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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 326-312 a. C.

ROMA - SECONDA GUERRA SANNITICA - FORCHE CAUDINE

ALESSANDRO, RE D' EPIRO, IN ITALIA - ASSEDIO DI PALEOPOLI - GUERRA CONTRO IL SANNIO - ALIFE, CALIFE, RUFINO E PALEOPOLI CADONO IN POTERE DEI ROMANI - LUCIO PAPIRIO CURSORE DITTATORE - BATTAGLIA DI IMBRINIO - TREGUA CON I SANNITI - AULO CORNELIO ARVINA BATTE I SANNITI - SUICIDIO DI BRUTOLO PAPIO - I ROMANI ALLE FORCHE CAUDINE - II SENATO ROMANO SI RIFIUTA DI RATIFICARE LA PACE CAUDINA - LIBERAZIONE DI LUCERIA - I SANNITI PASSANO SOTTO IL GIOGO. DISTRUZIONE DI SATRICO E TREGUA CON IL SANNIO - RIPRESA DELLA GUERRA SANNITICA - RIBELLIONE E ASSEDIO DI SATICOLA - INSURREZIONE DI SORA E BATTAGLIA DI LAUTULE - INSURREZIONE DI AUSONIA, MINTURNA VESTINA E CAPUA - COLONIE ROMANE
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ASSEDIO DI PALEOPOLI

Mentre Roma era intenta a rafforzare il suo dominio sul Lazio e sulla Campania e si premuniva contro il Sannio inviando coloni nei confini di questa regione, continue guerre tenevano sconvolta l'Italia meridionale. Una lotta accanita si era ingaggiata fra la Lucania e la Messapia da una parte e Taranto dall'altra. ("Messapi" = antico popolo della Puglia d'origine Illirica).
Taranto era una città d'industriali e di commercianti che si governava a regime democratico. Colonia greca da oltre quattro secoli, ma con influenze egee già millenarie, era diventata l'emporio più fiorente della penisola; ma le guadagnate ricchezze cui erano successi agi e mollezze avevano reso apatici gli abitanti, forse un po' troppo convinti che le invidie non abitavano su questo pianeta; e che la prosperità sarebbe durata all'infinito.

Assalita dai Messapi e dai Lucani, Taranto, priva di proprie forti milizie, si era servita di alcuni eserciti di mercenari chiamati nella vicina penisola balcanica e da quella Grecia con la quale i rapporti commerciali reciproci erano molto stretti. Del resto a Taranto i Greci avevano i loro migliori empori e quindi interessati a difenderli.

Primo a venire in aiuto di Taranto era stato ARCHIDAMO, re di Sparta, ma questi non aveva avuto molto fortuna, e nel 416 (dalla fondazione di Roma - 338 a.C.) l'anno stesso in cui FILIPPO II di Macedonia vinceva a Cheronea, sconfitto dai Lucani era rimasto ucciso in battaglia.
Era giunto poi, chiamato dai Tarantini, ALESSANDRO re d' Epiro (lo zio dell'allora ventenne ALESSANDRO MAGNO) il quale, più fortunato, aveva presso Pesto, disfatto i Lucani e i Sabini e a Siponto i Messapi.
Schieratosi poi contro la stessa Taranto (la situazione politica in Grecia era completamente mutata - Filippo la dominava interamente), cui aveva tolto la città di Eraclea, e richiesti invano gli aiuti dei Greci che erano in Italia, Alessandro si era trovato ad aver come nemici non solo i Tarantini, ma anche i Bruzi, i Lucani, ancora i Messapi ed i Sanniti, e, trovandosi un giorno a guadare un fiume Acheronte vicino la città di Pandosia, era stato colpito da un soldato lucano; ferito annegò nel fiume. Erano nel frattempo passati dieci anni dal suo arrivo.

Le condizioni dell' Italia meridionale e specialmente in quegli anni con la presenza di Alessandro, alleato di Roma, avevano tenuto a freno i Sanniti, i quali non si erano rassegnati alla perdita del loro predominio sulla Campania ed aspettavano solo il momento della riscossa.
Schiaritosi l'orizzonte nel mezzogiorno della penisola e morto Alessandro, i Sanniti pensarono che era giunto il momento di ergersi contro i Romani e cominciarono con il creare a Roma delle difficoltà nella Campania, istigando Paleopoli a insorgere (alcuni storici, Paleopoli la identificano con Napoli stessa, allora non sterminata come oggi; forse era quella parte posta più a sud; in ogni caso parlando di Paleopolitani ci si riferisce ad entrambe le due colonie).
Paleopoli era una città vicinissima alla vera Neapolis sull'omonimo golfo e l'una e l'altra erano due colonie di Cuma, e, benché sotto un governo comune, non andavano d'accordo essendo democratica la prima e più aristocratica la seconda (probabilmente erano due insediamenti nel grande golfo, ma divisi dal ceto; e in mezzo da una fascia di territorio ancora disabitato).
Paleopoli iniziò la lotta contro la Campania romana facendo delle scorrerie nel territorio falerno e in quello di Capua.

Affinché questi moti iniziati a Paleopoli non si estendessero alle altre città campane, Roma fu dell'avviso di prendere seri provvedimenti e allestì due eserciti, di cui uno, al comando del console CORNELIO LENTULO, fu inviato a Capua per contrastare una probabile minaccia sannitica, l'altro, capitanato dal console PUBLILIO FILONE, fu inviato contro Paleopoli, la quale, nel frattempo aveva ricevuto l'aiuto di quattromila Sanniti e duemila Nolani.
PUBLILIO FILONE si accampò tra Neapolis e Paleopoli e iniziò le operazioni d'assedio. Questo però non fu impresa facile e breve, e Paleopoli resisteva ancora quando scaduto il termine del consolato (428 A. di R. - 326 a.C.), allo scopo di non interrompere la continuità del comando, a Roma fu dai comizi lasciato in carica PUBLILIO con il titolo di proconsole per tutta la durata della guerra.
Il Sannio intanto si preparava alla guerra; da una parte cercava di far sollevare Formia, Fondi e Priverno, dall'altra mobilitava l'esercito e richiedeva aiuti agli altri popoli di stirpe sabellica, i quali però rimasero neutrali, eccettuati i Vestini.

Venuta a conoscenza di questi preparativi, Roma inviò ambasciatori nel Sannio per chiedere spiegazioni; ma i Sanniti risposero lagnandosi del contegno ostile della repubblica romana che aveva non molto tempo prima riedificata Fregelle, dal Sannio tolta ai Volsci e disfatta, e non contenta vi aveva inviato una numerosa colonia con degli scopi non proprio chiari.
Inoltre i Sanniti fecero sapere che, se i Romani non avessero abbandonata Fregelle, essi avrebbero fatto ogni sforzo per riaverla; e, poiché gli ambasciatori proponevano di mettere "questa vertenza" al giudizio di amici comuni, i Sanniti aggiunsero con arroganza: "Nessuno deve essere giudice delle nostre liti; e nella piano tra Capua e Suessula, dove ci incontreremo, le nostre armi risolveranno "questa vertenza".

Fu pertanto dichiarata guerra al Sannio. I Lucani e gli Apuli si schierarono in favore dei Romani e l'anno successivo, nel 429 (325 a.C.) prima ancora che i Sanniti fossero pronti a scendere in campo, tre città della loro regione, Alife, Calife e Rufrio invase caddero in mano dei Romani.
Quel medesimo anno anche Paleopoli cadde in potere dell'esercito romano. Stanchi del lungo assedio e non volendo sopportare oltre la prepotenza dei Nolani e dei Sanniti loro alleati, gli abitanti di Paleopoli decisero di consegnar la città al nemico.
Due dei principali cittadini, CARILAO e NINFIO, furono gli autori del tradimento. Il primo, recatosi dal proconsole romano, promettendo la conquista della città gli fu affidato un contingente di tremila fanti; il secondo, riuscito a persuadere LUCIO QUINZIO, capo dei Sanniti, di voler fare un'incursione verso Roma, si allontanò di notte dalla città con la maggior parte della guarnigione, lasciando così la città con poche difese.
In questo modo Carilao riuscì a penetrare con i Romani dentro le mura e offrire la città occupata al proconsole Filone.

Ottenuti questi successi nel Sannio e a Neapolis, ed essendo gli amici Lucani passati ai Sanniti, Roma decise di intensificare la guerra e, affinché i Vestini non potessero congiungersi con i Sanniti, diresse all'inizio del 430 (324 a.C.) contro quelli, il console GIUNIO BRUTO e contro questi, il console LUCIO FURIO CAMILLO.

Bruto invase il territorio dei Vestini saccheggiandolo e, sbaragliato il nemico, lo costrinse a rifugiarsi dentro le loro città murate, delle quali due furono in poco tempo costrette alla resa: Cutica, Cingilia.
L'altro esercito, essendosi ammalato Camillo, passò sotto il comando del dittatore LUCIO PAPIRIO CURSORE, valentissimo capitano, che scelse come maestro della cavalleria QUINTO FABIO RUTILIANO.
Trovandosi quest'esercito nel Sannio, il Dittatore dovette recarsi a Roma per ricevere gli auspici e, partendo, ordinò a Fabio di non scendere a battaglia con il nemico durante la sua assenza.
FABIO però, appreso che i Sanniti non si adoperavano molto a fare buona guardia, non seppe resistere al desiderio di sorprendere e vincere i nemici, e, dimenticati gli ordini ricevuti, li assalì ad Imbrinio e li sconfisse in una battaglia cruentissima. Secondo gli storici, circa ventimila Sanniti caddero in quella loro drammatica giornata.
Anziché ricevere il premio della vittoria, Fabio scampò a stento, grazie all'aiuto dei soldati, all'ira di Papirio, che voleva punirlo esemplarmente per aver trasgredito l'ordine, e lui si rifugiò a Roma, dove le preghiere del Senato e del vecchio padre di Fabio riuscirono a chiedere il perdono per il vincitore d'Imbrinio.

PAPIRIO CURSORE, ritornato al campo, riprese le operazioni nel corso del 431 (323 a.C.) contro i Sanniti; ma i suoi soldati non erano più quelli di prima; la sua intransigenza in fatto di disciplina aveva da lui alienato le simpatie delle truppe e queste avrebbero con il loro contegno compromesse le sorti della guerra se Papirio Cursore non avesse, con molta abilità, riacquistato la loro amicizia e allontanato il rancore.
Le legioni romane tornarono a battersi volentieri e, in una battaglia campale, inflissero al nemico una terribile disfatta; poi corsero in lungo e in largo il Sannio saccheggiandolo per ottenere il più possibile bottino di guerra.
Battuti, stanchi, invasi dalle scorrerie, e privi d'aiuti, i Sanniti chiesero la pace, ma avrebbero dovuto totalmente assoggettarsi, perché i romani l'avrebbero concessa ma senza alcuna condizione; così ottennero dai Romani solo la tregua per un anno e furono messi sotto osservazione.

DISFATTA E SUICIDIO DI BRUTOLO PAPIO IL CAPO SANNITA

La tregua dai Sanniti non fu rispettata. Non era ancora finito l'anno di tregua, quando nel corso dell'anno 432 (322 a.C.) sotto il consolato di QUINTO FABIO E LUCIO FULVIO, fu riportato a Roma che il Sannio riprendeva le armi e alcune milizie dei vicini popoli erano state assoldate per organizzare un grande esercito.
Fu creato allora il dittatore AULO CORNELIO COSSO e maestro della cavalleria MARCO FABIO AMBUSTO e fu allestito un fortissimo esercito.
Le legioni romane, entrate nel Sannio, poiché il paese sembrava tranquillo, si accamparono in una zona non molto felice, e inoltre trascurando di costruirsi consistenti opere di difesa. Nel tardo pomeriggio, poco distante, comparve improvvisamente un numeroso esercito sannitico.
Fortunatamente per l'approssimarsi della sera, il nemico non molestò i Romani; ma senza dubbio il giorno dopo la battaglia non sarebbe mancata e, siccome il dittatore pensava che lo svantaggio del luogo avrebbe potuto influire sul valore dei propri soldati, ritenne opportuno approfittare delle tenebre per allontanarsi con tutto l'esercito e condurlo in una posizione migliore.
Calata la notte, CORNELIO per ingannare il nemico, fece accendere numerosi fuochi, ma intanto levava il campo, e un reparto dopo l'altro senza far rumore lo mise in marcia verso la nuova postazione.
Si accorse però della mossa del dittatore un reparto della cavalleria nemica, che subito si mise sulle tracce dell'esercito in ritirata; ma non lo molestò per tutta la durata della notte, ma alla prime luci dell'alba, cominciò a dare noia alla retroguardia, cercando di ritardare la marcia dei Romani e così dare tempo alla fanteria sannitica di intervenire. Giunta questa e facendosi più minacciosi i nemici e più difficile la ritirata CORNELIO a quel punto decise di fermarsi, per potersi meglio organizzare a fronteggiare i Sanniti, e fornì le istruzioni di come schierarsi nell'imminente battaglia.

Il combattimento non tardò ad essere ingaggiato. Imbaldanziti per la ritirata delle schiere romane che i Sanniti credevano una fuga, si battevano furiosamente sperando di sconfiggere questa volta le odiate milizie di Roma. Queste, dal canto loro, non combattevano con minore accanimento, desiderose com'erano di salvar la vita e l'onore delle armi.
Gli opposti eserciti essendo di pari forza e animati dallo stesso desiderio di far soccombere l'avversario, la battaglia durò quasi fino a sera; e forse la giornata sarebbe finita senza un vincitore, se l'impazienza delle turbe sannitiche non riuscirono a resistere nell'attaccare - prima che piombasse la notte- i carriaggi romani che si trovavano poco distanti dal campo e senza guardia. Avevano il timore che durante la notte i Romani togliessero il campo con una ritirata -come nella precedente- senza poterlo depredare. Ci si avventò la cavalleria; ma anche la fanteria temendo anch'essa di restare senza bottino era sul punto di sfasciarsi.
Il dittatore lasciò fare e quando fu ben sicuro che i cavalieri nemici erano intenti al saccheggio, mandò proprio là la propria cavalleria guidata da MARCO FABIO, la quale in un lampo piombò addosso ai predatori appiedati trasformando il campo dei cariaggi in un macello.
MARCO FABIO non si accontentò di distruggere la cavalleria avversaria. Fatta la strage, con mossa repentina compiendo un lungo giro, con tutte le forze a disposizione e con lo stesso impeto attaccò l'esercito nemico alle spalle informando subito il dittatore quali erano le sue intenzioni.

La battaglia, che poco prima languiva, riarse furiosa; la fanteria romana, rianimata dalle grida dei cavalieri che spingevano alle spalle i Sanniti verso di loro, assalì con furore le prime schiere nemiche, poi cadendo queste, quelle successive, le quali, prese di fronte e alle spalle, non potendo andare né contro la morte, né da questa farsi inseguire, sparpagliandosi ognuno cercò di sgusciare ai lati cercando poi la salvezza nella fuga.
Ma non molti furono quelli che scamparono: la maggior parte ormai intrappolata cadde sul campo; inutile fu l'eroica resistenza; se alcuni scampavano da quelli che avevano davanti, la cavalleria che sopraggiungeva da dietro li faceva a pezzi.

Scendeva la sera quando la battaglia cessò. Fu così grande il numero dei morti, dei feriti e dei prigionieri Sanniti che tutto il Sannio insorse contro i capi, che avevano innanzitutto rotto la tregua, che erano i responsabili della guerra perché incapaci di farla, e quindi gli "irresponsabili" di quella disfatta e di quell'ecatombe di soldati portati al macello.
Non potendo sopportare il peso di questa vergogna e le accuse della pubblica opinione, il capo sannita BRUTOLO PAPIO si uccise e il suo corpo dagli stessi cittadini Sanniti fu consegnato ai Romani. Un gesto che voleva dire: costui è il responsabile, noi desideriamo la concordia e la pace.
Ma la pace come l'anno precedente fu superbamente rifiutata da Roma.

I ROMANI ALLE FORCHE CAUDINE

Se i Romani si fossero mostrati, anche l'anno prima, meno esigenti e non avessero pretesa dai Sanniti una resa senza condizioni che equivaleva alla completa perdita dell'indipendenza, forse avrebbero avuto con il Sannio già da allora una pace duratura. Ma non pensavano i Romani ad una pace, né allora né ora dopo questa seconda disfatta; sapevano anzi che una lunga pace avrebbe giovato più al Sannio che a Roma; non volevano vivere in buoni rapporti con i loro vicini, ma solo soggiogarli.

Di questo n'erano coscienti anche i Sanniti. Amareggiati più che dalla disfatta patita, dai propositi di Roma, i Sanniti ritrovarono l'innata fierezza e stabilirono di difendere fino all'ultimo l'indipendenza della loro nazione; gli stessi che avevano consegnato ai Romani il corpo di Brutolo Papio ed avevano insistito per la pace furono i primi a bruciare di sdegno per la pace superbamente rifiutata dal nemico e a sollevare il paese incitandolo ad una nuova guerra.
Fu proclamato capo supremo delle forze sannitiche GIOVIO PONZIO TELESINO, famoso guerriero ed accorto capitano, figlio di Erennio venerato da tutti per il suo valore ma anche per la sua prudenza.
Di PONZIO si narra che, vedendo tornare gli ambasciatori senza avere ottenuto la pace, esclamasse: "La guerra, o Sanniti, è giusta per coloro ai quali è necessaria; le armi sono pie e religiose solo a coloro cui non rimane speranza di salvezza altrove che nelle armi".

E le armi furono prese e tutta la gioventù sannita accorse sotto le bandiere.
Roma ovviamente non perse tempo e, armato un poderoso esercito, lo inviò sotto il comando dei consoli TITO VETURIO CALVINO e SPURIO ALBINO POSTUMIO a Calazia in Campania per sorvegliare le mosse degli avversari.
Qui ai consoli giunse la notizia che Luceria, nell'Apulia, amica ed alleata, era assediata dai Sanniti e correva pericolo di cadere nelle loro mani.
La notizia era stata divulgata ad arte da GIOVIO PONZIO, il quale sperava di attirare con questo stratagemma i Romani nella trappola che lui aveva concepito.
E vi riuscì pienamente. I consoli furono dell'avviso che Luceria non la si doveva abbandonare al nemico ma bisognava immediatamente soccorrerla.
Quindi, levati in fretta gli alloggiamenti, si misero in marcia verso la fortezza assediata. Due strade portavano a questa città, una sicura ma piuttosto lunga, l'altra molto più breve ma attraverso il Sannio. Quest'ultima però, prima di sboccare a Caudio, passava, presso i villaggi di Arpaia e Montesarchio, per una valle acquitrinosa, stretta e dominata da rocce scoscese, aperta solo alle due estremità da due gole strettissime.
I consoli scelsero questa strada, allo scopo di giungere a tempo utile a Luceria, e imprudentemente condussero dentro l'insidiosa valle l'intero esercito; all'entrata superata la prima gola, percorsero interamente la valle, ma quando giunsero all'uscita e videro la stretta gola ostruita da enormi tronchi d'alberi e da grossi macigni si accorsero troppo tardi di essere caduti in una trappola infernale.
I monti circostanti brulicavano di nemici. Si ripeteva la critica situazione in cui anni prima, combattendo contro gli stessi nemici, si erano trovate le truppe romane a Saticola. Ma questa volta non c'era un Decio Mure che salvasse i soldati dal tranello in cui erano cascati.

Per ordine dei consoli l'esercito rifece il cammino della valle in senso inverso, sperando di poter uscire dall'altra gola per la quale era entrato; ma questa era fortemente custodita dal nemico, che sbarrava il passo più minaccioso dei tronchi e dei massi perché questo aveva le armi in mano.
Non c'era altra via di scampo che quella di aprirsi un varco a viva forza attraverso le schiere sannitiche. E questo fu fatto con una decisa volontà di riuscirci.
Le legioni romane si lanciarono disperatamente addosso al nemico che sbarrava la gola, ma la strettezza del passo rendeva impossibile ogni manovra e la posizione dei nemici che dominavano tutte le posizioni migliori rendeva vano ogni sforzo.
Abbandonata l'idea di aprirsi la via con le armi, le legioni cominciarono a fortificare la valle in cui si trovavano scavando fossati e costruendo steccati: questi lavori erano del tutto inutili, perché il nemico non aveva nessuna intenzione di assalirli, volevano costringerli all'umiliante resa senza colpo ferire. Da quella poi cosiddetta "forca", non c'era per i romani scampo, i nemici anche senza agire, sarebbero periti tutti per fame.

Tuttavia i Sanniti, stupiti di avere ottenuto a così buon mercato quel clamoroso successo, non sapevano quale decisione prendere. Lo stesso GIOVIO PONZIO, che aveva concepito quella trappola infernale, indeciso sul partito da seguire, mandò a chiedere consiglio a suo padre ERENNIO; il vecchio giunse al campo e consigliò al figlio che per la sorte dei Romani c'erano solo due soluzioni: o ucciderli tutti o lasciarli tutti liberi.
Nel primo caso la pace sarebbe stata assicurata per parecchi anni pur con l'odio degli umiliati Romani; nel secondo per gratitudine si sarebbe ottenuta una perpetua amicizia con un popolo potentissimo.

A PONZIO non piacquero i consigli del padre e quando giunsero a lui i trafelati ambasciatori romani a proporgli una pace ragionevole o, se questa non era accettata, battaglia in campo aperto, lui rispose che considerava la guerra finita e dettò le seguenti singolari condizioni di pace: consegna delle armi e dei bagagli; il passaggio di ogni uomo delle legioni sotto il giogo predisposto, indossando ciascun soldato un'umile veste simile a quella degli schiavi; sgombero da parte dei Romani dei territori sanniti occupati e di tutte le colonie.

Gli ambasciatori tornarono alla base e quando riferirono le condizioni di pace, una grande commozione e indignazione invase gli animi; si videro le guance di molti legionari solcate da lagrime e dalle bocche dalle quali erano tante volto uscite grida di trionfo uscirono singhiozzi e lamenti.
Moltissimi urlarono che fossero rifiutati i patti, che si corresse alle armi e si cercasse ancora di salvar la vita e l'onore combattendo, che era meglio morire tutti piuttosto di accettare condizioni che disonoravano il nome di Roma in perpetuo.
Ma LUCIO LENTULO, capo dell'ambasceria, disse: "Ma che utile recheremo alla patria nostra con il nostro sacrificio? In noi c'è tutta la speranza, la riverenza e la potenza nostra. Se noi salviamo tutto questo salviamo e conserviamo la patria; se perdiamo questo esercito e lo lasciamo fare a pezzi noi tradiamo e roviniamo la patria nostra. Cosa sozza e vile è il darsi al nemico, ma la carità verso la patria deve essere tale da indurre a salvarla, quando sia necessario tanto con la morte quanto con la vergogna. Si sopporti dunque quest'onta, pur essendo così grande, e si ubbidisca alla necessità, che neanche gli dèi possono superare. Andate, o consoli, e ricomperate con il ferro quella città che i nostri padri dai Galli ricomperarono con l'oro".

I consoli andarono e firmarono la vergognosa pace (il cosiddetto "trattato caudino") e si obbligarono di osservarla oltre i consoli, i prefetti, i legati, i questori ed i tribuni dei soldati.
Giunto il momento di eseguire i patti della resa, furono consegnati in ostaggio seicento cavalieri, i quali, sotto buona scorta furono poi condotti dai Sanniti a Luceria; i soldati senza le armi uscirono dagli alloggiamenti; furono tolti i fasci littori, i gradi e gli ormanenti ai consoli, indi, in testa i comandanti supremi dell'esercito seguiti dagli ufficiali e dietro i soldati; tutti mezzo nudi e con gli occhi bassi per la vergogna, furono fatti passare due a due sotto il giogo, al cospetto dei nemici che li schernivano e li insultavano minacciandoli. I pochi che osarono alzare lo sguardo verso i Sanniti furono da questi feriti, alcuni mortalmente.
Quando la vergognosa cerimonia ebbe termine, i vinti furono lasciati liberi e presero la via del ritorno. A Capua furono accolti amichevolmente con tanta pietà e furono accompagnati fino alle frontiere da molti giovani nobili della città.

IL SENATO RIFIUTA DI RATIFICARE LA PACE CAUDINA

A Roma quando giunse la notizia, della pace ottenuta a quelle condizioni e con quella messa in scena umiliante, l'indignazione fu impressionante; la città piombò nel lutto. Ritornati da Capua, i consoli si dimisero dalla carica e prima fu creato dittatore QUINTO FABIO AMBUSTO, poi MARCO EMILIO PAPO, ma entrambi non riuscirono ad assicurare un regolare svolgimento dei comizi; seguirono due interregni, il secondo, di VALERIO CORVO procedette poi alla nomina d'ufficio e la creazione dei nuovi consoli per l'anno successivo, il 320 a.C.

Riuscirono eletti QUINTO PUBLILIO FILONE e LUCIO PAPIRIO CURSORE. Questi, il giorno stesso in cui entrarono in carica, riunirono il Senato e sottoposero all'approvazione il "trattato caudino".
Prima che il Senato si pronunciasse si levò a parlare SPURIO POSTUMIO, il vinto console reduce della disfatta, il quale, accusandosi colpevole di quella pace, affermò che non doveva essere ratificata perché stipulata senza il consenso del popolo romano e propose anzi che fosse mandato insieme con il suo collega a Caudio per essere consegnato ai Sanniti.
Accettò il Senato la proposta di Postumio e ne ammirò lo spirito di sacrificio. Roma respirò liberamente vedendo la possibilità di lavar l'onta inflitta al suo esercito e, dimenticando l'ignominia di cui si era ricoperto Postumio, accettando le condizioni della resa, ora rivolse allo stesso la sua infinita ammirazione per ciò che aveva detto e proposto.
Fu tanto l'entusiasmo dei cittadini che un grandissimo numero corse volontariamente ad arruolarsi e fu presto formato un poderoso esercito questa volta solo di accompagnatori, che subito si mise in marcia verso Caudio.

Giunti alle porte della città nemica, - secondo quanto narra LIVIO, i due consoli furono spogliati e legati e siccome il littore, per rispetto, non aveva stretto con forza le funi intorno a Postumio, è fama che questi gli dicesse: "Perché non stringi fortemente i legami affinché la consegna sia piena e giusta?".
Condotti i due consoli al cospetto di GIOVIO PONZIO TELESINO, questi non volle accettarli, dicendo che non loro due ma la repubblica romana, in nome della quale i Sanniti avevano stipulato i patti, doveva mantenere fede a questi, e aggiungendo che se Roma non voleva ratificare la pace allora dovevano essere riconsegnati non i soli i due consoli ma tutto l'esercito, chiuso nella valle di Caudio che lui aveva fatto tornare libero a Roma.
E liberi lasciò andare i due consoli rimandandoli indietro; erano i primi mesi dell'anno 434 di Roma (320 a.C.)

LA LIBERAZIONE DI LUCERIA

Pochi mesi dopo il rifiuto del Senato di ratificare la "Pace Caudina", ricominciò la guerra.
Nel frattempo Satrico si era arresa ai Sanniti e anche Luceria e Ferentino erano cadute in potere del nemico. La colonia di Fregelle, assalita di notte, si difese accanitamente, ma alla fine pure questa si arrese ai Sanniti che massacrarono buona parte gli abitanti della colonia.
Ovviamente pure Roma riprese la guerra e i due consoli romani decisero di cominciare le operazioni liberando Luceria in cui si trovavano chiusi i seicento cavalieri presi dai Sanniti come ostaggi alla stipula della pace.
Con le numerose legioni arruolate furono formati due eserciti; uno, sotto il comando di PAPIRIO CURSORE, attraverso la regione sabina e lungo la costa adriatica, marciò verso Luceria; l'altro, comandato dal collega QUINTO PUBLILIO, puntò verso la medesima mèta per la via del Sannio.
Questo secondo esercito, incontrato il nemico, lo attaccò selvaggiamente con tutto l'odio che i soldati e gli ufficiali avevano in corpo, lo sbaragliò e lo mise in fuga, poi, occupati i loro alloggiamenti dopo averli distrutti con altrettanta rabbia, continuò la marcia verso Luceria, dove si congiunse con l'esercito comandato dal suo collega Papirio Cursore e misero sotto assedio la città da un lato.
Nei primi giorni questo assedio di Luceria non diede che scarsi risultati, poiché dal Sannio e dall'Apulia la città era rifornita. Perciò fu stabilito di togliere le comunicazioni che univano Luceria con i paesi da cui provenivano i rifornimenti. A tale scopo Papirio rimase attorno alla città mentre Publilio Filone con le sue truppe si portò nel territorio circostante allo scopo d'impedire che agli assediati giungessero viveri.

L'effetto non tardò a farsi sentire. Altri Sanniti che si erano raccolti poco lontano intorno a Luceria, vedendo che non potevano più portare soccorso agli assediati, decisero di rompere l'assedio con la viva forza.
Ma la vittoria non arrise i Sanniti. Avidi di vendetta i Romani assaltarono con impeto irresistibile i Sanniti nell'aperta campagna e li sbaragliarono; essendosi questi rifugiati nel campo trincerato, anche qui li assalirono e, penetrati dentro le difese, uccidevano chiunque incontrassero, armato o disarmato, e nessuno dei nemici sarebbe rimasto vivo se Papirio non avesse fatto suonare a raccolta e fatta cessare la strage temendo per la vita degli ostaggi che erano rinchiusi nella stessa Luceria.

Dopo questa vittoria, il console Publilio cominciò a scorrere 1'Apulia, sottomettendo con la forza non poche città, e alcune ingraziandosele amicandosele. Papirio rimase invece ad assediare Luceria, la quale, sconfortata dalla disfatta recente dei Sanniti e priva di mezzi di sussistenza, non tardò a capitolare. Con i vinti i Romani usarono la legge del taglione, GIOVIO PONZIO con i suoi settemila soldati fatti prigionieri li fecero passare sotto il giogo.
L'onta delle Forche Caudine era lavata. Immenso fu il bottino fatto nella città conquistata, dove dopo aver liberati i seicento cavalieri fu messa come guarnigione mezza legione di soldati romani.

DISTRUZIONE DI SATRICO E TREGUA COL SANNIO

L'anno seguente (435 A.di R - 319 a.C.) PAPIRIO CURSORE fu rieletto console ed ebbe come collega QUINTO AULIO. Questi si mosse con un esercito contro i Ferentani, li ruppe in battaglia e costrinse la città ad arrendersi consegnando ostaggi.
Mentre Papirio con un altro esercito marciò su Satrico, la quale, benché godesse della cittadinanza romana, dopo la disfatta di Caudio si era ribellata a Roma ed aveva accolto dentro le sue mura una guarnigione sannitica.
All'avvicinarsi dell'esercito romano, Satrico inviò al console un'ambasceria chiedendo la pace, ma Papirio rispose che l'avrebbe concessa solo se uccidevano o consegnavano nelle sue mani il presidio dei Sanniti. Avendo gli ambasciatori obbiettato che non era possibile ai cittadini catturare o uccidere una forte e numerosa guarnigione, è fama che il console rispose: "Andate a chiedere come lo si può fare a coloro che hanno consigliato di ricevere nella città quel presidio".

Atterrito più da questa risposta che dalla presenza delle legioni romane il Senato di Satrico si riunì per deliberare; dovendo durante la notte il presidio dei Sanniti eseguire una scorreria fuori Satrico, propose a quei Senatori che avevano caldeggiato la ribellione, di avvisare i Romani per riscattarsi.
Nella notte le schiere sannitiche uscite dalla città caddero in un agguato loro teso dai Romani e furono fatte a pezzi; nello stesso momento il grosso dell'esercito, penetrando dentro Satrico, se ne impadroniva. Vogliono alcuni che Papirio Cursore, condannati alla fustigazione e alla decapitazione i cittadini colpevoli di ribellione e sottratte le armi a tutti gli abitanti mise poi a Satrico una fortissima guardia; mentre altri narrano che la città fu rasa al suolo e gli abitanti deportati.

Le vittorie dai Romani riportate e le severe punizioni inflitte produssero grande impressione presso i popoli vicini, specie negli Apuli che chiesero ed ottennero pace riconoscendo la signoria di Roma su quasi tutta la regione. Le città invece che tentarono di resistere furono costrette alla resa a viva forza e fra queste Nerulo in Lucania e Ferento.

Quanto al Sannio, la stanchezza, le vittorie romane e le sottomissioni di tante città, lo consigliarono a domandare ancora una volta la pace. Non ottenne però -come le due volte precedenti- che una tregua di due anni (436 - 318 a.C.)), dalla quale erano esclusi i suoi alleati, che Roma uno per volta si proponeva di combattere e sottomettere allo scopo d'isolare i Sanniti e poterli poi facilmente soggiogare.

RIPRESA DELLA GUERRA SANNITICA

I Sanniti, non domi da tante sconfitte e da tante umiliazioni, anche se le avevano date, seguitano a sognare la riscossa. I due anni di tregua sono da utilmente impiegati per preparare una nuova guerra e a spingere con delle trame la Campania alla rivolta.
Le discordie tra l'aristocrazia e la democrazia campana offrono ai Sanniti l'occasione per fare il loro buon giuoco.
Terminati i due anni di tregua, scoppia, nel 439, la rivolta a Saticula; creato dittatore LUCIO EMILIO, questi marcia con l'esercito sulla città ribelle e pone il campo nelle sue vicinanze. Le operazioni d'assedio sono appena cominciate quando un forte esercito di Sanniti avanza; le legioni romane si trovano tra due nemici e ben presto Lucio si accorge che Saticula e il Sannio hanno preparato da lungo tempo il piano d'azione. Infatti, al giungere dell'esercito sannitico, gli assediati fanno una vigorosa sortita e contemporaneamente le truppe del Sannio attaccano.

L'esercito dittatoriale si trova in una posizione difficile, ma Lucio Emilio non è uomo da lasciarsi facilmente sopraffare. Presa posizione fulmineamente in una favorevole località fa fronte a tutte e due gli avversari, ma rivolge lo sforzo maggioro contro quelli della città e con vigorosi contrattacchi li costringe a ritornare con non poche perdite dentro le mura; sferrato l'attacco con tutti i soldati a disposizione contro i Sanniti, li attacca violentemente, li preme, li incalza e, infine, ciò che ottiene è quello di permettere ai nemici di rientrare nel loro accampamento.

L'azione combinata è dunque fallita, ma migliore sorte non hanno i Sanniti. Sopraggiunta la notte e spenti i fuochi, i Sanniti, disperando di poter difendere Saticula ed infliggere uno scacco ai Romani, si allontanano alla chetichella e vanno a cinger d'assedio Plistia, città amica di Roma.
La guerra riprese maggior vigore sotto la direzione del nuovo dittatore QUINTO FABIO, che, condotto a Saticula nuove forze, intensificò le operazioni d'assedio. Anche
i sanniti nel frattempo avevano ricevuto rinforzi e da Plistia erano tornati verso Saticula. Presso il campo romano si combatté una ferocissima battaglia tra la cavalleria nemica e quella di Roma comandata da QUINTO EMILIO.
I Sanniti furono dopo una gran mischia respinti, ma rimasero sul campo il capo dei cavalieri nemici ucciso da Quinto Emilio e lui stesso ammazzato dal fratello di quello.
Dopo questo sanguinoso fatto d'arme i Sanniti ritornarono a Plistia, l'assalirono e la , l'espugnarono pure. Poco tempo dopo Saticula si arrendeva ai Romani.

INSURREZIONE DI SORA E BATTAGLIA DI LAUTULE

Il tenace ed occulto lavorio dei Sanniti durante gli anni di tregua cominciava a dare i suoi frutti e la guerra si spostava da sud a nord.
Ecco giungere al dittatore la notizia che Sora, sull'alto Liri, uccisi gli abitanti romani, si è ribellata dandosi ai Sanniti. QUINTO FABIO non indugia nemmeno un attimo e da Saticula marcia su Sora. Lungo la via è informato che un esercito sannitico si trova a Lautule e verso questa località si dirige il dittatore per affrontarlo.
Ma pare che la sorte della battaglia non fu benigna ai Romani. LIVIO invece racconta che la notte divise i combattenti e che, essendo rimasto ucciso il maestro della cavalleria, ne fu inviato un altro da Roma e precisamente CAJO FABIO, che si portò dietro un altro grosso contingente di soldati. Il dittatore, che stava chiuso nel campo, quando seppe dell'arrivo dei soccorsi, uscì dagli alloggiamenti ed assalì il nemico, il quale combattuto dal vecchio e dal nuovo esercito romano, dopo una forte resistenza fu sbaragliato e gran parte di fu fatto a pezzi.
Così TITO LIVIO narra la battaglia di Lautule. "È da credersi - per testimonianza di altri storici e per gli avvenimenti che seguirono - che i Romani subissero uno scacco. Difatti il dittatore fu sostituito dai nuovi consoli MARCO PETILIO e CAJO SULPICIO che a verso sera condusse sul posto altre truppe.
La città fu presa con 1'inganno e grazie al tradimento di uno dei suoi abitanti, il quale, fatto allontanare di alcune miglia l'esercito consolare per far credere ai suoi concittadini che l'assedio fosse stato levato e messi alcuni drappelli presso una porta in agguato, durante la notte introdusse dieci soldati romani nella rocca, poi diede l'allarme. I cittadini, svegliati improvvisamente e saputo che la rocca era caduta in potere del nemico, si diede inerme e precipitosamente alla fuga, mentre i drappelli appostati penetravano in città compiendo una grande strage. All'alba il grosso dell'esercito Romano avanzava contro Sora e l'occupava definitivamente, stabilendovi un forte presidio (440 A. di R. - 314 a.C.).
Duecentoventicinque uomini che risultarono autori della insurrezione furono arrestati e condotti a Roma, e nel Foro, dopo di essere stati fustigati, furono decapitati".

INSURREZIONE DI AUSONIA, MINTURNA, VESTINA, LUCERIA E CAPUA

Che a Lautule la sorte non fosse favorevole ai Romani lo dimostra 1'insurrezione di varie città nei dintorni. Ausonia, Minturna e Vestina ribellatesi, avevano fornito aiuto ai Sanniti; Luceria, essendo stata tradita la guarnigione romana, si era data ai Sanniti e a Capua parecchi notabili avevano pure loro ordito delle (traditrici) congiure.
Levati gli eserciti da Sora, i consoli marciarono sopra Ausonia, Minturna e Vestina. Alcuni soldati camuffati con delle toghe, ma che nascondevano sotto quelle delle armi, riuscirono a penetrare nelle suddette città e, massacrate le guardie delle porte, aprirono il passo ai Romani, che, nello stesso giorno, si resero padroni di tre città facendovi strage degli abitanti.
Nel 441 anche Luceria fu espugnata e passati per le armi tutti i Sanniti che vi si trovavano e un gran numero di abitanti. A Capua invece fu mandato, allo scopo di esaminare la situazione e scoprire le file della congiura, il dittatore CAJO MENIO.

La guerra contro il Sannio però non era ancora terminata; tuttavia il piano dei Sanniti di trasportarla fuori della loro regione era fallito con la presa di Sora e, con la rivolta della Campania domata, le operazioni di guerra si erano ridotte nello stesso Sannio.

Pur non abbandonando la guerra, Roma trae profitto dal sopravvento che è riuscita ad ottenere sul nemico e prepara altre basi di operazioni per mezzo di colonie. Nel 440 ne manda una di 2.500 uomini a Luceria; due anni dopo una di 4.000 ad Interamnae (Terni); altre colonie stabilisce a Suessa Aurunca, all' isola di Ponza e a Saticola.
Sono le sue sentinelle avanzate nel cuore dei territori conquistati, sono il suggello delle sue conquiste e della sua potenza, sono nuclei di romanità in mezzo a popoli ancora d' incerta fede, sono infine fortezze che tuteleranno i nuovi domini e punti di appoggio alle legioni per le future immancabili conquiste.

Nel prossimo capitolo, le ultime azioni guerresche sul Sannio ed infine la pace:
Ma nel frattempo la guerra dei Romani si sposta a nord, verso i pochi Etruschi rimasti.

andiamo dunque nel periodo dall'anno 313 al 299 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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