Gugiarat. Un'opera classica dell'arte dei Jaina é il tempio in marmo bianco, che un ricco mercante dell'XI secolo, Vimala Sali, fece innalzare sul monte Abu.
Lo spazio non ci permette di analizzare più profondamente la tecnica e l'estetica dell'architettura indiana e di rilevare i pregi delle opere più insigni. Certo l'arte indiana non é capace di fondere normalmente la materia e la forma, né mai la sua scultura seppe esprimere l'ideale e la pienezza della vita: essa parla mediante figure tipiche. Ma non manca all'arte, come non manca alla poesia, un forte sentimento della natura. Non dobbiamo dimenticare che nell'arte indiana sorge il fantastico mondo di sogni, in cui lo spirito indiano gode di smarrirsi. Essa é certamente la caratteristica arte «tropicale» e rappresenta il più alto punto toccato dall'uomo dei tropici nella penetrazione spirituale della materia.

Vediamo ora
quali influssi esercitò la cultura indiana


GLI INFLUSSI DELL'ANTICA CULTURA INDIANA > >

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