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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI dal 924 al 947 

UGO DI PROVENZA IN ITALIA - LA POLITICA
IL PAPATO - DISCESA DI BERENGARIO II IN ITALIA

POLITICA DI RODOLFO DI BORGOGNA - CHIAMATA DI UGO DI PROVENZA - RODOLFO IN ITALIA: FALLIMENTO DELLA SPEDIZIONE - ELEZIONE DI UGO, SUA POLITICA - UGO E IL PAPATO - IL CONVEGNO DI MANTOVA TRA UGO E GIOVANNI X - POLITICA ROMANA DI UGO E MATRIMONIO CON MAROZIA - LA RIVOLUZIONE DI ALBERICO II E LA CACCIATA DI RE UGO DA ROMA - GOVERNO DI ALBERICO - RELAZIONI DI ALBERICO CON LA CORTE BIZANTINA - AMBASCIATA DI UGO A COSTANTINOPOLI - ACCORDO DI UGO CON RODOLFO II - PRIMA SPEDIZIONE ROMANA DI UGO - CONGIURA DI RATERIO E DISCESA DI ARNALDO DI BAVIERA - SECONDA SPEDIZIONE ROMANA - BOSONE ED ANSCARIO - UGO E LA BORGOGNA DOPO LA MORTE DI RODOLFO - TERZA SPEDIZIONE ROMANA - BERENGARIO II D' IVREA - UGO E I MUSULMANI DI FRASSINETO - GLI UNGARI IN ITALIA - RAPPORTI DI UGO CON L' IMPERO D'ORIENTE - DISCESA DI BERENGARIO II IN ITALIA - MORTE DI UGO ED ELEZIONE DI LOTARIO
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UGO DI PROVENZA RE D'ITALIA

In uno dei precedenti capitoli abbiamo narrato la fine di Berengario. Dopo la morte di questo, RODOLFO di BORGOGNA credeva di essere rimasto incontrastato signore del regno italico e inaugurò una politica di conciliazione con la quale sperava di consolidare il suo dominio.
Sapendo che non pochi erano gli amici del defunto re, volle ingraziarseli con generose concessioni, delle quali fruirono - come ce ne fanno fede i diplomi di Rodolfo - l'abbazia veronese di S. Zeno, Guido, vescovo di Piacenza, consigliere del morto sovrano, e Berta, figlia di Berengario e abbadessa del monastero di S. Sisto.

Ma non era con le concessioni e con le generosità e neppure col pugno di ferro che un sovrano straniero poteva saldamente regnare sull'Italia in quei tempi, in cui le potenti famiglie feudali erano d'ostacolo grandissimo al costituirsi di una monarchia forte e duratura.
RODOLFO non aveva salde radici nel paese. Le famiglie che lo avevano chiamato avevano voluto servirsi di lui soltanto come strumento per abbattere Berengario: tolto di mezzo questo, pensarono di disfarsi anche del nuovo sovrano e di dare la corona ad un uomo che in Italia aveva potentissime relazioni.

Quest'uomo era UGO di PROVENZA, che la madre BERTA di Toscana aveva segretamente opposto a Rodolfo, e del quale, è noto l'infelice tentativo di impadronirsi del regno (924).

Morta nel 925 BERTA, la sua politica fu continuata dalla figlia ERMENGARDA, moglie del marchese ADALBERTO d'Ivrea, e dai suoi fratelli, GUIDO e LAMBERTO di Toscana, ai quali conveniva che lo scettro cadesse in mano del loro fratello uterino.
Forti del consenso dell'arcivescovo milanese LAMBERTO e di Papa GIOVANNI X, il quale sperava aiuto da Ugo contro le fazioni romane capitanate da MAROZIA, trovandosi Rodolfo in Borgogna, i marchesi di Toscana e d'Ivrea invitarono il conte di Provenza a scendere in Italia.

Mentre UGO, accolto l'invito, si metteva in mare diretto verso le coste della Toscana, Rodolfo si preparava a soffocare la rivolta. Accompagnato dal duca BURCARDO di Svevia, di cui aveva sposato la figlia un'omonima Berta, alla testa di milizie tedesche e borgognone, scese in Italia per il valico del gran San Bernardo e, invece di puntare su Pavia, mosse contro Ivrea per non lasciarsi alle spalle la seria minaccia che poteva venirgli da quel marchesato.

L'imprudenza di BURCARDO fece fallire l'impresa. Spintosi fino a Milano fu qui trattenuto dall'astuzia dell'arcivescovo, il quale entrò con lui in trattative per dar tempo all'esercito degli alleati di sopraggiungere. Quando Burcardo si accorse del tranello era troppo tardi, per porvi riparo: rimessosi sulla via d'Ivrea, fu assalito, presso Novara, dalle milizie italiane e perì con tutta la sua scorta (28-29 aprile del 926).
La morte del suocero scoraggiò talmente RODOLFO da spingerlo ad abbandonare l'impresa e a fare ritorno in Borgogna.

UGO intanto sbarcava a Pisa, ricevuto dai rappresentanti dei signori italiani e dai legati del pontefice Giovanni X. Da Pisa Ugo di Provenza si recò a Pavia, dove, nel luglio del 926, fu da un'assemblea di grandi elettori, qualche giorno dopo, incoronato dall'arcivescovo Lamberto.

L'Italia finalmente aveva un re che per i legami che lo stringevano alle potenti famiglie feudali sembrava destinato a regnare lungamente. In verità nella penisola Ugo non aveva rivali, né temeva da parte dei sovrani d'oltr'Alpe minacce al suo trono, perché gli ultimi carolingi di Francia, in quotidiana lotta contro la nobiltà feudale, non erano in grado di rispondere ad un'eventuale chiamata di signori italiani ed ENRICO di Sassonia, successo nel 918 a CORRADO di Franconia nel trono di Germania, era troppo impegnato a difendersi dalla potenza dei duchi e dalle incursioni degli Ungari e degli Slavi per pensare alle cose d'Italia.

Pur tuttavia, sebbene sicuro che i sovrani stranieri non lo avrebbero disturbato, Ugo era troppo accorto per affidarsi completamente alle parentele e fare su queste l'unico sostegno del suo trono. Dotato di perspicacia non comune e fornito di molta esperienze politica, Ugo comprese subito che per consolidare la propria posizione fosse necessario formarsi un partito che, legato al trono da interessi, costituisse una salda piattaforma alla casa regnante.

Alla costituzione di questo partito egli dedicò gran parte della sua attività, scegliendo con molto acume le persone e concedendo loro con generosità e senza scrupoli cariche e fondi.
Per legare maggiormente a sé i parenti, fu a questi che affidò le dignità più alte e i benefici più cospicui. ILDUINO, vescovo di Liegi, fu fatto prima vescovo di Verona e poi arcivescovo di Milano. Più tardi a MANASSE concesse il governo della marca friulana e gli episcopati di Verona, Trento e Mantova; al nipote RAFFREDO affidò l'abbazia di Farfa, al cugino TEOBALDO la marca di Spoleto e di Camerino, al fratello BOSONE quella di Toscana.
Fra i beneficati non mancarono naturalmente i non pochi bastardi avuti da concubine: GOTTIFREDO ricevette l'abbazia di Nonantola, UBERTO, dopo Bosone, la marca di Toscana; TEOBALDO fu fatto arcidiacono della chiesa milanese, e BOSONE ebbe il vescovado di Piacenza.

Né a circondarsi di una folta schiera di amici e beneficati pensò soltanto Ugo di Provenza. Egli non poteva non tener conto del Papato, la cui autorità, sebbene avesse ricevuto un gran colpo dalla potenza della nobiltà romana, era pur sempre grande per il prestigio che il Pontefice aveva come capo della Chiesa. L'appoggio del Papa era utilissima ad Ugo che n'aveva bisogno per disporre a suo piacimento dei vescovadi del regno, ed egli sapeva che non gli sarebbe mancato conoscendo le condizioni in cui si trovava il pontefice che, a sua volta, aveva la necessità di un protettore.

Se si pensa che a Pisa GIOVANNI X mandò legati a ricevere il nuovo sovrano e che dopo l'elezione di Pavia, Re e Papa s'incontrarono a Mantova, è fatto di credere, sebbene nessuna prova ci sia che confermi questa supposizione, che un'intesa ci sia stata tra i due forse anche prima che il conte di Provenza venisse in Italia.

Nell'incontro di Mantova fu concluso un accordo, di cui purtroppo non fu noto il contenuto; ma crediamo di non andar molto lontani dal vero pensando che nel convegno mantovano il Pontefice promettesse al sovrano di coronarlo imperatore e assecondarne la politica ed Ugo assicurasse a Giovanni di aiutarlo contro la prepotenza delle fazioni e di rafforzarne l'autorità nello stato pontificio.

Il convegno di Mantova, dal quale il prestigio di Giovanni X usciva notevolmente accresciuto, non poteva riuscir gradito a MAROZIA.
La scaltra vedova di ALBERICO che era la vera padrona di Roma, corse allora, ai ripari e per togliere al Papa l'appoggio del re offrì la sua mano al marchese GUIDO di TOSCANA, fratello uterino di UGO. Questo matrimonio conveniva politicamente ad entrambi: Marozia per mezzo di quest'unione distaccava il re dal Pontefice, mentre GUIDO, oltre che divenir lo sposo di una donna ricca e bellissima, acquistava la signoria di Roma.

Papa GIOVANNI però non era uomo da scoraggiarsi; dotato di volontà tenace e di energia non comune, di cui aveva dato (andandoci di persona) prova nella lotta contro i Saraceni del Garigliano, tornato a Roma, stabilì di difendere accanitamente il suo potere dagli avversari, e vi riuscì per due anni, sostenuto dal fratello Pietro che ricopriva la carica importantissima di "consul Romanorum".

La lotta entrò nella sua fase acuta nel 928. GUIDO e MAROZIA riuscirono a fare entrare segretamente nella città un buon contingente di armati ed assalirono il Pontefice nel Laterano.
In sua difesa, corse Pietro, ma fu sopraffatto e scacciato da Roma. Rifugiatosi ad Orte, Pietro richiese l'aiuto di una schiera di Ungari ed alla loro testa fece ritorno nella metropoli e dopo una sanguinosa battaglia riuscì a rioccupare il Laterano.

Se dobbiamo credere al cronista BENEDETTO DA SORATTE, il popolo romano non perdonò a Pietro la chiamata degli Ungari (che avevano fama di predatori), e, levatosi a tumulto, lo uccise davanti agli occhi del Pontefice. Più che un'esplosione di collera popolare, in quest'episodio noi non esitiamo a riconoscere l'opera sobillatrice di Marozia, la quale, impadronitasi del Pontefice, lo fece chiudere in Castel Sant'Angelo Qui l'infelice Giovanni, dopo alcuni mesi di prigionia, l'anno seguente (maggio) cessava di vivere, non si sa bene se strangolato o per fame.

Dopo la fine di Giovanni X, Marozia divenne la padrona incontrastata di Roma e l'arbitra del Papato. Al trono pontificale essa innalzò prima, LEONE VI che morì a dicembre dello stesso anno 928, poi Stefano VII, entrambe sue creature, che però non lasciarono nessuna traccia.
Il secondo morì nel febbraio del 931 e a marzo MAROZIA mise sul soglio il proprio figliuolo col nome di GIOVANNI XI, che la voce pubblica diceva nato dagli amori della corrotta donna con il precedente papa SERGIO III.

Nello stesso anno (931) in cui il ventunenne Giovanni saliva al soglio pontificio moriva GUIDO di Toscana, e gli succedeva nel marchesato il fratello LAMBERTO, giovane ambizioso, energico e prode. La morte del marito veniva a menomare la potenza di MAROZIA. Questa allora pensò di rafforzare la sua posizione con un terzo matrimonio che le avrebbe procurato la corona di regina.

UGO di PROVENZA, vedovo della principessa borgognone Alda, che gli aveva lasciato il figlio LOTARIO (di cui sentiremo alla fine di questo capitolo ancora parlare), non avrebbe certamente rifiutato di sposare Marozia dalla cui unione gli sarebbe venuto il possesso di Roma e la corona imperiale.
UGO, infatti, accettò la mano della vedova di Alberico e di Guido ed ex nemica, e, poiché le leggi canoniche non consentivano le nozze tra cognati, non si vergognò di infamare la memoria della madre Berta affermando che lei dal suo secondo matrimonio con Adalberto di Toscana non aveva avuto figli e che perciò Guido, Lamberto ed Ermengarda non gli erano fratelli.
Preso dallo sdegno il marchese Lamberto, ferito dall'affermazione di Ugo, ricorse al giudizio di Dio per smentire l'asserzione del fratello. Dal duello che ne segui uscì vincitore, ma a nulla valse la sua vittoria, perché Ugo, avutolo nelle mani, lo privò della vista, lo gettò in prigione e concesse la marca di Toscana al fratello Bosone.

Nel marzo del 932 alla testa di un esercito UGO mosse alla volta di Roma per celebrare le nozze con MAROZIA e forse anche per esservi incoronato imperatore da GIOVANNI XI. Lasciato l'esercito accampato fuori le mura, entrò in città seguito da un brillante stuolo di cavalieri e ossequiato dal clero e dai nobili. Il matrimonio fu celebrato di lì a poco con gran pompa a Castel Sant'Angelo, trasformato in una reggia, e il sogno della matura Marozia si tradusse in realtà: da senatrice divenne regina.

ALBERICO II
LE TRE SPEDIZIONI DI RE UGO CONTRO ROMA - BERENGARIO II

Diventato signore di Roma, Ugo concepiva ambiziosi progetti e aspettava che sul suo capo si posasse la corona imperiale. A scompaginare questi suoi disegni sorse però un giovinetto sedicenne, offeso dal superbo contegno del re.
Dal matrimonio di Marozia con il marchese di Spoleto, il vincitore del Garigliano, era nato un figlio cui era stato imposto il nome del padre. Era ALBERICO II dalla madre era stato destinato a fare da paggio al re. D'indole altera e di animo focoso, il giovine si piegò malvolentieri all'ufficio servile.
Fin quando un giorno, versando l'acqua al patrigno, con astio gli rovesciò addosso il contenuto della brocca in un modo così insofferente e scortese che Ugo gli propinò un gran bel ceffone.

Pieno di sdegno e di ira, Alberico uscì dalla reggia e, tutto invaso dal desiderio della vendetta, chiamò a raccolta i Romani e con un discorso rovente, nel quale dipinse l'arroganza del re e del suo seguito e ricordando le vittorie che gli avi avevano riportate contro i barbari di là delle Alpi, che invece ora erano arroganti padroni di Roma, riuscì a incitarli alla rivolta.
Questa scoppiò fulminea. Il popolo chiuse le porte della città per impedire che le milizia di Ugo entrassero a difendere il loro sovrano, corse alle armi e, guidato da Alberico, assalì Castel Sant'Angelo.
UGO di Provenza dovette la salvezza alla fuga: calatosi di notte con una fune da un muro del castello riuscì a raggiungere le sue milizie e con queste, avvilito dall'umiliazione, fece ritorno nell'Italia settentrionale.
Di MAROZIA la storia non fa più parola. Qualcuno ha supposto, non sappiamo con qual fondamento, che la madre sia stata chiusa in carcere da Alberico e qui abbia poi finito i suoi giorni.
La rivoluzione vittoriosa segnò il trionfo dell'aristocrazia, la quale, per la parte principale che aveva avuto, per i grandi meriti del padre e per il prestigio stesso del nome oltre che per il forte partito della madre, affidò il governo nelle mani di ALBERICO II.

Dal giorno in cui Ugo dovette fuggire da Roma il potere temporale passò dal Papa nelle mani di ALBERICO, il quale preso il titolo di "Princeps atque omnium Romanorum Senator", fu il vero padrone di Roma. GIOVANNI XI fu custodito nel Laterano da dove per quattro anni continuò a reggere spiritualmente la Chiesa. Nei diplomi, per formalità e in ossequio alle tradizioni, si continuò a segnare il nome del Papa insieme con gli anni del suo pontificato, ma accanto fu messo il nome di Alberico, che da allora, con quello del Pontefice, troviamo pure nelle monete.

La rivoluzione del 932, se si eccettui il passaggio del potere temporale dalle mani del Papa in quelle del principe, non produsse nessun mutamento nel governo e non si estese oltre i confini dell'antico ducato. Intatte restarono le assemblee giudiziarie formate dai dignitari ecclesiastici e dai rappresentanti della nobiltà laica e continuarono a sussistere le "scholae militum", da dove poi uscivano una specie di compagnie di milizie urbane.

Qualcuno afferma che Alberico dividesse militarmente la città in dodici rioni ciascuno dei quali dava il contingente di una "scholae" o "bando" al comando di un vessillifero, ma che sia stato proprio Alberico a promuovere quest'ordinamento non si hanno prove. È certo invece che Alberico introdusse nelle "scholae" un rilevante numero di artigiani promuovendo in questo modo lo sviluppo della milizia cittadina in previsione di una lotta da sostenere contro i nemici del re d'Italia.

Di pari passo con il potenziamento delle milizie e dettate dal medesimo motivo vanno le trattative di Alberico con la corte bizantina. Il governo, se non lo scettro, era allora in mano di ROMANO LECAPENO, il quale aveva designato di mettere alla sedia patriarcale di Costantinopoli il figlio TEOFILATTO. Essendo questi in tenera età, per superare gli ostacoli che si opponevano al suo piano Lecapeno aveva pregato il Papa d'inviare in Oriente alcuni legati che sanzionassero con la loro presenza la consacrazione di Teofilatto.
Queste pratiche erano state cominciate ancora quand'era in vita Marozia, la quale, approfittando del bisogno che Romano aveva di lei, era riuscita a trattare con successo il matrimonio tra una sua figliuola e un figlio del Lecapeno. Ma quando questi inviò a Roma una lettera, invitando Marozia a inviare a Costantinopoli la figlia, la rivoluzione narrata sopra, aveva già tolto di mezzo l'ambiziosa senatrice.
ALBERICO che era poco più che ventenne, continuò le trattative con la Corte d'Oriente offrendo da un canto la sua mano ad una principessa bizantina e dall'altro inducendo GIOVANNI XI a mandare quattro legati a Costantinopoli per la consacrazione di TEOFILATTO, che, infatti, avvenne il 2 febbraio del 923.

La politica di ALBERICO orientata verso l'impero bizantino non poteva lasciar indifferente UGO, il quale temeva che da un accordo tra Roma e Costantinopoli fossero gravemente ostacolati i suoi progetti sull'Italia. Appunto per questo motivo, con lo scopo di porre in mezzo ostacoli alle trattative fra Alberico e Romano, mandò in Oriente il padre dello storico e vescovo cremonese LIUDPRANDO.
Dei risultati di tale missione nulla sappiamo; di quest'incontro c'è perfino ignota la data. È certo però che a cominciare dal terzo decennio del secolo X i rapporti tra Bisanzio e Pavia si fecero sempre più cordiali, e la prova è la richiesta fatta da Ugo nel 935 per mezzo del protospatario EPIFANIO di allearsi con l'impero contro i principi longobardi dell'Italia meridionale.

Mentre UGO trattava con Costantinopoli, alcuni grandi del regno italico, sdegnati dal contegno del re, procuratasi pure l'inimicizia dei nobili delle marche di Toscana e di Ivrea, tutti insieme incoraggiati dal suo insuccesso romano, si diedero da fare per sbalzarlo dal trono, invitando in Italia RODOLFO di BORGOGNA.
Ugo parò il colpo con molta abilità. Essendo vacante il trono di Provenza, dopo la morte di Ludovico il Cieco, avvenuta nel giugno del 928, il re d'Italia cedette a Rodolfo i diritti che vantava su quel regno, il quale dai primi del 933 - in cui pare sia avvenuto l'accordo tra i due sovrani - fu incorporato alla Borgogna.

Scongiurato con questa regalia-cessione l'intervento di Rodolfo, Ugo pensò a vendicarsi dello scacco che aveva subito a Roma l'anno prima e con un numeroso esercito marciò contro la città papalina. Ma l'impresa fallì: gli sforzi fatti dalle sue milizie per espugnare la metropoli s'infransero contro la strenua resistenza della milizie cittadine ed Ugo, sfogata la sua collera sulla campagna romana, se ne dovette ritornare in Lombardia con l'onta di un nuovo insuccesso.

Quest'insuccesso servì a rianimare le speranze dei nemici di Ugo, i quali tornarono a cospirare ai suoi danni.
Di due congiure abbiamo notizia. La prima avvenne a Pavia e fu diretta da due potenti nobili, VALPERTO e GEZO, ma scoperti in anticipo furono con l'astuzia attirati fuori della città, catturati e accecati.
La seconda fu tramata a Verona. Qui, a capo dei cospiratori, troviamo il conte MILONE e il dotto vescovo RATERIO, che nei suoi scritti dipinge a fosche tinte la corruzione del clero, di cui invano cercò di riformare i costumi. "Vediamo - scrive - i vescovi di Lombardia coprirsi di greche armature e circondarsi di lusso babilonese. Si circondano a mensa di ballerini e lubrici cantori. Vanno a caccia e si mostrano su cocchi dorati, rivolgendo sguardi sprezzanti al popolo, fino a che il sopravvenir della notte di nuovo li chiama ai piaceri della mensa".

"LIUDPRANDO" c'informa che MILONE e RATERIO invitarono ARNALDO, duca di Baviera, a scendere in Italia. Accolto l'invito, al principio del 935 Arnaldo per la Val d'Adige passò le Alpi e giunse a Verona. Non andò però molto lontano, perché Ugo prontamente con un forte esercito gli andò incontro, e lo costrinse a ritornarsene in Baviera, dopo di averlo sconfitto a Grossolengo.

Ugo non indugiò a vendicarsi. Molti veronesi che avevano fatto calda accoglienza al duca, furono accecati o uccisi e spogliati dei loro beni; MILONE, che all'ultimo momento aveva abbandonato i congiurati, fu perdonato, RATERIO, invece, fu deposto dalla sedia episcopale e messo in una torre a Pavia. Qui il povero vescovo rimase due anni e mezzo e passò questo tempo a scrivere i suoi "Praeloquia"; poi fu esiliato a Como e da qui fece ritorno in Francia.
Il vescovado di Verona Ugo lo affidò a suo nipote MANASSE.

Reso baldanzoso dal successo ottenuto su Arnolfo di Baviera, Ugo rivolse di nuovo il pensiero a Roma, verso cui lo spingeva il cocente desiderio di vendicarsi di Alberico e delle due sconfitte. Lasciato nell'Italia settentrionale il figlio LOTARIO, che Ugo si era nel 931 associato nel regno, nel 936 con un esercito si mise in marcia alla volta di Roma.
Per la terza volta l'eterna città vide sotto le sue mura le milizie del re e per la seconda volta le milizie cittadine si prepararono alla resistenza. Questa fu oltremodo energica. Ugo si ostinava negli assalti per avere ragione degli assediati quando una fiera pestilenza scoppiò nelle sue truppe decimandole e indusse il re ad accettare la mediazione offertagli da Odone, abate di Cluny, per un accordo con Alberico.
Le trattative tra il principe romano e il re d'Italia condussero ad un accordo con il quale le due parti si promisero a vicenda di vivere in pace.

All'accordo seguì un matrimonio tra ALDA, figlia di Ugo, ed ALBERICO; ma né l'accordo né le nozze aprirono al sovrano le porte di Roma, tanta era la diffidenza che il genero nutriva per il suocero.
Nonostante la pace, questa terza spedizione romana in concreto si era risolta in un altro umiliante insuccesso, all'annuncio del quale parve che qualche grande vacillasse nella fede verso il re.
Non sappiamo quanto ci sia di vero nella notizia giunta all'orecchio del re: cioè che suo fratello Bosone, cui aveva dato la marca di Toscana, stava cospirando contro di lui.
Ugo che per natura era sospettoso, e, temendo di essere tradito, iniziò a mandare in giro - così c'informa il "cronista della Novalesa" - delle spie perché lo mettessero subito al corrente del contegno dei suoi vassalli.
Vittima del sospetto e degli informatori del sovrano fu proprio il fratello Bosone, che fu preso e incarcerato. Il marchesato di Toscana fu dato ad Uberto, bastardo del re.
Questo fatto avveniva nel 936.

In questo medesimo anno cessava di vivere TEOBALDO, che Ugo, dopo la morte di Alberico I, aveva creato marchese di Spoleto e Camerino. A sostituirlo il re d'Italia mandò ANSCARIO, figlio della sorella Ermengarda e di Adalberto d'Ivrea.
Conferendo al nipote il marchesato di Spoleto, Ugo aveva voluto allontanarlo dalla corte perché temeva di esser tradito. Più tardi, nel 940, sempre per lo stesso motivo, lo fece assalire dal conte borgognone SARDIO e, morto in battaglia ANSCARIO, Ugo affiderà prima a SARDIO, poi al proprio bastardo UBERTO il Marchesato di Spoleto.

Moriva nel luglio del 937 RODOLFO di BORGOGNA, lasciando due figli: CORRADO, di circa dieci anni, ADELAIDE di sette. La morte di Rodolfo non solo liberava Ugo da un eventuale pretendente alla corona d'Italia, ma gli offriva la possibilità di mettere la Borgogna sotto la sua influenza. Temendo che il giovanetto Corrado cadesse sotto la protezione di uno dei due potenti vicini, il re di Francia o quello di Germania, Ugo si propose di metterlo sotto la propria tutela e con questo scopo, recatosi nel dicembre dello stesso anno in Borgogna, sposò a Colombier, sul lago di Ginevra, la regina Berta, vedova di Rodolfo, e a suo figlio Lotario, che nel 931 si era associato al trono, fece promettere la mano della giovanissima Adelaide (di cui sentiremo ancora molto parlare).

Ma Ugo aveva fatto i conti senza i grandi borgognoni e il re di Germania OTTONE I, successo nel 936 al padre ENRICO I. Spinto forse dal sovrano tedesco, il quale non poteva senza suo danno tollerare che la Borgogna entrava nella sfera d'influenza del regno italico, i grandi condussero in Germania il giovinetto CORRADO e lo misero sotto la tutela o, come qualcuno crede, sotto il vassallaggio di Ottone.

Avendo visto fallire i suoi disegni, UGO fece ritorno in Italia conducendo con sé la nuora e la moglie (938), la quale, poco tempo dopo, scontratasi con il marito, abbandonava il talamo e se ne ritornava nella sua Borgogna.

Ora vediamo Ugo rivolgere nuovamente (è la quarta volta) le sue mire su Roma. Nel 941 con un esercito scese nel Lazio si accampò a S. Agnese, dove rimase tutto l'inverno con la speranza di espugnare in primavera la città eterna; ma questa, come le altre volte, resistette. Entrato ancora una volta come mediatore l'abate di Cluny, Ugo lasciò l'impresa e fece ritorno nell'Italia settentrionale.

BERENGARIO D'IVREA

Più che la mediazione di Odone e la resistenza dei Romani, consigliò il re al ritorno l'atteggiamento ostile di alcuni signori feudali. Fra questi il più potente era BERENGARIO II , marchese d'Ivrea. Se poniamo mente alla sua origine e alle sue parentele noi facilmente ci spieghiamo l'ostilità di quest'atteggiamento. Egli, infatti, era figlio di Adalberto e Gisla e, in qualità di nipote di Berengario I, vantava diritti sulla corona d'Italia; inoltre era marito di Villa, la figlia di quel Bosone che era stato incarcerato dal fratello Ugo e privato del marchesato di Toscana ed era fratellastro di quell'Anscario, che più sopra abbiamo già accennato.

Di un simile parente non poteva certo -il sospettoso Ugo- fidarsi. Temendo che il potente marchese volesse vendicare il suocero e il fratellastro e togliergli la corona, tentò con l'astuzia di sbarazzarsene e lo invitò a corte con il proposito di accecarlo. BERENGARIO II però, informato - come si dice - del "divisamento" del re da parte di Lotario (il figlio di Ugo che si era associato nel 931, e che ci farà una sorpresa più avanti) non cadde nell'insidia e, invece di recarsi a Pavia, fuggì dall'Italia, per la via del gran San Bernardo, nella Svevia dove fu raggiunto dalla moglie, incinta nel nono mese di Adalberto.

UGO intanto si preparava a combattere contro la colonia musulmana di Frassineto. Questi Saraceni, stabilitisi da circa mezzo secolo tra Fréjus e Saint-Tropez, erano il terrore della Liguria, del Piemonte e del Delfinato che saccheggiavano nelle loro frequenti incursioni, approfittando delle rivalità dei feudatari e delle vicende del regno italico.
Deciso a debellare quel covo di temuti predoni, Ugo si era procurato il concorso della flotta bizantina, concessogli volentieri da ROMANO LECAPENO, desideroso anche lui di togliere di mezzo quei Musulmani che molestavano seriamente il commercio bizantino in Occidente.
Nel 942, mentre le navi imperiali chiudevano ai Saraceni la via del mare, Ugo con un esercito penetrava nel territorio di Frassineto e li costringeva a chiudersi nel loro campo trincerato.

A interrompere un'impresa così bene avviata venne la notizia della fuga di BERENGARIO. Avendo saputo che il marchese, rifugiatosi preso il duca Ermanno di Svevia, s'era messo sotto la protezione di Ottone I e temendo, non a torto, che scendesse in Italia alla testa di milizie franche e tedesche, Ugo stipulò un accordo coi Saraceni, lasciandoli padroni del territorio che occupavano purché non molestassero l'Italia e impedissero a Berengario d'invadere il regno italico dalla parte delle Alpi. Con quest'accordo, la zona montagnosa di Frassineto rimaneva in possesso degli infedeli che, se tennero per qualche tempo fede ai patti, non si trattennero però dallo svaligiare i numerosi pellegrini che per quei valichi si recavano a Roma.
Liberatosi dai predoni musulmani, l'Italia settentrionale fu, poco dopo, percorsa e saccheggiata da una banda di Ungari. Ad Ugo riuscì per mezzo di una forte somma di avviarli in Spagna, ma i barbari incontrate serie difficoltà durante il viaggio, fecero ritorno in Italia e si spinsero fino a Roma, nelle cui vicinanze, attaccati dal duca della Sabina, furono quasi interamente distrutti.

L'accordo con i Saraceni di Frassineto aveva provocato la rottura dell'alleanza tra la corte bizantina e Ugo. Questi più tardi però riuscì a riannodare le relazioni con Costantinopoli, maritando a Romano II, figlio di Costantino Porfirogenito, la figlia naturale Berta, avuta dalla concubina Besola. Berta, ancora fanciulla, partì nel settembre del 944, accompagnata dal vescovo di Parma Sigefrido, per la capitale dell'impero d'Oriente. Entrando nella casa imperiale cambiò il suo nome in quello di Eudossia. Quattro anni dopo, nel 949, la giovinetta cessava di vivere, prima ancora che il matrimonio fosse consumato.
Mentre queste cose avvenivano, Ugo non distoglieva il pensiero da Berengario di cui s'aspettava da un momento all'altro la discesa alla testa di milizie straniere. Per impedire tale pericolo il re d'Italia mandò ad Ottone un'ambasciata con ricchissimi doni e l'offerta di una grossa somma. In cambio chiedeva che il sovrano germanico assicurasse che non avrebbe forniti aiuti al marchese d'Ivrea per un'impresa in Italia. Ma Ottone rispose che "poteva rinunciare all'oro del re, non rifiutar la protezione a chi gliela domandava".

Queste parole mostrarono chiaramente quale era il proposito di Ottone, ed Ugo non indugiò a prendere le misure necessarie per resistere validamente. Secondo quel che scrive Liudprando, BERENGARIO intanto si preparava a calare nella penisola, dove inviava un suo familiare, Amedeo, che doveva tenerlo informato degli umori dei grandi, dei preparativi militari del re e delle forze che custodivano i passi alpini. Edotto dal suo fido informatore del malcontento che serpeggiava tra i feudatari, Berengario stabilì di scendere al principio del 945 e scelse la via del Brennero non volendo o potendo misurarsi con i Saraceni di Frassineto, alleati del suo avversario, che difendevano i valichi delle Alpi occidentali.
Prima di muoversi il marchese d'Ivrea si procurò l'aiuto di MANASSE, al quale, come altrove abbiamo accennato, Berengario aveva concesso i vescovadi di Trento, Mantova e Verona. A Manasse fu promesso l'arcivescovado di Milano, al chierico ADELARDO che custodiva il castello di Formicaria, a Sud di Bolzano, fu promesso il vescovado di Como. L'avarizia di questi due riuscì più della gratitudine che dovevano avere per il loro benefattore e schiuse la via al marchese d'Ivrea, il quale senza colpo ferire, accompagnato da una piccola schiera, entrò a Verona.
Chi gli aprì le porte di questa città fu il conte MILONE, guadagnato alla causa di Berengario da Manasse, il quale aveva anche spinto alla ribellione GUIDO, vescovo di Modena, ARDERICO arcivescovo di Milano ed altri.

UGO tentò di soffocare la rivolta e corse ad assediare Vignola, dove il vescovo Guido si era ritirato, ma ormai gli eventi precipitavano e i più potenti signori si schieravano tutti dalla parte di suo nipote Berengario, che era acclamato liberatore d'Italia.
Allora Ugo capì che per lui la partita era irrimediabilmente perduta e cercò di salvare almeno la corona al figlio, che fra i signori godeva, per la sua bontà, molta stima.
Sia che i grandi si commovessero alle implorazioni del figlio del re, sia che Berengario più che alla corona, aspirava al governo, al conflitto fu data una soluzione che nessuno si aspettava, neppure lo stesso Ugo che con il tesoro regio era già fuggito in Provenza da dove forse sperava di arruolare milizie e tornare alla riscossa.

Riuniti in assemblea nella basilica di S. Ambrogio a Milano, i grandi riconobbero come sovrano LOTARIO a patto però, che Berengario riottenesse il marchesato e l'incarico di presiedere all'amministrazione del regno (che, di fatto, voleva dire avere in mano il regno).

UGO conservò il titolo di re e fu fatto ritornare a Pavia. Ma non vi rimase a lungo. Chi aveva per circa un ventennio avuto il governo assoluto d'Italia non poteva certamente accontentarsi di una sovranità nominale e senza alcun potere. Meglio ritirarsi a vivere privatamente che vederlo in mano del ventennale avversario ribelle vittorioso.
UGO, stipulato nel 946 un accordo con il genero ALBERICO, con il quale rinunziava alla corona imperiale e alle sue pretese su Roma, lasciò l'Italia settentrionale e ritornò nella sua Provenza, ad Arles, dove cessò di vivere l'anno dopo, il 10 aprile del 947. Non si conosce la data di nascita ma all'incirca doveva aveva 55 anni.

LOTARIO se rammentiamo, era figlio di Ugo, avuto dalla prima moglie, la principessa borgognone Alda (prima che Ugo sposasse Marozia) e che nel 931, aveva associato al trono senza però mai avere alcun potere nel regno. E fu Lotario ad avvisare in tempo Berengario -nel '41- la congiura che il padre gli stava preparando.
Lotario doveva avere in questo periodo circa 28 anni, e ha davanti a sé poco più che tre anni di vita. Teoricamente era diventato re, ma, di fatto, il potere era ben saldo nelle mani di Berengario, che dominerà con una politica aggressiva i prossimi 15 anni, poi sarà anche lui detronizzato da Ottone, ed esiliato a Bamberga vi morirà nel 966.

Ma siamo appena all'inizio di questa sua politica aggressiva
e quindi dobbiamo percorrerla tutta
ed è appunto il periodo che va dal 947 al 966 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988 
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vedi anche TABELLONE SINGOLI ANNI E TEMATICO

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