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( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1600

 LETTERATURA  
del SECOLO XVI- XVII ( LA "NUOVA SCIENZA"
)

FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
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i tempi di G. Bruno e Campanella
" nuova scienza" - "nuova religione"

(secondo capitolo di cinque)

Abbiamo appena detto (nella precedente capitolo) che quello era il "naturalismo di Giordano Bruno", o piuttosto del secolo, ed era il naturale progresso dello spirito, che usciva dalle astrattezze scolastiche, o, come dice Bruno, "dalle credenze e dalle fantasie", e cercava la sua base nel concreto e nel finito era la prima voce della natura che scopriva se stessa e si proclamava di essenza divina, una e medesima che la divinità, "secondo che l'unità è distinta nella generata e generante, o producente e prodotta". Bruno nel suo entusiasmo per la natura divina dice che lo spirito eroico

"vede l'anfitrite, il fonte di tutti i numeri, di tutte specie, di tutti i raggioni, che è la monade, vera essenza dell'essere di tutti, e, se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perchè dalla monade, che è la divinitate, procede questa monade, che è la natura, l'universo, il mondo, dove [ella] si contempla e si specchia"
cioè dove s'intende ed è intelligibile.

Questa visione di Dio, privilegio dello spirito eroico, non ha nulla a fare col lume soprannaturale, con la fede, o la grazia, o l'estasi, o altro che dal di fuori piova nell'anima. Dio, fatto conoscibile nel mondo, diviene materia della cognizione, e l'anima effettua la sua unione con lui per un atto della sua energia, per intrinseca virtù. La visione è intellettiva, e il suo organo è la mente, dove Dio, o la Verità, si rivela, come "in propria e viva sede", a quelli che la cercano, "per forza del riformato intelletto e volontà", cioè per la scienza.
L'amore del divino, spinto sino al "furore eroico", lega Bruno co' mistici. Il naturalismo letterario era pretto materialismo, che si sciolse nella licenza e nel cinismo, e mise capo in ozio idillico snervante, peggiore dell'ozio ascetico. Il naturalismo di Bruno era al contrario non il divino materializzato, ma la materia divinizzata. La materia in se stessa è volgare bestialità; essa ha valore come divina. Il divino non è infuso o intrinseco, ma è insito e connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo della vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano e lo conquistano col lavoro della mente illuminata dall'amore eroico. Ciò distingue i vulgari da' nobili spiriti. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. "Molti rimirano, pochi vedono". Bruno parla spesso con tale unzione e con tale esaltazione mistica, che ti pare un Dante o un san Bonaventura.
Ma i mistici sono semplicemente contemplanti, dove per Bruno non è contemplazione nella quale non sia azione, e non è azione nella quale non sia contemplazione. La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è operare. Si vede l'uomo che esce dal convento ed entra nella vita militante.

Folengo esce dal convento, rinnegando Dio e sputando sul viso alla società. In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima espressione. Anche a Bruno abbonda la satira e l'ironia; anche in lui ci è un lato negativo e polemico, sviluppato con potenza e abbondanza d'immaginazione. Ma questo lato rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo è tutto positivo: è la restaurazione di Dio, e con esso del sentimento religioso e della coscienza. Ciò che Savonarola tentò con la fede e con l'entusiasmo, egli tenta con la scienza. Non accetta Dio come gli è dato, nè se ne rimette alla fede, perchè non è un credente. Dio vuole cercarlo e trovarlo lui, con la sua attività intellettuale, con l'occhio della mente. E questo Dio, da lui trovato, e di cui sente l'infinita presenza in se stesso e negl'infiniti mondi e in ciascun essere vivente, nel massimo e nel minimo, non rimane astratta verità nella sua intelligenza, ma scende nella coscienza e penetra tutto l'essere, intelletto, volontà, sentimento e amore.
Comincia scredente, finisce credente. Ma è un "credo" generato e formato nel suo spirito, non venutogli dal di fuori. Per questo "credo" non gli fu grave morire ancor giovane sul rogo, dicendo a' suoi giudici le celebri parole: "Maiori forsitan cum timore sententiam in me dicitis, quam ego accipiam". Sembra che il suo maggior peccato innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl'infiniti mondi, come traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: "Sic ustulatus misere periit, renunciaturus credo, in reliquis illis, quos finxit, mundis, quonam pacto homines blasphemi et impii a romanis tractari solent".
Insisto su questo carattere entusiastico e religioso di Bruno, o, com'egli dice, "eroico", che gli dà la figura di un santo della scienza. Quante volte l'umanità, stanca di aggirarsi nell'infinita varietà, sente il bisogno di risalire al tutto ed uno, all'assoluto, e cercarvi Dio, le si affaccia sull'ingresso del mondo moderno la statua colossale di Bruno.

Il suo supplizio passò così inosservato in Italia, che parecchi eruditi lo mettono in dubbio. Nè le opere sue vi lasciarono alcun vestigio. Si direbbe che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria. Anche in Europa il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle idee e delle dottrine era così violento, che il gran precursore fu avvolto e oscurato nel turbinìo. Come Dante, Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando dopo un lungo lavoro di analisi riappare la sintesi, Jacobi e Schelling sentirono la loro parentela col grande italiano, e riedificarono la sua statua.
In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scienza moderna, con le sue più spiccate tendenze, la libera investigazione, l'autonomia e la competenza della ragione, la visione del vero come prodotto dell'attività intellettuale, la proscrizione delle fantasie, delle credenze e delle astrazioni, un più intimo avvicinamento alla natura o al reale. Dico "tendenze", perchè nel fatto l'immaginazione e il sentimento soprabbondavano in lui, e gli tolsero quella calma armonica di contemplazione, senza la quale riesce difettiva la virtù organizzatrice, e quella pazienza di osservazione e di analisi, senza la quale le più belle speculazioni rimangono infeconde generalità.
Quanto alla sua sintesi, il Dio astratto ed estramondano fatto visibile e conoscibile nella infinita natura, l'unità e medesimezza di tutti gli esseri, l'eternità e l'infinità dell'universo nella perenne metempsicosi delle forme, il sentimento dell'anima o della vita universale, l'infinita perfettibilità delle forme nella loro trasformazione, la produttività della materia dal suo intrinseco, l'azione dinamica della natura nelle sue combinazioni, la libertà distinta dal libero arbitrio e rappresentata come la stessa effettuazione del divino o della legge, la moralità e la glorificazione del lavoro, sono concetti che, svolti lungamente e variamente da Bruno in opere latine e italiane, appaiono punti luminosi nella speculazione moderna, e ne trovi i vestigi in Cartesio, in Spinosa, in Leibnitz, e più tardi in Schelling, in Hegel e ne' presenti materialisti. Se dovessi con una sola formola caratterizzare il mondo di Bruno, lo chiamerei il "mondo moderno ancora in fermentazione".

Roma bruciava Bruno, Parigi bruciava Vanini.
I loro carnefici li dissero atei. Pure Dio non fu mai cosa sì seria, come nel loro petto.

- Andiamo a morir da filosofo - disse Vanini, avvicinandosi al rogo. Eran detti anche "novatori", titolo d'infamia, che è divenuto il titolo della loro gloria.
Nel 1599. Bruno era già nelle mani dell'Inquisizione, e Campanella nelle mani spagnuole. Nel primo anno del Seicento Bruno periva sul rogo, e Campanella aveva la tortura. Così finiva un secolo, così cominciava l'altro. "T"u, asinus, nescis vivere", dicevano a Campanella amici e nemici: "ne loquaris in nomine Dei". E lui prendeva ad insegna una campana, con entro l'epigrafe: "Non tacebo".
Anche Bruno diceva di sè: "Dormitantium animorum excubitor". La nuova scienza sorge come una nuova religione, accompagnata dalla fede e dal martirio. "Philosophus" diceva il Pomponazzi per esperienza propria "ab omnibus irridetur, et tamquam stultus et sacrilegus habetur; ab inquisitoribus prosequitur, fit spectaculum vulgi: haec igitur sunt lucra philosophorum, haec est eorum merces".

Pure questi uomini nuovi derisi, perseguitati, spettacolo del volgo, avevano una fede invitta nel trionfo delle loro dottrine. L'accademia cosentina di Telesio avea per impresa la luna crescente, col motto: "Donec totum impleat orbem". Bruno, perseguitato dal suo secolo, diceva: - La morte in un secolo fa vivo in tutti gli altri. - Campanella paragona il filosofo al Cristo, che il terzo giorno, spezzando la pietra, risorge. Il carattere era pari all'ingegno. Dietro al filosofo c' era l'uomo.
Telesio è detto da Bacone il "primo degli uomini nuovi". Ma la novità era già antica di un secolo, e Telesio che avea fatto i suoi studi a Padova, a Milano, a Roma, professato a Napoli, quando, stanco di lotte e di persecuzioni, deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza, vi portò il motto del pensiero italiano, la "filosofia naturale", fondata sull'esperienza e sull'osservazione. Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra' suoi concittadini e di aver fondata sotto nome di "accademia" una vera scuola filosofica. Come Machiavelli, così egli non segue altro che l'osservazione e la natura: "poichè la sapienza umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si presenta a' sensi, e ciò che può esser dedotto per analogia dalle percezioni sensibili". Sincero, modesto, d'ingegno non grande ma di grandissima giustezza di mente e di sano criterio, fu benemerito meno per le sue dottrine, che per il metodo ed il linguaggio. E in verità, la grande e utile novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio lo ha fatto Campanella in queste parole: "Telesius in scribendo stylum vere philosophicum solus servat, iuxta verum naturam sermones significantes condens, facitque hominem potius sapientem quam loquacem". L'obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile, "tiranno degl'ingegni", e metterlo in diretta comunicazione con la natura, rifarlo libero, ciò che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel suo famoso sonetto a Telesio:

Telesio, il telo della tua faretra
uccide de' sofisti in mezzo al campo
degl'ingegni il tiranno senza scampo:
libertà dolce alla verità impetra.

L'impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte mediocrità, tutto quel complesso di uomini e d'istituzioni che l'Aretino chiamava "la pedanteria", i "Polinnii" di Bruno spalleggiati da francescani, domenicani e gesuiti, e spesso l'ultimo argomento era il rogo, il carcere, l'esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa, ma a' principi venuti in sospetto di ogni novità nelle scuole: pure la fede di un rinnovamento era universale, e ""Renovabitur"" fu il motto del Montano, discepolo di Telesio, nel compendio che scrisse della sua dottrina. Si era fino allora pensato col capo d'altri: gli uomini volevano ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu così irresistibile, che la novità usciva anche da' segreti del convento. Fu là che si formò ne' forti studi libera e ribelle l'anima di Bruno. E là, in un piccolo convento di Calabria, si educava a libertà l'ingegno di Tommaso Campanella. Assai presto oltrepassò gli studi delle scuole, e, fatto maestro di sè, lesse avidamente e disordinatamente tutti quei libri che gli vennero alle mani.

Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo era Telesio, il gran novatore; il suo odio era Aristotile con tutto il suo seguito, e, come Bruno, preferiva gli antichi filosofi greci, massime Pitagora. Venuto in Cosenza, i suoi frati, che già conoscevano l'uomo, non vollero permettergli di udire, nè di veder Telesio: ciò che infiammò il desiderio e l'amore. Il giorno che Telesio morì, fu visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate, che dovea continuarlo. I cosentini, sentendolo nelle dispute, dicevano che in lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola telesiana o riformatrice, come era detta, gli fu tutta intorno, il Bombino, il Montano, il Gaieta, da lui celebrati insieme col maestro. Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta. Venuto a Napoli per la stampa dell'opera, attirò l'attenzione per il suo ardore nelle dispute, per l'agilità e la presenza dello spirito, per la franchezza delle opinioni, e per l'immenso sapere. E gl'invidiosi dicevano: - Come sa di lettere costui, che mai non le imparò? - E recavano a magia, a cabala, a scienza occulta ciò che era frutto di studi solitari. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli, onde il buon Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio, e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente, si strinse un legame tra Campanella e l'autore della "Magia naturale" e della "Fisionomia". Disputavano, leggevano, conferivano i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro "De sensu rerum", a cui successe l'altro: "De investigatione". Ivi si stabilisce per qual via si giunga a ragionare "col solo senso e colle cose che si conoscono pe' sensi": ciò che è il metodo sperimentale, base della filosofia naturale. Ci si vede l'influenza di Telesio, di Porta e di tutta la scuola riformatrice.

Porta potè esser tollerato a Napoli, perchè era non solo gentiluomo e assai riverito, ma uomo di spirito, e amabilissimo. Ma Campanella non sapea vivere, come dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo, e alla naturale, veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola. E venne in uggia a moltissimi, e anche ai suoi frati, che non gli potevano perdonare l'odio contro Aristotile. Come Bruno, lasciò il convento, e indi a non molto Napoli, e con in capo già una nuova metafisica tutta abbozzata, fu a Roma, poi a Firenze, dove il destino faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo, Campanella e Galilei.
Michelangelo moriva, e tre giorni prima, il 15 febbraio del 1564, nasceva in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli rise nel principio, levato maraviglioso grido di sè per le sue invenzioni della misura del tempo per mezzo del pendolo, del termometro, del compasso geometrico, del telescopio. Con questo potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche, che rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti, divinati da Bruno, acquistavano certezza, come ciò che si vede e si tocca. Il suo "Nunzio sidereo" appariva così meraviglioso, come il viaggio di Colombo. Le montuosità della luna, le fasi di Venere e di Marte, le macchie del sole, i satelliti di Giove erano tali scoperte a breve distanza, che spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne' romanzi e nelle oscenità letterarie.

La filosofia naturale vinceva oramai le ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava più d'ipotesi e di astratti ragionamenti. I fatti erano là, e parlavano più alto che i sillogismi de' teologi e degli scolastici. La "cosa effettuale" di Machiavelli, il lume naturale di Bruno, il metodo sperimentale di Telesio, la libertà dolce alla verità di Campanella avevano il loro riscontro nelle belle parole di Galileo: - "Ah viltà inaudita d'ingegni servili, farsi spontaneamente mancipio!" -. Il buon Simplicio, il pedante aristotelico, come Polinnio, risponde: - "Ma, quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia?" -. E Galileo replica pacatamente: - "...I ciechi solamente hanno bisogno di guida.. Ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta" -. Il lume soprannaturale, la scienza occulta, il mistero, il miracolo scompariva innanzi allo splendore di questo lume naturale dell'occhio e della mente: la magia, l'astrologia, l'alchimia, la cabala sembravano povere cose innanzi a' miracoli del telescopio. Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo. Sulle rovine delle scienze occulte sorgevano l'astronomia, la geografia, la geometria, la fisica, l'ottica, la meccanica, l'anatomia. E tutto questo era la filosofia naturale, il naturalismo. - "La filosofia - diceva Galileo - è scritta nel libro grandissimo della natura." - "E stupendamente" aggiungeva Campanella:

Il mondo è il libro, dove il Senno eterno
scrisse i propri concetti.

Campanella nacque il 1568, quattro anni dopo Galileo. Si videro a Firenze: Galileo già famoso, in grazia della Corte, professore, con un concetto dell'universo e della scienza chiaro, intero, ben circoscritto: Campanella, oscuro, conscio del suo ingegno, di concetti molti e arditi e smisurati, in aria di avventuriere che cerchi fortuna, più che di un savio tranquillo e riposato nella scienza. Cercò una cattedra. - Chi è costui? - E il Granduca chiese le informazioni al generale di San Domenico, il quale rispose: "Alquanto differente relazione tengo io del padre fra Tommaso Campanella di quella è stata fatta a Vostra Altezza... io farò prova del valore e sufficienza sua". Le raccomandazioni di Galileo non valsero contro l'ira domenicana. Campanella non riuscì, e la ragione è detta da Baccio Valori:

"Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la filosofia del Telesio, con colore che la pregiudichi alla teologia scolastica fondata in Aristotile da lui così riprovato, corre qualche risico conseguente [Tommaso Campanella] della medesima scuola, e per avventura il più terribile per eccellenza de' suoi concetti, che veramente sono e alti e nuovi."

Campanella aveva allora ventiquattro anni. L'indomabile giovane si vendicò, scrivendo una nuova difesa di Telesio. Aveva già scritto un trattato "De sphaera Aristarchi", dove sostiene l'opinione copernicana del moto della terra. Vagheggiava una scienza universale, col titolo "De universitate rerum", che diventò più tardi la sua "Philosophia realis." A lui dovea parere molto modesto Galileo, che lasciava da banda teologia e metafisica ed ogni costruzione universale, contento ad esplorar la natura ne' suoi particolari. E gli scriveva: "Invero non si può filosofare, senza un vero accertato sistema della costruzione de' mondi, quale da lei aspettiamo: e già tutte le cose sono poste in dubbio, tanto che non sapemo se il parlare è parlare". Domandava egli a Galileo una riforma dell'astronomia e della matematica sublime, una vera filosofia naturale. "Scriva pel primo" diceva "che questa filosofia è d'Italia, da Filolao e Timeo in parte, e che Copernico la rubò da' predetti e dal ferrarese suo maestro; perchè è gran vergogna che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche". Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il verisimile, e attenersi a ciò che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch'ei non volea "per alcun modo, con cento e più proposizioni apparenti delle cose naturali, screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole da lui ritrovate, e che sapeva per dimostrazione esser vere".

Stavano a fronte la saggezza fiorentina e l'immaginazione napoletana, o, per dir meglio, due culture, la cultura toscana, già chiusa in sè e matura, e veramente positiva, e la cultura meridionale, ancor giovane e speculativa, e in tutta l'impazienza e l'abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente Machiavelli; e in Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere, i trattati, i dialoghi di Galileo, vi trova subito l'impronta della coltura toscana nella sua maturità, uno stile tutto cosa e tutto pensiero, scevro di ogni pretensione e di ogni maniera, in quella forma diretta e propria, in che è l'ultima perfezione della prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilità, anzi tra' suoi baciamano penetra un'aria di dignità e di semplicità, che lo tiene alto su' suoi protettori. Non cerca eleganza, nè vezzi, severo e schietto, come uomo intento alla sostanza delle cose, e incurante di ogni lenocinio. Ma se causa le esagerazioni e gli artifici letterari, non ha la forza di rinnovare quella forma convenzionale, divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d'uso, frondoso e monotono, trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall'abitudine, pure eletta, castigata, perspicua, di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta, rozza, disuguale, senza fisonomia; ma ne' suoi balzi e nelle sue disuguaglianze, viva, mobile, nata dalle cose. Ivi ti par di avere innanzi un bel lago, anzi che acqua corrente; non una formazione organica e conforme al contenuto, ma una forma già fissata innanzi e riprodotta, spesso priva di movimenti interni, sola esteriorità: qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione, con elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno sembrano scritte oggi.

Ma saggezza fiorentina e immaginazione napoletana erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della natura era libro proibito, e chi lo leggeva era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia, a Padova, a Bologna, a Roma, co' suoi manoscritti appresso, e scrivendo sempre per sè e per altri, in verso e in prosa, in latino e in italiano, trattati, orazioni, discorsi, dispute. A Bologna gli furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva, rinnovava, con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma, torna a Napoli, e va a prender fiato a Stilo sua patria. Ivi sperava riposo; ma "accadde a me quello che dice Salomone: quando l'uomo avrà finito, allora comincerà; quando riposerà, sarà affaticato". Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione, fu come reo di maestà condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di un'accusa, se ne suscitava un'altra, perchè "gl'iniqui non cercavano il delitto, ma farmi comparir delinquente". - Come sai tu le lettere, se non le imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. - "Ma io - rispose il prigioniero - ho consumato più d'olio che voi di vino." - Lo si fece autore del libro "De tribus impostoribus, Mose, Christo et Mahumed", stampato trent'anni prima ch'ei nascesse. Fu detto che voleva fondar la repubblica con l'aiuto de' turchi, e che era un eretico, e aveva dottrina pericolosa, e non credeva a Dio. Invano scrisse "Della monarchia", e l'"Ateismo vinto", e la "Disputa antiluterana". Fu condannato da Roma e da Spagna, ribelle ed eretico, e tenuto in prigione ventisette anni, sottoposto alla tortura sette volte.

"Mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dell'eculeo mi lacerò le ossa..., e la terra bevve dieci libbre del mio sangue...: risanato dopo sei mesi, in una fossa fui seppellito, ove non è nè luce, nè aria, ma fetore e umidità e notte e freddo perpetuo. "

Dopo dodici anni di tali martìri fa questo triste inventario de' suoi mali:

Sei e sei anni che in pena dispenso
l'afflizion d'ogni senso,
le membra sette volte tormentate,
le bestemmie e le favole de' sciocchi,
il sol negato agli occhi,
i nervi stratti, l'ossa scontinuate,
le polpe lacerate,
i guai dove mi corco,
li ferri, il sangue sparso e il timor crudo
e il cibo poco e sporco.

Fra tanti tormenti scriveva, scriveva sempre, versi e prose.
I tempi si facevano più scuri. Copernico era uomo piissimo, chiuso ne' suoi studi matematici; era un matematico, non un filosofo, dicea Bruno, che di quel sistema avea saputo fare un così terribile uso col suo ingegno libero e speculativo. Il sistema era presentato come una pura ipotesi e spiegazione de' fenomeni celesti e naturali, e i filosofi avevano sempre cura di aggiungere: "salva la fede". Così il libro di Copernico, dedicato a Paolo terzo, fu tenuto innocuo per ottanta anni. Ma la sua dottrina si diffondeva celeremente, propugnata da Bruno, da Campanella, da Galileo e da Cartesio, che si preparava a farne una dimostrazione matematica. Il libro di Copernico parve allora cosa eretica, e fu condannato, essendo cosa più facile scomunicare che confutare. Cartesio pose a dormire la sua dimostrazione. Il povero Galileo, processato e torturato, dovette confessare che "Terra stat et in aeternum stabit", ancorchè la sua coscienza rispondesse: - Eppur si muove. - E la sua scrittura sulla mobilità della terra mandò al Granduca con queste parole, ritratto de' tempi:

"Perchè io so quanto convenga obbedire e credere alle determinazioni de' superiori, come quelli che sono scorti da più alte cognizioni, alle quali la bassezza del mio ingegno per se stesso non arriva, reputo questa presente scrittura che gli mando, come quella che è fondata sulla mobilità della terra, ovvero che è uno degli argomenti che io produceva in sostegno di essa mobilità, la reputo, dico, come una poesia, ovvero un sogno, e per tale la riceva l'Altezza Vostra."

Altrove la chiama una "chimera", un "capriccio matematico", e nasconde la verità, come fosse un delitto o una vergogna. Di quest'accusa e di questo processo giunse notizia a Tommaso Campanella, e fra' tormenti del carcere scrisse l'apologia di Galileo.
Galileo fu lasciato vivere solitario in Arcetri, già rifugio del Guicciardini, dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista e poi la vita. Morì nel 1642, l'anno stesso che nacque Newton. L'anno dopo Torricelli, suo allievo, trovava il barometro. Tre anni prima moriva Campanella in Francia dov'erasi rifuggito, e dove potè pubblicare la sua filosofia.
A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le sue scoperte ed osservazioni diedero un impulso straordinario alle scienze, e formarono attorno a lui una scuola di filosofi naturali, Castelli, Cavalieri, Torricelli, Borelli, Viviani, illustri non solo per valore scientifico, ma per bontà di scrivere. Veniva il mondo, di cui erano stati precursori incompresi e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero Bacone: Galileo ripigliava la bandiera con miglior fortuna. E l'Italia, maestra di Europa nelle lettere e nelle arti, aveva ancora il primato nelle scienze positive, o, come dicevasi, nella "filosofia naturale". Qui venivano ad imparare gli stranieri; qui Copernico imparava il moto della terra, e qui imparava Harvey la circolazione del sangue. Qui sorgeva l'accademia del Cimento, dove "provando e riprovando" si studiava la natura. Geografia, astronomia, anatomia, medicina, botanica, ottica, meccanica, geometria, algebra ebbero qui i loro primi cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare Francesco Redi, in cui fa la sua ultima comparsa il toscano, già finito e chiuso in sè, e Lorenzo Magalotti, di una limpidezza già vicina alla forma moderna.

Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno, è un naturalista, e crede che la filosofia non si possa fondare che su' fatti. Onde Galileo tirava questa conseguenza, che dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta scarsezza di fatti naturali, morali, sociali ed economici, in tante lacune delle scienze positive filosofare significava foggiarsi un mondo a modo degli antichi filosofi greci, con l'immaginazione divinatrice, ed avere per risultato l'ipotetico e il probabile, anzi che il certo e il vero. Questo, pensava Galileo, non è scienza. Pure è chiaro che una certa idea del mondo l'avevano anche i filosofi naturali, e che quel medesimo porre le fondamenta della scienza sull'osservazione, e tagliarne fuori le credenze e le fantasie, era già mettere in vista un mondo metafisico tutto nuovo, il naturalismo, la natura fatta centro di gravità dello scibile a spese del Dio astratto, o, per parlare secondo quei tempi, Dio fatto visibile e conoscibile nella natura, un Dio intimo e vivo. Questo era il significato stesso di quel movimento che tirava gli spiriti dalle astrazioni scolastiche alla investigazione de' fatti naturali; e Bruno e Campanella non fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica e fondarvi sopra tutta una filosofia.
Se necessario fu Galileo, non fu meno necessario Bruno e Campanella.

Un nuovo mondo si formava, una nuova filosofia era in vista all'orizzonte con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era quella sintesi poetica e provvisoria, preludio della scienza, il presentimento e la divinazione dell'ultima sintesi, risultato di una lunga analisi, e corona della scienza. Quella prima sintesi te la dànno Bruno e Campanella, appassionatissimi degli antichi filosofi greci, a cui rassomigliavano.
È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora più accentuata in Campanella che in Bruno. Trovi in lui scienze occulte e scienze positive, soprannaturale e naturale, medio evo e Rinascimento, tradizione e ribellione, assolutismo e libertà, cattolicismo e razionalismo, e mentre combatte, come Bruno, le credenze e le fantasie, nessuno più di lui dommatizza e fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale che hanno innanzi, mancando ancora quel lavoro di eliminazione e di analisi, senza il quale è impossibile la composizione. Hanno fede nell'ingegno, e si mettono all'opera con l'ardore di una speciale vocazione, si sentono attirati da una forza fatale verso quelle alte regioni, verso l'infinito o il divino, a rischio di perdervisi. Ciò che ispira a Bruno, o all'anonimo autore, questo sublime sonetto:

Poi che spiegate ho l'ali al bel desio
quanto più sott'il piè l'aria mi scorgo
più le veloci penne all'aria porgo,
e spregio il mondo e verso il ciel m'invio.

Nè del figliuol di Dedalo il fin rio
fa che giù pieghi, anzi via più risorgo:
ch'i' cadrò morto a terra, ben mi accorgo;
ma qual vita pareggia al viver mio?

La voce del mio cor per l'aria sento:
- Ove mi porti, temerario? China,
chè raro è senza duol troppo ardimento.

- Non temer - rispond'io - l'alta ruina:
fendi sicur le nubi, e muor' contento,
se il ciel si illustre morte ne destina.

Anche Campanella è poeta, e si sente la stessa vocazione. Si chiama "luce tra l'universale ignoranza", "fabbro di un mondo nuovo", "Prometeo che rapisce il fuoco sacro a Giove":

Con vanni in terra oppressi al ciel men' volo
in mesta carne d'animo giocondo;
e se talor m'abbassa il grave pondo,
l'ale pur m'alzan sopra il duro suolo.

Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo che si andava formando, e ci vedea in fondo, ultimo termine, una rediviva età dell'oro, l'attuazione del divino sulla terra, il regno di Dio, invocato nel "paternostro", quel mondo della pace e della giustizia appresso al quale sospirava Dante e molti nobili intelletti Bruno rimane nelle generalità metafisiche. Campanella abbraccia l'universo nelle sue più varie apparizioni, e ti delinea tutto quel mondo ideale, di cui spera l'effettuazione.
Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione tutti gl'indirizzi percorsi dalla moderna filosofia. Il punto di partenza è la coscienza di sè, "io, che penso, sono", divenuto la base del sistema cartesiano. Questa è la sola cognizione innata, occulta: tutto il resto è cognizione acquisita per mezzo de' sensi. Qui si sviluppa il sensismo di Telesio non solo come metodo, ma come contenuto. Tutte le cose sono animate; il mondo stesso è "animal grande e perfetto". In ciascuna cosa è la divina Trinità, i tre princìpi o "primalità", com'egli dice, potenza, sapienza e amore. Ciascuna cosa che è, può essere: ama il suo essere, e lo ama perchè lo conosce, ne ha una certa notizia. Perciò tutte le cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne. L'animale pensa come l'uomo; ha fino la facoltà dell'universale. Ci si vede in germe Locke e tutto il sensismo moderno. Ma ci è una facoltà propria dell'uomo, e negata all'animale, il sentimento religioso. Perciò, quando il corpo è formato, vi entra l'anima, che esce "fanciulla dalle mani di Dio", come dice Dante. L'anima è la facoltà del divino, o, come si direbbe oggi, dell'assoluto. Ella ti dà la contemplazione di Dio. Non è ragione o dialettica questa facoltà dell'assoluto, e nemmeno discorso o processo intellettivo (ciò che entra nella mente o visione di Bruno) ma è intuito, estasi, fede, un ponte fatto alla rivelazione e alla teologia, uno studio di conciliazione tra il medio evo e il mondo moderno. Qui vedi spuntare la moderna filosofia dell'assoluto nel suo doppio indirizzo, razionalista e neocattolico. Tutte le idee e tutti gl'indirizzi, che anche oggi agitano le coscienze, fermentano nel suo cervello.

Come Bruno, Campanella non ha il senso del reale e del naturale; e neppure ha il senso psicologico, ancorchè parli spesso di coscienza e di esperienza, e le faccia basi del suo filosofare. Aveva al contrario quella seconda vista propria degli uomini superiori, facoltà da lui non scrutata, non compresa e non disciplinata, ch'egli confonde con l'estasi e col puro intuito, e che lo gitta in braccio alla teologia, al soprannaturale e alle scienze occulte. Cerca una conciliazione tra' due uomini che pugnavano in lui, l'uomo di Telesio e l'uomo di san Tommaso, e vi logora le sue forze, senza riuscire ad altro che a mettere in maggior lume la contraddizione. Perciò il suo metodo rimane scolastico, cumulo di argomenti astratti, e la sua filosofia partendo da Telesio riesce a san Tommaso. Attendendo da Galileo la costruzione del mondo, provvisoriamente crede all'astrologia e alla magia, e oggi gli spiritisti e i magnetisti lo chiamano loro precursore.
Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto della volontà di Dio: atto conforme al disegno o all'idea del mondo preordinato nella sua mente, perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo, e per esso il papa che lo rappresenta in terra, e il cui braccio è l'imperatore. Qui siamo con san Tommaso nel più puro medio evo, ancora più indietro di Dante e di Machiavelli, perchè l'elemento laico è sottoposto all'ecclesiastico. E si concepisce come il nostro filosofo se la prenda fra tutti col Machiavelli, uomo "senz'alcuna specie di scienza e di filosofia, semplice storico o empirico", che voleva fare della religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non si accorge ch'egli è più Machiavelli del Machiavelli, perchè nessuno ha spinto così avanti l'annichilamento dell'individuo e l'onnipotenza dello Stato nella sua doppia forma, ecclesiastica e laica.

In quel tempo che la monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna e nella Francia col favore e l'appoggio del papato, egli era la voce dell'assolutismo europeo, e ci mettea una sola condizione: che quell'assolutismo fosse il potere esecutivo del papa, il braccio del papato. Hai il vecchio quadro del medio evo, con tinte ancora più decise. Egli dice a Filippo: - I re sieno tuoi sudditi, e la terra sia tua, a patto che tu sii veramente "il cattolico", primo suddito della Chiesa. - Questa è la carta di alleanza fra il trono e l'altare. L'Italia ha perduto l'imperio del mondo, nè ci si può più pensare, perchè il passato non torna più; ma l'Italia si consolerà, perchè ha nel suo seno il papato, e per esso dominerà ancora il mondo. Che cosa è l'individuo in questo sistema? Nulla. Egli ha doveri, non ha dritti. Non ha il dritto di scegliersi la sua donna, di crearsi la sua proprietà, di educare ed istruire la sua prole, di mangiare, di dormire, di vivere a suo gusto, di esaminare, discutere, accettare o rigettare: non può dire: - Questo è mio -; e non può dire: - No. - Il diritto è nella società, e per essa nel papa e nell'imperatore.

Hai per risultato il comunismo, l'assolutismo della società e l'ubbidienza passiva dell'individuo. Il comunismo è in fondo a tutte queste teorie di monarchia universale e assoluta, di dritto divino, e Campanella va sino in fondo. Il che sempre avviene quando l'unità è posta fuori dell'umanità in una volontà a lei estrinseca, e quando l'unità rimane astratta, e tiene non in sè, ma dirimpetto a sè il vario e il molteplice. In questa unità va a naufragare ogni particolare, l'individuo, la famiglia, la nazione. Or questa è la filosofia sua, questa è la sua "città del sole", la sua rediviva età dell'oro. Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perchè Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perchè la ragione governa il mondo. Dio è il Senno eterno; il sovrano dee essere anche lui il sapientissimo di tutti. Non è re chi regge, ma chi più sa. Il vero sovrano è la scienza. E l'obbiettivo della scienza è il progresso e il miglioramento dell'uomo.
Si maraviglia come si studi a migliorare la razza cavallina o bovina, e si lasci al caso e al capriccio individuale la razza umana.

Egli ha fede nel miglioramento non solo morale, ma fisico dell'uomo, per mezzo della scienza, applicata da un governo intelligente e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali, politici, etici, economici, che sono un primo schizzo di scienza sociale nelle sue varie diramazioni ancora confuse, guidato da una rettitudine e buon senso naturale, con uno sguardo delle cose non nella loro degenerazione, "come fecero Aristotile e Machiavelli", ma nella loro origine e purezza natia, "come fecero Platone e gli stoici". E balzan fuori idee, utopie, ipotesi, speranze, aforismi, che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo nuovo.
Con tante novità in capo, la società in mezzo a cui si trovava non gli dovea parere una bella cosa. Accetta le istituzioni, ma a patto che le si trasformino e diventino istrumento di rigenerazione. Vuole un papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna poco garbasse trar di prigione un così pericoloso alleato, un nuovo marchese di Posa.
Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque un elemento negativo, una critica della società, com'era costituita. Il suo punto di mira sono sofisti, ipocriti e tiranni, come contraffattori e falsificatori delle tre primalità, sapienza, amore e potenza, "di tre dive eminenze falsatori":

Io nacqui a debellar tre mali estremi,
tirannide, sofismi, ipocrisia...

che nel cieco amor proprio, figlio degno
d'ignoranza, radice e fomento hanno:
dunque a diveller l'ignoranza io vegno.

Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia del mondo, foggiata dall'amor proprio:

Credulo il proprio amor fe' l'uom pensare
non aver gli elementi nè le stelle
(benchè fusser di noi più forti e belle)
senso ed amor, ma sol per noi girare:

poi tutte genti barbare ed ignare,
fuor che la nostra, e Dio non mirar quelle:
poi il restringemmo a que' di nostre celle;
sè solo alfine ognun venne ad amare,

e per non travagliarsi il saper schiva;
poi visto il mondo a' suoi voti diverso,
nega la provvidenza, o che Dio viva.

Qui stima senno le astuzie: e perverso,
per dominar fa nuovi dèi, poi arriva
a predicarsi autor dell'universo.

Se tutt'i mali sono frutto dell'ignoranza, si comprende il suo entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il savio è invitto, perchè vince, anche se tu l'uccidi:

S'e' vive, perdi, e s'ei muore, esce un lampo
di deità dal corpo per te scisso,
che le tenebre tue non han più scampo.

I guai più spandono suo nome e gloria, e ucciso è adorato per santo; nè è sventura eh'ei sia nato di vil progenie e patria, perchè illustra egli le sue sorti. Più è calpesto, e più s'innalza:

E il fuoco più soffiato, più s'accende:
poi vola in alto e di stelle s'infiora.

La sua vita è antica quanto il mondo:

Ben seimila anni in tutto 'l mondo io vissi:
fede ne fan le istorie delle genti,
ch'io manifesto agli uomini presenti
co' libri filosofici ch'io scrissi.

Il mondo è un teatro, dove le anime mascherate de' corpi

di scena in scena van, di coro in coro,
si veston di letizia e di martoro,
dal comico fatal libro ordinate.

In questa commedia universale l'uomo spesso segue più il caso che la ragione:

chè gli empi spesso fur canonizzati,
gli santi uccisi, ed i peggior tra noi
principi finti contro i veri armati.

Principi veri sono i savi:

Neron fu re per sorte in apparenza,
Socrate per natura in veritate...

Non nasce l'uom con la corona in testa,
come il re delle bestie...

E se non fossero i savi, che sarebbe il mondo?

Se a' lupi i savi, che 'l mondo riprende,
fosser d'accordo, e' tutto bestia fòra.

La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:

In noi dal senno e dal valor riceve
esser la nobiltade, e frutta e cresce
col bene oprare...

Il savio è re, è nobile; il savio è libero. La plebe è serva per la sua ignoranza:

Il popolo è una bestia varia e grossa
che ignora le sue forze...

Tutto è suo, quanto sta fra cielo e terra:
ma nol conosce; e se qualche persona
di ciò l'avvisa, e' l'uccide ed atterra.

Quest'apoteosi della scienza è congiunta con un vivo sentimento del divino, anzi la scienza non è che il divino, il senno eterno, che comunica alla natura i suoi attributi o primalità, la potenza, la sapienza e la bontà, della quale segno esteriore è la bellezza. Tale era la natura nell'età dell'oro, e tale ritornerà:

Se fu nel mondo l'aurea età felice,
ben essere potrà più ch'una volta;
chè si ravviva ogni cosa sepolta,
tornando il giro ov'ebbe la radice...

Se in fatti di mio e tuo sia il mondo privo
nell'util, nel giocondo e nell'onesto,
cangiarsi in paradiso il veggo e scrivo;

e 'l cieco amore in occhiuto e modesto,
l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e 'n fratellanza l'imperio funesto.

Base dell'età dell'oro è la fratellanza e uguaglianza umana, l'amor comune sostituito all'amor proprio:

... chi all'amor del comun Padre ascende,
tutti gli uomini stima per fratelli,
e con Dio di lor beni gioia prende.
Buon Francesco, che i pesci anche e gli uccelli
"frati appelli"; oh beato chi ciò intende!

È ciò che direbbesi oggi "democrazia cristiana", un ritorno alla Chiesa primitiva di Lino e di Callisto, a' puri tempi evangelici, vagheggiati da Dante e da Campanella, quando si mangiava in carità, e non ci era ricco nè povero, non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose nella loro origine e non nella loro degenerazione, il sogno di Campanella è che il mondo "nel suo giro torni là ov'ebbe radice". Il progresso è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia l'età dell'oro, stato d'innocenza, alla quale contrappone la virtù. Innocenza è ignoranza, virtù è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata dal di fuori, ma prodotto della libera attività individuale. In questo sistema la libertà è sostanziale; l'ideale è il progresso per mezzo della libertà.
In questi due grandi italiani spuntano già le due vie dello spirito moderno, vedi il razionalista e il neocattolico. L'uno volge le spalle al passato, l'altro cerca di trasformarlo e farsene leva per il progresso
Attendendo l'età dell'oro, Campanella vede il mondo nella sua degenerazione, grazie a' tiranni, a' sofisti e agl'ipocriti. Tra' sofisti pone i poeti, seminatori di menzogne:

In superbia il valor, la santitate
passò in ipocrisia, le gentilezze
in cerimonie, e 'l senno in sottigliezze,
l'amor in zelo, e 'n liscio la beltate,

mercè vostra, poeti, che cantate
finti eroi, infami ardor, bugie e sciocchezze,
non le virtù, gli arcani e le grandezze
di Dio, come facea la prisca etate.

Altrove li rampogna che, in luogo di cantare Colombo e gli alti fatti moderni, stieno impaludati nelle favole antiche. Nè gli è caro che sciupino l'ingegno in argomenti futili. Bellezza è segno del bene: bella ogni cosa è dove serve e quando, e brutta dov'è inutile, o mal serve, e più s'annoia:

Il bianco, che del nero è ognor più bello,
più brutto è nel capello...
pur bello appar, se prudenza rassembra.
Belle in Socrate son le strane membra,
note d'ingegno nuovo; ma in Aglauro
sarian laide: e negli occhi il color giallo,
di morbo indicio, e brutto, è bel nell'auro,
ch'ivi dinota finezza, e non fallo.

Ci s'intravvede la nuova critica, che richiama gli spiriti dalle forme alle sostanze, dalle parole alle cose, dal di fuori al di dentro. Di che esempio è lui stesso, che scrive cose nuove e alte nel più assoluto disprezzo della forma. La sua poesia nervosa, rilevata, succosa, e insieme rozza e aspra, è l'antitesi di quella letteratura vuota, sofistica, e leziosa, venuta su col Marino.

(terzo capitolo) i tempi Campanella, Sarpi, Bembo > > >

 

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