14. LA REAZIONE -
IL RISORGIMENTO DELLA DEMOCRAZIA


Alcibiade

Come abbiamo visto alla fine delle precedenti pagine, Sparta aveva finalmente conseguito lo scopo per il quale ventisette anni prima aveva imbracciato le armi contro Atene. Ormai tutto il dominio ateniese era ridotto in frantumi e tutta la Grecia riconosceva la supremazia di Sparta. Era dunque un successo militare netto, la sua forza militare era del resto palese a tutti. Non così quella politica, perchè dopo la conquista occorreva dare alla nazione una nuova organizzazione, che senza limitare eccessivamente l'autonomia dei singoli Stati, tuttavia ponesse a disposizione di Sparta città ora predominante, le sue risorse militari e finanziarie.
Anche se c'erano alcuni spartani che premevano per mettere il giogo ad Atene e ai singoli Stati, altri ricordarono che Sparta a suo tempo aveva intrapreso la guerra contro Atene per la libertà degli Elleni ed ora, dopo la vittoria, se si voleva con loro essere leali a tale programma non si poteva fare marcia indietro.
Ma nemmeno si poteva proseguire sulla linea fino allora tenuta da Atene, che era quella di esigere tutto l'anno tributi e prendersi la preorogativa di esercitare la suprema giurisdizione; erano state proprio queste due imposizioni che avevano reso odiosa ai confederati la signoria ateniese e provocato la guerra.

Si giunse a un compromesso più moderato: Sparta si riservò il diritto di imporre agli alleati contributi solo in caso di guerra. Tuttavia nonostante la supremazia di Sparta, questa non poteva certo essere mantenuta con mezzi semplicemente morali. Perciò Lisandro aveva posto dovunque il governo nelle mani delle classi abbienti che il proprio interesse teneva legate a Sparta; giacchè soltanto l'appoggio militare che offriva a loro Sparta questi nuovi governi potevano conservarsi al potere di fronte al popolo. Pertanto i presidi spartani che erano stati dislocati durante la guerra in una serie di città fra le più importanti, vi rimasero anche dopo conclusa la pace. Non era una vera e propria formale forza di occupazione, ma di fatto lo era. Anzi questa rete di presidi fu completata con altre guarnigioni, spesso richieste dagli stessi governi interessati (filo-spartani o perchè montati sul carro del vincitore). Ai governi di questi Stati per il riordinamento delle proprie cose interne fu comunque lasciato alla loro stessa iniziativa. Ed ognuno prese le sue.

Ora si pensi che quasi tutti i governi provvisori formati da Lisandro erano composti in buona parte da personaggi che erano stati prima all'opposizione o erano reduci dall'esilio. I quali naturalmente approfittarono della loro nuova posizione per rendere la pariglia a coloro che li avevano osteggiati o addirittura cacciati. E tutto ciò ovviamente non avvenne senza frequenti atti di vendicativa dura rappresaglia.
Nella stessa Atene, i trenta Arconti stabiliti da Lisandro presto si abbandonarono ad atti di tirannia; e per rinforzare alcuni decreti ottennero pure da Lisandro una guardia armata per essere protetti. Principalmente non agirono sul popolo povero, ma sui ricchi cittadini, prima di tutto perchè questi con le loro risorse potevano rappresentare un ostacolo al loro violento procedere; poi perchè perseguitando costoro, con vere o presunte accuse, potevano confiscare le loro ricche proprietà che andavano così ad arricchire quel patrimonio di beni da distribuire ai nuovi governanti e funzionari. Del resto gli esiliati a suo tempo erano stati spogliati dei propri beni, e quindi al rientro per tornarne in possesso non si poteva che procedere sull'esempio precedente: cioè confiscare i patrimoni degli avversari.

Tutto questo non avvenne senza imparzialità, senza crudeltà, e spesso usando le false accuse , cioè usando il metodo della rapina. Si aggiunga che alcuni comandanti dei presidi spartani non furono all'altezza della situazione; abituati ad usare il tono brusco militare, operando da militari si fecero di frequente ciechi strumenti degli interessi partigiani oligarchici; e non di rado pure loro sfruttarono la situazione per arricchirsi.
Ma per l'enorme estenzione del territorio direttamente o indirettamente conquistato, Lisandro non aveva altri strumenti; quelli aveva a disposizione, e quindi anche dove ci furono soprusi, angherie, strapoteri, fu costretto a comportarsi con indulgenza. Proprio ad Atene, la più demoralizzata, nessuno osò opporsi agli scellerati, e il regno del terrore fu la norma di vita quotidiana. Tutti coloro che erano anche per poco stati in vista a capi di partiti o solo seguaci di movimenti antiologarchici, dovettero fuggire, per sottrarsi alla sorte di essere accusati come rei di alto tradimento e mandati a morte. Perfino Nicerato, il figlio di Nicia, fu condannato a morte e giustiziato solo perchè non si era voluto associare al movimento oligarchico.

Nel governo dei trenta, c'erano sì quasi tutti fedeli amici di Lisandro, ed anche Ateniesi (opportunistici) filo-spartani, ma anche due noti Ateniesi. Uno era da sempre il capo e la mente degli elementi estremi ed era Crizia (uomo di cultura, poeta, oratore e scrittore politico) che odiava con fanatismo la democrazia; l'altro era Teramene, alla guida di un gruppo più moderato, mal disposto al dispotismo, animato da una qualche considerazione per il bene del proprio paese. Lui era ben istruito nella scienza del governo, tuttavia una macchia ce l'aveva anche lui: lo zelo che profuse nel procurare la ingrata condanna a morte dei comandanti della famosa battaglia navale di Arginusa.

Quando iniziò ad operare il nuovo governo dei trenta, proprio Crizia con i suoi seguaci stabilirono che i diritti poliitici dovevano essere limitati a 3000 cittadini di sicuri sentimenti oligarchici. Teramene ne fu sdegnato e si oppose con tanta energia, fino al punto che Crizia in Senato lo accusò di essere un disturbatore della quiete, un sovversivo, un nemico del nuovo stato, e lo fece dalle guardie arrestare, indi processare.
Teramene si difese egregiamente da solo con validissimi argomenti davanti ai giudici; Crizia si narra che dopo questo intervento, temendo un assoluzione, fece entrare in aula sue fidate guardie che ogni tanto, ma sistematicamente, con quasi noncuranza, facevano vedere ai giudici la punta di un pugnale. I giudici così intimoriti condannarono a morte Teramene.
Lui era stato scolaro di Socrate, e questi corse in Senato ad opporsi alla scellerata sentenza. Il filosofo si avventurò in una appassionante difesa. Ma rischiò molto, perchè ad un certo momento, indignato per i comportamenti dispotici di Crizia e dei suoi sostenitori, esortò i senatori e il popolo a vendicarsi dei loro presuntuosi oppressori.

Teramene fu condannato a bere la cicuta. Senofonte rese immortale questi istanti, quando l'uomo con intrepidezza, calma e forza d'animo andò incontro alla morte. Dopo aver sorseggiato il veleno, l'ultima goccia con calma la versò a terra dicendo "Questo per il virtuoso Crizia".
Socrate, solo per i suoi meriti si salvò dallo sdegno di Crizia e dai tiranni suoi seguaci. Ma ben presto venne il suo turno, quando gli stessi uomini politici gli proibirono di educare e istruire la gioventù. Poi pure lui con accuse infamanti di empietà e di corruzione dei giovani finì sotto processo che si concluse con la condanna a morte e a bere pure lui la cicuta.

Crizia eliminato Teramene, aveva ora un pensiero fisso. Temeva da un momento all'altro un ritorno di Alcibiade, che - ricordiamo- dopo la sfortunata battaglia di Egospotami, temendo un'altra irragionevole ingratitudine (e dagli oligarchi qualcosa di più serio) si era autoesiliato in Tracia, dove per i suoi buoni rapporti con il Satrapo persiano Farnabazo si proponeva di recarsi alla corte persiana; non sapremo mai cosa progettava. Ma sappiamo che gli ateniesi oppressi dalle miserie e dalle angherie, avevano già cominciato a pensare proprio ad un ritorno di Alcibiade per essere liberati dai tiranni.
Dunque Alcibiade era considerato da Crizia con piena ragione il nemico più pericoloso, e quindi emanò un decreto di messa al bando per Alcibiade. Non solo, ma con l'influenza di Lisandro (anche lui volendo mantenere buoni rapporti con i Persiani) Crizia ottenne che il bando fosse esteso anche nelle province persiane. E qualora catturato di consegnarlo ad Atene vivo o morto.

INTANTO ALLA CORTE PERSIANA

Qui dobbiamo fare un passo indietro, per dare un'occhiata ai fatti nel frattempo avvenuti alla corte persiana e alla Satrapia di Sardi.
Abbiamo già visto nelle precedenti pagine, che Ciro
, il secondogenito di Dario, giovane e ambizioso, nutriva in animo il disegno di soppiantare suo fratello maggiore Artaserse e insediarsi sul trono egli stesso. Con questo progetto, finanziò e aiutò gli Spartani di Lisandro, così prima o poi il favore gli sarebbe stato restituito.
Sua madre Parisatide aveva adoperato ogni suo potere con Dario, per persuaderlo di dichiarare Ciro suo successore ad esclusione del suo primogenito Arsame. Ma Dario non voleva commettere un tale atto di ingiustizia. Quando Dario morì (nel 404 a.C.) il nuovo re nel suo ingresso assunse il nome di Artaserse Mnemome. Ciro disperato giurò la sua distruzione. Artaserse informato che il fratello tramava contro la sua vita lo fece arrestare, tuttavia la vita gli fu risparmiata per la solita intercessione della madre, e fu così generoso da ristabilirlo nel governo in una delle più belle province dell'Asia Minore.

Ma l'ingrato Ciro non si diede per vinto, quasi subito cercò il modo di come deporre il fratello. Tornò a far ricchi regali a Lisandro, poi di nascosto (nel 402 a.C.) allestito un proprio esercito con mercenari greci al comando di un certo Clearco - un esule spartano- e un numero considerevole di barbari, si preparava a marciare alla volta di Susa per abbattere con la forza il fratello.
I suoi preparativi non potevano passare inosservati. Lo stesso Alcibiade che viveva in esilio ai confini del territorio persiano - che si riprometteva di aver bisogno di Artaserse per far ritorno ad Atene per abbattere il governo spartano dei tiranni, lo informò che si stava tramando contro di lui.

Artaserse svolse delle indagini, ma Ciro gli fece sapere che i sudditi della provincia affidata al satrapo Tisaferne da tempo erano in ribellione contro di lui, e che l'esercito approntato era appunto per un pronto intervento in caso di sommossa. Ma proprio Tisaferne piuttosto accorto sospettò qual'era il vero progetto di Ciro, e con dati di fatto mise sull'avviso Artaserse, che non perse tempo con lo stesso Tisaferne nell'approntare un potente esercito per andare al momento opportuno incontro al fratello e dargli battaglia.

Infatti questi nella primavera del 401 si mise in cammino con il proprio esercito composto da 90.000 barbari e da 10.000 mercenari greci, e giunse senza incontrare resistenza fin quasi alle porte di Babilonia, qui radunati i capi greci (che rispetto ai barbari erano dei veri combattenti) rivelò qual'era la sua vera intenzione, e li incitò a dimostrare il loro valore e il loro coraggio per una causa che avrebbe anche a loro portato benefici e ricchezze.

Nel frattempo si era mosso anche il grande esercito di Artaserse, si narra fosse composto da circa un milione uomini e da centinaia di carri. Nei pressi del villaggio di Canara (o Cunassa) ci fu il contatto con le forze del fratello che già aveva schierato il suo esercito in ordine di battaglia.
Nonostante forze di gran lunga superiori a quelle di Ciro, la parte centrale con Artaserse al comando, incappò proprio in quel settore dov'erano i diecimila ateniesi, che lottando come dei leoni, li accolsero massacrandoli. Molti persiani di diedero alla fuga disordinata, e mentre Ciro con soddisfazione guardava le truppe di Artaserse fuggire davanti ai greci, lo sguardo cadde proprio su un cavallo che non poteva essere se non quello di suo fratello. Esaltato dalla vittoria e eccitato dalla visione si mise a gridare "Io lo vedo", e nello stesso tempo seguendo gli stimoli della sua ambizione, e l'occasione che gli si presentava, si mise a galoppare a testa bassa verso di lui, uccise di propria mano il comandante della guardia reale, intrepido si fece avanti fra coloro che lo volevano fermare, poi giunto a pochi metri dal fratello, ferì con un dardo il suo destriero, e questo si impennò gettando a terra Artaserse. In un lampo il re persiano era già su un altro cavallo. Ciro ancora più invasato per aver visto il fratello rovinare a terra, prese nuovamente la mira per scoccare un altro dardo, ma fu più veloce Artaserse, che con un preciso dardo al suo petto lo fulminò.
In un attimo il corpo di Ciro fu sommerso da un nugolo di dardi lanciati dai seguaci del re. Un altro seguace, benchè Ciro fosse già morto con un fendente gli tagliò la testa, e per punizione di aver osato alzare la mano contro il fratello, con un altro fendente gli staccò dal braccio la mano assassina.

A quel punto, l'esercito di Ciro che già vinta la battaglia aveva in mano la vittoria, vedendo cadere il loro condottiero, si abbandonarono alla fuga, soprattutto il contingente barbaro, mentre quello greco, proprio quello che aveva vinto lo scontro con la cavalleria di Artaserse, fu ben presto circondato dagli uomini di Tisaferne.
Il famoso Senofonte, allora giovanissimo, che era nelle truppe di Ciro come cadetto, nel suo Anabasi fece un dettagliato resoconto dell'intera infausta spedizione.
E soprattutto, nella Ciropedia, ci ha lasciato un ritratto del giovane Ciro, vittima di una sua stravangante e colpevole ambizione. Secondo il suo racconto "Ciro come atleta sorpassava tutti quelli del suo tempo. Egli adempiè ai suoi impegni con la più grande puntualità ed onore. Ricompensava i buoni uffici con straordinaria generosità e singolare prudenza, sempre in proporzione del vero merito non per favore, e comandava con la miglior grazia del mondo. Sembrò dilettarsi della sovranità, in quanto essa lo abilitava a fare del bene; e in nessun altra maniera impiegò il suo gran potere nel compierlo. Con questa condotta si acquistò la stima dei Greci e dei Barbari".
Senofonte fa però menzione delle sole virtù e tace del tutto riguardo ai vizi, ai difetti, alla sua illimitata ambizione, tale da indurlo ad alzare le armi contro il fratello, per privarlo non solo della corona ma della vita.

I tragici eventi non finirono però con la morte di Ciro. I greci volendosi giustificare, dissero costernati che erano stati condotti in Persia da Ciro senza essere informati delle sue intenzioni; che loro non avevano nulla contro il monarca persiano, e quindi implorarono di poter far ritorno sani e salvi al loro paese.
Tisaferne con un'aria di indulgenza promise, il re Artaserse pure lui promise, addirittura disse il primo che avrebbe procurato provviste e guide per farli ritornare in patria. Poi per discutere i particolari logistici, invitò i quattro generali nella sua tenda. Fuori venti capitani per discutere altri particolari. Ma era un tranello, in un attimo i capitani furono circondati e fatti a pezzi da duecento persiani, mentre i quattro generali portati davanti al re furono decapitati alla sua presenza.

I diecimila greci che erano accampati poco lontano ben presto caddero nella costernazione non vedendo tornare indietro i propri ufficiali. E ben presto non dubitarono di fare la stessa brutta fine. Essendo a seicento leghe dalla Grecia, circondati da montagne e deserti, senza viveri, senza denaro, senza guide, senza duce, e con i persiani alle calcagna, una ritirata fino in Grecia era un'impresa quasi impossibile.

Nel generale abbattimento venne fuori la genialità del giovane cadetto Senofonte. Comportandosi come un grande ed esperto generale, disse loro che avevano ancora qualcosa: il proprio coraggio! Ricordò loro le famose giornate di Maratona, delle Termopili, quelle di Platea. Inoltre quelli che avevano alle calcagne erano - da non dimenticare - stati vinti. Ed infine che i Dei vendicatori della perfidia li avrebbero assisititi nella grande impresa di far ritorno in Grecia sani e salvi.
Come un incallito uomo d'arme, scelse e promosse sul campo nuovi comandanti di squadra, di plotone, diede disposizioni per come marciare nella ritirata: non sparsi, non a colonna, ma a quadrati pronti a difendersi in qualsiasi momento da un attacco nemico. Ed infatti, fin dal primo momento della ritirata, i greci subirono diversi attacchi, che però respinsero sempre, né mai modificarono i piani dell'improvvisato condottiero; e poichè Senofonte nella sua relazione non ne accenna altri attacchi, è verosimile che i persiani a un certo punto si stancarono di attaccarli, convinti che sarebbero morti da soli nell'attraversare i grandi fiumi, il deserto, le alte montagne che avevano davanti.

Iniziò così la famosa "Marcia dei Diecimila", che forma l'argomento dell'Anabasi di Senofonte, una fedele ed elegante storica narrazione. Ad onta delle innumerevoli difficoltà che incontrarono in ogni passo nelle circa 1900 miglia di cammino, dopo quattro mesi giunsero a Pergamo, a rivedere l'agognato azzurro del mare Egeo, dopo aver superato laceri, contusi, affamati, il Tigri, l'Eufrate, i deserti della Media, le alte montagne innevate dell'Armenia, del Turkistan, il Ponto.
Questa ritirata, la più straordinaria ricordata da qualunque storia, se è particolarmente ammirata dai maestri guerrieri per l'audacia dell'impresa, è decisamente unanime l'ammirazione verso quel geniale giovane cadetto, l'artefice della audace e impossibile impresa: Senofonte.

Il famoso Ateniese, che divenne celebre come generale, come storico e come filosofo, era appena uscito dalla scuola di Socrate. Nel partecipare con l'ambizione giovanile alla sfortunata impresa - che il maestro però aveva disapprovato - nel momento critico si dimostrò un vero discepolo di Socrate, e l'educazione della bellicosa Atene aveva fatto il resto.

Abbiamo detto che divenne celebre, ma anche per lui ci fu poi l'ingratitudine ateniese. Questo perché al suo ritorno la sua fama destò gelosie. Gli invidiosi dei suoi successivi successi (ricordavano sempre agli altri che aveva accompagnato Ciro). Fino a quando sempre battendo su questo tasto, lo esiliarono da Atene. Ma anche in esilio in piccolo paese vicino ad Olimpia, pur occupandosi solo di lettere, di agricoltura e della caccia, non ebbe pace. Soprattutto quando insorse la guerra fra i Lacedomi e quelli dell'Elide. Questi ultimi non gli lasciarono godere il piacevole soggiorno e lo forzarono a partire. Quasi vecchio si ritirò a Corinto, dove visse fino a 90 anni, dedicandosi alle sue numerose opere, ammirate per la semplicità e l'eleganza.



Noi qui nel tornare ad occuparci della Grecia sotto i tiranni, dobbiamo nuovamente riprendere il discorso su Alcibiade messo al bando dai Tiranni. Bando che il perfido Crizia tramite Lisandro, anche lui in buoni rapporti con i persiani per ben altri motivi, ottenne di estenderlo anche in quelle province, promettendo chissà cosa, o quale alleanza, se catturavano e consegnavano ad Atene Alcibiade vivo o morto. Convinse anche il satrapo Farnabazo; e proprio lui che aveva dato ospitalità ad Alcibiade, con un atto di viltà diede ordine ai suoi soldati di arrestralo per consegnarlo ai Greci.

Non fu una cattura facile. Un manipolo di guardie incaricate di arrestarlo, avendo per lui riverenza, non osarono forzare la sua casa per catturarlo. Ma alla stessa appiccarono il fuoco per farlo uscire. Alcibiade in un primo momento tentò di spegnere l'incendio, poi con la spada in mano decise di uscire per affrontare i suoi assedianti, che anche in questo caso provando soggezione nell'attaccarlo si ritirarono davanti a lui. Purtroppo un dardo di uno di loro, lo centrò in pieno petto facendolo stramazzare al suolo morto all'istante.

Così perì nell'età di quarant'anni questo straordinario uomo, proprio nel momento che i suoi concittadini il quel momento critico avevano bisogno della sua assistenza dei suoi servigi e della sua genialità.
Alcibiade lo abbiamo conosciuto in diverse pagine nell'arco di venti anni. Il suo carattere ci ha mostrato un singolare misto di buone e cattive qualità. Fu il terrore e il flagello del suo paese e degli altri stati della Grecia e sperimentò per l'intero corso della sua vita le più stravaganti prese di posizioni e insieme i capricci della fortuna, ora con gli Ateniesi, ora con gli Spartani, ora con i Persiani.
Difficile dire se le sue migliori qualità si possono definire virtù. Poichè nella sua condotta scopriamo più arte ed accortezza che onore ed integrità; più vanità ed ambizione che vero amore per la patria; essendo il suo continuo scopo il vivere il raggiungimento di un solo scopo, quello personale.
Per privati motivi di ambizione egli persuase i suoi concittadini d'impegnarsi nella spedizione Siciliana, il cui infelice insuccesso è giustamente ricordato come il principio della rovina di Atene.

GLI EROICI MILLE DI TRASIBULO

La morte di Alcibiade ad Atene, se da una parte rese felice Crizia e i suoi seguaci per essersi disfatti del temuto avversario e del suo probabile rientro, dall'altra - quella che appunto aspettava il suo ritorno - fu costernata nel vedere che il terrore arrivava anche molto lontano. Ma assieme ai democratici, questa volta vi era anche una fazione oligarchica indignata che esautorata prima da Lisandro poi dagli arroganti uomini che lo spartano aveva messo al potere, questa fazione (quella moderata, seguaci del povero Teramene, finito come sappiamo) iniziava a temere che prima o poi - nell'esprimere un semplice dissenso - sarebbe venuto il loro turno. La discordia era ormai palese, e questa infuse nuovo coraggio agli emigrati ateniesi. Fra essi l'uomo più eminente era TRASIBULO, che si era trovato capo del movimento democratico nel 411 (furono allora gli equipaggi della flotta di Samo a proclamarlo tale), e poi sotto gli ordini di Alcibiade aveva rivestito importanti cariche militari.

Esiliato da Atene dopo la disfatta e l'insediamento dei trenta tiranni, aveva trovato rifugio e una buona accoglienza a Tebe. Muovendo da qui nell'inverno del 404-403 occupò con trenta seguaci la fortezza diroccata di File, sulla punta del Parneto, ai confini della Beozia. Come detto sopra, con l'aria che tirava ad Atene, ben presto affluirono a lui numerosi partigiani, e quando su ordine dei trenta tiranni le truppe spartane di presidio, circa 3000 uomini, furono inviate a combatterlo, Trasibulo era già così forte che non solo respinse l'attacco, ma inflisse perdite al nemico.
Incoraggiato dal successo, con i suoi mille uomini a disposizione, Trasibulo osò e marciò alla volta del Pireo, dove prese posizione sulla strategica altura di Munichia.
I trenta tiranni intimoriti che insospettati cittadini si unissero ai partigiani di Trasibulo, diedero l'ordine di trucidare immediatamente tutti coloro che possedevano armi.
Poi inviarono le loro truppe ad attaccarli, ma anche questa volta l'assalto eroicamente venne respinto. Nella parte nemica ci fu qualche sensibile perdita, ma sul campo di battaglia del nemico che era arretrato fu trovato un corpo con il petto squarciato da un anonimo dardo; ed era il cadavere di Crizia. La modesta vittoria di mille uomini si trasformò in un attimo in una clamorosa vittoria, della massima importanza.

Ad Atene diffusasi subito la notizia, fra gli oligarchi scoppiò il panico, in un attimo il governo dei trenta precipitò nella rovina, la maggior parte fuggì da Atene cercando rifugio ad Eleusi. Il popolo - come capita di solito in questi frangenti - parteggiando o per l'uno o per l'altro - non trovò di meglio che scannarsi reciprocamente in una irrazionale guerra civile.
I 3000 messi sotto pressione elessero un nuovo governo di dieci persone, scelte fra i seguaci di Teramene. Che erano sì moderati, ma pur sempre oligarchi, e quindi non si mostrarono minimamente disposti a ripristinare la democrazia, e quindi la guerra civile continuò.
Il precario governo oligarchico, non trovò altra soluzione che rivolgersi per aiuto a Sparta; lo zelante Lisandro inviò subito una squadra navale al Pireo, e lui stesso radunò un corpo di opliti ad Eleusi.
Con questo intervento, era evidente che i democratici non sarebbero stati in grado di tener testa a tali forze.

Paradossalmente l'àncora della salvezza per i democratici venne proprio dalla medesima Sparta.
La parte più saggia di Sparta, non era rimasta sorda alle grida di indignazioni che giungevano da Atene e dagli altri Stati, dove gli uomini messi al potere da Lisandro governavano con la tirannia, l'arroganza e il terrore. Non era personalmente responsabile Lisandro, non era lui direttamente a guidare quei governi, ma era anche vero che quelli erano sue fidate pedine.
A Sparta lui aveva amici, che dopo i clamorosi successi lo glorificavano come grazia divina, ma aveva anche molti nemici che proprio per queste eccessive lodi, lui che era così ambizioso, temevano che diventasse un onnipotente uomo di stato. Magari con l'appoggio proprio di quei suoi amici tiranni che lui aveva disseminati per l'intera Grecia.

Sul trono degli Euripontidi sedeva PAUSANIA, il nipote del vincitore di Platea. Lui e gli Efori, decisero che prima che fosse troppo tardi, il sole di Lisandro doveva tramontare; e mentre questi era già ad Eleusi a organizzare l'esercito per riversarlo su Atene, Pausania avocò a sè la soluzione del conflitto, e alla testa di un esercito della lega del Peloponneso entrò nell'Attica.
Anche se era fortemente armato, lui non voleva fare la guerra, ma solo l'arbitro della situazione. E proprio in grazia alla sua mediazione tra le due parti fu concluso un patto di pace. Tutto ciò che era avvenuto doveva essere condonato e dimenticato. Saggiamente si decise però che per i famosi trenta, questa amnistia era esclusa; anzi furono tutti sacrificati al pubblico sdegno.
Terminò la guerra civile, i patti furono giurati da entrambi le parti, oligarchici e democratici. Quest'ultimi ancora accampati a Munichia nel Pireo nel settembre del 403 a.C. fecero il loro ingresso in città.

La rivoluzione era finita. Pausania soddisfatto sciolse l'esercito e perfino il presidio spartano all'Acropoli abbandonò Atene, dove finalmente ritornò la tranquillità e la vita.
Si narra che in questa scellerata breve guerra civile perdettero la vita più cittadini Ateniesi che non nei dieci anni della guerra Peloponnesiaca.

Quanto al governo, fu lasciato in facoltà degli stessi Ateniesi di procedere al riordinamento della costituzione dello Stato, e siccome l'oligarchia si era fino allora mantenuta al potere con l'appoggio dello spartano Lisandro, cessato questo appoggio, fu ripristinata la democrazia, sostanzialmente con l'antica formula. A vigilare Trasibulo che si dette molto da fare per far dimenticare con giuramento tutte le ingiurie passate, e non fu facile far cessare il reciproco odio di cittadini che per mano di altri cittadini avevano perso figli, mariti, parenti e amici.

Anche Eleusi, l'anno dopo venne riammessa ad Atene, senza che Sparta facesse opposizione.
Tutto ciò causò a Sparta del malcontento, molti disapprovarono Pausania di essere stato troppo magnanimo, che il patto stipulato era un grave errore politico. Molti s'indignarono che a pochi mesi dalla conclusione di una lunga guerra durata ventisette anni, si era ora giunti con i vari perdoni e le varie amnistie a far tornare sui banchi di governo gli uomini che quella guerra l'avevano istigata e sostenuta.
Si giunse perfino a mandare sotto processo Pausania per alto tradimento; ma il consiglio degli anziani non solo lo assolse, ma estese anche in altre città ad Atene confederate, il riordinamento della propria amministrazione, che costò l'allontanamento di tutti quei governi in mano agli ex amici di Lisandro.

Ricordiamo che tutto questo era avvenuto, mentre in Persia, Ciro marciando contro il fratello Ataserse era rimasto ucciso; mentre Senofonte marciava con i 10.000 per far ritorno in Grecia; mentre i Greci nelle province asiatiche tentavano di ribellarsi alle satrapie persiane e invocavano Sparta per essere liberate.
E Sparta con la sua ultima politica pur avendo apportato un completo mutamento negli stati confederati, e risolto alcuni problemi interni, pur esautorando Lisandro, la politica estera era rimasta legata all'indirizzo di Lisandro, noto amico della Persia, e quindi il problema era tutto da risolvere. L'appello dei greci asiatici fornirono il pretesto per dedicarsi proprio a questo problema.

E ci fu una ragione di più quando appresero che Conone (l'inetto condottiero che si era dato alla fuga a Egospotami, causando la totale disfatta ateniese, e che per la vergogna non si era più presentato ai suoi concittadini), rifugiatosi a Cipro, divenuto comandante di flotta dei Persiani, o per riscattarsi andando in aiuto di Atene, o per ambizioni politiche, aveva proposto ad Artaserse di invadere la Grecia in mano agli arroganti Spartani.

ll re persiano convinto del progetto, finanziato Conone per allestire una grande flotta, era in procinto di iniziare questa guerra. E in parte l'aveva già iniziata.

IL PROGETTO CONONE-ARTASERSE CONTRO SPARTA

 

Ricapitoliamo alcuni fatti. Dopo la battaglia di Cunassa, Artaserse per vendicarsi di quella parte di Grecia che aveva preso parte all'insurrezione di Ciro, aveva già assalito i territori dell'Eolide. Quindi il progetto presentatogli da Conone era da prendere in considerazione, ma poichè di cose marinare i Persiani non s'intendevano affatto, fecero avere a Conone cinquecento talenti per allestire una flotta mettendo proprio lui al comando della stessa, e una volta pronta l'ex ammiraglio ateniese salpò alla volta di Rodi e con l'aiuto del partito democratico si rese padrone dell'isola.

A favorire questo progetto di Conone e Artaserse, vi erano due fatti; Il primo era che anche in Grecia era cominciata una levata di scudi contro Sparta. Ma anche gli Stati del centro della penisola avevano guardato con sempre crescente inquietudine l'ingrandimento della potenza di Sparta; più che altro la Beozia, il più importante di questi Stati. Essi compresero che era stato un grave errore aver aiutato Sparta nella guerra contro Atene e decisero di agire prima che fosse troppo tardi.


AGELISAO SUL TRONO DI SPARTA

Anche perchè a Sparta ultimamente vi erano dei contrasti al suo interno, militari, politici e di successione al trono, perché nel corso dell'anno era morto il re Agide, e il trono lo pretendeva Leotichide figlio maggiore della regina moglie di Agide, ma AGESILAO affermava che era stato generato pochi mesi dopo il matrimonio e che quindi non era stato generato da Agide, che era insomma un bastardo anche se re Agide lo aveva riconosciuto come figlio. E quindi sul trono doveva sedere lui e non Leotichide.

Ad aiutare Agesilao in questa disputa per il trono, si offerse -e tornò così alla ribalta- Lisandro, l'uomo messo in ombra e quasi del tutto esautorato da Pausania. Dopo i fatti di Atene, Lisandro nutriva un profondo rancore per lui.
Tuttavia Agesilao con l'aiuto di Lisandro e dei suoi seguaci, non ebbe difficoltà nel farsi dichiarare legittimo re dal popolo spartano e dagli stessi Efori.
Nè l'uno e gli altri ebbero a pentirsi di questa scelta. Per quarant'anni Agesilao non fu solo re ma uno dei migliori re di Sparta.

Agesilao era piccolo di statura, zoppicava per i postumi di una malattia infantile, ma aveva una bella faccia, una straordinaria vivacità, un grande coraggio, ed era un esperto nell'arte militare. Era stato educato con tutto il rigore della disciplina spartana, dove aveva imparato l'obbedienza prima di esercitare il comando, era perciò moderato, dolce e popolare, doti che ben presto gli acquistarono l'affetto dei suoi concittadini. Portava un gran rispetto per gli Efori, contro il costume dei suoi predecessori che li guardavano come rivali in autorità, ed era nemico dell'adulazione, fino al punto di proibire che gli si facesse qualsiasi ritratto o statua, affermando che per ricordarlo ai posteri, il monumento migliore, se mai ne facesse, dovevano essere solo le sue gesta.
Salendo al trono, non trattò con arroganza il suo rivale Leotichide, anzi divise con lui e i suoi parenti che erano poverissimi tutto ciò che aveva, e questo lo rese ancor più stimato dai cittadini. Poi vennero - come vedremo- anche le sue gesta di condottiero, e Agesilao divenne per gli Spartani un mito.

Era da poco salito sul trono, quando i Lacedemoni udendo che il re di Persia stava allestendo un'armata contro di essi, chiesero ad Agesilao di portare in Asia la guerra.

LE GESTA DI AGESILAO IN ASIA

Se - come abbiamo già visto- Conone era già salpato con la sua flotta alla volta di Rodi, l'esercito di terra affidato a Tisaferne non era nè pronto nè in procinto di partire, quindi il Satrapo informato dell'improvviso arrivo di Agesilao con il suo esercito ad Efeso, per prendere tempo, propose al re Spartano di sospendere le ostilità con un patto di pace, assicurando che Artaserse avrebbe permesso a tutte le città greche in Asia piena libertà. Ovviamente, come detto sopra, questo era un pretesto per poter proseguire i preparativi del suo esercito, per poi attaccare nella buona stagione dell'anno seguente (396 a.C.)
Agesilao acconsentì, ma fidandosi poco dei giuramenti di Tisaferne, non si ritirò con l'esercito e mise ugualmente gli accampamenti a Efeso; lasciandovi degli ottimi comandanti a vigilare e pronti ad entrare in azione se attaccati.
Lui ne approfittò per fare un giro nelle principali città. Ad accompagnarlo c'era Lisandro, l'uomo che lo aveva appoggiato a salire sul trono. Ma quando iniziò il giro, fu irritato che a Lisandro i governanti riservavano migliori accoglienze che a lui che era il sovrano; abbiamo detto che Agesilao non era né ambizioso né vanitoso, ma quell'irritazione e via via l'indignazione, era solo dovuta al fatto che quei governanti erano palesemente pedine di Lisandro, ecco perchè si potevano permettere di governare con la tirannia, l'arroganza e il terrore, sapevano che Lisandro era indulgente, perchè da lui dipendevano.
Agesilao non potè resistere di esprimere severi giudizi allo stesso Lisandro, che rivelando questa volta la sua vera personalità fino allora tenuta al sovrano nascosta, nemmeno lo ascoltò.

Agesilao irritato da questo insolente contegno, si ripromise di impiegarlo il meno possibile.
Quasi si vergognò di essersi appoggiato a lui per salire sul trono, ma anche l'altro, ben presto di pentì di averlo aiutato a salirvi. Anzi, visto il vento a sfavore che tirava con un pretesto se ne tornò a Sparta. Dove iniziò a darsi da fare per abbattere Agesilao, progettando di aprire a se stesso la via del trono. Questo progetto forse lo aveva meditato da quando era giunto all'apice del potere. E di quel potere a Sparta fra i suoi seguaci ne aveva ancora, non gli sarebbe stato difficile salire sul trono, inoltre godeva di molto carisma fra il popolino. La guerra dei ventisette anni l'aveva vinta lui, i lutti di Sparta li aveva fatti finire lui, e se la grande Atene era ora una provincia spartana era tutto merito suo. Insomma il suo diabilico disegno non avrebbe avuto degli ostacoli.

Ma non aveva previsto il valore del piccolo re Agesilao. Questi, dopo l'inverno passato a Efeso con il suo esercito, gli giunse il momento di doversi impegnare seriamente con i Persiani. Tisaferne che aveva allestito finalmente il suo esercito, stracciò tutti i patti di pace fatti con lui, e minaccioso osò inviargli un ultimatum: di lasciare subito Efeso, di partire dall'Asia, o altrimenti ci avrebbe pensato lui a cacciarlo fuori con le armi del suo potente esercito.

Agesilao, tolse sì l'accampamento, e fece finta di condurre il suo esercito verso la Caria. Tisaferne gli si mise alle calcagne, ma il piccolo re spartano, compiendo un grande giro marciò direttamente in Frigia, occupando varie città, e si procurò un gran bottino che divise fra gli ufficiali e soldati. Infine sfidando il perfido Satrapo, tornò ad accamparsi nuovamente a Efeso dove rimase tutto l'inverno. Ma non tenne in ozio i suoi soldati. S'inventò una piccola olimpiade, per tenere nelle varie gare -che premiava con magnifici doni- sempre in esercizio gli uomini. Si riprometteva il piccolo uomo di assalire nella prossima primavera (395 a.C.) addirittura Tisaferne , a casa sua, a Sardi.

Tenne fede al suo progetto con audacia e determinazione, e lo fece in un modo tale, che il risultato fu indirettamente fatale allo stesso Tisaferne. Attaccandolo lo obbligò a fare quello che lui voleva; in qualche modo fece sapere che era sua intenzione scagliarsi contro la Lidia, l'altro invece credette che quello era un stratagemma, e che la vera destinazione (Agesilao come diversione vi aveva mandato qualche reparto) fosse nuovamente contro la Caria, e qui il Satrapo inviò il suo migliore esercito per sbarragli il passo per poi attaccarlo.

Agesilao invece con il grosso del suo esercito marciò effettivamente verso la Lidia e ben presto penetrò fino a Sardi, dove il Satrapo risiedeva, teneva i suoi tesori, e si era tenuta la cavalleria per una eventuale difesa. Tisaferne gli oppose questa, ma Agesilao sapendo che il grosso della fanteria era assente, perchè dislocata in Caria, attaccò con tutte le sue forze come un ciclone, mise tutti in fuga al primo assalto, fece strage dei pochi che si opposero, e permise e offrì ai suoi soldati il saccheggio del ricco campo persiano, nei pressi del fiume Practolo, famoso per la sua ricchezza aurifera.
Poi, non fu difficile, marciare contro l'esercito in Caria, che sbigottito di vedersi attaccare alle spalle non trovò di meglio che darsi alla fuga.

Anche l'arrogante Tisaferne era fuggito da Sardi; ma il castigo gli giunse non da Agesilao, ma dallo stesso Re di Persia. Giuntagli la notizia della grave disfatta, così anomala e strategicamente banale, Artaserse inviò sul posto Titrausto per arrestarlo con l'accusa di tradimento. Lo scovò mentre faceva un bagno, gli tagliò la testa e la mandò al re. Così fini la carriera di Tisaferne.
Agesilao non è che si fermò a Sardi, perchè quella vittoria così ottenuta non aveva risolto i grossi problemi in Asia. C'era ancora da eliminare il Satrapo della Frigia Farnabazo, e questa volta ottenne un maggior risultato. Tale da indurlo a fare progetti di penetrare in Asia.

A quel punto Artaserse iniziò serie trattative per metter fine alla guerra. Inviò a Agesilao molti doni accompagnate da altrettanto serie proposte di pace, le concessione della libertà delle città greche in Asia, e perfino i denari per tornarsene fino a Sparta.
Agesilao forte della precedente esperienza con Tisaferne, acconsentì solo ad arretrare fino in Frigia dove aveva intenzione di mettere il campo per tenersi sempre pronto per le eventuali successive campagne in Asia. Ma qui gli Efori lo raggiunsero con un messaggio con l'ordine di rientrare a Sparta ed assumere il supremo comando dell'armata Spartana. Un incarico che gli spartani non avevano mai affidato nemmeno a un grande uomo, ora lo affidavano solo a un piccolo uomo.

Del resto spargendo il terrore per le contrade dell'Asia, la fama delle sue prodezze era divenuta ammirazione non solo Spartana ma universale. Tutti rimanevano sbigottiti nel sapere che quel piccolo re, così goffo, così modesto, e di maniere così gentili, nella potente Persia era stato capace di simili gesta, e che nella lussereggiante pompa della corte Persiana aveva trattato a tu per tu con il grande Re.
Sicuramente, lui, Agesilao, se non ci fosse stato il richiamo in patria, non avrebbe in quella situazione favorevole abbandonato il campo. Anzi sappiamo che poco giorni prima di ricevere il messaggio di rientrare, aveva scritto agli Efori, elencando minuziosamente le sue felici operazioni, e nel contempo li informava che vi erano tutte le condizioni a suo favore per assalire il re di Persia.
I suoi propositi s'incrociarono con il nuovo ordine degli Efori. E lui si precipitò a rassicurarli che essendo necessaria la sua presenza in Laconia, era risoluto ad obbedire senza ritardo.

Tutti gli storici sono concordi che Agesilao si arrestò in mezzo alle sue fortunate gesta, che secondo ogni probabilità, avrebbero finalmente rovesciato l'impero persiano. Il piccolo re dimostrò una non comune grandezza d'animo e un gran rispetto ai magistrati della sua patria. Amaramente disse Pausania che "A Sparta le leggi governavano gli uomini, e non gli uomini le leggi".

Partito il re Spartano, il re Persiano non accantonò l'idea di procedere contro gli Spartani in Grecia, seguendo i disegni che Conone gli aveva prospettato. Questi -come abbiamo visto a inizio pagina- con la flotta allestita con i denari del re Persiano, era già a Rodi e con l'aiuto del partito democratico si era già reso padrone dell'isola.

ATENE E ALLEATI CONTRO SPARTA

Contemporaneamente in Grecia -nonostante fossero anche lì giunte le prodezze di re Agesilao- era da qualche tempo cominciata una levata di scudi contro Sparta. Ma anche gli Stati del centro della penisola da qualche tempo avevano guardato con sempre crescente inquietudine l'ingrandimento della potenza dei Peloponnesi; più che altro la Beozia, il più importante di questi Stati. Essi compresero che era stato un grave errore aver aiutato Sparta nella guerra Peloponnesiaca contro Atene e decisero di agire prima che fosse troppo tardi.

Un pretesto fu subito trovato: nel corso dell'anno (sempre il 395 a.C.) la Beozia intervenne a favore dei Locresi in una guerricciola di confine che questi avevano con la Focide, alleata di Sparta; il che costrinse gli spartani ad intervenire ed invadere la Beozia con due eserciti, uno da occidente e uno da sud, in modo da soffocarla da due parti.
Sappiamo che dopo la figuraccia fatta fare da re Pausania a Lisandro (la pace con Atene e la sua esautorazione) quest'ultimo per il primo nutriva un serio rancore personale. Ma dopo l'umiliazione subita nella campagna persiana l'odio si era esteso anche nei confronti del re Agesilao, che proprio lui aveva aiutato a salire sul trono.
Aveva sì ancora un buon seguito a Sparta, ma per quelle mire che aveva in mente (di abbattere il re, e quindi a suo tempo anche re Pausania) le clamorose gesta del piccolo re in Persia apportarono sostanziali cambiamenti nella politica spartana. Agesilao aveva rispetto delle decisioni degli Efori, e gli Efori dopo i suoi successi lo avevano richiamato per assumere (incarico mai affidato a un solo uomo) il supremo comando dell'armata Spartana.

Ciò voleva dire che sia Lisandro sia Pausania erano indirettamente alle dipendenze di Agesilao e (essendo il re ancora in Frigia) direttamente a quella degli Efori. Questi in attesa del rientro di Agesilao, al primo affidarono l'invasione della Beozia da sud, e a Lisandro quella occidentale. I due eserciti dovevano congiungersi ad Aliarto nel cuore della regione.

LA MORTE DI LISANDRO

Fu Lisandro a varcare per primo i confini della Beozia e trasse dalla sua parte Orcomeno, la più importante città della lega dopo Tebe (da sempre nemica ma ora alleata di Atene), poi avanzò verso Aliarto, e nel volerla prendere con un audace colpo di mano prima che vi arrivasse l'odiato Pausania, nell'avventato assalto cadde fulminato da un dardo e i suoi uomini disorientati furono messi in fuga dagli Ateniesi & C.
Pausania quando giunse nei pressi, non osò più arrischiare una battaglia, lasciò il campo e se ne tornò nel Peloponneso. Quando Pausania tornò a Sparta, fu accusato di cattiva condotta, e benchè fosse uno dei due re di Sparta, fu condannato alla pena di morte, che evitò dandosi alla fuga.

Così cadde Lisandro il famoso uomo che riuscì a portare Sparta ad un grado di potere che non aveva mai conosciuto. Così morì l'uomo che aveva rovinato Atene. E considerando il suo grande potere che aveva avuto, e le molte occasioni di metter insieme tesori, furono tutti stupiti che non lasciò nessuna ricchezza.
Questo disprezzo per la ricchezza -se vogliamo fare onore sulla sua memoria- chiaramente mostrò che nell'agire solo l'ambizione era il suo vero stimolo. L'eccesso di questa passione, non oscurò lo splendore delle sue straordinarie doti; poichè fu intrepido ed esperto comandante, consumato politico, accorto nel trattare i vari caratteri degli uomini. La sua generosità non aveva confini, ma la sua parzialità era eccessiva. Non solo sostenne, ma cooperò e fu indulgente con tutti coloro che con la villania, con l'ingiustizia, con il terrore usarono il potere che lui aveva a loro dato; non ebbe nemmeno rimorsi quando gli stessi tiranni usarono le più spietate crudeltà e il delitto per raggiungere i loro scopi.
Vanitoso fino all'insolenza, Lisandro desiderava in ogni occasione agire senza contrasti. Lo abbiamo visto nei suoi ultimi mesi di vita, tramare perfino contro Agesilao per abbatterlo come re.
Fu il peggior nemico che Atene conobbe nella sua storia. E nella stessa storia, Lisandro verrà sempre ricordato come l'uomo che stabilì ad Atene i trenta tiranni. Una tirannia che alla fine non pagò, ma rese Sparta odiosa anche ai suoi vicini. Perfino Tebe da tempi immemorabile nemica di Atene corse in suo aiuto.

LA BATTAGLIA SUL NEMA E CORONOEA

Prima che giungesse a Sparta Agesilao, gli spartani in ogni contrada furono assaliti da Ateniesi, Beozi, Corinti e Terbani, formando un esercito di ventimila uomini; poi nella pianura fra Corinto e Sicione, sul fiumiciattolo Nema, (era il luglio del 394 a.C.) ingaggiarono battaglia con altrettanti ventimila opliti spartani. Meglio organizzati, con una valida cavalleria, prevalsero gli Spartani, ma gli alleati conservarono fino all'estremo il loro terreno trovando protezione nelle fortificazioni della vicina Corinto. Fu uno delle più sanguinose battaglie ma dal punto di vista strategico prina di qualsiasi risultato.

Un'altra sanguinosa fu combattuta il mese dopo (agosto del 394 a.C.) a Coronea. Agesilao dopo aver attraversato la Tracia, la Macedonia e la Tessalia alla metà di agosto giunse ai confini della ribelle Beozia. Con i pochi alleati prese posizione presso Coronea. Poi attaccò per primo. Rimase vincitore, ma subì perdite così gravi che dovette rinunciare ad un'ulteriore offensiva. Ricondusse l'esercito nella Focide, e qui lo sciolse.
Tutta la campagna sia da una parte che dall'altra rimase senza effetti. Solo il valore degli opliti di Sparta, evitarono ulteriori defezioni fra gli alleati del Peloponneso.

Mentre si svolgevano in terra questi scontri (metà agosto del 394 a.C.) la sorte fu invece decisa sul mare. Qui avvenne una importante battaglia, Conone con i vascelli allestiti dai suoi amici Persiani, faceva vela verso il Chersoneso con l'intenzione di assalire la flotta spartana consistente in 120 vascelli. Lo scontro avvenne a Cnido, città della Caria nell'Asia Minore.
Conone, dopo l'occupazione di Rodi, con i denari di Artaserse, aveva portato la sua flotta a 170 navi, con il contributo perfino dei fenici, ed era divenuto di gran lunga superiore in forze alla flotta del Peloponneso che gli stava di fronte.
Tuttavia l'ammiraglio spartano Pisandro, cognato di Agesilao, invece di ritirarsi a Mileto, ovvero a Efeso, accettò battaglia; ed essa come non poteva essere altrimenti date le circostanze, si risolse in una disastrosa disfatta, lo stessò Pisandro rimase ucciso e più della metà dei vascelli spartani furono catturati.

Conone si ritrovò padrone del Mare Egeo. Era insomma venuto il suo momento di gloria, e atteggiandosi a condottiero liberatore, in tutte le città dove attraccava subito proclamava piena libertà ai cittadini. Ma non i limitò solo con le parole, ma dando alle stesse più efficacia, non collocò nessun presidio nelle piazze conquistate; in seguito a questo suo agire, tutte le città della costa dell'Asia Minore e delle isole vicine passarono dalla sua parte e cacciarono ovunque le guarnigioni spartane.

L'anno successivo (393 a.C.) Conone si dedicò alla Grecia europea, le Cicladi si misero al suo seguito, Citera fu conquistata, poi la flotta entrò nel Pireo e Conone fece il suo ingresso trionfale nella città natale, da cui aveva dovuto per tanto tempo rimaner lontano.
Egli procedè immediatamente alla ricostruzione delle lunghe muraglie e delle fortificazioni del Pireo e restituì così ad Atene quel sistema di difesa che costituiva la base del suo dominio marittimo. Poco dopo anche le isole di Sciro, Lemmo ed Imbro, anrichi posseidmenti coloniali di Atene, tornarono sotto la signoria ateniese, venne ripristinata la supremazia ateniese su Delo, e furono concluse alleanze con Chio, Rodi, Mitilene.

Tuttavia gli Spartani mantennero ferma la loro posizione nella Grecia continentale, anzi alla fine dello stesso anno 393, riuscirono a tradimento perfino a riprendersi Lecheon, la città che costituiva il porto di Corinto, rompendo così il sistema di difesa dei loro nemici sull'istmo.

Nonostante ciò Sparta comprese che non le era più possibile riacquistare il perduto predominio dei mari e quindi intavolò dei negoziati con Atene ma contemporaneamente anche con l'altro ex nemico: la Persia.

ANTALCIDA come delegato di questi negoziati nel 392 si recò a Sardi e offrì al re la cessione del continente asiatico, a condizione che tutti gli altri Stati ellenici conservassero la propria indipendenza. A reggere in quell'anno la Satrapia persiana in Lidia vi era Tiribazo, che si mostrò abbastanza propenso ad accettare tale proposta e pronto per andare a riferirla ad Artaserse.

Ma a Sardi si era recato pure Conone con una ambasciata che comprendeva rappresentanti di Atene, Tebe ed Argo. E questi non vollero saperne di quella pace proposta dal delegato spartano ne erano perfino indignati. A quel punto il Satrapo convinto che lo si volesse giocare, accusò Conone come traditore della causa persiana. Lo fece arrestare e imprigionare. Lo sfortunato Conone trovò ben presto il modo di fuggire, raggiungendo ancora una volta Cipro e mettendosi sotto la protezione del suo amico Euagora, ma non molto tempo dopo per una malattia morì.
Tuttavia il Satrapo informò della proposta di Sparta il suo Re, ma Artaserse pur ancora irritato contro Sparta non se la sentiva nè di firmare una pace ma nemmeno di ricominciare la guerra; anche perchè la sua flotta si era nel frattempo già disciolta.
Lasciò passare qualche anno, riesaminò la proposta spartana di Antalcida, poi tra Persia e Sparta fu stipulata la pace che porta appunto il nome del negoziatore spartano, che però risultava più vantaggiosa per la Persia che per la Grecia ateniese (Atene e le città ad essa alleate). Questa l'accettò comunque, ma ben presto ricominciarono le reciproche ostilità.

Nel frattempo nel Peloponneso, Re Agesilao si era dato da fare contro le ribelle Argo e Corinto passate ad Atene. Mosse con l'esercito nel corso dell 391 a.C.; ma in entrambe trovò a contrastarlo un nuovo forte stratega ateniese, IFICRATE che gli distrusse metà esercito. Nonostante ciò, per Atene, non fu nemmeno questa - come a Sfacteria- una battaglia di grande utilità.
L'unico risultato fu quello di mettere in buona luce lo stratega che divenne d'un tratto ad Atene un generale famoso.

Moralmente questo successo -che seguiva quello più clamoroso di Cnido- fu comunque di grande importanza; Atene ritenne che era giunto il momento di ricostituire l'antico dominio.

A sua volta Sparta in questi domini non aveva saputo dare una salda organizzazione; dominava sopra un aggregato poco compatto di piccoli Stati che non erano tenuti insieme se non dal timore che incuteva la superiorità dell'esercito spartano e dall'interesse partigiano degli oligarchi che si trovavano al potere. Le simpatie della pubblica opinione, di cui un tempo aveva largamente goduto, Sparta le aveva in gran parte perdute in seguito alla sua politica di violenze. Poteva quindi bastare un minimo urto per far precipitare il superbo edificio da essa costruito.
Correva l'anno 390 a.C.

Ma prima di riprendere le cronache politiche e militari, noi dobbiamo fare un passo indietro per dare una sguardo alla vita intellettuale, economica e sociale ai tempi della lunga e sanguinosa guerra del Peloponneso. Nel corso di essa l'ordinamento politico e militare e gli stessi costumi subirono ad Atene un profondo mutamento per effetto di quella guerra e delle guerricciole che poi seguirono.
Ma se queste guerre affrettarono la dissoluzione della civiltà, fece però emergere la cultura con forme più generali e favorì il diffondersi della civiltà greca in tutto il resto del mondo.

E proprio di questo parliamo nel successivo capitolo ....

VITA INTELLETTUALE, ECONOMICA, SOCIALE > > >

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