13. LA GUERRA DEL PELOPONNESO

Questa guerra fra i Greci, dopo il lungo periodo di pace che aveva come per incanto fatto fiorire l'età d'oro della cultura ellenica, è conosciuta nella storia con il nome di "Guerra Peloponnesiaca". Durò ventisette anni, fu accompagnata da una immensa spesa ed incredibile spargimento di sangue.
Nel corso di essa, ciascuna parte sperimentò pur con qualche momento di fortuna, i più crudeli colpi della sfortuna; e manifestò un coraggio, che se fosse stato unito, avrebbe potuto procurare i più grandi vantaggi sopra i comuni nemici.
Tucidide nella sua storia ci narra gli eventi dei primi ventuno anni di questa guerra, e Senofonte la continua.

LE CAUSE DELLA GUERRA

Causa fondamentale della guerra fu la rivalità fra Sparta e Atene.
Mentre il periodo migliore di pace, di prosperità economica e di splendore artistico nella Grecia di Pericle terminavano, iniziavano gli anni delle gelosie, concepite dagli altri Stati per l'eccessivo potere degli Ateniesi. Il maggiore antagonismo era soprattutto tra le due città-stato elleniche predominanti, e, fra due opposti principi politici che esse incarnavano, non poteva prima o poi di produrre un urto violento che decidesse per l'uno o per l'altro.

A Sparta si unirono i Lacedomi, i quali erano sostenuti dai Megaresi, Locri, Beozi, Tebani ed altri minori, eccetto la solita Argo. Atene invece aveva l'appoggio degli abitanti di Chio, Lesbo, Platea, e tutti i paesi tributari, come la Ionia, l'Ellesponto, le Città di Tracia.

Si narra in alcuni testi (filo-ateniesi) che nell'anno 431, le ostilità cominciarono dai Tebani, che assalirono Platea. Invece sembra che fu lo stesso Pericle a provocare il conflitto nel momento in cui era appena trascorso la metà degli anni fissati nel trattato di pace da lui concluso nell'anno 445 col re Spartano Plistoanace, figlio dello sfortunato Pausania.
Come abbiamo già accennato, questa pace trentennale, incontrò a Sparta viva disapprovazione in seno ad un partito molto esteso, il quale - dopo che gli efori erano tornati al potere - ottenne lo scopo di far sottoporre Plistoanace a giudizio per alto tradimento e di farlo deporre dalla carica. Ma non era ormai più possibile revocare il patto che lui aveva concluso con Atene. Ne approfittò Pericle che si trovò libere le mani contro l'Eubea; l'isola fu soggiogata dopo breve resistenza e ridotta alla piena dipendenza da Atene.

Era già il primo sintomo che Atene - forte delle risorse e della forza navale di cui si era dotata - aveva intrapreso una politica estera decisamente aggressiva.
In quel patto, Atene aveva rinunciato alla Beozia, a Megara e ai suoi possedimenti nel Peloponneso; in compenso Sparta aveva riconosciuto il predominio ateniese sul mare; ma non per questo voleva che Atene si espandesse ulteriormente invadendo altri possedimenti, non solo ingerendosi in quegli stati sotto l'influenza del Peloponneso Spartano, ma anche nel Mediterraneo orientale, dove né Sparta nè gli Ateniesi non avevano tale influenza. Era quindi per gli spartani una questione di gelosia, di invidia, di timore di non essere più la grande Sparta di un tempo.

La rottura del patto, era già avvenuta quattro anni prima della su menzionata invasione Tebana a Platea: nel 445 con una occasione esteriore, cioè quando Pericle convinto che non costituiva violazione della pace andare in soccorso dell'isola di Corcira (Corfù), aiutò questa a respingere un assalto di Corinto. Pericle non pensava che Corinto avrebbe spinto le cose all'estremo, né pensava che la lega peloponnesiaca avrebbe considerato l'aiuto ateniese a Corcira una grave ingerenza nelle sue questioni interne.
Ma sembra che Pericle non si ponesse questi scrupoli, anzi scopo e sue evidenti intenzioni erano quelle di ridimensionare la stessa Corinto (allora filo-peloponnesiaca). La posta in gioco era interessante e preziosa per due motivi: primo, perchè Corinto era una grande potenza navale filo-Spartana; secondo, perché lo stesso istmo di Corinto era - per gli Ateniesi - di grande importanza strategica.

L'occasione esteriore fu offerta da eventi svoltisi nell'Occidente greco. Ad Epidamno, una città della costa illirica che era stata da tempo fondata insieme da Corinto e da Cercira (ma ora una era filo-spartana, l'altra filo-ateniese), scoppiarono disordini interni, ed uno dei partiti si rivolse per aiuto a Corinto, l'altro ovviamente a Cercira. Ciò provocò la guerra fra queste due città e la vittoria all'inizio arrise ai Cerciresi (435). Ma Corinto si diede a fare grandi preparativi guerreschi e con l'aiuto degli Stati suoi alleati riuscì infatti a metter insieme una flotta di 150 navi da guerra, cui Cercira non poteva contrapporre che 120 navi al massimo. Di fronte al pericolo che la minacciava non restò a Cercira altra via che di rivolgersi all'unico Stato che poteva prestarle aiuto efficace, Atene. Nè Atene si lasciò sfuggire l'occasione, perchè Cercira, per la sua forte marina, per la sua posizione a cavallo delle vie commerciali che conducevano in Italia e in Sicilia era un'alleata molto preziosa, e perché soprattutto si aveva il massimo interesse ad impedire che quella importante isola cadesse in soggezione di Corinto.

Tuttavia, siccome si doveva aver riguardo al trattato esistente col Peloponneso, fu conclusa soltanto un'alleanza difensiva che obbligava Atene, in caso di un attacco contro Cercira da parte di Corinto, a difendere l'isola, ma non a concorrere ad una eventuale invasione del territorio di Corinto. Secondo il diritto internazionale greco una convenzione simile non costituiva violazione della pace; per di più Atene riteneva che Corinto non avrebbe spinto le cose all'estremo. Perciò essa si contentò di inviare solamente dieci navi da guerra a Cercira con un compito solo difensivo (433).

Ma una mezza misura é sempre un errore. Corinto credette di potersela sbrigare agevolmente con la piccola squadra ateniese e fece salpare la sua flotta. All'imboccatura dello stretto che separa Cercira dal continente, presso le isole Sibota, essa incontrò la flotta virtualmente nemica, forte di 10 navi cerciresi più le 10 navi ateniesi. Si impegnò in una battaglia navale, dalla quale gli Ateniesi, conformemente alle istruzioni ricevute, si tennero da principio in disparte; ma allorché i Cerciresi cominciavano a piegare dinanzi alla superiorità delle forze corinzie, le navi ateniesi si videro pur costrette ad intervenire nel combattimento. Esse sole non avrebbero naturalmente potuto mutare le sorti della giornata : ma nel momento decisivo apparve un rinforzo di 20 navi che gli Ateniesi avevano spedite appena saputo della partenza della flotta corinzia contro Cercira. Visto ciò, i Corinzi interruppero la battaglia ed iniziarono la ritirata non senza aver vivamente protestato per la violazione del trattato di pace compiuta dagli Ateniesi.

Cercira era salva, ma Atene doveva attendersi che Corinto non se la sarebbe presa in santa pace, e quindi era d'uopo prevenire un eventuale contrattacco. Sulla costa della Tracia, sopra l'angusto istmo che congiunge la penisola di Pallene col tronco principale della Calcidica esisteva la colonia corinzia di Potidea; essa apparteneva al territorio su cui Atene esercitava l'egemonia e pagava il tributo come le altre città confederate, ma conservava integri i suoi antichi legami con la sua metropoli che le forniva anno per anno il suo magistrato supremo, l'« epidamiurgo ». Allo stato attuale delle cose però Atene non credette di poter continuare a tollerare ciò, e quindi mandò a Potidea l'ordine di licenziare il funzionario corinzio, ed a garanzia della sua fedeltà, di abbattere una parte delle fortificazioni della città. Ma i Potideati rifiutarono di obbedire; le città vicine aderirono al movimento di rivolta e Corinto spedì in aiuto un corpo di 1000 opliti. Visto ciò Atene inviò in Tracia un esercito di 3000 opliti ; il nemico venne sconfitto sotto le mura di Potidea in battaglia campale e la città fu cinta d'assedio (432).

A questo punto Corinto cercò di indurre Sparta (che non aspettava che questo) ad intervenire contro Atene. Il governo spartano vi era più che disposta e già prima della ribellione di Potidea aveva fatto delle promesse in tal senso; ma la maggioranza dei cittadini si ritenne vincolata dal trattato di pace concluso con Atene ed ebbe scrupolo di rompere il giuramento prestato in proposito. In queste condizioni non si sarebbe probabilmente venuti ad una guerra, se Atene stessa non ne avesse offerto il pretesto. Qui, su proposta di Pericle, era stato subito deliberato di espellere dalla città tutti i Megaresi e vietare qualsiasi traffico fra Megara ed i porti della signoria ateniese; Megara così si vide chiusi i mercati sui quali aveva sinora smerciato i prodotti della propria industria. Evidentemente lo scopo della misura adottata era quello di costringere con questa pressione economica Megara, nella quale esisteva sempre un forte partito favorevole agli Ateniesi, a mettersi dalla parte di Atene.

Ma si ottenne il risultato perfettamente contrario; Megara mosse reclamo e si rivolse a Sparta, e questa non poté a meno di prendere a cuore la causa della sua alleata, giacché il trattato di pace fra Sparta ed Atene ed i rispettivi confederati garantiva ad ambedue le parti piena libertà di commercio e quindi l'atto compiuto da Atene contro Megara costituiva una patente violazione del trattato. Per conseguenza Sparta rivolse ad Atene l'invito di togliere il blocco commerciale indetto contro Megara.

Ma per quanto giusta fosse tale richiesta, l'uomo di Stato che governava le cose di Atene - Pericle - si mostrò poco disposto ad aderirvi. E ne aveva le sue buone ragioni; giacché la sua posizione si era venuta negli ultimi anni a trovare assai scossa. Pericle era salito in auge come capo delle masse nullatenenti, era del resto sì un nobile ma di tendenze filo-poplari; col loro aiuto aveva raggiunto un grado di potere che nessun cittadino ateniese aveva posseduto dai tempi di Ippia in poi. «Nominalmente vigeva la democrazia, ma in realtà Pericle era il padrone dello Stato», come dice per rispecchiare la situazione lo storiografo dell'epoca, Tucidide. Ciò naturalmente non poteva non suscitare una opposizione nel campo radicale.

Da parte loro poi le classi più elevate della cittadinanza non potevano perdonare a Pericle di essere stato lui a fare delle masse il fattore preponderante del governo dello Stato. Le due ali dell'opposizione, per quanto ordinariamente lontane l'una dall'altra negli ideali politici, si allearono ora per procedere ad una azione comune. Il primo attacco fu diretto contro Anassagora, il filosofo tanto amico di Pericle; egli venne accusato come propagatore di dottrine avverse alla religione e costretto ad abbandonare la città. Venne poi la volta di Aspasia; essa fu incolpata di aver traviato delle donne ateniesi a condurre un tenore di vita immorale e Pericle riuscì a salvarla soltanto a mala pena chiamando alla riscossa tutte le risorse della sua influenza. Poco dopo fu accusato Fidia di aver sottratto nell'eseguire la statua di Atene una parte del prezioso materiale affidatogli; egli morì in prigionia durante l'inchiesta prima ancora che il processo venisse dinanzi ai giudici. Anche questo colpo era diretto contro Pericle, al quale era toccata la sorveglianza in occasione della erezione della statua.

Era chiaro che prima o poi sarebbe venuto il suo turno; ma egli era risoluto di far fronte alla tempesta che lo minacciava ed il mezzo più efficace a tale scopo era quello di provocare lo scoppio di una grande guerra di fronte alla quale tutte i contrasti interni non potevano a meno di passare in seconda linea. Quindi Pericle dichiarò dinanzi all'assemblea popolare che era incompatibile con la dignità di Atene cedere nella questione di Megara. Non era che una frase, perché 14 anni prima Atene aveva pur fatto sacrifici assai maggiori per la pace; ma con questo linguaggio egli era sicuro di ottenere successo presso la gran massa del popolo. E infatti le domande spartane vennero respinte, di modo che a Sparta non rimase che prepararsi alla guerra.

Sparta concluse una alleanza con la Beozia e stabilì che nell'estate successiva l'esercito peloponnesiaco avrebbe invaso l'Attica.
Pericle ritenne di poter attendere con animo tranquillo l'avvicinarsi degli eventi. Senza dubbio Atene era di gran lunga inferiore alla sua avversaria per terra; ma in compenso era assoluta signora del mare, e quanto alla città come tale, essa era una fortezza imprendibile coi mezzi che offriva l'arte d'assedio del tempo. Anche finanziariamente Atene era assai superiore al nemico; nella sua cittadella giaceva un tesoro di guerra di 6000 talenti, somma immensa tenuto conto delle condizioni economiche della Grecia. Dagli alleati proveniva annualmente una entrata di 600 talenti e Atene stessa era la più ricca città dell'Ellade, mentre i Peloponnesiaci non avevano tesoro di guerra e perciò non potevano far conto che sulle modeste risorse contributive, e prescindendo da Corinto e da alcune altre città industriali, quelle erano proprio molto scarse. Sulla base di questa situazione Pericle architettò il suo piano di guerra.

Esso consisteva nel non arrischiare in nessun caso una battaglia campale; le campagne dell'Attica sarebbero state abbandonate senza resistenza in potere del nemico e gli abitanti avrebbero cercato rifugio dietro le mura di Atene. In compenso la flotta ateniese avrebbe inflitto i maggiori possibili danni al nemico col distruggerne il commercio marittimo e con opportuni sbarchi sulle coste del Peloponneso. Era da ritenere che così facendo gli Spartani si sarebbero dopo alcuni anni stancati e più disposti a fare pace.

Come si vede, tutto ciò che nella migliore ipotesi poteva ottenersi con un simile piano di guerra meramente passivo era una pace sulla base dello statu quo; e questo risultato si sarebbe potuto raggiungere anche senza guerra mostrandosi un po' più arrendevoli nella questione di Megara. E poi il persistere nel voler mantenere il blocco contro Megara, anche ammettendo che si riuscisse con tal mezzo a trarre dalla propria parte questa città, non era pagato a troppo caro prezzo con la rovina del ceto agricolo dell'Attica, rovina che doveva necessariamente essere la conseguenza dell'invasione straniera? Ma sopra tutto, chi garantiva che non si sarebbero verificati avvenimenti imprevisti e tali da mandare a monte tutti i calcoli fatti? E' vero che la signoria ateniese era generalmente in odio agli alleati ed era da aspettarsi con certezza che costoro avrebbero colto la prima occasione propizia per ribellarsi. Né era pure impossibile del tutto una ingerenza della Persia nella lotta. Atene invece era completamente isolata a non aveva da attendersi aiuti da nessun lato, giacché le simpatia degli Stati greci neutrali erano tutte per Sparta, la cui vittoria avrebbe arrecato la liberazione dei sudditi di Atene dalla (così dicevano) servitù tirannica di questa città.

Le ostilità furono aperte prima ancora che venisse formalmente dichiarata la guerra. D'accordo col partito oligarchico di Platea, i Tebani tentarono di impadronirsi con un colpo di mano di questa città che dopo la battaglia di Cheronea era l'unica nella Beozia che avesse persistito nell'alleanza con Atene. Ma il tentativo fallì; i 300 opliti tebani che approfittando dell'oscurità di una notte tempestosa penetrarono nella città, furono sopraffatti dai cittadini (marzo del 431).

Due mesi dopo re Archidamo radunò sull'istmo l'esercito alleato del Peloponneso, forte all'incirca di 2o a 25 mila opliti e di almeno altrettante truppe leggere; esso sarebbe stato poi raggiunto dal contingente della Beozia. Prima di invadere l'Attica, Archidamo fece ancora un ultimo tentativo di indurre Atene a sentimenti più concilianti; ma Pericle non permise all'araldo spartano di entrare in città; evidentemente egli ebbe timore che il partito della pace anche all'ultima ora potesse prendere il sopravvento. Non restò quindi che lasciar decidere le armi.

Ed Archidamo varcò i confini dell'Attica (maggio del 431). Ma anche ora egli procedé con lentezza; sperava tuttavia nella possibilità di un accomodamento, e diede perciò il tempo agli Ateniesi di mettere al sicuro in città la popolazione contadina con i suoi averi. Da canto suo Pericle non fece nulla per impedire l'avanzata del nemico; anzi se una preoccupazione lo agitava, era soltanto quella di essere costretto dalla pressione dell'opinione pubblica a dare una battaglia. Per impedire ciò, sin dalla primavera dell'anno stesso aveva mandato a Potidea un rinforzo di 1600 opliti, di modo che colà erano ora radunati 5000 opliti ateniesi, circa la terza parte delle forze disponibili, composta inoltre per l'appunto del fiore dell'esercito; dopo questo non vi era dubbio che anche al più corto di vista sarebbe chiaramente apparso una pazzia rischiare col resto dell'esercito la battaglia campale contro il nemico enormemente superiore in forze.

I Peloponnesiaci pertanto poterono devastare indisturbati le campagne; gli alberi fruttiferi vennero abbattuti, sradicate le viti, da ogni parte si vide levarsi il fumo dei villaggi in preda alle fiamme. Frattanto la popolazione rurale si era assiepata nelle vie della città coi suoi armenti e con le masserizie poste in salvo; tutta questa gente venne ricoverata alla meglio in baracche erette sulle piazze. Del resto il nemico ben presto si ritirò; i contingenti del Peloponneso non potevano essere trattenuti per lungo tempo sotto le armi, perché gli agricoltori, di cui era composta la massa dell'esercito, erano urgentemente chiamati ad accudire ai loro poderi. L'intera campagna era durata appena un mese.

Ancor mentre il nemico si trovava in paese Pericle aveva fatto partire una flotta di 100 navi per operare una dimostrazione contro il Peloponneso; ma siccome essa non recava a bordo come truppe di sbarco che 1000 opliti non poté naturalmente concludere nulla di serio. Nell'autunno poi fu intrapresa una spedizione a Megara per devastarne il territorio. Inoltre gli inermi abitanti di Egina vennero cacciati dalla loro isola sotto l'accusa di aver cospirato col nemico e le loro terre furono suddivise fra agricoltori ateniesi.
Il primo anno della guerra era pertanto rimasto privo di risultati dal punto di vista militare, se si eccettua il fatto che l'Attica era stata per metà devastata e resa deserta, mentre il Peloponneso ne era press'a poco uscito senza danni di sorta.

Nell'estate successiva (430) i Peloponnesiaci rinnovarono l'invasione; questa volta essi completarono l'opera e distrussero anche il mezzogiorno dell'Attica che avevano risparmiato l'anno prima. La popolazione contadina anche questa volta cercò rifugio dietro le mura di Atene. Qui però scoppiò una epidemia che fece una tremenda strage fra le masse straordinariamente addensate in città e per lo più ricoverate in anguste abitazioni. L'arte medica si mostrò impotente a porvi rimedio: chi era attaccato dal male era quasi sicuramente perduto e chi veniva in contatto con gli infermi ne rimaneva contagiato. Le strade si coprirono di cadaveri insepolti e per un certo tempo ogni ordine cittadino parve scomparso. In complesso nell'anno in corso e nel successivo quasi un quarto della popolazione dell'Attica cadde vittima dell'epidemia.
Pericle rimase anche questa volta fermo nel suo proposito di non accettare in nessun caso una battaglia campale; e per non esservi trascinato suo malgrado inviò la parte migliore dell'esercito, 4000 opliti, contro il Peloponneso e poi a Potidea.

Sotto l'aspetto militare questa spedizione era completamente inutile, perché era impossibile prendere all'assalto quella piazzaforte assai ben munita e d'altro lato per il semplice scopo di tenerla bloccata bastava abbondantemente l'esercito assediante che sinora era rimasto sotto le sue mura. L'unico risultato che se ne ottenne fu che la peste (con gli opliti che venivano dalla Atene infetta) si comunicò anche all'esercito assediante. Visto ciò, le truppe della spedizione furono subito richiamate, ma dei 4000 opliti ch'erano partiti, più di mille avevano dovuto nello spazio di quaranta giorni soccombere al morbo.

I Peloponnesiaci frattanto pure loro avevano sgombrato l'Attica per evitare di essere contagiati dalla peste, e infatti il Peloponneso rimase immune dall'epidemia. Ma ad Atene scoppiò ora contro Pericle quella tempesta che lo aveva minacciato due anni prima. Era naturale che si facesse risalire all'uomo che si trovava al governo dello Stato la responsabilità della sventura che aveva colpito la città; poiché, se anche la peste non era stata causata dalla guerra, era certamente una conseguenza della guerra provocata da Pericle il fatto ch'essa avesse potuto acquistare una così terribile espansione. Pericle fu pertanto deposto dalla carica di stratega che aveva per tanti anni ricoperta, fu chiamato in giudizio e condannato ad una grave multa per sottrazione di denaro pubblico; e poté ancora chiamarsi fortunato che la sentenza non suonò per lui sentenza di morte. Probabilmente dall'aspetto giuridico la sentenza era ingiusta, perchè sembra che Pericle sia stato uno dei pochi uomini di governo greci che abbia saputo mantenersi le mani completamente pulite. Ma la sentenza mirava a colpire non tanto il funzionario amministrativo, quanto l'uomo politico, l'uomo che per motivi personali aveva acceso fra gli Elleni una guerra fratricida e si era a questo modo reso colpevole del più grande delitto che conosca la storia intera dell'Ellade.

Già prima della caduta di Pericle erano state fatte offerte di pace a Sparta; ma esse vennero respinte, perché i Peloponnesiaci, ora che la potenza di Atene aveva ricevuto un così grave colpo dall'infierire della peste, credevano di avere in mano sicura la vittoria. La guerra pertanto continuò e ben presto Atene dovette convincersi che nessuno poteva convenientemente sostituire Pericle a capo dello Stato.

Egli venne quindi rieletto stratega per l'anno seguente (primavera 429). Ma Pericle era ormai un uomo finito. I due suoi figli legittimi erano morti, colpiti dall'epidemia; non gli restava che il figlio avuto da Aspasia e che ora egli legittimò. Aveva appena accettato nuovamente la carica di stratega che verso la fine dell'estate morì; Plutarco dice che morì di peste pure lui. Altri autori scrivono che fu consumato dalla malattia del languore.
La sua morte fu un dispiacere per tutti gli Ateniesi, fece capire la loro miseria, e si pentirono del severo trattamento usato con Pericle.
Pericle fu indubbiamente uno dei più grandi uomini nell'intera storia di Atene. In tutte le occasione aveva dimostrato grande magnaminità. L'assoluto potere che godette per lo spazio di quarant'anni, fu interamente acquistato dall'ammirabile sua eloquenza, che era così potente da trionfare di tutti i pregiudizi e passioni dei suoi oppositori, e condurli dove lui voleva.

Dalla relazione di Cicerone, egli fu quello che introdusse in Atene il gusto per la perfetta eloquenza. Aveva imparato da Anassagora tutti i segreti della persuasione, poi il suo genio fece il resto, impiegando questi mezzi con il più gran vantaggio.
La sua eloquenza fu paragonata al tuono della folgore, e fu indubbiamente questo potere che lo rese capace di opporsi agli irragionevoli desideri degli Ateniesi; che, sì gli lasciarono questo potere assoluto per quasi quarant'anni, ma spesso il popolo si comportò capriccioso, incostante, ed ingrato. Eppure lui altrettanto spesso usò il potere con tale dolcezza e moderazione - che anche se eresse l'Attica in una specie di monarchia, e di fatto lui era il re - non diede mai l'impressione di esserlo, anzi impedì alla sua amministrazione di operare con la tirannia.

Quanto alle sue qualità di guerriero o meglio di condottiero del suo popolo, schivò saggiamente di intraprendere spedizioni se non era sicuro del successo. Tenne sempre in buon conto più dello stratagemma che non del disperato coraggio.
Infine la sua onestà. Pur con quelle grosse rendite che via via Atene riuscì a incamerare, al di sopra di ogni piccolo e sordido proprio interesse, le impiegò in quello che giudicò il bene della repubblica, li usò nel promuovere le arti liberali e nel dare decoro e ornamento alla città.
Quando morì, solo allora gli Ateniesi si resero conto di queste qualità, e che i suoi successori - quanto a capacità - erano di molto inferiori a lui .

Pochi mesi prima della sua dipartita, era morto il suo maestro Anassagora, in estrema povertà, perchè lui aveva deciso di affamarsi fino alla morte. Pericle informato della sua condizione e della sua risoluzione andò a visitarlo per dissuaderlo. Anassagora lo accolse dicendogli "Coloro che abbisognano della luce di una lampada hanno cura di mantenerla con l'olio".
Passarrono poche settimane e anche Pericle lo seguì nel buio della tomba (autunno 429).

Se gli Ateniesi già nei primi anni avevano spinto prima mollemente la guerra, con rilassatezza anche maggiore la spinsero ora che l'epidemia e la morte di Pericle aveva paralizzato le energie dello Stato.
(Nota: Per ripopolare la città che con la peste aveva perso più di un terzo della sua popolazione, gli Ateniesi fecero una legge che permetteva a tutti i Cittadini di prendere due mogli ciascuno. Si narra che socrate fu uno dei primi ad approfittare del favore di questa legge.
(WILLIAM ROBERTSON op. cit.)

Potidea nell'inverno 430-429 fu costretta dalla fame ad arrendersi dopo un assedio durato più di due anni; i suoi cittadini ottennero la libertà, ma anche l'ordine di andarse, e furono sostituiti da coloni ateniesi. All'inizio dell'estate l'esercito assediante mosse contro Olinto, ma subì presso Spartolo una sanguinosa disfatta. Quasi contemporaneamente i Peloponnesiaci marciarono contro Platea. Il tentativo da essi fatto di prendere la piccola città con un assalto fallì e non rimase che circondarla da ogni lato e lasciar che la fame facesse il resto, allo stesso modo che aveano proceduto gli Ateniesi rispetto a Potidea. Né Atene si mosse per soccorrere la città alleata. In compenso la superiorità degli Ateniesi sul mare ricevette una splendida conferma con due vittorie che lo stratega Formione a capo di una piccola squadra riportò presso Naupatto sopra una flotta peloponnesiaca molto più numerosa.

Ancora una volta la guerra non aveva condotto ad un risultato decisivo da entrambe le parti. Atene, é vero, aveva pienamente conservati integri i suoi domini, ma li aveva conservati a prezzo di sacrifici molto gravi: le file dei suoi cittadini erano state diradate dalla peste, il tesoro di guerra in gran parte consumato, l'Attica divenuta un deserto. Tutto ciò non poteva a meno di scuotere profondamente l'autorità di Atene nel campo dei suoi alleati. Lesbo per prima credette giunto il momento di liberarsi dal giogo della egemonia ateniese. L'isola poteva disporre di una flotta abbastanza rilevante e di copiose risorse finanziarie; se altre città confederate, e soprattutto Chio, aderivano al movimento insurrezionale e se i Peloponnesi sapevano mettere a profitto il momento favorevole, il dominio ateniese poteva correre il pericolo di rovinare. Ma Atene in questo momento critico, vitale per la sua stessa esistenza, spiegò una energia che nessuno le avrebbe supposto dopo le stragi causate dalla peste.

Vennero inviati immediatamente a Lesbo un esercito ed una flotta, e la capitale dell'isola, Mitilene, dopo una battaglia navale coronata dalla vittoria, fu circondata per terra e per mare. Nel tempo stesso una flotta di cento navi da guerra operò una dimostrazione navale contro il Peloponneso per far constatare al nemico con i propri occhi in modo palpabile che Atene era sempre la signora del mare. Per sopperire alle spese fu imposto all'Attica un contributo di guerra di 200 talenti. Con questi mezzi si riuscì a far argine al dilagare ulteriore dell'insurrezione e ad impedire che i Peloponnesi potessero inviare in tempo una flotta a Lesbo; soltanto nella primavera successiva (427) essi fecero salpare verso l'isola una squadra di 42 triere.
Ma era troppo tardi : quando la flotta peloponnesiaca giunse nell'Asia Minore, Mitilene si era già arresa agli Ateniesi, e non restò ai Peloponnesi che salvarsi al più presto fuggendo in patria. Naturalmente Lesbo dovette pagare cara la sua ribellione; Atene si propose di dare un esempio e fu deliberato il supplizio di tutti gli abitanti di Mitilene; tuttavia il sanguinoso decreto venne revocato ancora in tempo e si procedette soltanto alla confisca delle terre; tuttavia anche queste vennero poi restituite agli antichi proprietarii dietro il pagamento di un mite canone. Malgrado tutto però i cittadini di Mitilene maggiormente compromessi furono puniti di morte.

Così la crisi, che aveva minacciato l'esistenza stessa del dominio ateniese, era stata felicemente superata e la signoria marittima d'Atene restava più ferma che mai sulle sue basi. Vero é che nel frattempo Platea era caduta nelle mani dei Peloponnesi; per due anni interi la piccola fortezza aveva retto all'assedio, ma alla fine la fame la costrinse ad arrendersi. La città fu distrutta ed il suo territorio venne annesso a Tebe. A stento poi fu evitata una perdita assai più grave.
La ribellione di Mitilene ebbe un contraccolpo nell'Occidente della Grecia; gli oligarchi di Cercira si sollevarono contro il governo democratico e tentarono di trascinare l'isola a mettersi dalla parte dei Peloponnesi, ma l'insurrezione fu domata con l'aiuto di una squadra ateniese accorsa in tutta fretta da Naupatto. Subito dopo però apparve dinanzi alla città una flotta peloponnesiaca, quella stessa ch'era allora ritornata dalla spedizione a Lesbo. I Cerciresi di fronte al pericolo equipaggiarono con la massima rapidità 60 navi e salparono contro il nemico; ma subirono una disfatta completa; nella città infierì il massimo disordine ed essa sarebbe caduta in mano dei Peloponnesi se costoro avessero saputo mettere a frutto la loro vittoria. Se non che la notizia che una forte flotta ateniese era stata avvistata presso Leucade indusse il giorno dopo i Peloponnesii a battere rapidamente in ritirata. E a Cercira ebbe inizio una terribile persecuzione di tutti coloro che erano sospetti di simpatizzare per gli oligarchi, vale a dire tutta la classe abbiente; chi non riuscì a salvarsi con la fuga cadde vittima del furore del popolaccio. Quanto agli Ateniesi, essi lasciarono fare. E dopo simili orrori l'isola restava legata alla loro causa in modo indissolubile.

L'anno successivo (426) non si verificò la solita invasione dei Peloponnesi nell'Attica ed anche gli Ateniesi non intrapresero operazioni di sorta contro il Peloponneso. Ambedue le parti si erano finalmente convinte che con la tattica guerresca sinora seguìta non si sarebbe mai arrivati ad un risultato decisivo. Perciò non si ebbero scontri di carattere importante se non nell'Occidente della Grecia. Qui il generale ateniese Demostene, muovendo da Naupatto, intraprese una spedizione in Etolia, ma essa, iniziata con forze insufficienti, si convertì dopo soli pochi giorni in un completo insuccesso. A loro volta i Peloponnesi, visto ciò, inviarono anch'essi in quelle contrade un corpo di 3000 opliti; il loro disegno era di soggiogare, prendendo a base di operazione la colonia corinzia di Ambracia, l'Acarnania che era alleata degli Ateniesi. Ma Demostene accorse in tempo in aiuto, si unì col contingente levato dall'Acarnania e sconfisse il nemico in due scontri, presso Olpe e presso Idomene, in maniera così decisiva che i Peloponnesi furono costretti a capitolare ottenendo libera uscita, mentre Ambracia concludeva la pace con l'Acarnania.

Sparta dopo quest'ultima avventura finita male, cominciò a sentirsi ormai stanca della guerra. Essa richiamò dall'esilio il re Plistoanace, che a suo tempo aveva concluso con Atene la pace trentennale e che proprio per questa ragione era stato deposto dalla carica ed espulso dal paese, ed iniziò trattative con Atene. Anche in questa città una larga parte della popolazione era propensa alla pace, specialmente gli agricoltori reclamavano istantaneamente di poter finalmente ritornare ai loro campi la cui coltivazione era stata loro per così lungo tempo impedita dalle invasioni nemiche. A capo di questo partito militava Nicia, uomo di nobile lignaggio e ricchissimo, che già al tempo di Pericle aveva rivestito le più elevate cariche pubbliche e dopo la morte di lui aveva acquistato una posizione dirigente, nonostante le sue mediocri qualità come uomo di Stato e come generale.
Invece la classe operaia della città considerava suo capo il conciapelli, che con le sue qualità di tribuno popolare esercitava grande influenza sulle masse; nell'opposizione contro Pericle egli era stato all'avanguardia e si era guadagnati allora gli speroni politici. Le classi del popolo ateniese che lo seguivano erano quelle che avevan sofferto e soffrivano relativamente poco per lo stato di guerra, giacché nella città il traffico ed il movimento avevano proseguito a svolgersi come al solito; per conseguenza Cleone sostenne la tesi che, dopo aver fatto tanti sacrificii non si doveva concludere una magra pace.

Da canto suo Sparta, legata dai riguardi dovuti verso la Beozia, non poteva mai acconsentire alla restituzione di Platea; inoltre essa esigeva che gli Egineti venissere restituiti nel possesso della loro isola, cosa che avrebbe fatto perdere ai coloni ateniesi le terre ottenute in assegnazione. Dato ciò, i negoziati condotti nel corso dell'inverno non approdarono ad alcun risultato e all'inizio dell'estate successiva (425) l'esercito della lega del Peloponneso invase nuovamente l'Attica.


Nel frattempo, subito dopo la morte di Pericle (429), la guerra si era propagata anche in Sicilia. Mentre cioé gli Ateniesi erano impegnati in Oriente, i Siracusani avevano colto l'occasione favorevole per aggredire le città calcidesi di Leontini, Catane, Nasso, Regio, alleate di Atene. Di conseguenza Atene non poté a meno, appena la sottomissione di Mitilene le concesse una qualche maggiore libertà d'azione, di inviare una squadra in Occidente (427). Erano venti navi soltanto, ma bastarono a stabilire l'equilibrio fra le forze delle parti belligeranti; d'altro lato però per ottenere risultati decisivi tali forze erano oltremodo deboli. Perciò nella primavera del 425 Atene decise di giungere finalmente a capo di questa faccenda e spedì in Sicilia un rinforzo di quaranta navi.

Contemporaneamente si propose di sferrare un colpo decisivo anche contro Sparta. Demostene, il vincitore di Olpe e di Idomene, si imbarcò sulla flotta con l'incarico di occupare nel passare lungo il Peloponneso una località della costa di quella penisola. Egli prescelse a tale scopo il golfo di Pilo (Navarino) nella Messenia, le cui sponde erano allora disabitate e coperte di foreste. Egli quindi poté, non disturbato dal nemico, erigervi delle fortificazioni, nel modo che era possibile in pochi giorni, e rimase di persona a presidiare il luogo occupato con cinque navi e quaranta opliti messeni di Naupatto, mentre il resto della flotta continuò la sua rotta verso la Sicilia. L'intento era di far servire la posizione acquistata per offrire un asilo agli iloti dei dintorni e si sperava di arrivare con l'andar del tempo a far insorgere la Messenia.

Avuta notizia di questi fatti, gli Spartani richiamarono immediatamente il loro esercito dall'Attica, e lo stesso fecero per la flotta ch'era salpata diretta a Cercira. Le fortificazioni costruite da Demostene vennero circondate da tutti i lati, e per impedire ogni tentativo di soccorso agli assediati fu dislocato un reparto di 400 opliti spartani nell'isola di Sfacteria che chiude il golfo di Pilo verso l'alto mare. Se non che gli assalti dati al castello eretto da Demostene, non approdarono a nulla e dopo pochi giorni la flotta ateniese tornò indietro e forzò l'entrata del porto. La flotta del Peloponneso fu sconfitta e quindi il presidio di Sfacteria rimase tagliato fuori dal continente.

A questo punto gli Spartani intavolarono negoziati; fu mandata una legazione ad Atene con proposte di pace e nel frattempo si concluse un armistizio che permise di vettovagliare il presidio di Sfacteria; a titolo di garanzia venne consegnata agli Ateniesi la flotta peloponnesiaca che si trovava a Pilo.
Ma il successo ottenuto fece sì che in Atene riprendesse il sopravvento il partito favorevole alla guerra e ad istigazione di Cleone furono avanzate pretese così esagerate, che ogni accordo divenne impossibile. Si dovette quindi riprendere il blocco di Sfacteria; ma esso non diede alcun risultato, perché gli Spartani, malgrado la guardia che facevano le navi ateniesi, trovarono modo di approvvigionare il presidio.

Visto ciò, Cleone pretese si operasse uno sbarco a Sfacteria, ma Nicia, che presiedeva il collegio degli strateghi, era così pienamente convinto dell'invincibilità degli Spartani in campo aperto, che respinse questa idea come una folle temerità; Ma se Cleone credeva attuabile il suo progetto che lui stesso si assumesse il comando della spedizione. Sciaguratamente il degno conciapelli non aveva mai comandato un soldato; ma non poté più tirarsi indietro, perché l'opinione pubblica reclamò ch'egli facesse seguire alle parole i fatti.

Egli quindi, eletto stratega, accettò, benché di malavoglia, la carica, e salpò subito con rinforzi alla volta di Pilo; tuttavia fu così giudizioso di lasciare a Demostene la direzione militare dell'impresa. Data la grande superiorità numerica degli Ateniesi, il successo era sicuro a priori; non si venne di fatti nemmeno ad un combattimento ad arma bianca, ma bastò l'attacco delle truppe leggere ateniesi perché gli opliti spartani si trovassero costretti a ripiegare sulle loro posizioni trincerate, dove dopo breve resistenza dovettero arrendersi; erano non più di circa 300 uomini, che Cleone portò prigionieri ad Atene.
Per quanto questa vittoria fosse di per sé insignificante, nondimeno il suo effetto morale fu oltre misura grande. Essa distruggeva la fama che le truppe spartane non avrebbero in nessun caso abbassate le armi e per conseguenza arrecava un grave colpo all'autorità di Sparta. Ed anche l'avere in mano quei prigionieri, che in parte appartenevano alle prime famiglie spartane, aveva l'importanza di un pegno prezioso per il momento della conclusione della pace.

Cleone, per effetto di tali eventi, divenne d'un tratto l'uomo più influente di Atene, e grazie a questo fatto, alla guerra fu ora dato un impulso più energico. A tale scopo egli si procurò i mezzi elevando i tributi a più del doppio dell'importo antecedente, provvedimento che in questo momento, dopo la vittoria di Sfacteria, poté essere attuato senza incontrar resistenza. Lo stesso Nicia uscì dalla sua abituale inoperosità. Vero é che uno sbarco da lui operato nell'autunno medesimo del 425 sull'istmo di Corinto non approdò ad alcun risultato, ma in compenso nella primavera successiva (424) egli riuscì a conquistare l'importante isola di Citera presso la costa laconica. In seguito sotto la guida dei nuovi strateghi entrati in carica, Ippocrate e Demostene, fu intrapresa una spedizione contro Megara, che, sebbene non abbia raggiunto il suo vero e proprio scopo, recò in potere degli Ateniesi la città che costituiva il porto di Megara, Nisea.

Se non che a tal punto anche gli avversari decisero di agire con una azione energica. È ben vero che le invasioni nel territorio stesso dell'Attica si erano rivelate infruttuose e che sul mare si poteva anche meno di prima tentare qualcosa con speranza di successo contro Atene, da quando quest'ultima si era impossessata a Pilo della flotta del Peloponneso. Ma vi era un punto in cui Atene era vulnerabile dalla parte di terra: la costa tracica. Qui i Calcidesi della regione attorno ad Olinto, dopo la vittoria riportata a Spartolo, avevano mantenuta intatta la loro libertà e potevano offrire all'esercito peloponnesiaco una base d'operazione sicura; anche il re Perdicca di Macedonia si mostrava pronto a partecipare alla guerra contro Atene.

Gli Spartani pertanto fecero finalmente ciò che avrebbero dovuto fare quando Potidea ancora resisteva all'assedio: mandarono un esercito in Tracia; vero é che si trattava soltanto di 1700 iloti e mercenari, ma alla loro testa si trovava Brasida, il più valente ufficiale che Sparta possedesse in quest'epoca. Al suo arrivo non poche città della costa tracica confederate di Atene passarono immediatamente dalla parte dei Peloponnesi; la stessa Anfipoli, la metropoli della Tracia ateniese, apri le porte a Brasida. Lo stratega Tucidide, che incrociava nelle vicinanze con una squadra, non fu in grado di impedire la perdita della città e per questo fatto (come di solito accadeva ad Atene per chi tornava sconfitto da una campagna) dovette andarsene in esilio, d'onde non tornò che 20 anni dopo.

Frattanto le armi ateniesi avevano patito una grave disfatta anche in Beozia. Si era concepito il disegno di impadronirsi con un attacco combinato di questa regione, il cui possesso sarebbe stato decisivo per l'esito finale della guerra; Demostene doveva invaderla da occidente, mentre contemporaneamente Ippocrate alla testa di tutti i contingenti ateniesi avrebbe varcato i confini della Beozia dalla parte dell'Attica. Il piano era troppo semplicistico per riuscir bene; Demostene attaccò troppo presto e fu agevolmente respinto, e quando Ippocrate alcuni giorni dopo entrò nella Beozia, trovò tutto l'esercito nemico riunito e preparato a riceverlo. Presso il tempio di Apollo Delio, nel territorio di Tanagra, si venne a battaglia campale, la più grande battaglia che si fosse sinora combattuta in questa guerra, e gli Ateniesi vi rimasero sconfitti perdendo 1000 opliti; lo stesso generale rimase sul terreno (autunno del 424).

Anche l'impresa di Sicilia non approdò ai risultati che se ne erano sperati ad Atene. La flotta ateniese dopo l'occupazione di Sfacteria aveva proseguito la propria rotta verso Occidente, ed il suo arrivo ebbe in realtà l'effetto di rendere i Siracusani disponibili alla pace. Gli alleati ateniesi di Sicilia si mostrarono anch'essi disposti a trattare ed in un congresso tenutosi a Gela si venne ben presto ad un accordo, in sostanza sulla base dello statu quo (primavera del 424). La grande flotta ateniese se ne poté tornare in patria senza essere nemmeno entrata in azione, di modo che il piano di sottomettere alla signoria di Atene la Sicilia era per ora fallito.

Questo seguito di insuccessi fece sì che in Atene acquistasse il sopravvento il partito favorevole alla pace, e fu per il momento concluso un armistizio di un anno. Soltanto in Tracia continuarono le ostilità, perché Brasida non volle cedere la città di Scione, confederata d'Atene, che durante le trattative riguardanti l'armistizio era passata dalla sua parte. Per questo motivo l'armistizio al suo scadere non fu rinnovato, benché per altro non si sia avuta una ripresa delle ostilità nella Grecia propriamente detta; invece Cleone salpò a capo di un esercito alla volta della Tracia per ricondurre all'obbedienza Anfipoli (estate del 422). Ma nell'operare una ricognizione contro la città fu improvvisamento assalito da Brasida, il suo esercito fu disperso ed egli stesso rimase ucciso mentre si dava alla fuga. Dei vincitori si dice che caddero nella battaglia soltanto sette uomini; ma fra questi sette c'era lo stesso Brasida.

Così cessarono di vivere nello stesso giorno i due uomini che erano sinora stati i capi del partito della guerra in Atene come a Sparta. Nicia dopo la scomparsa del suo avversario riacquistò una decisiva influenza e ne approfittò per intavolare trattative con Sparta, le quali infatti nella seguente primavera portarono alla conclusione la pace (421). Si stabili di ripristinare al possibile lo stato di cose anteriore alla guerra. Gli Spartani avrebbero quindi dovuto restituire Anfipoli; gli Ateniesi Pilo e Citera; in compenso di Platea distrutta, gli Ateniesi avrebbero mantenuto il possesso di Nisea. Come si vede, benché a prezzo di enorme sacrifici, si era attuato il programma con cui Pericle si era messo nella guerra; Atene usciva dalla lotta senza che la sua potenza avesse subito il minimo danno, mentre Sparta non aveva ottenuto nulla di quanto aveva ambito nel prender le armi.

Se non che l'attuazione dei patti stabiliti nella pace si trovò ostacolata da difficoltà inaspettate. Lo spartano Clearida, che dopo la morte di Brasida aveva il comando ad Anfipoli, non si mostrò affatto disposto - e forse non era realmente in grado di farlo - a consegnare la città agli Ateniesi contro la volontà degli abitanti; quindi si limitò a farne uscire le sue truppe ed a ricondurle nel Peloponneso. Visto ciò, a loro volta gli Ateniesi naturalmente rifiutarono di sgombrare le località che avevano occupato nel territorio spartano. Perfino fra gli alleati medesimi di Sparta i due Stati più potenti, Corinto e la Beozia, non vollero accedere alla pace e cercarono di accostarsi ad Argo. Di fronte a questa opposizione Sparta volle stringere alleanza con Atene per sostenere l'attuazione della pace ed ottenne con tal mezzo che fossero almeno posti in libertà i prigionieri di Sfacteria. Ma nel resto l'alleanza rimase lettera morta perché non si giunse a risolvere le questioni pendenti fra le due potenze medesime.

Ne conseguì che Corinto e la Beozia tornarono all'antica alleanza con Sparta. Invece Sparta non poté arrivare ad un accordo con Argo, perché questa pretendeva in compenso la restituzione della Cinuria che Sparta le aveva tolto cento anni prima. Tutto ciò fece riacquistare anche in Atene il sopravvento al partito della guerra. Nell'elezione degli strateghi svoltasi nella primavera del 420, Nicia rimase soccombente e lo sostituì ALCIBIADE.

Alcibiade era ancora in età molto giovane, non aveva ancora trent'anni, ed era nipote di Pericle, nella cui casa era cresciuto ed era stato educato. Questo perché lo zio gli aveva scoperto straordinarie doti naturali ed un singolare insieme di buone e cattive qualità. Come Pericle con Anassagora, il giovinetto strinse una tenera amicizia con Socrate, che al suo attento scolaro oltre che insegnargli le massime dell'etica e della morale, si adoperò per fortificarlo contro il potere delle passioni, e difenderlo contro gli adescamenti del vizio al quale la gioventù e la ricchezza lo esponevano. Alcibiade al suo cospetto era sedotto dal filosofo, e con grande attenzione ascoltava le lezioni del suo maestro, benchè la sua natutale inclinazione al piacere e la seduzioni dei compagni, gliele facesse obliare.
Tuttavia era così padrone delle sue passioni che riusciva ad adattarsi all'indole di ogni persona con la quale aveva occasione di trattare e conversare, benchè fossero come carattere molto differente dal suo.

Quando nell'ingratitudine Ateniese, questi lo misero al bando, e dovette chiedere asilo proprio agli Spartani, lui a quell'austera vita "spartana", si adattò così subito che destò meraviglia agli stessi spartani.
Di lui dissero che egli fu nella Jonia uno scapestrato; a Sparta moderato ed austero; e in Persia la sua vanità e il lusso superò in magnificenza quella degli stessi Persiani. Nessun uomo si meritò così bene il nome di Proteo. Qualità eccellenti anche negli affari, e in quanto a bellezza e buone maniere, queste gli procuravano l'amore di chiunque lo avvicinasse.
Quando a tutti questi vantaggi si aggiunga una ammirabile eloquenza e un singolare sapere nell'arte della guerra, ben presto Alcibiade quando entrò nella vita pubblica divenne l'idolo del popolo.
L'ambizione fu la sua passione, in ogni disputa lui aspirò alla superiorità.
Illustre nascita, grandi ricchezze, pregi fisici, dotti elevate, egli era l'ideale della jeunesse dorée, di coloro che si davano l'aria di uomini superiori e giudicavano fuori di moda e buttavano in un canto tutto il resto. E siccome la plebe ateniese, malgrado tutte le libertà democratiche, era altrettanto servile quanto é sempre e dappertutto stata servile la plebe, così non poteva mancare ad un uomo simile una rapida carriera.

Ben presto fu piuttosto arrogante, ma questo suo difetto -che nella repubblica in qualunque altra persona sarebbe stato reputato un delitto- in lui lo si scusava; perfino i suoi stravaganti eccessi erano perdonati e chiamati giovanili capricci.
Ma era capace di essere anche serio; alla guerra nella prima comparsa nei campi di battaglia, in pubblico, Alcibiade spiegò un genio audace e forte, capace dei più arditi e più pericolosi progetti.

Dietro proposta proprio di Alcibiade venne conclusa una alleanza di Atene con Argo, cui aderirono immediatamente gli altri Stati democratici del Peloponneso, Mantinea ed Elide (420). Visto ciò, Sparta mosse guerra ad Argo e sotto le porte di Mantinea avvenne la battaglia decisiva, cui presero parte anche truppe ateniesi nelle file degli Argivi. La vittoria restò agli Spartani, la cui antica fama militare, scossa dalla sconfitta di Pilo, venne qui restaurata in splendida maniera (418). Questa vittoria consolidò nuovamente l'egemonia di Sparta nel Peloponneso. Tuttavia la pace fra Sparta ed Atene non fu per il momento turbata, poiché gli Ateniesi si erano astenuti da qualsiasi violazione del territorio spartano e l'appoggio prestato ad uno Stato alleato in territorio estero non era dal diritto internazionale greco considerato come violazione di pace.

Ma la disfatta di Mantinea non mancò di esercitare un contraccolpo sulle condizioni interne di Atene; il partito della guerra perdette terreno, ed il suo capo, il fabbricante di lucerne Iperbolo, un altro tribuno delle folle, che dopo la morte di Cleone ne aveva preso il posto, fu colpito dall'ostracismo e mandato in esilio. Alcibiade, pur avendo espresso momenti di alto valore, minacciato della stessa sorte per aver perso quella guerra, si salvò col mettersi al seguito di Nicia.

Frattanto intervenne una complicazione che mosse Atene a convergere da tutt'altro lato le sue forze. Dal tempo della pace di Gela, Atene nei riguardi delle questioni d'Occidente aveva mantenuto un'attitudine completamente passiva, quasi che non avesse là interessi di sorta da tutelare. Essa lasciò che i Siracusani si impadronissero della alleata Leontini intervenendo solo con una semplice protesta diplomatica (423), di modo che alcuni anni più tardi Selinunte tentò di far subire la stessa sorte ad un'altra città alleata di Atene, Segesta. Anche in questo caso Nicia, fedele alla sua politica di raccoglimento, si fece sostenitore della tesi che si dovesse rifiutare l'aiuto chiesto dai Segestani ad Atene.

Ma Nicia questa volta non trovò più l'appoggio dell'opinione pubblica. Atene, si pensava, era in pace con tutto il mondo, le ferite che l'ultima guerra le aveva aperte erano in gran parte rimarginate, il predominio marittimo più saldo che mai. Si era dunque in grado di prestare l'aiuto invocato; e d'altro lato, mentre non vi poteva esser dubbio che Atene era obbligata dai trattati a far ciò, tanto più che Segesta si offriva a sopportare essa stessa le spese relative, era chiaro che se anche in questa occasione si restava inoperosi, anche l'ultimo residuo dell'influenza ateniese in Occidente sarebbe andato perduto.

Furono queste le considerazioni che Alcibiade fece prevalere in contrasto al modo di pensare di Nicia; egli si vedeva già con la forza dell'immaginazione a capo di una flotta destinata ad andare in Sicilia e sognava la fondazione di un grande dominio coloniale in Occidente che doveva risarcire Atene delle perdite subite in Tracia ad opera di Brasida. In queste condizioni di ambiente l'opposizione di Nicia riuscì vana, i suoi stessi partigiani lo abbandonarono, e gli ammonimenti suoi altro effetto non ebbero se non questo, che si deliberò di allestire una spedizione tanto forte da far apparire esclusa ogni possibilità di insuccesso.

Furono destinate cioé all'impresa 134 navi da guerra con 5000 opliti a bordo; lo stesso Nicia, insieme con Alcibiade, venne posto al comando di queste forze militari. La prudenza sua doveva servire a controbilanciare l'impetuosità giovaniledi Alcibiade (415). La flotta er agià pronta a salpare, quando un avvenimento inaudito gettò Atene in uno stato di eccitazione febbrile; un mattino furono trovate prive del capo tutte le numerose statue e busti che adornavano le strade e le piazze della città. Era evidente che si trattava di una operazione sistematicamente compiuta da una banda di congiurati ed era altrettanto chiaro che il suo scopo non poteva essere altro se non quello di servirsi dell'impressione che tale sinistro presagio avrebbe prodotto sulla plebe superstiziosa per impedire all'ultimo momento la partenza della spedizione di Sicilia.

La polizia era in Atene così male organizzata che gli autori dello sfregio avevano potuto compiere l'opera perfettamente non visti e non disturbati; e la stessa commissione di inchiesta che venne immediatamente istituita e munita di poteri illimitati non riuscì a portare luce su questa faccenda. Naturalmente le denunzie piovvero; e, decisi a scovare i vandali, non poteva mancare che non venissero denunziati anche altri misfatti dello stesso genere. Infatti Alcibiade fu incolpato di aver rappresentato in casa propria con altri amici una parodia dei misteri eleusini. Alcibiade, di fronte a tale accusa, chiese di essere immediatamente sottoposto a giudizio; chi avrebbe ardito, egli pensava, condannarlo mentre si trovava da generale a capo di un esercito a lui devoto e quando in lui solo era riposta la speranza di una felice riuscita dell'impresa di Sicilia ?

Ma appunto per questo si pervenne a far aggiornare il processo; per non ritardare cioé la partenza della flotta fu deliberato che la questione sarebbe stata trattata dopo la fine della campagna. Alcibiade ne fu pago; il futuro conquistatore della Sicilia poteva esser sicuro dell'assoluzione.
La flotta dunque salpò e giunse pure senza incidenti nelle acque siciliane. Se non che fra gli antichi alleati d'Atene non vi furono che Nasso, e dopo qualche esitazione Catane, che si mostrassero pronte ad aiutare l'impresa; le altre città si mantennero neutrali, e ben presto si ebbe a constatare che era inutile aspettarsi da Segesta un ausilio efficace. Nel frattempo ad Atene l'inchiesta relativa ai sacrilegi perpetrati aveva proseguito il suo lavoro, l'eccitamento dell'opinione pubblica era divenuto sempre più acuto, e i nemici di Alcibiade, mettendo abilmente a profitto questo stato d'animo della cittadinanza, riuscirono a provocare un decreto dell'assemblea popolare che lo richiamava in patria per render ragione del fatto ascrittogli.

Alcibiade non osò opporsi all'ordine e si pose sulla via di ritorno; ma, giunto a Turii, abbandonò la sua nave e fuggì nel Peloponneso. Poco dopo il tribunale ateniese lo condannò a morte per alto tradimento e sentenziò la confisca del suo patrimonio.
La direzione della guerra di Sicilia rimase nelle mani di Nicia. Questi però, invece di procedere immediatamente all'attacco di Siracusa che si trovava impreparata alla difesa, lasciò trascorrere inoperosamente tutto il resto dell'estate, e soltanto ad autunno inoltrato comparve dinanzi alla città nemica, di modo che, sebbene riportasse una discreta vittoria sui Siracusani, essa rimase infeconda di risultati a causa della stagione troppo avanzata. Dopo il piccolo successo Nicia mise i suoi quartieri di inverno a Catane e finalmente nella primavera successiva (414) si decise a iniziare l'assedio di Siracusa.

Le alture di Epipole, che dal punto di vista strategico stanno a cavallo della città, caddero dopo breve lotta nelle sue mani, e dalla parte di mare i Siracusani non osarono nemmeno impegnar battaglia, cosicché la flotta ateniese poté senza ostacolo entrare nel «porto grande» di Siracusa, in quella parte cioé che si apre a mezzogiorno della città e che si trovava fuori della linea di fortificazioni. Nicia pose i suoi accampamenti sulle sponde di questo porto e iniziò la costruzione di una trincea attraverso l'istmo largo circa sei chilometri che congiunge la città coll'interno dell'isola. Poiché la flotta ateniese era assoluta padrona del mare, il compimento di quest'opera avrebbe tagliato fuori Siracusa dal mondo privandola d'ogni possibilità d'aiuto dal di fuori, il che avrebbe provocato dopo non lungo tempo la caduta della città.
Invano i Siracusani tentarono di impedire i lavori degli Ateniesi con una serie di sortite. Se non che all'ultimo momento, la città stremata di forze vide giungerle la salvezza.

Gli Stati del Peloponneso avevano perfettamente intuito di quali formidabili pericoli avrebbe rappresentato la conquista della Sicilia da parte di Atene, e quindi fin dall'inverno (mentre Nicia si baloccava a Catane) intuendo le prossime mosse di Nicia, avevano cominciato ad allestire una flotta destinata a sbloccare Siracusa qualora fosse stata assediata. Sarebbe stato necessario ancora molto tempo per avere pronta questa squadra; ma, avuta notizia dell'inizio dell'assedio della città, si credette di non dover più a lungo indugiare, e di conseguenza lo spartano Gilippo salpò alla volta dell'Occidente con quattro navi che erano le sole disponibili al momento.
Con forze così tanto modeste Gilippo non poté arrischiarsi a far rotta direttamente su Siracusa per tentare di rompere il blocco della flotta ateniese; e siccome tutto l'Oriente dell'isola si trovava in potere del nemico, altro non poté fare che attraversare lo stretto di Messina e dirigersi ad Imera sulla costa settentrionale dell'isola, dove sbarcò i suoi uomini. Qui radunò truppe con il concorso delle città alleate di Siracusa e poi marciò attraverso l'interno dell'isola alla testa di 3000 uomini in aiuto della città assediata.
La linea di trincee ateniesi non era ancora completa; e siccome Nicia nemmeno lontanamente si aspettava l'arrivo di un esercito nemico di soccorso, tantomeno dalla via di terra, Gilippo riuscì senza incontrare ostacolo a penetrare nella città, dove assunse immediatamente il supremo comando. Senza perder tempo egli diede l'assalto alle linee ateniesi e la fortuna gli arrise al punto da permettergli di prendere di primo acchito le opere di fortificazione erette sull'altura di Epipole, che costituivano la chiave delle posizioni ateniesi.

Visto questo pericolo gli Ateniesi avanzarono per dargli battaglia, ma furono respinti e costretti a ripiegare dietro le loro linee trincerate in vicinanza del porto grande, di modo che Gilippo poté congiungere Epipole alla città con un muro che tagliava ad angolo retto la linea di circonvallazione ateniese e quindi rendeva impossibile la sua prosecuzione verso nord. Il pericolo di rimanere circondati era pertanto evitato, Siracusa riacquistò la sua libertà di comunicazioni con l'interno dell'isola, mentre fu Nicia a trovarsi ridotto a mettersi sulla difensiva.
Inoltre cominciarono ad affluire da ogni parte rinforzi alla città assediata. Nell'autunno stesso del 414 giunse da Corinto, la madre patria di Siracusa, una squadra di dodici navi, nella primavera (413) arrivarono 1600 opliti dal Peloponneso e dalla Beozia; anche Gela ed altre città siciliane inviarono truppe. Al contrario la flotta ateniese, che si trovava in servizio già da un anno e mezzo, non era in gran parte già più in grado di reggere il mare, di modo che i Siracusani poterono tentar la sorte di attaccare il nemico nel suo proprio elemento.

Il primo tentativo, é ben vero, si risolse in un insuccesso; ma, mentre gli Ateniesi erano impegnati nel combattimento navale, Gilippo si impadronì con l'esercito di terra delle fortificazioni situate sul promontorio Plemmirion, che, sporgendo in mare a sud di fronte alla città, stringe e domina l'ingresso del porto grande. Ciò rese molto difficili le comunicazioni marittime degli Ateniesi con la loro base d'operazione, Catane.
Alcune squadre di uomini si erano inoltrati all'interno per cercarvi acqua e legna, ma furono intercettate dalla cavalleria nemica che li fece tutti priogionieri. Vedendo Nicia diminuire ogni giorno le sue truppe, e lui stesso piuttosto infermo, scrisse ad Atene una patetica lettera nella quale descriveva il rovinoso stato della sue galere, la perdita di uomini, la mortalità degli stessi nelle varie operazioni, chiedeva di inviare un altra flotta più potente, un successore al comando perchè lui infermo era incapace di seguire le operazioni belliche.

Ben presto poi i Siracusani tornarono nuovamente a dar battaglia navale agli Ateniesi, e questa volta la vittoria rimase a loro. Nicia si trovò completamente bloccato e poteva dirsi perduto se non arrivavano pronti soccorsi (vedi più avanti).

Nel frattempo era anche in Grecia scoppiata nuovamente la guerra. Negli ultimi anni Atene e Sparta avevano fatto tutto il possibile di danneggiarsi a vicenda su territorii estranei, ma avevano evitato di rompere apertamente la pace giurata violando ciascuna il territorio dell'altra. Ma alla fine, nell'estate del 414, avendo gli Spartani invaso devastandolo il territorio di Argo, gli Ateniesi si lasciarono tentare ad operare uno sbarco sulla costa laconica. Questa invasione sciolse da ogni impegno anche gli Spartani, e nella primavera successiva (413 a.C.) l'esercito della lega del Peloponneso, per la prima volta dopo 12 anni, varcò nuovamente i confini dell'Attica. Ma questa volta non si trattò di una invasione passeggera; l'intento era quello di tenere costantemente impegnata Atene sotto l'incubo del nemico; e quindi fu eretto sulle alture di Decelea, a circa 20 chilometri a nord della città, un campo trincerato, nel quale dopo la partenza del corpo principale invasore il re Agide rimase con un forte presidio.

Ma Atene, benché avesse il nemico in casa, non rinunciò all'impresa di Sicilia. Essa approntò una nuova spedizione all'incirca della stessa forza di quella che due anni prima era partita alla volta dell'Occidente sotto il comando di Nicia e di Alcibiade, e la pose agli ordini del miglior generale che le rimaneva, il vincitore di Sfacteria, Demostene.
Erano 65 navi da guerra con 5000 opliti a bordo; e queste forze poco dopo la metà dell'estate del 413 entrarono nel porto grande di Siracusa. Vi giunsero a tempo giusto per evitare una catastrofe dell'esercito assediante che era già circondato da ogni parte, ed il loro arrivo mutò d'un tratto completamente la situazione militare. Demostene non mancò di approfittare risolutamente del momento favorevole. Tutto dipendeva dal riuscire ad impossessarsi dell'altura di Epipole che dominava il paese. Rimasto vano un assalto aperto diretto contro le fortificazioni lassù elevate dai Siracusani, si tentò di ottenere il fine con una sorpresa notturna. E si riuscì effettivamente a sorprendere il nemico senza che ne avesse alcun sentore. Le colonne ateniesi scalarono inosservate le alture, le opere siracusane vennero prese e i difensori destati dal sonno sloggiati e ricacciati verso la città.

Ma i contingenti peloponnesiaci e beoti dell'esercito siracusano non si fecero prendere dal panico generale e mossero contro il nemico; al pallido lume della luna si svolse una battaglia notturna, e le teste delle colonne ateniesi non ressero all'urto inaspettato. Esse indietreggiarono e cedendo trascinarono seco i reparti che si avanzavano dietro di loro; ben presto la confusione si propagò in tutto l'esercito ed alla fine la battaglia si risolse in una fuga disordinata. L'attacco di sorpresa degli Ateniesi era stato respinto con gravissime perdite.

Dopo questa disfatta il rimanere più a lungo a Siracusa era completamente inutile, e perciò Demostene insistette perché si togliesse subito l'assedio. Ma Nicia pur infermo esitava temendo di dover scontare lui la responsabilità dell'impresa fallita; inoltre egli aveva delle relazioni segrete in Siracusa e sperava ancora di arrivare col loro aiuto ad impadronirsi alla fine della città. Ma ben presto si vide che questa era una speranza vana, e perciò venne finalmente decisa la partenza. Se non che al momento in cui tutto era pronto a tale scopo, avvenne un'eclisse di luna (27 agosto 413), e questo cattivo presagio giunse per Nicia a proposito per trarne pretesto a rinviare ancora la partenza.
Questo indugio decise delle sorti dell'esercito, poiché i Siracusani offrirono nuovamente battaglia agli Ateniesi sul mare, e questi non poterono rifiutarla se volevano mantenersi libere le comunicazioni. Se non che nell'angusto spazio offerto dal porto, gli Ateniesi non ebbero modo di far valere la loro abilità superiore nel manovrare le navi, e nel tempo stesso le loro leggere triere non ressero agli urti delle pesanti navi siracusane. La giornata quindi si chiuse con una completa disfatta degli Ateniesi.

I Siracusani dopo questo attacco bloccarono l'uscita del porto; un tentativo disperato fatto dagli Ateniesi con tutte le navi che loro rimanevano per rompere il blocco venne respinto e provocò la perdita di metà della squadra ateniese. La posizione degli Ateniesi sotto Siracusa non era dopo ciò che era avvenuto più sostenibile e non rimase quindi altra via che ritirarsi per terra su Catane. Se non che la strada che conduceva direttamente verso quella città era tagliata dalle fortificazioni siracusane di Epipole, il tentativo operato dall'esercito ateniese di aprirsi una via attraverso i passi della valle dell'Anapo fu sventato dai Siracusani, e quindi gli Ateniesi si videro costretti a piegare prima verso il sud per guadagnane poi le montagne dell'interno dell'isola e raggiungere così con un lungo giro la loro méta.

Essi erano ancora in 20.000 uomini circa, ma appena la metà di questo numero era costituita da veri e propri combattenti; il resto consisteva negli equipaggi delle navi che non avevano nessun valore dal punto di vista militare; si aggiunga che le truppe, come é naturale, erano profondamente demoralizzate per le continue sconfitte. In grazia della loro superiorità in fatto di cavalleria e di truppe leggere i Siracusani poterono rimanere alle calcagna del nemico e molestarlo continuamente. Per soprappiù l'esercito ateniese avanzando nella notte fu spezzato in due; Demostene che comandava la retroguardia perso il contatto si trovò separato e isolato da Nicia, il mattino dopo si trovarono circondati e fu costretto ad arrendersi con 6000 uomini. Nicia frattanto, senza curarsi della sorte dei suoi fratelli d'arme, era andato oltre ed era giunto all'Asinaro, un piccolo fiume della costa nelle vicinanze dell'odierna Noto. Qui venne aggredito da tutti i lati, ben presto il disordine invase le linee del suo esercito e ne seguì un terribile massacro; alla fine Nicia medesimo dovette arrendersi ai vincitori (metà del settembre 413). Soltanto scarsi residui dell'esercito riuscirono a giungere a Catane.

I due generali ateniesi, contro ogni norma del diritto di guerra ellenico, furono mandati a morte.
Vi erano stati alcuni cittadini contrari, che presi dalla compassione affermavano che ci si comportava come dei barbari; ma dopo presero la parola coloro che elencarono le innumerevoli miserie e sventure portate dagli Ateniesi alla loro patria, i cittadini che avevano perso figli, mariti, padri e parenti. Dalla compassione si passò all'odio; a quel punto Diocle si trovo a decidere che la punizione giusta era la loro morte.
Gli altri prigionieri prima furono fatti sfilare per il trionfo a Siracusa, poi vennero internati in quelle cave che oggi, coperte di lussureggiante vegetazione costituiscono una delle principali attrattive per il visitatore di Siracusa, ma a quel tempo con le loro nude pareti rocciose offrivano un quadro di desolazione. Qui essi rimasero tutto l'inverno, scarsamente nutriti ed abbandonati a tutte le ingiurie delle intemperie. Dopo circa otto mesi furono liberati ma solo per essere venduti come schiavi, ma nel frattempo molti di loro erano morti.

Era questa la più terribile catastrofe che avesse mai colpito un esercito ellenico; mentre Gilippo aveva ottenuto il massimo degli scopi che un generale può proporsi, il completo annientamento del nemico.

La parte migliore della flotta ateniese era distrutta e nel tempo stesso era caduta quell'aureola d'invincibilità che sinora aveva circondato questa flotta. Il fine per tanto tempo perseguito da Sparta -la distruzione del predominio marittimo ateniese e quindi della egemonia attica- parve prossimo ad essere raggiunto.

Con questa immane tragedia finì la guerra siciliana consigliata da Alcibiade: essa costò ad Atene la perdita di 60.000 uomini, 200 navi e un ingente tesoro. Nè il danno si limitò alle sole perdite umane e materiali. L'Impero che Atene possedeva nell'Arcipelago ebbe dalle sventure della metropoli una scossa così forte da far temere una grande dissoluzione.
Quell'impero infatti non poggiava sopra alcuna base morale che ne potesse garantire la durata, allorchè la forza materiale che l'aveva creato fosse venuta a mancare.


Nessuno più credeva che Atene dopo questo colpo sarebbe stata in grado di sostenere una sola campagna di guerra. Senonchè il grande popolo non si lasciò abbattere da tante sventure.

Le sorti infatti presero nuova piega per la defezione di Alcibiade da Sparta e il suo passaggio in Persia.
E fu lui a risollevare Atene dalle calamità che in gran parte erano dovute a lui.


Siamo dunque alla terza fase del conflitto.

Possiamo facilmente capire la costernazione degli Ateniesi, allorchè seppero lo sfortunato evento della spedizione Siciliana e la totale rovina sia dell'esercito che dell'armata. Mai prima di allora gli Ateniesi si erano ridotti a una simile condizione; senza denaro, senza esercito, senza una flotta.
Inoltre altre sventure si moltiplicavano. I Greci loro collegati, particolarmente quelli di Eubea, Chio e Lesbo, stanchi di versare ad Atene i contributi per la guerra, pensarono che questa sventura offriva una favorevole opportunità per assicurare la loro indipendenza e quindi scuotersi di dosso il gioco ateniese. Giunsero perfino a supplicare i Lacedemoni affinchè li prendessero sotto la loro protezione.

Ma non è che ad Atene le cose stavano meglio. Il partito oligarchico ritenne giunto il momento opportuno per abbattere gli ordinamenti vigenti. Una serie di uomini fra i più eminenti per cultura intellettuale e per posizione sociale si alleò a questo scopo. A capo di essi erano Antifone, un distinto oratore e giurista, che per odio contro la democrazia si era fino allora tenuto lontano dalla politica; c'era Pisandro, uomo di stato autorevole, che sino a quel momento aveva recitato la parte radicale ed ora invece si scoprì oligarca; poi c'era Teramene, il cui padre Agnone aveva occupato una posizione eminente sotto Pericle come uomo di Stato e come generale e sedeva ancora al governo.

Infine c'era Alcibiade che non si tenne estraneo al movimento. Il famoso Ateniese, da tempo era occupato in malvage trame contro i suoi concittadini per vendicarsi dell'ingiusto trattamento che gli avevano riservato.
Già in altre pagine abbiamo visto che Alcibiade dopo il benservito datogli dagli Ateniesi, era passato al servizio di Sparta. Integratosi perfettamente, perfino nella severa disciplina, aveva fatto di tutto per spingere gli Spartani alla guerra contro la sua città natale; li aveva accompagnati nella spedizione a Chio; ed aveva contribuito in misura assai notevole affinchè la Jonia si ribellasse ad Atene.

Entrato così nelle grazie degli Spartani, questi più nulla facevano se non con la mediazione di Alcibiade. Ma se a una parte degli Spartani questo andava bene, da un'altra parte il suo crescente potere attirò le gelosie, soprattutto di Re Agide e dei principali Efori, i quali temendo di essere esautorati da quel carisma che l'uomo possedeva, oltre l'abilità, si promisero di distruggere il loro avversario.

Alcibiade informato del pericolo, abbandonò il Peloponneso e questa volta trovò rifugio a Sardi, sotto la protezione del Satrapo di Persia Tisaferne.
Anche a Sardi Alcibiade trovò il modo di farsi apprezzare e benvolere, fino al punto che Tisaferne gli rivelò tutti i suoi futuri progetti contro Atene onde cancellare l'onta che i Persiani avevano provato a Maratona e a Salamina.
Dimostrandosi ancora una volta pieno di rancore per la sua vera patria, Alcibiade consigliò Tisaferne di non intervenire direttamente, ma di sostenere la discordia fra Sparta ed Atene, cioè di favorire alternativamente l'una e l'altra in modo da far esaurire le loro forze fino alla reciproca distruzione, per poi farne di una o dell'altra o di entrambe, una facile preda.
Ed infatti, Tisaferne più che usare la forza, impiegò il denaro per fomentare ribellioni ad Atene come a Sparta, e nel farlo bilanciava queste sovvenzioni in modo che una non potesse giungere ad una vittoria netta sull'altra.

Questi complotti non erano sfuggiti al movimento oligarchico di Atene, inoltre l'alta considerazione che Alcibiade godeva presso la corte Persiana, li portarono a pentirsi di aver riservato ad Alcibiade quell'ingrato esilio, e a pensare quanto sarebbe stato utile ora, con una crisi che era tutta a loro favore. Ma anche lo stesso Alcibiade nutriva la segreta speranza di poter tornare ad Atene. In qualche modo, al movimento oligarchico queste intenzioni le fece anche sapere; di voler tornare in patria, promettendo che con la sua influenza avrebbe fatto rompere l'alleanza fra la Persia e Sparta, e procurato ad Atene l'amicizia e l'assistenza di Tisaferne. Ma ad una condizione, che fosse abbattuta la "democrazia degli straccioni" come la chiamava, e stabilissero nuovamente l'aristocrazia.

Ad Atene queste condizioni trovarono grande opposizione ovviamente nelle rappresentanze democratiche popolari, massime fra i nemici di Alcibiade. Ma siccome altra via non c'era per sottrarre la repubblica alla sua totale rovina, il popolo assentì benché contro la propria inclinazione.
A Pisandro che capitanava la flotta e ad altri dieci deputati gli si diede l'incarico per trattare con Alcibiade e Tisaferne. La missione non ebbe però l'esito sperato, anzi fu un fallimento, perchè all'ultimo momento Tisaferne temendo di rendere gli Ateniesi troppo potenti fece -per arrivare a una pace- delle richieste tali (gli Ateniesi dovevano abbandonare tutti i domini della Jonia) che i deputati disgustati misero fine all'incontro. Adirati anche con Alcibiade, che probabilmente aveva promesso più di quanto lui poteva mantenere. Infatti Tisaferne anche se si fidava poco dei Peloponnesi, non voleva rompere con loro, in quanto avevano nelle proprie mani l'intera costa della sua satrapia.

Mentre questo accadeva a Sardi, ad Atene, Androcle ed altri capi del partito radicale erano stati tolti di mezzo con i pugnali di alcuni sicari. Il popolo ne rimase terrorizzato e quindi, magrado l'insuccesso delle trattative con la Persia, si potè procedere alla riforma della costituzione.
Seguendo quella linea che aveva proposta Alcibiade, fu abolito il governo popolare e prese le redini l'aristocrazia. Tutte le magistrature furono abbandonate nella mani di quattrocento persone rivestite di potere assoluto.
La cronaca di questi giorni sono diverse: Robertson (in "Istoria dell'Antica Grecia") riporta che questi tiranni manifestarono subito la loro tirannia. Entrarono in Senato circondati da guardie e armati di pugnali, disciolsero il vecchio governo popolare, poi iniziarono la loro amministrazione con una serie di sentenza di esilio, di proscrizioni, di avvelenamenti di tutti coloro dai quali prevedevano opposizione.

J. Beloch (In Storia Universale) invece narra che fu fatto tutto per le vie legali, che una deliberazione dell'assemblea popolare abolì la democrazia e vi sostituì a titolo di governo provvisorio un consiglio di 400 membri, che vennero nominati dai capi del movimento politico, con l'incarico di elaborare la nuova costituzione; era stabilito che d'ora innanzi il godimento dei diritti politici si sarebbe limitato ai 5000 cittadini più ricchi e che nessuno avrebbe ricevuto stipendio per la gestione di cariche pubbliche.

Da entrambi i due autori però sappiamo che l'esercito allora accampato a Samo, si sdegnò così tanto di ciò che era avvenuto ad Atene, che la massima parte dei soldati (di estrazione popolare) rifiutarono obbendienza agli ufficiali (sospetti di essere legati all'aristocrazia e conniventi al colpo di stato), ed elessero nuovi capi (Trasilo e Trasibulo) al loro posto, e proposero il comando supremo ad Alcibiade, nella giusta convinzione che egli solo era l'uomo capace di salvare lo Stato nella crisi che attualmente attraversava.
Alcibiade accettò l'incarico, poi mettendosi alla testa delle truppe avanzò fino a Mileto per presentarsi nella sua nuova dignità a Tisaferne, e tornando ad essere orgoglioso di essere Ateniese, mostrò al Satrapo persiano che il potere dei suoi concittadini era tornato ad essere nuovamente formidabile.

Poi tornò a Samo; vi trovò messaggeri inviati dai quattrocento di Atene. I soldati non solo insistettero di non riceverli, ma proposero ad Alcibiade di marciare su Atene per sbarazzarsi subito dei tiranni.
Alcibiade tornò ad essere un grande stratega e un grande politico. Primo: considerò che partendo da Samo avrebbe lasciato sguarnita la Jonia incapace di difendersi dai probabili assalti del nemico. Secondo: temeva che la sua comparsa ad Atene avrebbe potuto provocare una guerra civile, nella quale i suoi concittadini avrebbero esaurito le proprie forze uno contro l'altro, facendo così il gioco dell'aristocrazia più insolente.
E a proposito di questa, dichiarò (proprio lui che l'aveva proposta come condizione per tornare ad Atene) che era necessario abolirla e di nuovo ristabilire il Senato.
Queste sagge decisioni valsero ad ottenere che i soldati rinunziassero di muovere contro il Pireo sotto la sua guida.

Ma intanto ad Atene la rivolta militare di Samo, e la notizia che Alcibiade era stato dai soldati nominato comandante supremo dell'esercito ateniese, aveva profondamente scossa l'autorità del nuovo dispotico governo. L'unico mezzo per quest'ultimo di mantenersi al potere era di venire ad una pronta intesa con Sparta, ed Antifone (il capo del movimento oligarchico che aveva preso il potere) era pronto a pagarla a qualsiasi prezzo, sia pure occorrendo a sacrificarle l'indipendenza dello Stato.
Ma quando già si preparava a consegnare il Pireo in mano alla flotta Spartana, si vide abbandonato dai suoi seguaci, gli opliti cominciarono ad ammutinarsi e soltanto la promessa del governo di pubblicare la lista dei 5000 cittadini di pieno diritto e far eleggere da essi un nuovo collegio di magistrati governanti potè impedire lo scoppio della guerra civile.

I nemici di Atene nel frattempo non erano rimasti a guardare; i Lacedomi (alleati di Sparta) approfittando della grave crisi all'interno e all'esterno di Atene, fecero avanzare una loro flotta fino all'Ubea, e qui essa si scontrò con una armata inviata dai quattrocento. Questa si fece incontro ai Lacedomi dinanzi a Eretria ma rimase sconfitta con gravi perdite. Ad Atene si cadde nella più gran costernazione, per la semplice ragione che l'Ubea somministrava la maggior parte delle vettovaglie. Questo grave colpo rovinò del tutto il governo oligarchico. La maggior parte vista l'aria che tirava fuggì da Atene, riparando presso gli Spartani. Antifone non si mosse, preferì il giudizio, che fu severo, fu condannato e mandato al supplizio.
A capo dello stato salì Teramene, che pur avendo capitanato l'opposizione, e provocato la caduta dell'oligarchia, rimase pur sempre sospetto ai democratici avendo un passato pure lui oligarchico.

Ma anche il fato andò incontro ad Atene: I Lacedomi pur conquistando l'isola, si attardarono a mandare rinforzi; inoltre essendoci ora - come abbiamo visto sopra- al comando supremo Alcibiade - per nulla impressionati della disfatta di Eretria, allestì tre potenti armate: le prime due con due validi comandanti, Trasilo e Tarsibulo, che misero in fuga i rinforzi Lacedomi; l'altra - bramoso di fare prima del suo ritorno ad Atene qualche luminosa azione - guidata dallo stesso Alcibiade, fece vela verso Coo e Gnido. Poi informato che una delle flotte stava per incrociare i Peloponnesiaci nelle vicinanze di Abido (autunno 411 a.C.) si precipitò in soccorso, piombò in piena battaglia, e pur avendo diciotto velieri, fece strage di navi, di soldati, catturò trenta navi nemiche, e si guadagnò la gloria che cercava.

L'anno successivo (primavera 410 a.C.) colse un'altra vittoria strepitosa a Cizico contro i Peloponnesi.
Pur avendo riunita la flotta che contava ormai 80 navi, con 40 di queste, mentre il cielo e il mare era plumbeo e i tuoni accompagnavano scrosci di pioggia, facendosi seguire ai lati dalle altre 40 navi, affrontò subito frontalmente quelle spartane guidate da Mindaro. Questi vedendo così poche navi davanti a se, si schierò a battaglia, ma quando avvicinandosi attaccò, ai suoi due lati piombarono le due flotte di 20 navi ciascuna; ne fecero strage, e lo stesso Mindaro fu ucciso da Alcibiade.
E mentre lui coglieva questi successi, Trasilo in Attica piombava sulla retroguardia e distruggeva l'esercito spartano che era stato condotto quasi fino alle mura di Atene dal loro re Agido.

In seguito a tale disfatta, Sparta si decise di trattare: essa offrì la pace sulla base dello stato attuale delle cose, tali che avrebbe conservato ad Atene più della metà dei suoi antichi domini.
Ma in Atene all'annunzio della vittoria, la costituzione temperata introdotta da Teramene era staya abbattuta ed era stata ripristinata la democrazia illimitata; e il fabbricante di strumenti musicali Cleofone, che ora portava la battuta all'assemblea popolare, non volle saperne di pace a meno che essa non ricostituisse pienamente il dominio ateniese. Perciò la guerra continuò. Fu compiuto l'anno seguente (409 a. C.) il tentativo di riconquistare la Jonia; ma nell'attacco portato contro Efeso gli Ateniesi subirono una grave disfatta. E invece di guadagnare dei territori li perse, e nello stesso periodo Atene perdè pure Pilo e Nisea che andarono nelle mani dei Peloponnesi.

Andò meglio invece l'anno dopo (408 d.C.) ad Alcibiade, che proseguendo la sua azione, con luminose gesta ricondusse all'obbedienza le città dell'Ellesponto; gli Ateniesi tornarono ad esserne i padroni di quelle contrade, ristabilendo il predominio marittimo di Atene.

A questo punto nei primi mesi del 407 d.C. Alcibiade decise di far vela verso il Pireo; non solo bramava di sperimentare la gratitudine del suo paese, ma ritenne che era venuto il momento di ritornare ad Atene per prendere lui nelle proprie mani le redini del governo. Era quello che aspettava da anni.
Il giorno del suo arrivo fu il più glorioso della sua vita. Tutto il popolo di Atene uscì fuori ad incontrarlo per condurlo in trionfo in città. Entrando nel porto tutte le navi della sua armata erano agghindate a festa con le spoglie del nemico, seguivano poi un gran numero di navi spartane catturate che ora portavano sul pennone le insegne di Atene.
Alcibiade sbarcò fra le ripetute acclamazioni dei cittadini, e gli antichi amici gli si affollavano intorno trattandolo come una Deità. Cinto dell'aureola della vittoria, entrando in città, l'accoglienza fu un bagno di folla che purificò la maledizione religiosa che ancora gli gravava sopra per il sacrilegio compiuto contro i misteri. Infine, il popolo (anche se parte dei cittadini la consideravano una follia) lo elesse a stratega supremo per mare e per terra con poteri illimitati, gli decretarono una corona d'oro a titolo di riparazione per il cattivo trattamento che prima aveva ricevuto, e gli resero i suoi beni.

Per dissipare i sospetti di essere antireligioso, Alcibiade volle celebrare anche i misteri Eleusini. Ma da alcuni anni gli Ateniesi erano costretti a condurre questa processione per mare, perché le principali strade presso Eleusi erano in mano ai Lacedomi. Alcibiade volle svolgerla nella consueta maniera, cioè dalla terra e, con tale determinazione, pose le sue truppe lungo i lati del cammino, pronte a respingere ogni eventuale assalto del nemico. La processione si svolse con grande ordine per tutta la strada fino ad Eleusi; si celebrarono i riti con grande solennità e tornarono indietro senza alcun inconveniente. Anche quest'azione fu considerata una grande impresa e l'entusiasmo del popolo Ateniese salì alle stelle, fino al punto che molti volevano incoronare Alcibiade re.

Molti dei cittadini primari, con questo clima euforico della folla, sempre pronta ad esaltarsi, si aspettavano che Alcibiade sarebbe andato anche più in là, e che abbattuta la democrazia, si sarebbe reso padrone assoluto dello Stato. Ma Alcibiade non osò fare questo passo, si mantenne nei limiti legali nei successivi quattro mesi che rimase ad Atene. I primari temendo che prima o poi si pronunciasse in tal senso, non vedevano l'ora di farlo ripartire com'era sua intenzione, accordandogli quanto desiderava. Avuta a disposizione una flotta di cento navi, Alcibiade fece vela verso la Jonia, l'unica provincia che non si era riusciti a sottomettere.

Nella Jonia la situazione nel corso di questi tre anni era però alquanto cambiata ed era assai sfavorevole ad Atene. I Peloponnesi, dopo la sonfitta di Cizico, avevano avuto tutto tempo di creare una nuova flotta, e soprattutto avevano trovato nel loro nuovo ammiraglio, l'uomo adatto a comandare questa flotta.
Era costui LISANDRO; pur di nobile nascita, nondimeno era stato educato con tutto il rigore alla disciplina spartana. Era bravo, accorto, intelligente, ma era anche molto ambizioso e per raggiungere i suoi scopi avrebbe sacrificato ogni cosa, ogni piacere.

Anche i rapporti degli Joni con i Persiani erano diventati migliori di prima. Questo perchè Tisaferne nella Satrapia di Sardi era stato affiancato da Ciro, il secondogenito di Dario, giovane anche lui ambizioso, che nutriva in animo il disegno di soppiantare suo fratello maggiore (il futuro Artaserse) e insediarsi sul trono egli stesso.

Con questo progetto, non trovò di meglio che cercare un sostegno con gli Spartani, ed entrò immediatamente in contatto con Lisandro, accordandogli copiosissimi aiuti in denaro, che Lisandro accettò volentieri per aumentare di quattro oboli al giorno gli stipendi dei suoi marinai. Lui con quelle forti somme, sollevato da preoccupazioni finanziarie per molto tempo, e decisamente più motivati i suoi uomini, le due cose insieme contribuirono fortemente all'indebolimento dell'armata Ateniese.
Tuttavia, Liasandro non ingaggiò subito battaglia con un uomo del valore di Alcibiade. Pertanto le due flotte stettero per un po di tempo una di fronte l'una all'altra inoperose, i Peloponnesi all'àncora nel porto di Efeso e gli Ateniesi nel vicino porto di Notion.

Purtroppo accadde l'irreparabile nella primavera del 406 a.C. Essendosi Alcibiade per alcuni giorni allontanato dalla flotta, pur avendo dato ordine al suo sostituto Antioco di non ingaggiare battaglia, costui bramoso di dimostrare il suo coraggio fece vela con due galere nel porto di Efeso a sfidare il nemico. Affrontato dalle navi ben posizionate nel porto da Lisandro, non solo lui fu catturato, ma per toglierlo dal pasticcio che aveva combinato, altre 15 galere corsero in suo aiuto. Ma strette al centro, dai lati della flotta nemica, furono tutte catturate.

Le conseguenze non furono solo di carattere militare, ma politiche. Al suo ritorno, nell'udire Alcibiade questo disastro non è che si perse d'animo. Radunò tutte le navi davanti a Samo pronto ad ingaggiare battaglia con Lisandro. Che però pago del suo successo a Efeso, ritenne opportuno evitare.
Ma la notizia del disastro a Efeso e lo smacco a Samo, giunse ad Atene, e i nemici di Alcibiade riacquistarono il sopravvento. Giunsero perfino a dire che la disfatta di Antioco era da amputarsi alla negligenza di Alcibiade; e qualcuno ancora più malizioso, affermò che bisognava fortemente dubitare della sua fedeltà, vista la precedente connivenza con Spartani prima e Persiani poi. L'ingrato e capriccioso (ignorante) popolo - come al solito- prestò fede a queste insinuazioni.

Erano in quel momento ad Atene imminenti le elezioni, i suoi avversari riuscirono a far sì che Alcibiade non venisse eletto. E ciò equivaleva a una vera e propria immeritata deposizione. Da parte sua Alcibiade, sdegnato, depose immediatamente la sua carica e, con quell'aria pesante che tirava, prima che accadesse qualcosa di simile alle sue due precedenti esperienze se ne partì per un volontario esilio in uno dei suoi castelli in Tracia.
Al comando della flotta ateniese fu scelto CONONE. Un inetto come vedremo in seguito.

Ma anche presso gli Spartani, il proprio ammiraglio cadde nella disgrazia dell'ingratitudine. La costituzione spartana non consentiva una rielezione, e Lisandro (che nel frattempo per compiere il suo personale ambizioso progetto si era dato molto da fare nel mettere nella mani dei suoi amici il potere delle città soggiogate) fu sostituito da Callicratida, uno spartano di stampo antico, militare tutto d'un pezzo, senza stravaganze, che invece di restare in attesa davanti al nemico, preferiva imporre alla guerra un indirizzo del tutto diverso da quello praticato da Lisandro; lui era un uomo d'azione, e la sua strategia era molto semplice: attaccare sempre, infliggere al nemico incessanti e rapidi colpi, non dargli tregua.

Lisandro vedendolo arrivare, non nascose la sua gelosia, e si comportò nella più bassa e immaginabile maniera. Prima di lasciare il comando al suo successore, rimandò a Sardi tutto il denaro che aveva ricevuto dal Satrapo persiano per aumentare gli stipendi alle truppe; poi rivolgendosi a Callicatrida, gli disse che se desiderava denaro doveva prima andare a inginocchiarsi e adulare il gran Re persiano.
Per il nuovo comandante fu dura doversi abbassare a quelli che considerava barbari, ma con gran senso pratico, o costretto dalle necessità, ad elemosinare alla corte persiana ci andò per davvero. Ma ora con uno, ora con un altro pretesto non riuscì a ottenere udienza da Ciro. Sdegnato se ne tornò a casa.
Con il concorso di contingenti di navi fatte venire da Chio portò ugualmente la flotta a 140 unità. Poi attaccò Lesbo e con un primo assalto prese immediatamente Metimma; Conone, accorso in aiuto dell'isola con 70 navi; non subì una vera e propria rovinosa sconfitta, ma fu bloccato nel porto di Mitilene. Se non giungeva pronto aiuto, la flotta ateniese di Conone era perduta.

Infatti ad Atene compresero subito il pericolo. Vennero allestite tutte le navi che si trovavano ancora disponibili nel Pireo, si caricarono di ogni uomo disponibile, compresi gli schiavi che vennero liberati, e furono richiamate tutte le squadre che si trovavano sparse nell'Egeo e aggiungendo le 40 navi dislocate a Samo, in tal modo si riuscì a formare una flotta di 150 navi e far vela verso Mitilene per liberare le altre 70 navi di Conone.

Callicratida con la sua solita strategia di voler sempre attaccare, anche incautamente, fidandosi solo del suo coraggio, con a disposizione 120 navi non attese quelle ateniesi nelle proprie acque, ma mosse incontro al nemico preso le isole Arginuse. Allo stretto che separa Lesbo dal continente si venne a battaglia.
Fra gli Ateniese si distinse Pericle, figlio e omonimo del più famoso ateniese. Con il rostro della sua nave colpì proprio la nave di Callicratida. Immobilizzata l'ammiraglia, caduto nella lotta il comandante, le altre navi senza più una guida precipitarono ben presto nella confusione, 70 velieri furono affondati, altri si diedero alla fuga, i rimanenti furono catturati. Fu un tracollo totale per Sparta.
Ma gli uomini di Callicratida prima della disfatta si erano non solo difesi eroicamente, ma avevano inflitto numerose perdite agli Ateniesi. Di navi loro ne avevano affondate 25, e questo mentre durante la battaglia si era alzata una tempesta che impedì agli Ateniesi di salvare gli equipaggi naufraghi, che per la massima parte trovarono la morte nelle onde limacciose "proprio a causa della tempesta, che impediva di soccorrerli". Così almeno dissero al ritorno ad Atene gli ammiragli vittoriosi, mentre invece alcuni marinai superstiti li accusarono di non aver fatto il possibile per salvare i loro compagni afferrati alle carcasse delle navi distrutte.

Furono così chiamati i responsabili sul banco degli imputati prima davanti al Senato (che se ne lavò le mani) poi davanti a un'assemblea popolare per rendere conto davanti agli Ateniesi quello che fu considerato un delittuoso operato. Dopo un procedimento tumultuoso sei di essi su dieci vennero condannati a morte (compreso il figlio di Pericle, che in un certo senso era stato - mandando in fondo al mare l'ammiraglia e lo stesso Callicratida - l'artefice del successo).

A difendere gli accusati fu chiamato il famoso Socrate. La sua accorata tesi difensiva fu quella che "i generali a causa della tempesta, non mettendo a repentaglio gli equipaggi delle proprie navi, avevano adempiuto al proprio dovere come comandanti delle navi stesse. Inoltre, era la più manifesta e crudele ingiustizia il porre a morte uomini che si erano esposti con tanta gloria e buon successo in difesa della patria".
Purtroppo gli accusatori avevano infiammato il popolo, e il popolo ingrato, istigato da una pietosa demagogia ("i poveri resti dei nostri fratelli che non hanno potuto avere l'onorata sepoltura giacciono in fondo al mare") furono spietati. Quale irragionevole ingrato popolo!

Platone colse da questo evento occasione per sostenere che "la plebaglia è un incostante, ingrato, crudele e geloso mostro, assolutamente incapace di essere guidato dalla ragione; e un tale sentimento è confermato dalla universale esperienza di tutte le età e di tutte le nazioni".
E non aveva visto i successivi duemila anni !!!

Paradossalmente ci furono elogi postumi per l'ammiraglio nemico. Plutarco in seguito, pur facendo gli encomi al coraggioso Callicratida come uomo, lo biasimò come comandante per avere incautamente ingaggiato battaglia dove non doveva ingaggiarla. "Pericoloso - scrisse- per un generale condottiero abbandonarsi all'impeto del proprio coraggio. Nel farlo non pone a rischio soltanto la propria vita, ma quella di tutti coloro che sono al suo comando".
Anche Cicerone era di questo parere: condanna coloro che "...per una falsa opinione della propria gloria, o per salvare la propria reputazione, mettono a rischio i propri uomini e la propria patria."
Infatti sembra che Callicratida, prima della impulsiva e sciagurata decisione, fosse stato consigliato di schivare la battaglia al largo. L'ammiraglio spartano rispose al saggio consiglio dicendo che "Sparta poteva allestire un'altra flotta nel caso questa fosse stata distrutta; ma che la sua fuga lo avrebbe oppresso di eterna vergogna". Pensò più al suo onore che non a quello della Patria.

Nonostante questo infausto dibattito che si concluse con la morte dei responsabili, non passò in secondo piano la vittoria che gli stessi imputati avevano clamorosamente ottenuta, che non solo avevano vinto e poi liberato la flotta di Conone a Mitilene, ma anche la supremazia degli Ateniesi sul mare con quella clamorosa vittoria era stata restaurata.
Inoltre Sparta, uscita distrutta dallo scontro, offrì ancora una volta la pace, ma gli Ateniesi, convinti ora più che mai della propria invincibilità sul mare (pur avendo mandato a morte gli artefici di quel successo), respinsero le proposte. A Sparta ne approfittarono i seguaci di Lisandro, che chiesero agli Efori e al re di metterlo nuovamente a capo della flotta.

Il rancore e le ambizioni di quest'uomo non erano per nulla cessate, e nemmeno gli intrighi per raggiungere i suoi personali scopi. Nuovamente a capo della flotta, si rimise subito in contatto con il persiano Ciro, per ottenere come in passato, sovvenzioni in denaro. Con questo allestì una nuova potente flotta, 180 navi, e nell'estate del 405 riprese l'offensiva veleggiando verso l'Ellesponto; assediò Lamsaco, la prese di assalto e l'abbandonò al saccheggio.

Gli ateniesi con un po' di ritardo si mossero pure loro con 180 navi. Ma si mossero incautamente, e altrettanto incautamente Conone scelse il luogo per mettere all'ancora le navi: su una inospitale costa senza porto e città dove in caso di necessità poter ritirarsi. Iniziale fortuna per i Greci che Lisandro non voleva ingaggiare subito la battaglia. Però si era egregiamente organizzato qualora gli Ateniesi avessero deciso di attaccare. E si era anche organizzato per fare un attacco di sorpresa appena si sarebbe presentata l'occasione buona.
Resi fiduciosi dall'esitazione del nemico, gli ateniesi alla fonda per quattro giorni trascuravano servizi di guardia, scendevano a terra, gozzovigliavano allegramente notte e giorno.

A salvarli da una potenziale precaria situazione, si offrì ancora una volta Alcibiade, che trovandosi da quelle parti, incontratosi con i comandanti ateniesi, da buon stratega qual'era, espose il grave pericolo in cui si trovavano se rimanevano in quel posto. Si offerse di cooperare piombando sul nemico dalla parte di terra con un esercito trace al suo comando. Ma i generali ateniesi, o per boria o per gelosia, sicuri di sè non accettarono nè l'aiuto nè i saggi consigli di abbandonare quel luogo infame.

Con la solita negligente maniera, soldati e marinai, inoperosi da giorni, seguitarono ad abbandonare le navi per scendere a terra a gozzovigliare. Funzionando bene i suoi informatori, per Lisandro l'atteso momento per attaccare di sorpresa era arrivato. Con lui al comando la grande flotta spartana si mosse, attraversò l'angusto stretto per poi piombare come un falco sulle navi quasi vuote. Conone su una di queste, scoprendo che il nemico si avvicinava, si agitò e gridò verso terra come un ossesso per richiamare gli uomini di salire a bordo. Ma i soldati essendo sparsi sulla costa non poterono obbedire. Sentendosi impotente, Conone con poco più di una decina di navi che avevano ancora un misero equipaggio a bordo, vista la critica situazione decise di salvarsi con la fuga, facendo vela per Cipro presso il suo amico Euagora, re di Salamina.
(Una nota su questo inetto Conone. - Dopo la figuraccia a Mitilene (con il blocco delle sue 70 navi), e dopo quest'altra disfatta a Egospotami, Conone non osò più comparire dinanzi agli occhi dei suoi concittadini. Alla fine il suo amico Euagora gli trovò un posto presso i persiani, dove Farnabazo gli diede il comando di una flotta).

La flotta di Lisandro, come detto, piombata all'improvviso in quelle acque, catturò l'intera flotta, circa 170 navi, quasi senza colpo ferire. Molti Ateniesi a terra si diedero alla fuga sulla inospitale terra, ma 3000 di loro compresi tre comandanti furono circondati catturati, poi trucidati tutti spietatamente a sangue freddo.
Con la massima facilità, ormai incontrastato, proseguendo l'azione, Lisandro occupò tutte le piazze che sull'Ellesponto, nella Tracia e nelle isole erano occupate dagli Ateniesi, che si arresero senza resistenza al vincitore.

Giunti a questo punto, la sanguinosa guerra che era durata ventisette anni, era ormai decisa.

Atene non aveva più una flotta, nè aveva i mezzi necessari per metterne in piedi un'altra. Inoltre Lisandro terminato il lavoro a nord, comparve minaccioso con la sua forza navale davanti al Pireo, mentre l'esercito del Peloponneso guidati dai due re di sparta Agide e Pausania, circondava la città di Atene dalla parte di terra.
La città non poteva sperare soccorso da alcun lato; ma i capi radicali - che la plebe seguiva ciecamente e irrazionalmente - non volevano sentir parlare di resa, anche perchè loro sapevano che voleva dire che era finita. O forse qualcuno voleva proprio questo. Così gli Ateniesi si ressero per tutto l'inverno con accanto due uniche compagne: la fame e la disperazione. Ma trovarono il tempo di riversare la loro rabbia e mandare a morte Cleofone, la cui politica di guerra a oltranza, aveva attirato su Atene tutte queste sciagure.

Intanto a Sparta gli Efori decidevano il destino degli Ateniesi e della stessa Atene; i più esaltati dalla vittoria ne volevano la distruzione totale, e Tebe e Corinto erano della stessa opinione. Quasi inutile fu l'invio a Sparta di due ambasciate Ateniesi guidati da Teramene. La condanna per Atene, sempre seguendo l'opinione della plebaglia spartana, doveva essere la sua totale distruzione. La nuova generazione, che nei 27 anni era cresciuta nella sanguinosa guerra, fin dalla loro culla gli avevano insegnato a coltivare questo sogno: di vedere rasa al suolo la città rivale.

A quel punto fu Lisandro ad opporsi, e radunata la classe più saggia, dichiarò che "sarebbe stata un'infamia estinguere uno degli occhi della Grecia". Per quanto fosse spartano, Lisandro insomma riconosceva la grandezza e la magnificenza di Atene.
Si giunse così con la sua saggia moderazione a preparare un trattato di pace, che anche se dettava severe condizioni, Atene riuscì a conservare una propria modesta autonomia e il possesso del territorio attico con Salamina. Dovette però rinunciare a tutti i suoi possedimenti esterni, abbattere le lunghe muraglie e le fortificazioni del Pireo, consegnare le sue navi da guerra, infine entrare a far parte della confederazione spartana.
Gli Ateniesi che da mesi stavano morendo di fame, furono costretti ad accettare tutte le dure condizioni.

Lisandro nell'aprile del 404 a.C., entrando da trionfatore nel Pireo, coronò la sua nota ambizione nel vedere smantellare le fortificazione del Pireo, che fu fatta fra il suono dei vari strumenti musicali. Per gli Spartani una festa, per gli Ateniese una marcia funebre.

Così finì la guerra Peloponnesiaca.

La sola Samo resistette invano ancora per qualche mese; poi Lisandro la tenne bloccata alcuni mesi fin quando si arrese. Tutte le altre piccole o grandi città e le isole, informate del fato di Atene, volontariamente aprirono le porte e i porti ai vincitori

Atene prostrata, ridotta a una così misera condizione mai provata da quando essa esisteva, non potendo reagire, si abbandonò alla discrezione dei propri nemici. Più nulla di peggio poteva ormai accadere.
Tuttavia una gran parte delle classi abbienti e principalmente gli esiliati reduci precipitatisi in patria, guidati da Trisibulo, credevano giunto il momento di abolire la democrazia dominante; ma essi non erano abbastanza forti per riuscire a compiere in contrasto col popolo il mutamento di costituzione. Invitarono quindi Lisandro ad intervenire, convinti che avrebbero ricevuto dei benefici e le nuove cariche di un governo oligarchico.

Lisandro dopo l'appello ad Atene giunse, ma maneggiò ogni cosa a piacer suo. Obbligò la città ad abolire la democrazia, ma stabilì trenta suoi Arconti, con l'incarico di elaborare la nuova costituzione; uomini interamente devoti ai suoi interessi perchè gran parte erano sue proprie creature. (Dagli storici sono stati distinti giustamente col nome "dei trenta Tiranni").

Lisandro acquisita una specie di sovranità su tutte le città, al colmo della sua gloria, pensò di ritornarsene a Sparta a godersi i frutti del successo. Si fece precedere da Gilippo con tutto l'oro e l'argento da lui raccolto nelle sue imprese. Ma si narra che Gilippo avido e venale nell'assolvere questo compito, lungo il tragitto, aprendo i preziosi sacchi asportò quasi un quinto dell'intero contenuto. Scoperta la sua slealtà, per evitare il cartigo e una severa pena, ebbe comunque il tempo per fuggire. Ma Sparta venuta a sapere che si voleva introdurre in città quei metalli (dai tempi di Licurgo banditi), biasimò altamente Lisandro perchè introduceva ciò che era sempre divenuto il veleno e la corruttela degli Stati e del genere umano. Gli Efori ordinarono che i metalli rimanessero fuori dalla città, ribadendo che l'unica moneta in metallo che doveva circolare a Sparta era quella solita, di ferro. I due preziosi metalli non furono banditi, perchè gli amici di Lisandro si opposero; tuttavia dopo averli requisiti, finirono nel pubblico tesoro per essere solennemente in futuro impiegato solo dallo Stato.

Lisandro invece di godersi il suo tesoro, rientrato in patria, dovette accontentarsi solo delle adulazioni; gli eressero anche degli altari e dei monumenti; e vanitoso com'era ordinò che le sue statue dovevano essere fatte non in pietra ma fuse in rame. Conoscendo la sua vanità, i migliori poeti non si risparmiarono nel servilismo, ed usarono tutto il proprio talento per celebrare le sue lodi.


Ma se a Sparta si celebravano i successi - con gli spartani che finita così la guerra ora erano divenuti il primo popolo della Grecia - per Atene iniziava il giogo spartano; che riuscì a scrollarsi di dosso solo dopo trent'anni. Tali furono i tempi di reazione.

LA REAZIONE - IL RISORGIMENTO DELLA DEMOCRAZIA > > >

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