HOME PAGE
CRONOLOGIA
DA 20 MILIARDI
ALL' 1 A.C.
DALL'1 D.C. AL 2000
ANNO X ANNO
PERIODI STORICI
E TEMATICI
PERSONAGGI
E PAESI

140. ITALIA: EPOCA DELLA CONTRORIFORMA

 

Rammeniamo qui
che materiale storico
sull'Italia di questo periodo
< < si trova nei "Riassunti Storia d'Italia"
< < o nei singoli anni di Cronologia
< < o nelle "Tabelle Tematiche"

 

L'Italia nel grande scenario politico europeo in pieno sconvolgimento, se non ebbe la cattiva sorte delle nazioni perdenti con davanti a loro la totale decadenza, non ebbe (pur combattento) nemmeno la benigna sorte di quelle che invece lottando ad oltranza riuscirono a conquistarsi la piena autonomia, e quindi in grado di uscire dal giogo absburgico spagnolo e tedesco. Non riuscì per due ragioni: la prima, per la condizione di quasi totale asservimento alla Spagna e per la sua posizione geografica che la trasformò in teatro d'azione nella guerra contro la Francia; la seconda, per le meschine ambizioni di alcuni signori che entrando nel grande gioco politico e anche in quello militare con i loro insuccessi o le loro mediocri affermazioni non conclusero nulla di simile a ciò che invece avvenne in contemporanea nei Paesi Bassi, in Inghilterra, o in Francia. Ciò che mancava era l'unione; ciò che invece abbondava era invece l'oppressione ovunque esercitata dal controllo inquisitorio della Chiesa, che aggravò ancora di più le condizioni di disagio materiale e spirituale dell'Italia.
E più che per i danni materiali - che comunque con le distruzioni e requisizioni straniere - impoverirono la penisola trasformandola da Paese industriale e mercantile in Paese agricolo di scarsa importanza - i danni maggiori furono sul morale stesso degli Italiani. Per quasi trecento anni più nessuno ebbe il coraggio di alzare un dito; e chi lo fece o era con una potenza straniera, oppure pronta a correre a fianco di un'altra, oppure a farle intervenire in Italia quando in alcuni piccoli Stati vi erano rivolte per conquistarsi un briciolo di autonomia. Rivolte senza alcune conseguenze costruttive, per il continuo alternarsi del gioco politico dei piccoli Stati che sempre agendo con qualche straniero per difendersi, o attaccando con un altro straniero per ricevere un fazzoletto di terra in più, inevitabilmente venivano travolti (vedi i Savoia, che da alleati degli Absburgo, quando questi entrarono in crisi, cambiarono bandiera per allearsi con la Francia di Enrico IV. Il cambio di bandiera fu molto frequente, l'ultimo nel 1943).
Solo Venezia rimase un'oasi di libertà, ma poi anche la Serenissima diminuì d'importanza politica, dopo aver difeso la propria indipendenza dalle ingerenze della Curia. Inoltre aveva altri problemi in casa, dal mar di levante era minacciata dai turchi, e la sua economia poggiante sulla marineria commerciale, vacillava paurosamente per lo spostamento delle fiorenti linee di traffico dal Mediterraneo all'Atlantico.

Infine come ultima ragione per questi fatali asservimenti, per questa progressiva decandenza sotto ogni aspetto, politico, economico e culturale, è quella che nella penisola c'era il Papato. Con quasi nessuna influenza sulla politica mondiale - che fece la sua strada ignorando gli anatemi papali - ma enorme in quella italiana.

La rivoluzione religiosa, economica e politica, che era in pieno sviluppo oltre le Alpi, non aveva nessuna base in Italia, che giustificasse un profondo rivolgimento. L'Italia aveva già compiuto da più di tre secoli la sua rivoluzione economica e politica, che, col fiorire dei commerci e coll'organizzazione comunale delle città, aveva assicurato a questa regione un assetto propizio al più ampio e libero progresso. Anche il Rinascimento aveva creato questa illusione e allontanato ogni timore di decadenza.
Mai più gli italiani potevano immaginare di dover ripiombare all'improvviso negli anni medioevali degli anni 1000. Tornare agli anatemi, alle minacce papali, agli interdetti, alle persecuzioni ereticali, ai supplizi e ai falo, anche perchè la Chiesa stessa aveva dovuto adattarsi alle nuove circostanze.
E se nessuno avrebbe mai potuto pensare di scalzare le basi di un organismo come la Chiesa che era pur tuttavia garanzia di pacifico e ordinato sviluppo civile, nemmeno il più pessimista avrebbe potuto pensare che la Chiesa potesse tornare a impoverire l'intera penisola, a strocare ogni libertà, a censurare ogni conquista per pensiero umano.

La zelante, tenace, sistematica attività spiegata dal papato nella seconda metà del XVI secolo per sopprimere ogni libertà di pensiero, di parola e di stampa, maturò per l'Italia frutti assai dolorosi. L'inquisizione e l'intransigente ortodossia di tutte le istanze ecclesiastiche isterilirono la vita intellettuale italiana così rigogliosa e fiorente nel precedente periodo dell'umanesimo, precursore e modello di tutto lo sviluppo intellettuale d'Europa.

I pochi filosofi eminenti che osarono ancora parlare con indipendenza di pensiero dovettero scontare amaramente la loro audacia. Così Giordano Bruno da Nola (nato verso il 1530), il quale professò un panteismo profondamente pensato e logicamente costruito, ma mescolato di elementi mistici; egli per queste sue idee finì sul rogo a Roma nel 1600.

Così il domenicano Campanella da Cosenza, che per la sua propaganda a favore di riforme politiche venne gettato in carcere dal governo spagnolo. Data l'intolleranza politica e religiosa dominante, non era più possibile trattar la storia su vasto disegno; come sostitutivo gli scrittori si volsero con ardore, ma anche con assenza completa di spirito critico, a trattare di antichità, di storia locale e di storia ecclesiastica. Tutta questa fioritura che soffre in parte di dilettantismo, in parte di pedanteria, fu favorita dalle innumerevoli accademie che in quest'epoca pullularono in Italia sull'esempio della Crusca, fondata nel 1582 a Firenze.

Nella poesia lo studio della forma eccessivamente leccata, della artificiosa combinazione delle immagini e dei pensieri, della frase smagliante e turgida sostituì il vero sentimento poetico e la semplicità e naturalezza dell'espressione. Chi infatti legge ormai più la migliore composizione poetica di questi tempi, il Pastor fido del Guarini (1583) che allora venne innumerevoli volte imitato presso tutti gli altri popoli? L'unico genio in questo periodo di decadenza fu Torquato Tasso (1544-1595), il quale, nella sua «Gerusalemme Liberata», malgrado il colorito tutto religioso e pio dal titolo al tema fondamentale del poema, diede ovunque libero sfogo alla vena romantica ed all'immaginazione profana.
Questa interna forse anche sofferta contraddizione che però gli fu imputata come un misfatto e che a lui stesso sembrò tale, lo condusse alla follia.

Dove il sentimento del bello, sempre vivo negli italiani, potè liberamente esplicarsi fu nella musica che non esprimendo audaci pensieri, non poteva dare ombra nè ai governi nè alla chiesa. In questo campo emergono Giovanni Sante da Palestrina (1514-1594), il fondatore della moderna armonia, e Claudio Monteverde, che all'inizio del XVII secolo perfezionò la invenzione del fiorentino Ottavio Rinuccini, la combinazione del dramma e della musica cui si dà il nome di opera, dando uno sviluppo più largo ed autonomo alla musica di fronte al libretto.
L'opera incontrò il gusto e il favore generale, tanto più che la sua messa in scena sontuosa corrispondeva all'inclinazione dell'epoca alla pompa e alla prodigalità.

Invece nelle arti figurative si verificò la stessa decadenza che nella letteratura: all'ideale classico della bellezza ed allo studio del suo perfezionamento subentrò da un lato la tendenza alla grazia ricercata e alla sdolcinatezza e dall'altro il compiacimento per l'esagerato, il contorto, il deforme. Il pittore Baroccio da Urbino (1528-1612) ha dato il nome all'intero stile che andò subito in voga, e che da lui si chiamò "barocco".

Solamente a Venezia, dove l'aristocrazia cittadina governante conservò e acconsentì maggior libertà di pensiero, la pittura continuò a fiorire, attenendosi allo stile coloristico - ma anche audace nelle figure - creato da Giorgione e da Tiziano, salvo alcuni sommi come Jacopo Tintoretto e Paolo Caliari, detto il Veronese, che sono pittori originali. Essi hanno inoltre direttamente influenzato la pittura spagnola. Ma, se si prescinde dall'angolo dell'Adriatico posto sotto le ali del leone di S. Marco, l'Italia divenne la più sfortunata ed oppressa di tutte le nazioni, giacchè la maggior parte di essa cadde sotto la diretta o indiretta dominazione spagnuola.

Quattro soli Stati conservarono tuttora indipendenza politica: quello di Savoia-Piemonte, lo Stato romano, la Toscana e Venezia.
La Santa Sede aveva perduto press'a poco qualsiasi influenza sulla politica mondiale, ma la sua autorità spirituale era notevolmente cresciuta in conseguenza della restaurazione della Chiesa provocata dalla reazione alla Riforma. Questa maggiore autorità spirituale fu quasi esclusivamente impiegata alla persecuzione degli eretici; sia sotto il mite Pio IV (1559-1566) che sotto il suo fanatico predecessore Paolo IV.

Dietro incitamento di Pio IV, i pacifici Valdesi vennero massacrati a migliaia in Calabria e in Piemonte, ed ai lombardi venne imposta con la forza l'inquisizione. Anche peggio infierì Pio V, Michele Ghislieri (1566-1572), egli pure intransigente, instancabile, nel suo zelo inesorabile verso sè stesso come verso gli altri; egli portava costantemente una tormentosa camicia di crine, non beveva che acqua appena tinta di vino, mangiava poco, e dedicava il maggior tempo che poteva alla preghiera.
Eppure sotto di lui si videro distinti gentiluomini mandati al supplizio a Napoli, a Roma e un po' dappertutto, vescovi e sacerdoti condannati al carcere perpetuo; il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, un tempo amico fidato di Clemente VII, venne decapitato a Roma e poi bruciato; strangolato e bruciato fu pure Aonio Paleari, uno dei più eloquenti e famosi latinisti del tempo, un vecchio di 70 anni, Vennero rievocate colpe d'eresia commesse vent'anni prima, e i rei furono sottoposti a giudizio e puniti.

Il successore, Gregorio XIII, uomo di scarse qualità personali, deve la sua celebrità alla riforma del calendario giuliano, diretto a mettere in armonia l'anno civile con l'anno solare. Il 24 febbraio 1584 egli emanò una bolla con la quale ordinava di sopprimere nel successivo mese di ottobre 10 giorni e nel futuro tre giorni ogni quattro secoli.
Immediatamente la riforma gregoriana del calendario fu accettata soltanto dalle nazioni cattoliche; i protestanti per uno stolto disdegno non l'adottarono che assai più tardi; i greci-ortodossi mai, i russi solo dopo il 1917.

Dopo Gregorio salì sul soglio pontificio la poderosa figura di Sisto V, Felice Perretti (1585-1590), venuto su dalla piccola borghesia. Con mano ferrea e spietato rigore egli liberò lo Stato della Chiesa dalla spaventevole piaga del banditismo; oltre a ciò abbellì Roma di numerosi edifici, favorì l'industria, costruì strade e ponti e fece di Ancona un porto importante. Sua preoccupazione e cura incessante fu quella di accumular denaro perchè così soltanto credeva di poter accrescere la propria potenza nel mondo. Inoltre egli era imbevuto delle idee di un tempo circa l'illimitata autorità del papato, non soltanto nel campo spirituale, ma anche nelle cose temporali.

Di tali idee si fecero eco con dottrina, dignità ed energia il cardinale Bellarmino nel suo famoso libro sul "Pontefice romano"e il cardinale Baronio nei suoi "Annali ecclesiastici". Ma, ad onta di tutto ciò, ad onta del tesoro da lui accumulato, Sisto V, non riuscì ad esercitare nessuna influenza sull'andamento essenziale della effervescente politica europea.

Anche più sterile e senza effetto a realizzare simili idee si rivelò il pontificato negli immediati successori di Sisto, e così tutte quelle persone non meno di lui, non escluso il migliore, Paolo V, Camillo Borghese (1605 1621) che pur dimostrò di possedere una certa energia. Questo papa, canonista eminente e tutto compenetrato da un esagerato concetto della supremazia del pontificato, si propose di imporre la sua autorità anche ai governi.
Un primo tentativo di questo genere fu da lui compiuto nei riguardi di un piccolo Stato, la repubblica di Venezia, che era stata costretta a cedere Cipro al Sultano nel 1573, e da allora, indebolita, si impegnava con ogni cura di seguire una politica di pace. Paolo credette di poterla facilmente piegare ai suoi voleri. Ma il senato della Serenizzima si oppose energicamente alle sue indebite pretese. Allora il papa fulminò l'interdetto contro la Repubblica. Però, d'ordine del senato, il clero veneziano non tenne conto dell'interdetto, salvo alcuni ordini e principalmente i gesuiti i quali vennero perciò espulsi dal territorio della Repubblica.

Sotto l'influenza del dotto ed illuminato padre servita, fra Paolo Sarpi, Venezia minacciò persino di passare al protestantismo. Alla fine Enrico IV intervenne come mediatore nella contesa, e così nell'aprile 1607 si giunse alla pace, la quale, pur salvando le forme, significò il completo fallimento delle pretese papali. Era evidente dopo ciò che era inutile pensare alla riconquista del dominio mondiale, sognato da Paolo V, dal momento che perfino una piccola repubblica cattolica aveva potuto resistere vittoriosamente al pontefice.

E infatti - per non screditarsi - da questo istante nessun papa osò fulminare l'interdetto contro uno Stato; il papato decadde sempre più perdendo ogni importanza, per risollevarsi soltanto dopo la rivoluzione francese per effetto della reazione clericale a questa ultima, come un tempo si era risollevato in virtù della reazione alla Riforma.

Le vere menti direttive ed i veri esecutori della controriforma nel XVI secolo furono i Gesuiti. Essi non esitarono a bandire le più rivoluzionarie teorie per costringere i principi ad attenersi ad una politica rigorosamente clericale. Fin dai tempi del Lainez, secondo generale dell'ordine, quest'ultimo proclamò e sostenne energicamente il principio che il popolo aveva, come il papa, il diritto di deporre un cattivo principe.
Nella stessa cittadella dell'assolutismo più oppressivo, in Spagna, i gesuiti Suarez e Mariana non esitarono di professare tale principio e di portarlo alle estreme conseguenze col fare persino l'apologia dell'assassinio di quei principi che contravvenissero alle leggi divine che, ben si intende, erano quelle della Chiesa.

I gesuiti olandesi Rosseus e Busenbaum, i gesuiti spagnuoli Molina, Salmeron, Valentia, sostennero nei loro scritti le stesse idee, le quali vennero poi calorosamente sposate dai leghisti francesi, furono predicate al popolo e tradotte nei fatti dal pugnale di Clément e di Ravaillac. Dovunque, in Germania, in Inghilterra, in Svezia, in Polonia, in Russia, troviamo emissarii attivissimi dell'ordine dei gesuiti, il quale organizzò in modo veramente mirabile le proprie forze e condusse un'opera sistematica, coordinata, prudente ed ardita nello stesso tempo. Ma anche implacabile.

Devota al papato si mostrò la Toscana che appunto in quest'epoca divenne sotto Cosimo I uno Stato di notevole estensione. In compenso della fedeltà conservata in pace e in guerra all'imperatore Carlo V, quel principe ebbe in dono dagli spagnuoli anche la vecchia rivale di Firenze, Siena con tutto il suo territorio.
Dopo ciò non rimase nella Toscana ancora indipendente che la piccola repubblica di Lucca. Cosimo si era impadronito del potere, col titolo di duca di Firenze, attraverso l'astuzia e la violenza; ma in seguito governò con intelligenza e dimostrò, instancabile operosità, acutezza di giudizio e molta energia.

Sull'esempio dei suoi antenati; pur essendo nel resto parsimonioso, fu assai liberale nel promuovere l'incremento della letteratura, delle arti e delle scienze. Gli epigoni dei grandi artisti e scrittori del cinquecento circondavano tutti la persona del duca. Una particolare predilezione egli ebbe per le scienze naturali, il cui splendido progresso in Toscana comincia per l'appunto sotto di lui. Cosimo spiegò pure una intensa attività in materia di politica estera, stringendo con la Santa Sede una lega diretta principalmente ad arginare le pretese di assoluta egemonia della Spagna. In ricompensa di questa sua fedeltà Pio V nel 1569 lo elevò a granduca di Toscana.

Mentre il suo primogenito ed immediato successore, Francesco, non fece parlar di sè che per le sue relazioni amorose con la bella e intelligente veneziana Bianca Capello, che fini per sposare, il fratello Ferdinando I, che dopo di lui occupò il seggio granducale dal 1589 al 1609, uomo riflessivo e ben intenzionato, si acquistò molte benemerenze verso il suo paese. Egli aumentò il territorio dello Stato e cominciò la bonifica della Val di Chiana e della maremma sienese, malarica e sempre più improduttiva. Ma soprattutto egli fu il creatore dell'unica città commercialmente importante a quel tempo in Toscana, Livorno, che mediante sagge istituzioni, provvidenze e privilegi, portò rapidamente al massimo grado di efficienza. Fu lui a dare alle cose di Toscana quell'indirizzo che esse mantennero poi per due secoli e mezzo, anche sotto un'altra dinastia.

Si ebbero principi prudenti, miti, moderati e intelligenti, ma nessuno eminente per qualità d'ingegno e di carattere; e costoro fecero una politica estera riservata e all'interno operarono il bene senza far rumore, pur non perdendo di vista l'utile proprio e della propria famiglia. Ma col tramonto della libertà si spense nel popolo toscano l'energia fattiva e la vivace versatilità dei tempi andati e la vita sociale decadde in uno stato di torpore; solo nelle scienze naturali l'antica acutezza dell'ingegno toscano continuò a dare splendide prove di sè.

La repubblica di Venezia rinunziò anch'essa ad ogni idea di politica forte, soprattutto nelle relazioni estere; il patriziato veneziano, divenuto ricco e amante dei suoi comodi, si adagiò negli splendori di un molle benessere, ed ogni abitante della città della laguna lo imitò. Con i Turchi Venezia rimase in pace dal 1573, in poi, e contro l'ostilità della Spagna cercò protezione nell'alleanza con la Francia. I suoi diplomatici erano tuttora considerati come i più abili e raffinati e riuscirono a comporre non poche controversie internazionali con la loro mediazione.

Nel frattempo la Spagna cercò di imporre la propria egemonia a tutti gli Stati italiani. Essa si ingerì in tutte le loro contese interne e in tutti i loro attriti internazionali, mediante i suoi ambasciatori che assunsero l'atteggiamento arrogante ed imperioso di proconsoli romani, oppure mediante le sue truppe che dai domini spagnuoli del milanese erano sempre pronte ad intervenire con la forza.

In mezzo a questa generale rovina e al generale asservimento la sola Savoia (oltre Venezia), riuscì a conservare una certa indipendenza, destreggiandosi abilmente, ma anche senza tanti scrupoli di coscienza, tra Spagna e Francia e cercando, ora con l'aiuto dell'una, ora con l'aiuto dell'altra, di tenersi in piedi e di ampliarsi. In seguito questa tecnica del cambia bandiera l'adotterà volendo sempre fare mettendosi in mezzo l'ago della bilancia, con l'Austria a oriente e con la Francia a occidente.

Tuttavia in questo Stato italiano già allora avevano assunto importanza preminente le province di lingua italiana, dalle quali in un lontano avvenire doveva partire il movimento di liberazione e di unificazione della bella penisola.

Ora torniamo in Francia
a conoscere meglio il cardinale Richelieu

FRANCIA: LA POLITICA DI RICHELIEU > >

PAGINA INIZIO - PAGINA INDICE