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( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1935-36


IL RAPPORTO DEI "13" DEL 6 OTTOBRE 1935
della SOCIETA' DELLE NAZIONI
L'ITALIA "HA AGGREDITO!" - PUNIZIONE !
(con tante ambiguità nei comportamenti)


Sebbene l'Italia abbia gettato nel fuoco della crisi internazionale tutta la forza operante del suo sentimento, é utile, ed anzi necessario, tener presenti da un punto di vista estremamente oggettivo gli sviluppi dell'azione societaria. Un attento esame dei primi quindici anni della storia della Società delle Nazioni dimostra con facilità ed evidenza di argomenti come il concilio ginevrino fondato per contributo prevalente di studiosi italiani, abbia subito e subisce, nella sua funzione, due interpretazioni gravemente e pericolosamente contrastanti. Vuol essere la Società delle Nazioni un istituto giuridico un centro di convergenza squisitamente politico, uno strumento precipuamente equilibratore di interessi e di contrasti?
È un tribunale supremo e sovrano, limitatore delle sovranità nazionali,
o è una conferenza permanente per la pace?

Non é luogo questo ove trattare a fondo questa grave ed essenziale questione. Basterà solamente accennare che, mentre è ovvia ed ormai acquisita la interpretazione strettamente politica che l'Italia dà al patto, non appare chiara nel tempo e nel momento attuale la interpretazione che dell'istituto ginevrino danno la Francia e la Gran Brettagna : la politica delle due nazioni, nell'ultimo quindicennio, ha ondeggiato secondo il caso e secondo la convenienza tra le due opposte tesi.
Questo stesso ondeggiamento, divenuto contrasto stridente e pericoloso, é forse il fattore principale dell'attuale crisi internazionale. Basti qui indicare che l'Impero Britannico, con estrema decisione di atteggiamento, pone oggi la esistenza stessa della Società come istituto strettamente giuridico limitatore della sovranità nazionale, assumendo l'atteggiamento che era caratteristico fino a poco tempo fa della Francia. E la Francia, con non minore chiarezza, tende ad imporre alla Società una funzione solamente equilibratrice e sottomessa alla più umana relatività politica. Tesi, questa, fino a poco tempo fa, cara alla politica estera britannica.

Prescindiamo, in questa sede strettamente culturale, dalle correnti di politica tradizionale che determinano questi ondeggiamenti. Esaminiamo, piuttosto, ad un fine documentario, l'ultima e più solenne manifestazione giuridica della Società delle Nazioni : la risoluzione del Consiglio della Società delle Nazioni del 6 ottobre col quale si riconosce che l'Italia ha violato l'articolo 12 del patto, uno dei tre che comportano il meccanico svolgimento dei quattro paragrafi dell'articolo 16.

È necessario che il lettore, per seguirci nella nostra argomentazione, compia l'immane sforzo di dimenticare le sacrosante ragioni naturali che hanno determinato l'azione italiana nell'A. O. Si vedrà così come la citata risoluzione abbia una portata, non solo antigiuridica, ma gravida di conseguenze per i popoli, infinitamente più importanti del conflitto italo-etiopico.
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L'interesse della risoluzione del 6 ottobre deriva soprattutto dal fatto che in essa dovrebbe attuarsi per la prima volta l'ideale societario.
A parte l'incidente greco-bulgaro che non uscì dai limiti conciliatori all'articolo 15, il confitto italo-etiopico non ha che due precedenti veramente notevoli : il conflitto Cino-giapponese e il conflitto del Chaco. Gli apologeti dell'istituto ginevrino, pur ammettendo che in questi due casi cruenti il patto non abbia dimostrato la sua efficacia, - la quale, in definitiva, dovrebbe risolversi nell'arginare, se non nell'impedire, gli ultimi effetti della guerra, - possono attenuare la disillusione argomentando che tanto il Giappone che il Paraguai provvidero a dimettersi dalla Società prima che la procedura dell'articolo 15 fosse arrivata alla «raccomandazione» di una soluzione ritenuta equa dall'unanimità del Consiglio. La quale « raccomanda zione », se accettata da una delle parti, priva gli aventi causa da ogni diritto ad un'azione individuale. La procedura, quindi, nei due casi, si arrestò a tempo.

Ma ottimamente si obietta che le dimissioni liberano dagli impegni contrattuali solo dopo due anni di preavviso e che, anzi, basta che uno solo dei contendenti appartenga alla Società perché il conciliatorio articolo 15 e il coercitivo articolo 16 vengano messi in movimento. Anche a questo proposito i societari in senso stretto invocano qualche modesto attenuante. La Cina, essi dicono, é un'accozzaglia di governi illegali e briganteschi; molti governi, tra i quali il Giappone, hanno giurisdizione sul suo territorio, diritti di guarnigione e di presidi. In conseguenza, si potrebbe ritener limitata da queste circostanze la responsabilità del Giappone nei confronti della Società e la spontanea extromissione dell'aggressore come una sorta di vera e propria sanzione morale.
E il Chaco? In questo caso, l'aggredito ha avuto la buona ventura di darle di santa ragione all'aggressore e, quindi, un societario disperatamente ottimista può anche questa volta trarre in salvamento il prestigio di Ginevra. Ma non é di questo malconcio prestigio che si vuole, qui, discorrere. A noi importa il fatto che in nessuno dei precedenti conflitti uno Stato era stato dichiarato violatore di uno dei tre articoli capitali 12, 13 e 15.

Il caso del riarmo tedesco, malgrado la disillusione francese, é forse il più limpido e il meno discutibile. Infatti, la colpa germanica non era nel riarmo in sé, - che non era di misura tale da rientrare nel campo del paragrafo 11 che tratta anche delle « minacce di guerra » e conferisce genericamente al Consiglio il diritto di provvedere alla loro eliminazione, - ma nella denunzia unilaterale di un impegno internazionale. La limitazione degli armamenti germanici non era, in realtà, - secondo quel poco di spirito wilsoniano che si può estrarre dal trattato di Versailles, - che il corrispettivo dell'impegno di disarmare assunto dai contraenti. La condanna morale pronunciata dalla Società é da ritenersi, dunque, misura adeguata all'entità della colpa germanica.
Nel conflitto italo-etiopico Ia Società delle Nazioni ha svolto per la prima volta, fino alle sue più estreme conseguenze, tutto il meccanismo del patto. Il Consiglio della Società, quindi, é stato costretto a definire in pochi giorni quella figura dell'aggressore innanzi alla quale indugiava da parecchi anni. Definizione della figura dell'aggressore e definizione dell'atto di guerra che nascono, come rigida norma giuridica, dal Rapporto dei Tredici, base della risoluzione del 6 Ottobre.

Fatto di capitale importanza perché, al lume di quel common sense, che dovrebbe essere il regolatore supremo della vita internazionale, é facile i
ntendere che non tutte le fucilate, non tutte le cannonate, non tutte le incursioni oltre i propri confini possono essere ritenute come atto di guerra. Così non tutte le porte sfondate costituiscono violazione di domicilio, non tutte le lesioni personali costituiscono reato di ferimento o di mancato omicidio.
Sebbene, durante la elaborazione dei patti di non aggressione nell'Europa orientale e nella sua partecipazione ai lavori della Società delle Nazioni, l'U.R.S.S. avesse insistentemente richiesto che si definisse una buona volta la figura dell'aggressore, e sebbene dal canto loro i principali Stati esitassero ad iniziare una discussione resa difficile dall'ibrida funzione dell'istituto ginevrino, la relatività del concetto di aggressione doveva apparire necessariamente ovvia.

Infatti, il diritto internazionale moderno fonda i concetti di sicurezza collettiva, di solidarietà internazionale e le varie carte Briand-Kellog, Covenant, e patti di non aggressione, sul caso di «aggressione non provocata ». Ma quali « provocazioni » possono determinare un' « aggressione » legittima? Non possiamo includere nel novero delle « provocazioni » i puri atti di guerra, gli sconfinamenti, i bombardamenti, le violenze militari. Essi, naturalmente, non determinerebbero delle « aggressioni », ma delle « reazioni » che sarebbero definite come tali dalla violenza materiale alla quale rispondono. Il concetto di « aggressione », quindi, implica la prima iniziativa della violenza. Ora, la formula di « aggressione non provocata » implica che l'aggressione può essere provocata, e quindi legittimata, anche da fatti e da circostanze che non siano di guerra in atto. In questa serie di « provocazioni », che non hanno ancora il carattere di guerra guerreggiata, da un minimo imprecisabile si arriva ad un massimo, che é la nobilitazione di tutte le forze armate di un paese.

Leggiamo ora il paragrafo D del Rapporto dei Tredici e misuriamone la portata politica :
D) Senza pregiudizio degli altri limiti al loro diritto di ricorrere alla guerra, i membri della Società non hanno il diritto senza essersi preventivamente conformati alle disposizioni degli articoli 12, 13 e 15, di ricercare con la guerra un rimedio ai motivi di accusa che essi ritengono di avere, contro altri membri della Società.
L'adozione per parte di uno Stato di misure di sicurezza sul suo proprio territorio e nel limite dei suoi accordi internazionali, non autorizza un altro Stato a liberarsi dagli obblighi del Patto".


Questa massima di carattere così definitivo, é stata stabilita, oltre che su documenti di valore molto dubbio ed estremamente provvisorio, sulle comunicazioni dei Governi di Addis Abbeba e di Roma : il primo, segnalando la sconfinamento delle truppe italiane, chiedeva che l'Italia fosse dichiarata «in rottura di patto» e sottomessa alla procedura dell'articolo 16; il secondo, dichiarava di aver dovuto rispondere con misure militari alla minaccia imminente, implicita nella mobilitazione generale abissina e nel movimento strategico mascherato dietro la istituzione di una zona neutra di trenta chilometri. La tesi italiana, dunque, dà alla formula di « aggressione non provocata » e al concetto di « provocazione », quel valore pratico che abbiano esposto pocanzi e che darebbe alla Società la possibilità di funzionare secondo uno spirito di superiori giustizia.

La Società, invece, ha concluso che la nobilitazione generale di tutte le forze militari di uno Stato, come misura di sicurezza, e qualora impegni internazionali non limitino gli armamenti di questo Stato, non autorizzano un membro della Società a ritenersi «provocato », cioé a ritener legittima un'aggressione preventiva!
Se la Società ha da essere un istituto giuridico, qui si entra visibilmente nell'assurdo. Non bisogna dimenticare che l'articolo 16 fonda oggi la sua giurisprudenza, i precedenti dai quali dovrà prendere necessariamente le mosse in altri eventuali conflitti. E poiché l'appartenenza alla Società comporta obblighi e rischi per loro natura gravissimi e pericolosissimi, nessuno potrà impedire ad uno Stato, in altra circostanza, di trarre dalla massima fondamentale del Rapporto dei Tredici la interpretazione più favorevole, cioé a lui più conveniente. E non ci sarà, questa volta, bisogno di troppi cavilli per sottrarsi agli obblighi di assistenza e persino a quelli derivanti dal para\grafo i dell'articolo 16. Si consideri, per esempio, la ipotesi di un conflitto ceco-polacco. Durante la procedura di conciliazione, la Polonia mobilita tutte le sue forze per « misure di sicurezza ». La Cecoslovacchia non ha altro da fare che richiamare l'attenzione del Consiglio su di una « minaccia di guerra. » e invitarlo a prendere, secondo l'art.11 par. 1, « le misure opportune a salvaguardare la pace tra le Nazioni ». La considerazione che la sorpresa e la rapidità e la brutalità dei colpi sono coefficienti primi di successo nella guerra moderna, il pericolo che l'avversario distrugga in poche ore, con l'arma aerea, i principali suoi centri e le rechi tutti i danni che possono temersi da una guerra, non l'autorizzerebbe a prevenire, con atti di guerra, la minaccia avversaria. Ove il governo ceco provvedesse militarmente alla salvaguardia della integrità territoriale del paese e alla difesa delle sue popolazioni, dovrebbe essere dichiarato in rottura di patto. Peggio per lui, se durante i conciliaboli ginevrini, l'avversario ha il tempo e l'agio di distruggere la sua capacità difensiva!
Ma quali sono le segrete ragioni che hanno dato origine ad una massima giuridica così mostruosa? Ragioni più intime e gravi di un malcelato sfregio del diritto e delle forme. La norma del Rapporto dei Tredici, infatti, ha un efficacissimo valore politico. Essa costituisce un precedente che limita la funzione draconiana e autoritaria della Società al solo caso italo-etiopico, senza comprometterla e impegnarla eccessivamente per l'avvenire. Gli Stati i quali credono che, in tanto pericolo e in tanta ansia, si sia attuato l'inestimabile beneficio di una Società delle Nazioni finalmente operante, andranno incontro a gravi disillusioni. Il precedente del Rapporto dei Tredici offre già il mezzo, con la sua interpretazione dell'aggressore in senso stretto, allo Stato che domani non trovi più la sua convenienza nell'ancorare a Ginevra la sua politica estera, di sottrarsi agli obblighi del patto e di imporgli una funzione molto blanda. La stessa massima che ha consentito, oggi, di armare (con le armi inglesi) l'Etiopia contro l'Italia, in Africa, consentirà domani, in Europa, di dar ragione al forte e al prepotente a danno del debole!

Non basta. Il valore politico del Rapporto dei Tredici é stato curato con tanta abilità, che mentre non costituisce nessuna garanzia futura per gli Stati d'Europa, - ed anzi colpisce alle fondamenta la funzione pacificatrice della Società, - é stato congegnato in modo da salvaguardare pienamente certi diritti acquisiti delle grandi potenze. Vi si dice, infatti, che il diritto di uno Stato a prendere « misure di sicurezza » entro le proprie frontiere non subisce altro limite che « i suoi accordi internazionali ».
Cioé, il riarmo della Germania rimane « misura di sicurezza » illegale. Qualunque movimento o provvedimento militare della Germania può, in qualunque momento, autorizzare un membro della Società a ritenersi sciolto dagli obblighi del Patto. Se la Russia mobilita le sue squadre aeree e le sue divisioni alla frontiera Polacca non é autorizzata a ritenersi « provocata » ad aggredire.

La « provocazione » tedesca ad aggredire é, invece, continuamente in atto! Insomma, la minaccia che deriva da una mobilitazione non é motivo sufficiente per muovere in guerra; la rottura unilaterale di un patto internazionale é invece motivo sufficiente! (Beati i tempi nei quali non c'era bisogno di mascherare l'imperialismo con i panni del diritto!) In altri termini, una inadempienza contrattuale autorizza un individuo a tutelare i suoi interessi anche con delle uccisioni; una minaccia a mano armata non gli dà altro diritto che di ricorrere in tribunale!

Qui conviene ricordare che all'inizio dell'ultima sessione dell'Assemblea della Società sir Samuel Hoare ebbe ad esporre (ne parleremo ancora più avanti) a nome della Gran Bretagna, il generico principio della «elasticità dei patti». E si potrebbe obiettare, alla nostra argomentazione, che proprio in virtù dl questa «elasticità» il patto avrebbe diverso funzionamento in un conflitto europeo. Ma é facile ribattere che la «elasticità » può riferirsi, se mai, alla procedura, non certo alla sostanza fondamentale, non certo alla definizione di «provocazione», di "aggressore », di «atti di guerra» e alle prevedibili reazioni a queste azioni. Non é certo la politica britannica che sa fare a meno dei precedenti! Il principio enunciato da Hoare serve, invero, a ridurre la Società ad uno strumento che si adopera o non si adopera, secondo la convenienza. Cioé uno di quegli impegni non impegnativi che formano i precedenti cari alla politica britannica.

Inoltre, non sl può dare per dimostrato il fatto che la mobilitazione etiopica non poteva costituire pericolo imminente sulle frontiere coloniali dl una grande potenza dotata dl forte preparazione militare. Non staremo, qui, a calcolare e a misurare le forze e le possibilità di resistenza e di offesa in A. O., ma osserveremo che il fine primo dell'azione societaria é la pace in sé, non i risultati delle eventuali guerre. Che in un conflitto italo-etiopico il risultato finale sarà a totale favore dell'Italia, é ovvio. Ma anche una grande potenza ha il diritto di premunirsi contro i pericoli e le ripercussioni che possono derivare da incursioni nel territorio delle sue colonie, o dall'inizio sfavorevole dl una campagna militare, o dal maggiore sacrificio dl vite e di mezzi che potrebbe implicare la iniziativa del nemico.

Come poteva, dunque, il Consiglio della Società decidere seduta stante, in una materia così complessa, sui soli documenti in contraddittorio forniti dai contendenti? Anche a voler concedere le peggiori prevenzioni contro l'Italia, qualunque decisione avrebbe dovuto fondarsi su una inchiesta, su una istruttoria. La procedura sommaria non era nemmeno giustificata dalle considerazioni presentate da Mr. Eden, - cioé che conveniva affrettarsi per interrompere lo spargimento di sangue. Non avrebbe potuto la Società intimare ai due contendenti di sospendere le ostilità in attesa di una commissione di inchiesta? Non si fece precisamente così in occasione del conflitto greco-bulgaro? Nel caso che uno dei contendenti non avesse obbedito alla intimazione, la dichiarazione di aggressore avrebbe avuta ben altra apparenza giuridica. Non sostanza, perché il giudizio, come tutti gl'Italiani sanno, è viziato dalle origini.

Tuttavia, malgrado la gravissima ingiustizia fatta all'Italia, sl sarebbe evitato di consacrare una massima che legittima l'egoismo imperiale britannico. Si sarebbe risparmiato, cioé alla Società delle Nazioni di diventare, anche nei suoi strumenti giuridici, l'istituto della Pax Britannica.
A. C.
(Civiltà Fascista, n, 10, ottobre 1935)

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Il mese precedente, cioè a settembre, nel n. 9
erano apparse queste considerazioni di politica estera.
Atteggiamento degli inglesi, la questione a Ginevra, l'atteggiamento americano,
l'atteggiamento giapponese
L'INGHILTERRA E IL CONFLITTO ETIOPICO

Quando il 24 giugno 1935, Antony Eden (da appena venti giorni nominato delegato della S.d.N. giunse a Roma e s'incontro con Mussolini, non poteva non occuparsi del conflitto italo-etiopico, e vi è arrivato latore di una strana proposta.
L'Inghilterra avrebbe ceduto all'Etiopia uno sbocco al mare a Zeila : in cambio l'Etiopia avrebbe ceduto l'Ogaden all'Inghilterra e questa a sua volta lo avrebbe ceduto all'Italia.
Non si riesce ancora bene a comprendere come mai l'Inghilterra abbia pensato ad una proposta così peregrina. L'unica possibile spiegazione potrebbe essere data dal fatto che l'Inghilterra fosse ancora persuasa che l'Italia non andasse cercando altro che un successo di puro prestigio ed abbia pensato di poterla tacitare offrendogli alcuni chilometri quadrati di steppa. In ogni modo la proposta è stata nettamente respinta dal Governo italiano, il quale ha fatto osservare, fra l'altro, che la cessione all'Etiopia di uno sbocco al mare non avrebbe fatto altro che aggravare, nei nostri riguardi, il problema della sicurezza, già compromesso dagli armamenti abissini.

Del resto non si può dire che la stessa proposta abbia incontrato un grande favore nella stessa Inghilterra. Strana sorte del Governo conservatore : esso fa tutto il possibile per ingraziarsi i suoi oppositori : i liberali cioè ed i laburisti : ciò facendo finisce per crearsi delle inimicizie nel campo stesso del suo partito. In ogni modo la proposta è oggi morta e sepolta. Il colpo di grazia glie lo ha dato lo stesso Imperatore d'Etiopia, nel suo recente discorso al Parlamento abissino e nella sua intervista al Times del 17 luglio, nelle quali, pur commentando favorevolmente la proposta britannica, ha mostrato di avere un concetto molto restrittivo dell'Ogaden stesso e si è espresso nei riguardi di eventuali concessioni economiche italiane nel suo paese, in termini tali da non incoraggiare certo i capitalisti italiani, almeno fino a quando il paese continuerà ad essere retto dallo scettro dei Salomonidi.

Anche Sir Samuel Hoare (il nuovo ministro degli esteri, nel nuovo governo conservatore di Baldwin) non ha voluto nel suo discorso dell' 11 luglio, lasciar fuori il conflitto fra Roma ed Addis Abebà. Sul momento il discorso fu interpretato come il principio di una evoluzione inglese verso una concezione più realista della questione. Vi si riconosceva il bisogno ed il diritto italiano all'espansione: vi si ammetteva che l'Abissinia potesse avere avuto dei torti verso l'Italia: pur insistendo sui soliti principi, pace e S. d. N.; insomma, sembrava di essere arrivati ad una svolta della politica britannica nei nostri riguardi.

Purtroppo gli avvenimenti susseguenti si sono incaricati di smentirlo. Ultima fu la notizia che il Gabinetto britannico aveva deciso di non ostacolare più l'invio di armi in Abissinia. La notizia fu smentita, in parte, da Sir Samuel Hoare, il 25 luglio, dichiarando che l'Inghilterra non si sarebbe opposta al transito di armi per l'Etiopia attraverso le sue colonie, ma che, per ora, non avrebbe autorizzato il libero commercio delle armi verso l'Abissinia.

Si smentiva pure la notizia di un prestito all'Abissinia per i suoi acquisti di armi in Inghilterra. Ma si lasciava chiaramente intendere che tutte queste non erano che delle misure transitorie, le quali sarebbero state modificate in considerazione dell'atteggiamento italiano.
Poi ancora il 1° agosto, Hoare ha pronunciato un nuovo discorso nel quale, pur confermando il diritto italiano all'espansione, ha parlato della necessità di far rispettare il Patto, in parole tali da far ritenere
che l'Inghilterra sarebbe decisa a farlo rispettare essa stessa anche se gli altri membri della S. d. N. non mostrassero lo stesso entusiasmo.


Mentre poi, nel suo precedente discorso, Hoare aveva smentito di avere sondata la Francia nei riguardi di eventuali sanzioni contro l'Italia, adesso fa chiaramente comprendere di avere posta la Francia di fronte ad un dilemma : o si fa rispettare il Patto della S. d. N. nei riguardi dell'Italia o l'Inghilterra non si presterebbe a farlo osservare. Se questo non è un mezzo di pressione, vorremmo sapere che termine si usa per questo nel linguaggio diplomatico britannico.

Non conviene prendere però troppo al tragico le affermazioni del Ministro britannico. I suoi discorsi rimbalzano a seconda delle reazioni dell'opinione pubblica britannica. Il suo primo discorso tendeva a pacificare quegli inglesi i quali temevano che il loro Governo si fosse spinto troppo oltre sulla via dell'appoggio alla politica di pace della S. d. N.: il suo secondo discorso era evidentemente diretto a sventare le critiche di quelli che trovavano che egli non si era mostrato troppo energico nei nostri riguardi. Siccome adesso ci sarà pure qualcuno che troverà che egli è stato troppo duro, così alla sua prossima manifestazione oratoria ritroveremo forse qualche espressione meno arcigna nei nostri riguardi; e così via all'infinito, fino a che anche gli inglesi non si saranno seccati di ripetere le stesse sciocchezze. Quello sarà forse il giorno in cui l'Inghilterra si deciderà a discutere con noi della questione abissina sulla sola base reale, quella degli interessi italo-britannici.

La questione italo-etiopica a Ginevra.

C'è chi ha profetizzato che il conflitto italo-etiopico sarà la fine della Societa delle Nazioni, la quale di questa fine ingloriosa dovrà soprattutto ringraziare la sua fedele amica Inghilterra. Certo è che durante l '87a sessione, iniziatasi il 31 luglio, il Consiglio non poteva essere trattato in modo meno societario : e non certo per colpa dell'Italia.
Prima di tutto abbiamo assistito ad uno squagliamento in massa. Benes, Titulescu, Tewfick Aras, Beck, soliti fedeli di Ginevra erano questa volta occupatissimi a casa loro e si sono fatti rappresentare da personalità di secondo piano; lo stesso esempio hanno seguìto altri stati. Poi le discussioni si sono svolte in seduta privata, il che è come a dire a porte chiuse e solo fra i principali interessati.
Poi il Consiglio è stato chiamato a ratificare quello che era stato fatto e lo ha fatto con solo qualche protesta del delegato danese il quale ha perso una eccellente occasione per tacere ed ha dimostrato il suo grande coraggio. Dato che l'Italia è lontana dalla Danimarca egli ha trovato questa volta le sue bollenti espressioni che si era dimenticate quando a Ginevra si parlava della Germania, vicina ai confini danesi.
Proceduralmente parlando, l'ultima sessione del Consiglio è stata una netta vittoria italiana. Appoggiati dalla Francia, con quell'amichevole comprensione di cui essa ha dato prova durante tutte le trattative relative a questa spinosa questione, noi non abbiamo retroceduto di un passo dalle nostre posizioni.

Il Consiglio ha dichiarato che la Commissione arbitrale deve occuparsi soltanto di stabilire chi é stato l'aggressore a Ual-Ual e che potrà tutto al più tener conto della convinzione che dell'appartenenza del luogo avessero le due parti in causa : il che é ben differente dalla tesi abissina di volere stabilire invece l'appartenenza del territorio.

Inoltre le tre Potenze firmatarie dell'accordo tripartito del 1906 inizieranno dei negoziati allo scopo di studiare qualche possibile soluzione del conflitto italo-etiopico. L'Inghilterra voleva, molto cortesemente, che alle discussioni prendesse parte anche l'Abissinia : l'Italia si é rifiutata e l'Inghilterra ha ceduto. Così pure il delegato italiano ha fatte le più ampie riserve circa l'impegno di riferire al Consiglio dei risultati delle conversazioni dopo il 4 settembre. Il che é quanto dire che l'impegno di riferire al Consiglio è solo francoinglese e che l'Italia si riserva di parteciparvi o no a seconda dell'andamento delle conversazioni a tre.

Abbiamo detto proceduralmente. Poiché in sostanza non si é fatto altro che rimandare la data della crisi ginevrina : o meglio, angloitaliana. Poiché infatti se l'Inghilterra resterà sulle sue posizioni, quelle cioè di non voler riconoscere il punto di vista italiano e di volere considerar Italia e Abissinia sullo stesso piano per il solo fatto che tutte e due hanno l'onore di essere parte del consesso ginevrino, è chiaro che le conversazioni a tre non avranno che ben scarse possibilità di portare a qualche risultato concreto. E nulla fa ritenere che l'atteggiamento del Governo britannico nei riguardi delle tesi italiane sia mutato sufficientemente da fare sperare in un accordo.

Abbiamo detto, e volutamente, il Governo britannico. Poiché non siamo del tutto sicuri che tutta l'opinione pubblica britannica sia persuasa che oggi il Governo inglese rispecchia perfettamente le sue idee. Ci riferiamo ad una fonte non sospetta, Sir Herbert Samuel, capo dei liberali britannici, il quale scrivendo in un giornale svizzero ha fatto questo ragionamento. Ci sono undici milioni di membri della Società amici della S. d. N. : di questi, a nostra domanda, il 98% si sono pronunciati a favore della difesa della Lega ma solo il 58% a favore delle sanzioni; bisogna poi considerare che tutti gli altri inglesi i quali non sono membri della Società suddetta, vanno aggiunti a quel 40% che é contrario alle sanzioni. E potrebbe quindi anche essere che il Governo conservatore il quale fa tutto quello che fa per marcare un punto a suo favore per la prossima campagna elettorale, dovrà, a conti fatti, persuadersi che con un differente atteggiamento nei riguardi dell'Italia, avrebbe forse avuto maggior successo anche a casa sua.

L'atteggiamento americano.

L'elemento elettorale ha anche la sua influenza sull'atteggiamento americano. L'americano, nella sua vita privata, non é molto tenero per i negri in generale: ma l'uomo politico è un'altra cosa : i negri si sa sono elettori anch'essi. Ora i negri di America hanno dimostrato una grande passione per i loro fratelli di colore in Abissinia, senza tener conto del fatto che in Abissinia i negri come quelli americani sono considerati peggio... degli italiani.
L'America poi, per una strana sopravvivenza della mentalità coloniale, per tutte le questioni che non la interessano direttamente tende a seguire la politica inglese.
Per cui l'appello abissino al Patto Kellogg ha messo il Governo americano in un certo imbarazzo. La prima risposta é stato il grido del cuore : l'America segue coli simpatia gli sforzi che fa la S. d. N. in favore della pace ma non intende mischiarsi nel conflitto italoetiopico. Poi la relazione inglese ha fatto dichiarare agli americani che naturalmente essi non possono disinteressarsi di qualsiasi violazione al Patto di Parigi. Finalmente, l'inatteso intervento giapponese ha fatto dichiarare a Roosevelt che l'America intende restare neutrale nel conflitto : il che poi é tutto quello che l'Italia domanda.

L'atteggiamento giapponese.
(che ha fatto cambiare idea all'America)

Che il Giappone avesse messo da qualche tempo gli occhi addosso all'Etiopia non era un mistero per nessuno, che sottomano esso agitasse e appoggiasse l'Etiopia era pure risaputo.
Però un bel giorno, il 16 luglio, l'Ambasciatore giapponese si é recato dal Capo del Governo e gli ha dichiarato che il Giappone non ha in Etiopia altro che degli interessi economici : e l'Italia ne aveva preso atto con compiacimento. Qui é cominciata la confusione. Il portavoce del Ministero degli Esteri giapponese - un signore il quale non é la prima volta che fa parlare di sé - ha dichiarato che l'Ambasciatore Sugimura non era autorizzato a fare le dichiarazioni che aveva fatto, che il Giappone invece simpatizzava con l'Etiopia come con tutte le razze di colore le quali, per una ragione o per l'altra, si trovino in lotta con i bianchi.

L'Ambasciatore Sugimura ha data una intervista alla Tribuna dichiarando che la sua dichiarazione era esatta ed autorizzata : la stessa cosa in pratica ha detto il Ministro degli Esteri giapponese al nostro Ambasciatore.
A chi credere? Probabilmente tutti e due hanno ragione. Il Giappone non è in grado, per ragioni geografiche, di opporsi effettivamente ad una nostra azione in Etiopia, quindi deve, in pratica, disinteressarsene : approfitta perciò dell'occasione per dire che lo fa per affetto verso l'Italia. Siccome però per altre ragioni fa anche una politica razzista, così esso sostiene, come e nella misura che può, l'Abissinia nera contro l'Italia bianca.

Questa uscita giapponese ha permesso intanto all'Inghilterra di tirare fuori un altro argomento in favore delle sue tesi anti-italiane un preteso pericolo cioé per le colonie francesi ed inglesi per eventuali manifestazioni dei negri in favore dei loro fratelli abissini. Francamente parlando non crediamo che i negri delle colonie confinanti con l'Abissinia che hanno provate le delizie delle razzie abissine saranno troppo teneri per il Negus. Ma se mai, se questo pericolo esistesse, sarebbe propria una ragione di più per schiacciare il centro di un possibile irredentismo negro prima che sia troppo tardi.

S. V.
(Civiltà Fascista, n. 9, ottobre 1935)
Indro Montanelli, che si trovava in questo periodo in Africa era dello steso parere:
scriveva così sulla stessa rivista "Civiltà Fascista":
"Salvo qualche mezzacoscienza, nessuno di noi si augura che la guerra finisca. Potrà essere sciocco, ma è così. Noi, soldati, non abbiamo che un desiderio: continuare....
Salvo qualche mezzacoscienza nessuno di noi pensa che un trattato di pace -qualunque esso sia- possa esaurire il nostro compito qui.....Non si sarà mai dei dominatori se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità.....Con i negri non si fraternizza. Non si può. Non si deve!..Non cediamo a sentimentalismi".

L'intero articolo, digitalizzato è presente nei files dei "Documenti" sul CD-ROM
(chi lo possiede, cliccare QUI - doc. 1700 )

Altrettanto per l'intero testo del DOCUMENTO DI PROTESTA dell'Italia, per la minaccia delle sanzioni, consegnato a tutti i governi presenti a Ginevra e agli altri Governi per conoscerne l'atteggiamento.
(
doc. 1721 )

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