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141. FRANCIA: LA POLITICA DI RICHELIEU

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il 14 maggio 1610 Enrico IV moriva assassinato sotto il colpi di pugnale di un fanatico. Enrico IV aveva 57 anni, aveva regnato 21 e stava compiendo un vero e proprio rivolgimento politico, che così rimase inattuato e come difficilissima eredità al suo successore, il figlio Luigi XIII, che però era fanciullo di 9 anni, sotto la reggenza della madre Maria de' Medici non certo capace di guidare un governo in una situazione così difficile, anche se quella di Enrico IV era una politica dei tempi che il sovrano stava percorrendo con energia e intelligenza non comune.

L'indirizzo di politica interna ed estera adottato da Enrico IV di Francia era così adeguata alle esigenze della sua situazione e così conforme ai desideri ed ai bisogni del suo popolo, che i suoi successori dovettero alla fine rimettersi sulla via da lui segnata. E sotto questo aspetto deve indubbiamente rendersi ragione a quegli scrittori che anche nel caso presente mettono in rilievo la scarsa importanza e gli effetti poco durevoli degli episodi storici, anche apparentemente i più rivoluzionari, qualora contraddicano all'evoluzione fondamentale e in certo modo necessaria dell'umanità o delle singole nazioni, e fanno osservare come quella evoluzione con le sue esigenze torni sempre a riprendere il sopravvento e ad imporsi. Ma per il momento l'assassinio del re mutò radicalmente la situazione.

Maria dei Medici, la regina-vedova, che assunse la reggenza in nome di suo figlio Luigi XIII, di appena nove anni, dovette affrontare il compito, per lei straniera doppiamente difficile, di governare lo Stato nell'imminenza minacciosa di una grande guerra fra gli ostacoli creatile dal manifesto malanimo dei membri della famiglia reale e dalle velleità, frenate ma non ancor spente, di indipendenza degli alti funzionari e dignitari.

La reggente non era dotata di qualità fuori del comune, ma non era nemmeno priva di buon senso e di un certo acume di giudizio e possedeva una non superficiale cultura. Essa giudicò correttamente che il suo primo dovere era quello di salvaguardare a suo figlio l'integrità dei diritti e poteri spettanti alla corona, e che quindi, data l'insubordinazione e indisciplinatezza dei grandi all'interno, le era necessario evitare ogni complicazione internazionale.

Con questi intendimenti si impegnò di arrivare ad una riconciliazione con la Spagna, cosa del resto era possibile per la sua fervente fede cattolica. Un errore invece fu la sua cieca predilezione per due fiorentini, i soli che le avessero dimostrato devozione tra tutti gli stranieri presenti alla corte di Parigi, la sua prima cameriera Leonora Galigai e il patrizio Concino Concini. Essa unì quest'ultimo in matrimonio con la Leonora, e benché fosse uomo privo di qualsiasi merito e non avesse mai visto la guerra, lo elevò al grado di maresciallo e gli conferì il titolo di marchese d'Ancre.
Il favorito infatti era troppo debole per tener testa ai grandi del regno, i quali si impadronirono a gara delle città e delle province e svaligiarono sfrontatamente il tesoro pubblico.

In questa condizione di cose Maria si sentì ancora più spinta a cercare appoggio nella monarchia assoluta spagnola. Nell'aprile 1611 essa strinse con la corte di Spagna un accordo che stabiliva in un prossimo avvenire il matrimonio di Luigi XIII con l'infanta spagnola Anna e rispettivamente le nozze del principe delle Asturie, Filippo, con la sorella maggiore di Luigi, Elisabetta. Con questo avvenimento si profilò all'orizzonte la previsione di un completo capovolgimento della situazione politica dell'occidente europeo.

Mentre infatti questa si era sinora imperniata sul perpetuo ed aspro antagonismo tra Francia e Spagna, la futura alleanza dei due paesi non avrebbe potuto fare a meno di condurre all'asservimento di entrambi all'arbitrio dei due monarchi alleati, esercitando la politica del più intollerante cattolicesimo e dell'assolutismo regio.
Di qui l'opposizione dell'alta nobiltà francese ai progetti di Maria. Per indebolire tali resistenze la reggente convocò per l'ottobre 1614 gli stati generali del regno. Si attendeva da essi una completa riforma degli ordinamenti dello Stato, la diminuzione delle imposte, l'abolizione della venalità degli uffici pubblici. Ma tutte queste aspettative rimasero deluse per la scissione interna dell'assemblea.

Il terzo stato, avendo reclamato la revoca di tutti gli emolumenti di favore estorti alla corona dai grandi, venne a lite con la nobiltà, ed avendo inoltre preteso una solenne dichiarazione che alla chiesa non spettava alcuna autorità sulla corona, si rovinò col clero, il quale in seguito a questo atteggiamento si alleò con i nobili.

La reggente approfittò astutamente della situazione, si fece concedere separatamente da ciascuno degli stati discordi il consenso ai suoi progetti matrimoniali spagnoli, e poi chiuse improvvisamente l'assemblea (febbraio 1615).

Fu questa l'ultima convocazione degli stati generali francesi fino all'altra memorabile del 1789. La maniera lacrimevole come erano andate le cose in seno agli stati aveva dimostrato che l'organizzazione sociale della Francia di quel tempo non era capace di dar vita ad un potere di controllo e di limitazione dell'autorità regia, nè di natura aristocratica, né di natura democratica. Rivolte sporadiche contro questa autorità se ne potevano ben verificare ancora; ma in sostanza il contegno degli stati aveva rivelato la necessità dell'assolutismo monarchico. D'altro canto in questa assemblea si era pure manifestata per la prima volta la profonda avversione della borghesia contro la nobiltà, quell'avversione che doveva avere una influenza così decisiva sul corso ulteriore della storia.

Il generale malcontento, che aveva trovato per altro espressione negli stati generali, ma non era giunto a conseguenze concrete, divampò quando la reggente nel novembre 1615 fece celebrare ai confini della Spagna il duplice matrimonio dei suoi figli.
Sollevazioni scoppiarono ovunque, capitanate dai principi della famiglia reale. Maria le affrontò con fermezza. Essa fece imprigionare il principe di Condé, pur cattolico a differenza dei suoi antenati, ed inflisse agli altri insorti sconfitte decisive. Se non che ben presto le ostilità le vennero da parte del suo stesso figlio.

Il giovane re aveva trascorso una triste fanciullezza; egli era stato trattato dalla madre e dall'entourage di costei senza amore, anzi con durezza, sino al punto da non risparmiargli le botte. Debole di corpo e di spirito, benché non privo di una certa disposizione per le arti meccaniche e per la matematica, il suo carattere aveva risentito gli effetti deleteri dell'educazione ricevuta; egli era divenuto codardo, diffidente, perfido e vendicativo. Non nutriva affetto per nessuno, ma sentiva il bisogno di appoggiarsi costantemente a qualcuno più forte di lui e di lasciarsi guidare.
Un simile uomo di fiducia era divenuto per il re il suo falconiere Carlo di Luynes, un ambizioso ed abile intrigante, senz'altre doti di talento. Sicuro del favore del giovane monarca, Luynes concepì il disegno di conquistarsi l'assoluto predominio a corte. Egli seppe convincere l'appena 17enne Luigi che il maresciallo d'Ancre avesse insidiato alla sua vita, ed il re diede ordine al suo capitano delle guardie Vitry di uccidere Ancre.

Questi infatti cadde il 24 aprile 1617. Poco dopo anche la vedova dell'assassino che aveva lanciato insulti venne condannata a morte per delitto di offesa maestà, di alto tradimento e di stregoneria, e tutte le creature di Ancre furono eliminate dalla corte. La regina Maria fu costretta a ritirarsi a Blois.
«Ora finalmente sono re», aveva esclamato Luigi nel ricevere la notizia della morte di Ancre. In realtà però egli da questo momento non ebbe che un nuovo padrone in Luynes. L'unica conseguenza politica dell'avvenuto mutamento fu che gli insorti deposero le armi; ma nel resto le
cose continuarono in sostanza ad andare come prima. Luynes non badò che al tornaconto proprio. Egli trovò questo tornaconto in una stretta alleanza col potente partito clericale, e quindi la Francia perseverò nella politica nettamente cattolica e filospagnola di Maria dei Medici.

Poco dopo il malcontento ebbe una nuova esplosione. La sollevazione dell'alta nobiltà capitanata dalla regina madre venne liquidata con la sconfitta di Pont de Cé, e Maria ritenne che il meglio per lei era di riconciliarsi e di andar d'accordo col figlio; ciò che ottenne con l'abile mediazione del suo fido consigliere, il vescovo Richelieu di Luçon.
Ma gli Ugonotti, che prevedevano conseguenze funeste per loro dall'indirizzo clericale dominante a corte, proseguirono nella resistenza. Specialmente i due antichi baluardi del protestantesimo, le città fortificate di La Rochelle e Montauban, tennero alta la bandiera della rivolta. Sotto le mura di Montauban naufragò la fortuna di Luynes che era stato elevato al grado di conestabile di Francia. Dopo essersi visto costretto a toglier l'assedio dalla città, costui improvvisamente morì di scarlattina il 14 dicembre 1621, malvisto a tutti e divenuto indifferente allo stesso re.

L'esercito regio continuò la lotta e alla fine costrinse i riformati alla pace (10 ottobre 1622), che riconobbe loro la piena libertà religiosa, ma sciolse la loro organizzazione politica e militare, e li privò delle loro piazzeforti, salvo La Rochelle e Montauban. Con ciò si era fatto un nuovo passo verso l'eliminazione di tutti i particolarismi politici che contrastavano all'instaurazione dell'assolutismo in Francia.

Luigi XIII aveva concluso questa pace per potere avere mano libera nella politica estera, nella quale finalmente trovò il coraggio di opporsi ai progressi degli Absburgo. E lo trovò perché già sul suo animo esercitava una influenza decisiva il poderoso intelletto di Richelieu.

Giovanni Armando du Plessis de Richelieu, nato nel 1585, aveva assunto appena ventenne il piccolo e meschino vescovado di Luçon ereditario nella sua famiglia, del quale non poteva a lungo andare ritenersi soddisfatto, data la sua infinita ambizione ed il giustificato sentimento che aveva del proprio valore. Importanti servizi da lui resi alla corte in occasione degli stati generali del 1615 lo raccomandarono alla reggente che ben presto se ne fece il suo fidato ministro.

Più tardi l'aver saputo realizzare la riconciliazione di Luigi con la madre gli guadagnò il favore del re, che gli fece conferire il cappello cardinalizio e nel 1622 lo chiamò nel proprio ministero. Qui le doti veramente geniali della sua mente gli conquistarono ben presto una posizione predominante, la quale nell'agosto 1624 ebbe anche la sua consacrazione formale con la nomina a primo ministro. Da questo momento egli si considerò unicamente come il devoto servitore della monarchia e dello Stato, per il cui bene ritenne non solo lecito ma persino doveroso l'impiego di ogni mezzo, sia pure l'inganno e la doppiezza diplomatica, sia pure, occorrendo, la durezza e la crudeltà.

Suo duplice scopo fu di rendere la corona francese onnipotente all'interno e di procurarle una posizione egemonica di fronte a tutti gli altri Stati all'esterno. E per ottenere ciò, si propose soprattutto di infrangere la potenza degli Absburgo, valendosi dell'aiuto anche degli Stati protestanti; cosa quest'ultima che si spiega col fatto che Richelieu, pur essendo personalmente un fervente e fedele cattolico, anzi un eminente teologo e scrittore in materia di religione, tuttavia era tollerantissimo delle altrui convinzioni e riteneva che gli interessi religiosi non dovessero pregiudicare gli interessi politici dello Stato.

Una prima applicazione di questi suoi criteri egli la fece nella questione della Valtellina, regione di fede cattolica, ma sino allora pertinente al cantone protestante dei Grigioni. Gli Spagnoli, con la mira ultima di annettere ai loro dominii milanesi quel territorio assai importante come via di transito e di comunicazione tra l'Italia ed i possedimenti degli Absburgo in Germania, vi avevano provocato con le loro trame nel luglio 1620 la strage di tutti i protestanti che vi dimoravano, inscenando così un movimento popolare di liberazione dalla sovranità dei Grigioni, che essi dicevano di voler proteggere.

E infatti, dopo questa strage che per i suoi orrori non ebbe nulla da invidiare alla notte di S. Bartolomeo, truppe spagnole ed austriache avevano invaso la Valtellina, ed anzi erano penetrate fin nel cantone dei Grigioni e vi si erano insediate. Quest'atto di sopraffazione restò impunito sino al 1623, allorquando la Francia, sotto la guida di Richelieu, decise di opporvisi. Essa nel settembre 1624 si alleò a St. Germain contro gli Absburgo con la repubblica di Venezia, con la Savoia e con l'Inghilterra, e poco dopo truppe francesi condotte dal marchese di Cocuvres entrarono nei Grigioni e nella Valtellina e ne scacciarono gli spagnoli.
In tale sua azione la Francia fu sicura dell'appoggio dei Paesi Bassi, i quali, dal momento in cui era spirata la tregua di dodici anni, cioè dal 1621, si trovavano nuovamente in guerra con la Spagna.

Nella libera Olanda di quest'epoca l'idea centralistica e coordinatrice dell'azione militare si incarnava principalmente nella persona del governatore generale, allora Maurizio d'Orange, cui spettava il comando dell'esercito e della flotta. La sua autorità si basava sul favore del basso popolo, dei soldati e marinai, e finalmente sulla propaganda dei predicatori, i quali erano entusiastici sostenitori della gloriosa dinastia di Nassau. Ma il vero e proprio potere dirigente si concentrava negli stati generali, formati a loro volta da delegati degli stati provinciali. E siccome in questi ultimi predominavano i magistrati delle città ordinate a repubbliche di tipo oligarchico, erano in definitiva questi magistrati, vale a dire il patriziato cittadino, i veri padroni dello Stato federale. Costoro, gelosissimi dei privilegi cittadini, poco favorevoli al potere centrale, costituivano, specialmente nella provincia più popolosa e ricca qual'era l'Olanda, il partito particolarista aristocratico dei così detti «patrioti».

Alla loro testa stava il pensionario d'Olanda, Giovanni van Olden-Barnevelt, l'uomo di stato più influente e benemerito dell'Unione, ma appunto per il suo particolarismo odiato mortalmente dal governatore generale. L'antagonismo politico era per di più aggravato da quello religioso. In questi tempi vi era scissione tra il teologo libero pensatore ARMINIO (Giacomo Harmensen), del quale era seguace la colta aristocrazia cittadina, ed i calvinisti intransigenti seguaci di Francesco GOMARO, che avevano dalla loro parte tutto il basso popolo ed erano fieramente ostili al primo indirizzo liberista.

Naturalmente Olden-Barnevelt era arminiano, mentre Maurizio d'Orange era gomarista. Scoppiarono aspre contese fra le due parti, e queste porsero a Maurizio l'occasione di far condannare a morte e giustiziare il pensionario come reo di alto tradimento e di eresia (13 maggio 1619), e di far condannare alla prigionia perpetua i più ragguardevoli tra i suoi seguaci, fra i quali il giurista Hugo de Groot (Grozio).
Ma Grozio riuscì a fuggire con l'aiuto della sua impavida consorte che lo nascose in una cesta di libri. Un sinodo nazionale tenuto a Dordrecht nel maggio 1619 condannò l'arminianismo quale indirizzo eretico e scismatico e dichiarò deposti tutti i predicatori non fedeli alla rigorosa dottrina calvinista.

Questa fu una vittoria dell'intolleranza religiosa e di una mentalità gretta, ma nel tempo stesso rappresentò una vittoria dell'autorità del governatore centrale.

Fu questa l'epoca del massimo sviluppo delle Province Unite nel campo economico e culturale. La loro flotta mercantile contava 35.000 navi capaci di portare sino a due milioni di tonnellate, ed il loro commercio aveva assunto carattere mondiale. Pari allo sviluppo commerciale era lo sviluppo della grande industria, i cuoi prodotti si erano diffusi in ogni parte della terra. La guerra non aveva arrecato che vantaggi agli Olandesi, perché aveva procuratoloro il dominio dei mari, e ne avevano con le loro abbondanti ricchezze sopportato facilmente le spese.
E con l'indipendenza, il benessere e l'elevazione del sentimento nazionale si erano sviluppate anche la letteratura e l'arte. Sotto la guida della società "In liefde bloeynde" (fiorente nell'amore) sorta ad Amsterdam mise impegno a depurare la lingua patria dai francesismi che vi si erano infiltrati. E si inaugurò ora il periodo classico della poesia olandese. Gerbrant Bredero e Samuele Coster crearono la commedia olandese che presto assunse una impronta e un contenuto nazionale, satireggiando le condizioni sociali e i costumi dell'epoca del popolo olandese.
Pietro Corneliszoon, che prese anche attiva parte alla vita politica come seguace di Maurizio d'Orange, arrecò un notevole contributo all'elevazione della lingua e dell'arte poetica della sua nazione, imitando nelle sue liriche amorose, nelle commedie pastorali e nelle tragedie i grandi poeti italiani del XVI secolo, e Tacito nelle sue opere storiche.
Fra gli uomini di elevata coltura che si raccoglievano intorno a lui nel suo castello di Muiden erano anche i due predestinati a portare al massimo splendore la poesia olandese: Joost van Vondel e Costantino Huygens.

Nel campo artistico in quest'epoca la precedenza è delle province meridionali dei Paesi Bassi, dove esisteva una antica tradizione artistica. Ma anche qui l'elemento fiammingo non mancò di affermarsi. Pietro Paolo Rebus (1577-1640) rispecchiò nei suoi quadri l'indole indipendente, focosa, fervidamente attiva, traboccante di energia e di amore alla vita dei sensi della sua razza, la quale peraltro non possedeva il sentimento della nobiltà e finezza della forma.
In Rebus l'espressione degli affetti non era il riflesso di un elaborato pensiero ma erompeva dalla foga del suo temperamento sensuale. Le sue opere sono il frutto di una sconfinata capacità creatrice unita ad una eccezionale abilità tecnica e rapidità di mano. Questi suoi pregi si rivelano entrambi anche nei suoi paesaggi, ed é con lui che per la prima volta il paesaggio si eleva a riproduzione della natura interpretata liberamente e con sentimento originale e personale.

Il suo allievo Antonio van Dyck (1599-1641) all'inizio ne imitò la maniera, spesso persino in misura esagerata, ma in seguito con lo studio dei pittori italiani, e principalmente dei veneziani, si formò una personalità artistica propria e adottò una maniera più fine, nervosa e sensibile. E in questo indirizzo raggiunse la perfezione, quale si palesa nei suoi aristocratici quadri di figure; egli divenne quel meravigliosamente acuto psicologo, quello squisito interprete, quel maestro di un colorito morbido e a un tempo sicuro e nobile, che ne fece il principe incontestato dei ritrattisti. Con lui l'arte fiamminga mediante il connubio con l'arte veneziana, si innalzò al più alto grado di nobiltà.

Carattere del tutto diverso e schiettamente nazionale assunse la pittura olandese. Essa rispecchiò l'ambiente della semplice e vigorosa borghesia paesana, il temperamento gioviale e insieme risoluto di quel popolo che era stato artefice della propria libertà, e il colorito nettamente democratico degli ordinamenti sociali e politici. Il trapasso dal XVI al XVII secolo segna la data di nascita dell'arte olandese. Sorge Francesco Hals che come ritrattista si distingue per l'energico rilievo delle caratteristiche individuali dei suoi soggetti e per la maniera ardita e larga; Aertsen e Pietro Breughel senior riproducono con acume e vigore scene dell'ambiente, spesso rozzo e grossolano, dei contadini olandesi; Pietro Breughel junior e David Teniers si dilettano di rappresentazioni fantastiche di tutto un mondo infernale e spettrale che in modo manifesto riflette i tratti meno buoni del carattere degli olandesi settentrionali, in specie la sfrontata sensualità; e finalmente Giovanni van Goyen crea la pittura di paesaggio olandese, piena di sentimento e splendore.

Richelieu si alleò con questa nazione piena di vitalità e di energia e nella coscienza della propria forza aspirante a più alti destini. Ma egli si vedeva ancora impedito dal condurre una politica estera risoluta da due ostacoli interni; da un lato gli Ugonotti, i quali, vedendo sistematicamente inculcati dal governo francese i residui della loro indipendenza politica, sobillati e finanziati dalla Spagna, si erano levati in armi nel gennaio 1625 sotto la guida di due membri dell'alta nobiltà i fratelli Rohan e Soubise; dall'altro lato il partito filospagnolo clericale intransigente.

Richelieu concepì il geniale disegno di servirsi prima dei suoi alleati protestanti stranieri per sottomettere i loro correligionari francesi, e poi di riconciliarsi i clericali senza fare troppi sacrifici.
E riuscì a raggiungere ambedue questi scopi. Siccome gli Ugonotti per aver fatto lega con la Spagna erano guardati addirittura come apostati e nemici della comune causa protestante, così Richelieu ottenne che navi inglesi ed olandesi lo aiutassero a conquistare La Rochelle.
I riformati francesi furono costretti nel 1626 a venire ad un compromesso col governo, che peraltro diede loro solo belle promesse piuttosto che reali vantaggi. Conseguito il primo intento, Richelieu piantò in asso i suoi alleati protestanti e, per accattivarsi i capi del partito clericale, concluse nel maggio 1626 a Barcellona la pace separata con la Spagna.

La Valtellina venne dichiarata indipendente. Con ciò la Spagna veniva costretta ad abbandonare la sua preda e gli importanti passi alpini che le stavano a cuore, ma anche i Grigioni, alleati per tanto tempo della Francia, si trovarono spogliati della loro provincia.

A questo punto Richelieu vide sollevarglisi contro il terzo elemento che gli faceva l'opposizione all'interno: l'alta nobiltà capitanata dallo stesso fratello del re, il duca Gastone d'Orleans. Per fortuna del primo ministro di Luigi questo principe, benché amabile e di squisita educazione, era però un uomo di intelligenza limitata, fiacco ed egoista, sempre pronto a tradire i suoi amici e fedeli per salvare sé stesso.
Richelieu decise di restaurare l'autorità del re anche di fronte ai suoi prossimi parenti. Fece imprigionare due fratelli naturali di Luigi, i Vendome, e giustiziare i minori partecipi della congiura. Il duca di Orleans che li aveva denunziati si consolò della triste sorte ad essi toccata sposando la più ricca ereditiera di Francia, la principessa di Montpensier, con l'effetto di portare ad una altezza per quei tempi favolosa le sue rendite annue.

Sembra inconcepibile che il re potesse dubitare un momento nello scegliere tra gente simile ed il suo geniale ministro. Eppure non lo amava, perché l'immensa superiorità di quell'uomo gravava come un incomodo giogo sulla sua ristretta intelligenza, e angustiava il suo carattere pusillanime, debole e gretto. Fortuna per Richelieu che Luigi, pur non amandolo, lo temeva e lo riconosceva indispensabile, cosicché non osò mai disfarsi dell'odiato padrone; ed anzi prese a cuore sotto la guida del cardinale, con solerzia e non senza una certa abilità il disbrigo degli affari minuti in materia di amministrazione militare; il monarca divenne un buon capo-ufficio del ministero della guerra. E giunse persino ad inserire nella ufficiosa Gazette de France degli articoli, scritti di propria mano, per esaltare la politica del suo primo ministro. Nel resto non si occupò che di pratiche religiose e della sua unica passione, la caccia.

La sconfitta dell'alta aristocrazia provocò il ridestarsi dell'odio del popolo contro la nobiltà. Approfittando di queste condizioni dello spirito pubblico ed informandosi ad un desiderio ripetutamente manifestato dal terzo stato, una ordinanza del 31 luglio 1626 prescrisse lo smantellamento di tutte le fortificazioni dei castelli nobiliari.
L'ordine aveva una portata considerevole, perché arrecava un colpo radicale alle autonomie feudali; esso fu eseguito con entusiasmo ed a suon di musiche dalle stesse popolazioni dei comuni rurali. L'immensa maggioranza del popolo francese, dopo i gravi travagli della guerra civile, agognava alla tranquillità, all'ordine, all'incremento del benessere economico, e possibilmente alla gloria fuori dei confini del paese. Ed il suo vivo attaccamento alla monarchia rese possibile al cardinale di abbattere e distruggere senza pietà tutti i nemici onnipotenti della corona, di cui egli, come ministro, voleva essere l'assertore e il realizzatore. E nell'agire così, egli ebbe di continuo l'appoggio dello spirito nazionale.

Gli Ugonotti, i quali non potevano consolarsi della perdita della loro indipendenza politica, insorsero nuovamente nel 1627, istigati questa volta dall'Inghilterra, irritatissima contro il cardinale per la pace separata da lui conclusa con la Spagna a Barcellona. Ma le forze inglesi di terra e di mare non furono in grado di spuntarla contro le difese apprestate e messe in campo da Richelieu, altrettanto buon generale quanto eminente uomo di Stato e principe della Chiesa.
Egli assediò La Rochelle, che sotto la guida del proprio borgomastro Jean Guiton si difese con tenace valore. Ma finalmente la fame costrinse la città alla resa; essa perdette le sue libertà, la sua religione e vide abbattute le sue mura (novembre 1628).
Nel luglio 1629 dovettero sottomettersi anche i protestanti di Montauban e delle Cevenne. Richelieu promise loro completa tolleranza religiosa e mantenne la parola. Ciò del resto non era che una applicazione del suo criterio che gli interessi religiosi dovevano subordinarsi agli interessi politici dello Stato, criterio del quale si ebbe la prova più palese allorché Richelieu, cardinale della chiesa, con grave scandalo della Santa Sede, pose un altro cardinale, La Vallette, accanto a due protestanti, il duca di Weimar e il duca de la Force, per combattere gli eserciti cattolici dell'imperatore, della Spagna e della Lega tedesca.

Ma il partito clericale fu molto malcontento del trattamento mite fatto agli Ugonotti. A capo di esso si mise la stessa Maria dei Medici, un tempo protettrice di Richelieu ed ora insofferente dell'onnipotenza acquistata dal suo protetto e irritata per la tolleranza religiosa ch'egli praticava. Essa fece un tentativo per abbatterlo. Ma il re suo figlio comprese da che parte stesse l'interesse della corona. Maria, scesa in campo, dopo breve speranza di vittoria, subì una decisiva sconfitta l'11 novembre 1630 (Journée des dupes); si vide costretta a fuggire dalla Francia e riparò prima a Bruxelles, poi a Colonia, dove morì dodici anni dopo in angustie finanziarie, lei, la vedova di Enrico IV, la già reggente di Francia, perché aveva osato opporsi al progresso del principio monarchico. Poteva questo vantare un trionfo più splendido?

Gastone di Orleans, allora erede presuntivo del trono, che aveva parteggiato per Maria, riparò presso uno dei più inconciliabili nemici della Francia, il duca Carlo IV di Lorena.
Se non che ecco che ora non solo la nobiltà, ma anche i ceti più elevati della borghesia trovarono ingiustificabile che un uomo, salito da modesta condizione all'alta sua carica, per accrescere la propria potenza avesse cacciato la madre ed il fratello e l'erede del re.
Tutti i vecchi elementi storici della società francese, alta nobiltà, magistrature cittadine, parlamenti, insorsero contro il sanguinoso rivoluzionario in porpora cardinalizia.
Alla loro testa si misero Gastone di Orleans e il duca di Montmorency, ultimo rampollo della più illustre famiglia nobile francese. In aiuto dei ribelli vennero truppe spagnole e lorenesi. Per quanto pericolosa fosse la sua situazione, Richelieu non perdette neppure un momento il coraggio e l'energia. Le truppe regie furono pronte a fronteggiarla dappertutto. Ai Lorenesi e Spagnoli si rispose portando la guerra nei loro stessi possedimenti. Montmorency poi attaccò audacemente il maresciallo di Francia Schomberg nel suo campo trincerato presso Castelnaudary, ma rimase ferito nella battaglia e fu preso prigioniero (1° settembre 1632).

La caduta del popolare capo-parte scompigliò e dissolse automaticamente il partito della resistenza. Gastone al suo solito non si preoccupò che di salvare sé stesso e le sue ricchezze e così fece pace col ministro lasciandogli mano libera contro i suoi sventurati compagni ed abbandonandoli al rigore delle leggi. Un campione più abietto e spregevole non avrebbe potuto trovare la causa delle autonomie e dei privilegi particolari tradizionali per opporsi alla rivoluzione procedente dall'alto.

Dopo ciò la vendetta di Richelieu colpì tutte le personalità più cospicue partecipi dell'insurrezione. Aprendo la serie l'ultimo dei Montmorency finì sul patibolo (30 ottobre 1632). Poi vennero istituite commissioni straordinarie che in funzione di tribunali eccezionali percorsero le province e senza forme di procedura, anzi senza neppure sentire gli accusati, pronunziarono numerose condanne a morte. L'autorità del primo ministro doveva trionfare anche a discapito della legge.

Prima ancora di aver portato a compimento la prima parte del compito che si era prefisso, cioé l'eliminazione di tutti gli elementi interni recalcitranti all'instaurazione dell'assolutismo monarchico, Richelieu ne intraprese anche la seconda parte: l'elevazione della Francia al di sopra di tutti gli altri Stati, ed in particolare l'umiliazione della casa d'Absburgo.
Oltre a ciò gli premeva di ampliare e rafforzare i confini della Francia, da ogni lato aperti e malsicuri, strappando all'impero tedesco il confine del Reno ed alla Spagna il confine dei Pirenei. Allo scopo egli diresse la politica, condusse le trattative, e comandò anche in guerra. Coperto d'armatura, la spada al fianco, come tanti altri prelati medioevali, venne nel 1629 e nel 1630 in Italia alla testa dell'esercito, in occasione della lotta per la successione al ducato di Mantova.

Gli splendidi risultati di queste due campagne furono l'assoggettamento della Savoia, la conquista della forte cittadella alpina di Pinerolo e l'insediamento di un francese, un Nevers, sul trono ducale di Mantova. Poco dopo Richelieu appoggiò ed aiutò gli Svedesi guidati da Gustavo Adolfo contro l'imperatore.
Ma anche il nuovo sovrano di Spagna, Filippo IV, succeduto nel 1621 a suo padre, era fermamente deciso di ridonare al suo Stato il vecchio predominio in Europa. Però questo principe mite, entusiastico dilettante di musica, poesia e pittura, si sentiva quasi schiacciato da un compito così arduo; cercò quindi di affidarlo a mani più esperte e credette di aver trovato l'uomo ad hoc in un suo favorito, Gaspare Guzman, conte di Olivares, il quale, avendo ricevuto anche il titolo di duca, ben presto venne comunemente chiamato il conte-duca.

In un ambiente favorevole Olivares avrebbe potuto certamente rendere ottimi servizi come uomo di governo. Ancora giovane, impegnava l'intera giornata e spesso fino a tarda notte a sbrigare gli affari di Stato, cercando le uniche sue distrazioni nello studio e nell'interesse per le cose d'arte. Egli si studiò con ogni cura e avvedutezza di eliminare le gravi manchevolezze che indebolivano l'organismo della società e dello stato spagnolo. Ma non riuscì a sanare le manchevolezze più deleterie: l'intolleranza e la cupidigia del clero spagnolo e la politica aggressiva che il re voleva seguire e gli imponeva di seguire, mentre le forze della Spagna non erano più all'altezza di sostenerla.

Filippo IV, che per vanità infantile si era attribuito il titolo di «grande», pretese che i suoi eserciti combattessero contemporaneamente in Germania, in Italia e nei Paesi Bassi.

Qui sparirono dalle scene a breve distanza di tempo l'uno dall'altro i due generali avversari: Spinola, che nel 1625 dovette lasciare il comando per quella infermità che quattro anni dopo lo condusse alla tomba, e Maurizio d'Orange che morì nello stesso anno. A quest'ultimo successe il fratello Federico Enrico (nato nel 1584), valoroso ed esperto come uomo di guerra, accorto e riflessivo come uomo politico, colto umanista. Di animo buono e conciliante, egli cercò di eliminare il dissidio tra arminiani e gomaristi. Sotto il suo abile e saggio governo le Province unite raggiunsero l'apogeo della loro ricchezza e potenza, tanto che quel piccolo paese divenne uno degli Stati preponderanti d'Europa.

Come uomo di guerra egli fu il prototipo dell'ufficiale superiore del genio. I numerosi metodici assedi da lui intrapresi divennero la scuola di tutti i giovani desiderosi di addestrarsi nell'arte militare. Il suo sistema era quello di trasformare lo stesso campo dall'assediante in una fortezza capace di respingere così le sortite degli assediati come gli attacchi degli eserciti di soccorso; poi faceva passo passo avanzare i camminamenti e le batterie contro i trinceramenti avversari, sinché gli riusciva di aprire con le artiglierie una breccia nella linea principale di difesa; il che, giusta le regole dell'arte bellica del tempo provocava la capitolazione; insomma un gioco di scacchi con figure viventi.

Nel frattempo le flotte olandesi spazzavano via gli spagnoli dai mari; nel 1628 l'ammiraglio olandese Peter Hein catturò l'intera flotta spagnola che recava il carico d'argento ricavato dal Perù.
Da parte sua Richelieu iniziò la lotta contro gli Absburgo in Germania, giovandosi in questa caso del consiglio di padre Giuseppe, un provetto ed astuto diplomatico. I francesi conquistarono il principato di Treviri, il ducato di Lorena e costrinsero le città dell'Alsazia ed il principe elettore di Colonia a mettersi sotto il loro protettorato. Il proposito del cardinale di impadronirsi della riva sinistra del Reno si rivelò così in forma netta e concreta. Se non che non era cosa tanto facile fiaccare la vecchia e ben radicata potenza della casa d'Absburgo.

Nelle province meridionali dei Paesi Bassi, dopo la morte di Alberto (1621) e di Isabella (1633), assunse il governo un fratello di Filippo IV, il cardinale infante Ferdinando, mezzo sacerdote e mezzo uomo d'armi, personalità energica, risoluta, laboriosa e fornita di capacità non comune. Costui seppe dare sviluppo ed incremento alle ricche risorse naturali delle province belghe ed utilizzarle per lottare energicamente contro i nemici degli Absburgo.
In Germania l'imperatore e la Lega ripresero il sopravvento con la vittoria di Nordlingen (1634) e con la pace di Praga (1635) che procurò loro l'alleanza dei più potenti principi protestanti. Richelieu comprese che occorreva impostare la lotta più risolutamente e su scala più vasta per poter aver ragione degli avversari.

Nel febbraio 1635 egli concluse una alleanza con gli stati generali per la conquista delle province dei Paesi Bassi dominate dalla Spagna; la parte settentrionale di esse sarebbe toccata alle Provincie unite, la meridionale alla Francia. Dopo ciò il 19 maggio 1635 egli dichiarò formalmente la guerra alla Spagna, e assoldò Bernardo di Weimar col suo piccolo ed agguerrito esercito di tedeschi, promettendo contemporaneamente al duca la signoria sull'Alsazia.
Se non che solamente questo piccolo esercito combatté con successo. Invece le truppe francesi, per la maggior parte di nuova leva e disabituate alle armi, si rivelarono del tutto prive di combattività, codarde e indisciplinate, e ancor di più i loro generali incapaci, avidi e litigiosi, ignoranti e rapaci. Uno dei principali tra questi generali era un favorito di Richelieu, militarmente inservibile, il cardinale de la Valette, il «generale col berretto da prete », come lo chiamarono per celia i soldati.

Un altro inconveniente fu che Richelieu pretese di dirigere egli stesso da Parigi le operazioni militari fin nei minimi particolari. Ne derivò che nessuna mossa o operazione fu mai fatta a tempo e luogo debito, e venne a mancare nei generali francesi ogni spirito di iniziativa e ogni rapidità di decisione. Nonostante i loro 132.000 uomini i francesi si trovarono ben presto a mal partito così nei Paesi Bassi, come in Germania e nei Grigioni. L'attacco francese fu respinto da ogni lato, e l'anno dopo (1636) gli Absburgo passarono persino all'offensiva portando la guerra sul territorio francese.
Un corpo di truppe spagnole sbarcò nella Bretagna, un altro invase, devastandola, la Guascogna; un terzo cacciò i francesi dalla Lorena e penetrò in Borgogna. Ancora una volta le armi spagnole non smentirono la loro superiorità sugli eserciti francesi affermatasi per più d'un secolo. Trentamila spagnoli ed imperiali al comando del cardinale infante penetrarono in Picardia e conquistarono una serie di fortezze; il temuto generale Giovanni von Werth con i suoi cavalieri croati e polacchi seminò il terrore sotto le porte di Parigi.

Cinquant'anni prima di fronte ad un simile scacco ed a così gravi avversità la nobiltà ed il popolo sarebbero insorti in Francia ed avrebbero costretto il re a far la pace col nemico vittorioso. Ma per merito dei successivi governi illuminati di Enrico IV e di Richelieu il sentimento nazionale, il senso di solidarietà e il criterio politico del popolo francese avevano fatto notevoli progressi. Perciò, se a Parigi regnò per un momento lo sconforto e l'irritazione contro il primo ministro, fu cosa passeggera, ed altrettanto fugace fu il proposito del re di congedarlo. Quanto a Richelieu, il suo contegno in tanto frangente confermò la straordinaria forza del suo animo e del suo carattere.

Sconfitto nella lotta con i più acerbi avversari, con le finanze rovinate, circondato da intrighi di corte, minacciato da insurrezioni popolari, perseverò irremovibilmente sulla via tracciatasi: Egli si rivolse fiducioso alla popolazione parigina esortandola a difendere la capitale e con essa la Francia. Ed il popolo rispose immediatamente al suo appello in uno scoppio di entusiasmo patriottico; denaro e volontari affluirono in massa. E siccome i nemici indugiarono a trarre profitto dai vantaggi ottenuti, Richelieu ebbe modo di organizzare la resistenza e di respingerli almeno dalle immediate vicinanze della capitale.

Tuttavia neppure il successivo anno di guerra (1637) arrecò un mutamento nella situazione sfavorevole alla Francia. In Italia gli spagnoli ottennero talmente il sopravvento che costrinsero i duchi di Parma, Modena e Savoia a staccarsi dalla Francia. Nei Grigioni le popolazioni non vollero saperne dell'alta sovranità francese loro imposta da Richelieu. altrettanto quanto non volevano tollerare una sovranità spagnola o austriaca. Quindi insorsero contro il comandante francese, il duca di Rohan; e questo vecchio capo degli Ugonotti, lasciato senza aiuti da Richelieu perché non volle passare alla religione cattolica, si vide costretto, circondato come era da forze superiori, ad acconsentire allo sgombero immediato del paese.
Così l'Italia e gli importanti passi dei Grigioni erano andati perduti per la Francia. Né le cose andarono meglio a nord. Gli splendidi successi ottenuti qui da principio da Bernardo di Weimar si tramutarono alla fine in rovesci a causa del contegno imbelle delle truppe ausiliarie francesi. Anche l'invasione del Belgio, tentata dai francesi nel 1638, terminò con una completa disfatta, e così pure un loro tentativo di forzare i confini dei Pirenei.

Solo dove operò Bernardo di Weimar con i suoi mercenari tedeschi la fortuna arrise alla causa antiasburgica. In pieno inverno il duca, marciando attraverso il territorio neutrale svizzero, girò le posizioni nemiche sull'alto Reno e sgominò l'esercito imperiale con un audace attacco di sorpresa presso Rheinfelden (3 marzo 1638), nel quale trovò gloriosamente la morte l'eroico Rohan. Il comandante della cavalleria imperiale, Giovanni von Werth, che un anno e mezzo prima Parigi aveva veduto con sommo terrore sotto le sue mura, fu preso prigioniero a Rheinfelden ed esposto alla curiosità degli attoniti parigini come una belva rara. Finalmente Bernardo pose l'assedio alla forte Breisach, baluardo dei possedimenti austriaci sull'alto Reno.

Invano la corte viennese fece ogni sforzo per salvarla: tre eserciti mandati a soccorrerla vennero battuti dal Weimar, il quale costrinse la piazza ad arrendersi per fame nel dicembre 1638. Così l'alto Reno e la Svevia austriaca caddero nelle mani del duca di Weimar. Questi però pensò di tenersi per sé i territori conquistati, il che naturalmente lo mise in aspro conflitto con Richelieu, la cui mira era invece per l'appunto quella di assicurare alla Francia il confine del Reno. L'altero duca chiese di essere riconosciuto sovrano dell'Alsazia e Brisgovia, dichiarando che mai avrebbe voluto incontrare il biasimo di essere stato il primo a mutilare l'impero.

Ma la fortuna. rimase anche questa volta fedele a Richelieu. Mentre il cardinale si apprestava a costringere con la forca Bernardo a consegnare i territori in contesa, il duca improvvisamente morì il 18 luglio 1639, non di veleno propinatogli dai francesi, come allora falsamente si credette, ma di esaurimento e malattie causategli dalle immense fatiche e dalla continua tensione di tutte le facoltà cui si era assoggettato per tanti anni. La sola a trar profitto dalla sua morte fu la Francia. I tre « direttori», cui Bernardo prima di morire aveva affidato il comando del suo esercito, attribuendo posizione preminente sugli altri due al bernese Hans Ludwig von Erlach, si trovarono alla fine nella necessità di consegnare al re di Francia l'esercito e i territori conquistati, mediante il trattato 9 ottobre 1639. In esso Erlach si garantì speciali vantaggi, ma non per questo va accusato di tradimento, giacché le sue truppe, rimaste prive del loro capo e abbandonate da tutte le potenze, altro partito migliore non potevano prendere se non quello di seguire chi le aveva assoldate e prese al proprio servizio fin da principio. Ma il risultato fu che l'Alsazia, conquistata da soldati tedeschi, passò nelle mani della Francia.

Per Richelieu ciò costituì un successo magnifico. Ed un altro successo anche più decisivo ottennero i suoi alleati olandesi. L'eroico ammiraglio Martino van Tromp in quattro ore di combattimento annientò nella Manica (1639) la grande flotta di 70 navi di linea che la Spagna, dando fondo alle sue ultime risorse marittime, aveva allestita ed inviata verso i Paesi Bassi con 12.000 soldati. Da questo momento la Spagna sparì dal novero delle grandi potenze marittime.

Le cose andarono assai diversamente nei confronti degli eserciti spagnoli di terraferma, i quali conservarono la loro decisiva superiorità sulle truppe francesi. Con questi soldati, imbevuti di una tradizione militare gloriosa e pieni di sentimento d'onore cavalleresco, l'italiano Ottavio Piccolomini distrusse l'esercito francese che al comando di Fouquiéres assediava Diedenhofen (Thionville) in Lorena. Ciò avveniva nel nord.
In Savoia, contro la reggente Cristina, figlia di Enrico IV, che governava il paese come se si trattasse di una appendice dalla Francia, si levò un partito favorevole alla Spagna, capitanato da due parenti della casa ducale sabauda, l'audace soldato principe Tommaso ed il cardinale Maurizio. Con l'aiuto degli spagnoli costoro conquistarono quasi tutta la Savoia e nel luglio 1639 anche la stessa capitale Torino. Il popolo e la guarnigione di Nizza insorsero e pure loro consegnarono quell'importante porto marittimo agli spagnoli.

Ma qui finirono pure i successi della Spagna. Con l'anno 1640 maturarono i germi della dissoluzione che già da tempo si erano diffusi nell'organismo dello Stato spagnolo. Due importanti province, situate agli estremi opposti della penisola, se ne staccarono. La regione nord-orientale, la Catalogna, aveva sempre nutrito un'intima e cordiale avversione per i Castigliani, le cui radici stavano nella completa diversità di lingua, di istituzioni e di tradizioni storiche. Finché il regno si trovò nella fase vittoriosa di ascensione, i catalani, in grazia dei vantaggi che ricavavano dal dominio mondiale spagnolo, tollerarono la supremazia dei ruvidi, orgogliosi, taciturni castigliani. Ma quando non ebbero più che da sopportare sacrifici e pene, quelle popolazioni volubili, parlanti un dialetto meridionale francese, perdettero la pazienza. I disagi e i danni derivanti dalla guerra che infieriva ai suoi confini provocarono nel luglio 1640 l'insurrezione dell'intera provincia. La deputazione generale degli stati catalani si adunò d'urgenza e si rivolse per aiuto alla Francia. Richelieu fu ben felice di accordare questo aiuto.

Alieno come era dagli idealismi politici e fedele al suo criterio di opportunità, egli non esitò un momento a favorire in Catalogna la causa della libertà, dal momento che ciò poteva tornare utile alla Francia, mentre in casa sua, in Francia, era stato ed era sempre il campione dell'assolutismo monarchico; allo stesso modo che, pur essendo cattolico convinto, non aveva avuto alcuno scrupolo ad appoggiare gli svedesi e tedeschi protestanti contro l'imperatore e la lega cattolica, e a venire in aiuto degli insorti inglesi e scozzesi contro Carlo I d'Inghilterra che gli si era mostrato ostile.

La sua mira era di assoggettare tutta l'Europa all'egemonia della Francia, e per raggiungere questo scopo ogni mezzo era per lui buono. E così un esercito francese penetrò in Catalogna, la quale nel dicembre 1640 strinse una formale alleanza a Barcellona con Luigi XIII. Un mese dopo gli stati di Catalogna elessero a loro sovrano il re francese col titolo di conte di Barcellona.

Inoltre Richelieu era da tempo in segrete relazioni con i capi del movimento antispagnolo in Portogallo. I funzionari supremi del paese, che avevano sempre sopportato di mala voglia la signoria spagnola imposta da Filippo II, facevano parte del complotto. Ai primi di dicembre 1640 scoppiò la rivolta, e tutto il popolo portoghese si levò come un solo uomo per riconquistare la propria indipendenza nazionale. Il duca di Braganza, il quale discendeva per via di donne dalla antica famiglia reale portoghese ed i cui immensi possedimenti occupavano quasi un terzo del paese, fu proclamato re col nome di Giovanni IV. Le deboli guarnigioni spagnole vennero cacciate dal territorio senza fatica.

La defezione della Catalogna e del Portogallo costrinse Filippo IV a distrarre gran parte delle sue forze militari per domare quelle insurrezioni. Ciò fu causa che le sorti della guerra nei Paesi Bassi, in Germania ed in Italia si volsero decisamente a suo disfavore. Da quest'anno (1640) infatti i francesi passarono in tutti e tre i teatri di guerra di successo in successo, agevolati anche dal fatto che la morte del cardinale infante Ferdinando (novembre 1640) li liberò dal loro più pericoloso avversario.
Così finalmente Richelieu raccolse, e sempre in crescente misura, i frutti delle sue immense e tenaci fatiche. Parve assicurato l'acquisto della parte meridionale del Belgio e dei territori tedeschi sulla sinistra del Reno.

Ma, in mezzo a questi successi da lungo tempo laboriosamente preparati Richelieu si vide seriamente minacciato di perdere la fiducia del re che costituiva il principale puntello della sua potenza. Per avere nell'entourage del monarca, il quale in fondo subiva di mala voglia la sua tutela, un amico influente, il cardinale aveva introdotto presso Luigi XIII un giovane, avvenente ed amabile gentiluomo, Enrico de Cinqmars, che almeno apparentemente gli era completamente devoto. E realmente Cinqmars seppe guadagnarsi in pieno il favore del re che lo elevò dopo breve tempo alla più alta carica di corte, quella di grande scudiero. Questa rapida fortuna ingenerò nell'animo del giovane vanitoso una stolta e frenetica ambizione; sicuro come era del favore del re, si credette predestinato ad abbattere il geniale ministro e mettersi al suo posto, probabilmente basandosi sulle frequenti confidenze che nelle relazioni personali il re gli aveva forse date, rivelandogli una intima avversione che sentiva per Richelieu.
Con queste mire Cinqmars, valendosi come intermediario del consigliere de Thou, figlio del famoso storico, ordì un complotto con alcuni membri dell'alta nobiltà nemici del cardinale; anzi, accecato dalla sua criminosa cupidigia di afferrare il potere, concluse un patto segreto con i nemici della sua patria, con gli spagnoli, nel quale, in compenso di aiuti pecuniari, promise la restituzione di tutte le conquiste francesi.

Ma questo trattato cadde nelle mani di Richelieu, il quale, mettendolo sotto gli occhi del re, lo convinse di colpo che l'interesse e l'onore della Francia stavano unicamente dalla parte del suo ministro. E Luigi sacrificò i suoi amici, allo stesso modo che un tempo aveva sacrificato la madre e il fratello, allo stesso modo che aveva sempre sacrificato sé medesimo. Questo sacrificio della propria personalità e di tutti quelli che gli stavano più a cuore all'interesse dello Stato da parte di questo monarca debole, e pur così sensibile alla voce del suo dovere, ha qualcosa di toccante e che ispira simpatia.

Richelieu era già gravemente malato; ma la prospettiva della morte vicina non mitigò il suo spietato spirito di vendetta, vendetta che egli ritenne di dover compiere per il bene dello Stato. Cingmars e de Thou finirono sul patibolo come rei di alto tradimento. Il duca di Bouillon, che aveva partecipato alla congiura, non poté salvare la propria libertà se non rinunziando ai suoi diritti di sovranità su Sedan, territorio che da allora rimase incorporato alla Francia.
Alla vigilia della sua morte Richelieu aveva raggiunto lo scopo che si era prefisso; quale rappresentante della corona egli era assoluto padrone della Francia. Dei membri dell'alta nobiltà chi non era finito sul patibolo viveva confinato in lontani possedimenti ovvero all'estero.

Gli appartenenti alla piccola nobiltà che prima avevano risieduto sulle loro terre vivendoci come principotti indipendenti, si affollavano ora alla corte, ovvero accorrevano alle carriere militari e amministrative facendo a gara per guadagnarsi il favore dell'onnipotente ministro. Clero e parlamenti conservavano dei loro antichi privilegi solo quel tanto che era conciliabile con l'assolutismo regio.
Tuttavia Richelieu non abolì le prerogative di cui godevano le classi privilegiate in confronto alle masse popolari, perché capiva che l'eguaglianza dei cittadini avrebbe finito per coalizzarli tutti contro l'assolutismo della corona. Ma questo strumento di difesa doveva a lungo andare dimostrarsi insufficiente.

Finché la nobiltà e l'alto clero avevano avuto una effettiva partecipazione al potere dello Stato, i loro privilegi sociali ed economici erano appunto per questo motivo apparsi naturali agli occhi della massa del popolo; ma quando questa funzione delle due classi venne meno, i loro privilegi apparvero ingiustificati, una vera usurpazione di benefici non controbilanciata da alcun corrispondente dovere, erano insomma dei veri e propri parassiti; ed allora quelle due classi cominciarono ad essere odiate.

Il fenomeno si era già delineato sotto il regno di Enrico IV. Oltre a questo: prima il popolo aveva potuto attribuire la responsabilità delle proprie sofferenze e privazioni all'opera personale dei ministri e marescialli della corona dotata di deboli poteri; ma dal momento in cui venne instaurato l'assolutismo regio, il rancore del popolo angariato si appuntò direttamente contro lo stesso sovrano; a lui personalmente si fece risalire la responsabilità degli ingiusti privilegi conservati alla nobiltà ed al clero, della pesantezza oppressiva delle imposte, della disonestà e delle estorsioni dei funzionari civili e militari, delle eventuali sconfitte in guerra.
Venne a mancare ogni paracadute tra corona e popolo. È così che Richelieu, il grande autocrate, preparò in realtà i germi della futura anche se ancora lontana rivoluzione.

Allo stesso risultato finale condusse anche un altro lato della sua opera; in antitesi cioè alla politica finanziaria saggia e misurata di Enrico IV, egli non esitò ad imporre alle finanze dello Stato spese ed oneri esorbitanti, tanto da portare il peso degli interessi del debito pubblico da 2 a 22 milioni, i quali, tenuto conto del valore della moneta a quei tempi, corrisponderebbero a molte centinaia di miliardi.
Procedendo su questa china si arrivò poi a quel dissesto finanziario che costituì il primo incentivo esteriore alla rivoluzione.

Nel campo amministrativo Richelieu seguì il principio dell'accentramento. Egli offrì un esemplare di quel sistema burocratico che si ingerisce negli affari anche i più minuti di ogni privato e di ogni villaggio e nel quale, sotto il nome del re, alcuni ministri decidono delle sorti di milioni di individui; fu cioè il creatore di un sistema che momentaneamente, se maneggiato da un capo dotato di qualità superiori, può dare splendidi risultati, ma che alla lunga uccide ogni iniziativa personale e, spegnendo l'interessamento del popolo alla cosa pubblica, spegne anche il sentimento patriottico.

L'accentramento burocratico francese, imitato ben presto nella maggior parte dei paesi europei dai sovrani o dai loro identici strumenti, costituì in particolare per la Francia per molto tempo il cancro roditore della vita pubblica e sociale.

Il sistema centralizzatore portò anche all'annullamento delle autonomie provinciali. Le province così perdettero ogni importanza politica, e questa si concentrò tutta nella sola capitale, Parigi, che divenne il cuore della nazione e la cui irrequieta e impulsiva popolazione d'ora in poi acquistò una influenza decisiva sulle sorti dell'intera Francia, mentre nelle vicende precedenti, anche importanti, come la guerra con gli inglesi e le guerre civili di religione, non si nota che Parigi abbia avuto importanza maggiore delle altre grandi città francesi.

Anche da questo lato pertanto Richelieu preparò con la sua mano la strada alla futura rivoluzione. Egli eresse a regola generale l'istituzione di intendenti in tutte le province; ciascuno di costoro amministrava la propria circoscrizione con pieni poteri in materia di polizia e nel campo giudiziario e finanziario, senza dover rispondere dei propri atti di fronte ad altri, all'infuori del primo ministro e senza essere tenuto ad obbedire che ai suoi ordini.
Il nobile governatore della provincia divenne da allora una specie di comparsa che ormai non faceva le sue apparizioni se non nelle cerimonie solenni. Di fronte a questi intendenti, giovani funzionari tratti dalla borghesia, e tutti creature sottomesse del primo ministro, la competenza dei tribunali ordinari ed in specie dei parlamenti subì gravissime limitazioni. In particolar modo ad essi fu tolta ogni facoltà di sindacare gli atti dell'autorità amministrativa e giudicare in merito. Di modo che chiunque dava ombra o fastidi al governo poteva senza giudizio essere cacciato in prigione. Fu Richelieu a trasformare la Bastiglia in carcere ordinario destinato permanentemente ad accogliere i prigionieri di Stato, mentre prima era una fortezza in cui solo occasionalmente erano stati rinchiusi dei condannati politici.

L'esercito, il principale sostegno dell'autorità regia all'interno e all'estero, fu considerevolmente accresciuto. Richelieu lo portò, dai 12.000 uomini che contava sotto Enrico IV, a 150.000 uomini. Nessuna meraviglia che egli, così facendo, abbia in modo insanabile rovinato le finanze dello Stato, ove si pensi che esercito e marina costavano 130 milioni annui, una spesa cioè che le risorse economiche della Francia d'allora non erano in grado di sopportare.

Il concordato di Francesco I aveva instaurato la strettissima unione della chiesa francese con lo Stato; la chiesa poneva al servizio della corona, cui spettava il conferimento di tutti gli uffici e benefici ecclesiastici, l'influenza della propria autorità spirituale, e il re dalla sua parte prestava alla chiesa l'aiuto del braccio secolare per la tutela della sua dottrina e dei suoi privilegi.
Ma Richelieu intese questa alleanza nel senso che lo Stato aveva il diritto di considerare la chiesa semplicemente come una dei più importanti ingranaggi del suo meccanismo e di servirsene quindi ai suoi fini. Per tale scopo Richelieu contribuì nel modo più lodevole all'elevazione morale e intellettuale della chiesa nazionale. Mentre sino ai suoi tempi i parroci, di fronte alla scandalosa ricchezza dei prelati, avevano in gran parte languito nella miseria, Richelieu assicurò mediante un editto regio un reddito minimo sufficiente ad una esistenza decorosa.
In parallelo cercò di riparare con ripetuti editti riformatori, e con l'invio nei chiostri di commissari regi alla degenerazione del ceto monastico; e favorì costantemente l'elevazione alle sedi vescovili di personalità distinte. D'altro canto la sua opera venne agevolata dalla tendenza ad una severa religiosità e correttezza di costumi che prevalsero nel seno della stessa chiesa francese. S. Francesco di Sales e S. Vincenzo di Paola si sforzarono efficacemente di indirizzare l'attività del clero ad opere di misericordia, alla cura degli infermi, all'educazione della gioventù, invece di abbandonarsi ad una oziosa contemplazione o addirittura alla bella vita.

Le congregazioni degli Oratorii e di S. Sulpicio, fondate allora dal cardinale Berulle e da altri ecclesiastici animati dagli stessi intendimenti, curarono la cultura del clero ed istituirono, secondo i precetti del concilio di Trento, seminari per la formazione di giovani sacerdoti. La riformata congregazione dei Benedettini di S. Mauro creò la scienza diplomatica e paleografica, procurando così un prezioso strumento di più profonda e sicura indagine storica. A nessuna di queste attività mancò l'incoraggiamento e l'aiuto di Richelieu. In compenso però egli tenne rigorosamente soggetta alla sua autorità la chiesa francese. Questa finì per raffigurarsi come uno degli organismi attraverso i quali si esercitava il potere regio; e quindi, proprio per questo motivo essa suscitò il malcontento del popolo, tale malcontento non poté a meno di riversarsi in ultima analisi anche per questo verso contro la monarchia.

Richelieu rivestì la sua potenza di tutto l'apparato esteriore della sovranità e dello splendore principesco. Un corpo di proprie guardie ed una numerosa corte di giovani gentiluomini circondavano e proteggevano la sua persona, persino all'interno del castello reale. Il suo palazzo, il Palais Cardinal (il futuro palazzo reale) era più splendido e più artisticamente decorato, più affollato di uomini di stato, di ufficiali, postulanti, scrittori ed artisti dello stesso Louvre, dove dimorava il misantropo, malinconico, noioso monarca. Il cardinale vedeva di mal occhio che si dirigessero le istanze al re piuttosto che a lui. Egli godeva di un appannaggio pari alla lista civile di un grande sovrano.

E non solo nel campo politico, ma anche nel campo intellettuale quest'uomo illuminato seppe instaurare il primato della Francia. Egli stesso incline agli studi e pieno di interesse per tutto ciò che era produzione dell'ingegno, volle dare il massimo impulso alle lettere e alle arti. Il francese doveva diventare, in luogo del latino, la lingua comune di tutto il mondo civile. Per renderla adatta a tale funzione, per renderla più pura e più forbita, egli fondò nel 1635 l'Accademia di Francia, col carattere di organo dello Stato destinato a fissare la forma della lingua e ad insegnare inoltre retorica ed arte poetica. Indubbiamente questa specie di magistratura letteraria ha incoraggiato e stimolato la produzione e contemporaneamente ha conferito alla prosa francese una forbitezza, correttezza ed eleganza non raggiunta in seguito mai più; ma ha pure soffocato ogni originalità e reso impossibile l'espressione di profondi e personali sentimenti. Alla vena fresca, geniale, popolare che zampilla spontanea nella letteratura francese del XVI secolo successe il convenzionalismo schematico formalmente raffinato del così detto periodo «classico».

Tutto assunse il tono cortigiano-aristocratico. Già negli ultimi anni del regno di Enrico IV sorse il primo di quei «salons», che poi dovevano nello spazio di due secoli esercitare così profonda influenza sulla letteratura e sui costumi sociali: quello della marchesa di Rambouillet, dove, accanto ai nobili che tenevano alla reputazione dei migliori ingegni ed alle nobili «preziose», anch'esse animate dalla stessa vanità, convennero anche i più eminenti scrittori per trovarsi la prima volta accomunati con i nobili su un piede di eguaglianza. Anche questi salons diffusero nella letteratura quella stessa maniera superficiale, per quanto piena di buon gusto e di galanteria, che regnava nella buona società.

Anche Richelieu era solito tenere un circolo di letterati nel suo palazzo; e lo frequentò, oltre a molti altri, il grande drammaturgo Pietro Corneille e il Voiture, le cui fini ed eleganti «Lettere» sono un vero campione dell'affettata ricercatezza e galanteria che dominava nei salons e di quella retorica intesa esclusivamente come culto della forma perfetta, che nella patente istitutiva dell'Accademia di Francia appare come il vero e proprio ideale da perseguirsi dallo scrittore e dall'oratore.

Anche la poesia acquistò l'impronta della grazia, del garbo, della levigatezza ed eleganza; ma essa dovette pagare questi pregi esteriori al caro prezzo del convenzionalismo e dell'artificiosità. Le pastoie della lingua ufficiale, di prammatica, impedirono il libero volo della fantasia, la fonte delle immagini e della creazione poetica. Se infatti si eccettuano gli autori drammatici, tutti gli altri poeti dei tempi di Richelieu sono schiettamente insignificanti.
Il teatro invece non ha mai raggiunto in Francia un'importanza così grande come in quest'epoca. La mania di recitar «la commedia» dilagò dappertutto, si diffuse tra giovani e vecchi, invase la cascina del villaggio come il castello reale. I teatri pubblici cessarono dal servire per propinare al popolo produzioni scollacciate e si trasformarono in teatri d'arte pura per le classi medie ed elevate. Ma nel modo di concepire questa « purezza » dell'arte scenica si andò oltre il segno, sempre per amore dell'aristocratico e dell'affettato.

La parola d'ordine fu data in questa materia dal grande cardinale in persona che si dichiarò in favore dei modelli antichi, così poco adatti alla Francia del XVII secolo, e persino in favore delle famose «tre unità» aristoteliche. La sua volontà faceva legge in letteratura altrettanto quanto in politica. Così venne consacrata per due secoli la «classicità» del dramma francese, e con sorprendente contraddizione la modernità del tono del suo dialogo e l'uniformità del metro. Ma era impossibile ottenere che nelle parole poste in bocca agli eroi del dramma risuonasse la vera voce del sentimento, quando costoro, rappresentando personaggi greci, romani o asiatici, si interpellavano con monsieur e madame e condivano il loro dialogo con tutta la più azzimata fraseologia dei salons; era impossibile rinchiudere il movimento di una azione veramente drammatica nelle strettoie delle tre unità. Era una impresa disperata, contro la quale si infranse persino il genio di Corneille, il quale, pur essendo un poeta di ingegno potente ed ardito, pur possedendo indiscutibili attitudini drammatiche e acuto discernimento, finì per cadere in uno schematismo monotono di disegno e di linguaggio, nel prolisso e nel retorico.

Un simile ambiente di costrizione intellettuale non era adatto per un pensatore indipendente ed originale come il grande filosofo Renato Descartes (Cartesio, 1596-1650). Egli aveva temprato il suo corpo e il suo spirito servendo negli eserciti olandesi e imperiali ed attendendo indefessamente agli studi, mentre aveva allargato e moltiplicato le sue cognizioni con lunghi viaggi. Per scrivere le sue opere filosofiche e fisiche, frutto di lunga e ponderata riflessione, egli si ritirò nella libera Olanda.
Come tanti altri suoi contemporanei, questo ardito pensatore era stato colpito dalla manchevolezza e dalla incertezza della scienza del tempo. Ma, a differenza di Montaigne, Charron e molti altri che cercarono rifugio in uno sterile scetticismo, egli tentò la soluzione del problema della conoscenza in un dato indubbio dell'esperienza interna, nella certezza dell'essere insita nella nostra coscienza (cogito, ergo sum), muovendo dal quale era possibile costruire tutto il sistema dell'universo.

Il principio posto da Cartesio è stato in seguito impugnato, ma il metodo da lui scoperto ha inaugurato la filosofia moderna e le ha additato la via da seguire. La sua influenza sull'età immediatamente a lui posteriore fu profonda. Le menti più elette furono profondamente toccate e trascinate dalla proclamazione da lui fatta dell'assoluta supremazia spettante alla ragione e della irrilevanza di fronte ad essa di ogni tradizione od autorità.
I filosofi francesi più eminenti del secolo seguirono con entusiasmo la via tracciata da Cartesio; così Pascal, Arnauld, Bossuet, Fénélon, Boileau, Lafontaine, Geuliner, Malebranche. Ma anche del Leibnitz deve dirsi la stessa cosa.
Descartes fu un precursore anche nel campo delle matematiche. Egli é il fondatore della geometria analitica, in virtù della quale soltanto si poté verificare ogni ulteriore sviluppo della matematica in genere. Anche la teoria della luce deve a questo genio i suoi più considerevoli progressi. Egli scoprì la legge della rifrazione dei raggi nel passaggio da un medium ad un altro e con questo preparò le grandi scoperte di Newton e di Leibnitz.

Nessun genio di pari grandezza rivelò l'arte francese, alla quale pure Richelieu fu largo del suo (pericoloso) favore, così distruttivo di ogni originalità. In questo campo dominò schematismo, arido raziocinio e falsa classicità. A tale andazzo non seppe sottrarsi nella pittura nemmeno Nicola Poussin, benché fosse un artista dotato dalla natura di poderose attitudini, capace di concezioni grandiose e di grande efficacia plastica.
Lo stesso si può dire di Eustachio Lesueur, (1617-1655), che era un disegnatore eccellente ed abbastanza espressivo, eppure si lasciò andare, per seguire la moda generale, ad uno snervato idealismo cui credette di dover servire mediante l'impiego di una intonazione coloristica triste, uniformemente pallida; schematica. Ad un gradino ancor più basso discesero la scultura e l'architettura, impastoiate come erano nelle esigenze inderogabili del gusto aulico del tempo, tutto infatuato di una vuota ed ampollosa sontuosità.

Giammai la Francia aveva posseduto un padrone che ne avesse penetrato e dominato l'intera vita come il cardinale di Richelieu. Politica, esercito, amministrazione, sviluppo intellettuale ed artistico, tutto fu signoreggiato da quest'uomo straordinario.
Il 4 dicembre 1642 Richelieu fu strocato da una malattia di petto che da lungo tempo lo tormentava. Egli sparì, ma la sua opera rimase. Richelieu trasformò la Francia e l'Europa e diede loro l'assetto che perdurò sino alla grande rivoluzione del 1789.
Tuttavia anche questa nelle sue lontane radici rimonta a lui.

Il colossale conflitto tra la riforma e la controriforma si risolse così nell'Europa occidentale con la sconfitta del campione della reazione, la Spagna, che ne uscì estenuata, spogliata delle sue più belle provincie, decaduta dal rango di grande potenza.

Sulle rovine della potenza spagnuola sorse l'edificio della progressiva grandezza dell'Inghilterra e dell'Olanda. Ma chi trasse il maggior profitto dalla caduta della Spagna fu la sua vecchia rivale, la Francia, la quale fu la prima ad attuare il principio della tolleranza religiosa e della subordinazione degli interessi religiosi alle esigenze ed all'interesse politico dello Stato.
Chi potrebbe in ciò disconoscere un promettente avviamento verso la libertà di coscienza e di pensiero, pari a quello rappresentato nell'Europa centrale dalla pace di Westfalia che consacrò l'equiparazione e la pacifica coesistenza delle confessioni religiose?
Non vi é dubbio; dalla lotta tra la riforma e la controriforma uscì il principio della libertà di coscienza e cominciò a penetrare nel diritto pubblico europeo.

Con Richelieu si chiude un epoca, quella delle "lotte religiose"
e ne sorge un'altra: l'Età Moderna della "grande politica".

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