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( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1600

 LETTERATURA  
del SECOLO XVI- XVII ( LA "NUOVA SCIENZA"
)

FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
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i "tempi" di Campanella, Sarpi, Bembo

(terzo capitolo di cinque)

Campanella scrisse infiniti volumi, e "de omnibus rebus". Nessuna parte dello scibile gli è ignota, scienze occulte e naturali, teologia, metafisica, astronomia, fisica, fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia, un primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo, vede o intravede cose nuove. Notabile è soprattutto l'interesse che prende per l'educazione e il benessere del popolo.
La scienza fino allora è stata aristocratica, religiosa e politica, rimasta nelle alte cime, più intenta al meccanismo sociale che al miglioramento dell'uomo. In lui si vede accentuata questa tendenza, che i mutamenti politici sono vani, se non hanno per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose.

A questo scopo si riferiscono i suoi più bei concetti: la riforma delle imposte, sì che non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani, toccando appena i cittadini o borghesi, e niente i nobili; l'imposta sul lusso e su' piaceri; i ricoveri per gli invalidi; gli asili per le figliuole de' soldati; i prestiti gratuiti a' poveri sopra pegni, le banche popolari, gli impieghi accessibili a tutti, un codice uniforme, l'uniformità delle monete, l'incoraggiamento delle industrie nazionali, "più proficue che le miniere".
(sembrano questi tutti attuali ancora oggi! Ndr.)

Lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l'ultima parola di Campanella. La prima opera del filosofo, egli dice, è comporre la storia de' fatti. C'è già la nuova società che si andava formando sulle rovine del regime feudale. C'è tutto un rinnovamento sociale, accompagnato, quanto ai suoi procedimenti, da questo motto profondo: che i moti umani durevoli "son fatti prima dalla lingua e poi dalla spada"; o, in altri termini, che la forza non può fondare niente di durevole, quando non sia preceduta e accompagnata dal pensiero.

PIETRO BEMBO (Venezia 1470-1547)

Ugual soffio spirava da Venezia. Centro già di lettere e di coltura con Pietro Bembo, ora diveniva il centro italiano del libero pensiero. Celebre era la scuola materialista di Padova. La stessa indipendenza si sviluppava in materia politica. Di là all'Italia serva giungevano i liberi accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano scritti politici sotto i nomi di "Tesoro politico", "Principe" "regnante", "Segretario, Chiave del gabinetto, Ambasciatore, Ragion di Stato", guazzabuglio di luoghi comuni e di erudizione indigesta. I fatti più tristi vi sono giustificati, la notte di san Bartolomeo e le stragi del duca d'Alba. Il che non toglie che tutti non se la prendano col Machiavelli, accusandolo e insieme rubandogli i concetti. Fra gli altri è degno di nota il Botero nella sua "Ragion di Stato", dove combatte il Machiavelli, e segue i suoi precetti, applicandoli contro i novatori e gli eretici. Quel libro è il codice de' conservatori. A lui sembra che tutto sta benissimo come sta, e che non rimane che a prender guardia contro le novità: "bonum est sic esse".
Giovanni Botero nacque nel 1543, tre anni prima nasceva a Venezia Paolo Paruta, il più vicino di spirito e di senno a Nicolò Machiavelli. Mentre l'Italia sonnacchiava tra l'assolutismo papale e spagnuolo, e si fondavano in Europa le monarchie assolute, lo storico veneto scriveva che "tolta la libertà, ogni altro bene è per nulla, anzi la stessa virtù si rimane oziosa e di poco pregio"; che il vero monarca è la legge; e che "chi commette il governo della città alla legge, lo raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all'uomo, lo lascia in potere di una fiera bestia". "Nascere e vivere in città libera", è per lui l'ideale della felicità. Ne' suoi "Discorsi politici" (postumi 1599 - conciliazione fra ragion di Stato e vita morale - Ndr.) trovi il successore di Machiavelli e il precursore di Montesquieu, il senso pratico veneziano e l'acume fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal sentimento religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo, base della restaurazione cattolica, parevagli minaccioso alla libertà veneziana, e non guardava senza speranza nel moto germanico, dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era più profonda nella sua intelligenza, dove ragione e fede contendevano senza possibilità di conciliazione. Nel suo "Soliloquio" s'intravedono quegli strazi interiori, che amareggiarono ancora i primi anni del Tasso. La qual contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanità di spirito, e gli toglie quella fisonomia di originalità e di sicurezza, propria degli uomini nuovi.

Non diverse erano le condizioni morali dello spirito veneto in quel tempo di transizione. Erano buoni cattolici, ma gelosi della loro libertà, avversi alla Curia e soprattutto ai gesuiti, già temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende politiche, nè erano disposti a tener vangelo tutte le massime della Chiesa, specialmente in fatto di disciplina. Con queste disposizioni gli animi doveano essere accessibili alle dottrine della Riforma, nè senza speranza i luterani aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore e contro; nè le dispute religiose poterono esser frenate dall'Inquisizione, che in città così difficile procedea mite e rispettiva. Alle contensioni religiose si mescolavano contenzioni di giurisdizione tra il governo e il papa, per le quali non dubitò Paolo V di fulminare con l'interdetto tutta la città, che però ebbe un effetto contrario al suo intento, rese ancora più viva e più tenace la lotta.

PAOLO SARPI (Venezia 1552-1623)

Il personaggio, intorno a cui si raccoglie tutto questo movimento, è Paolo Sarpi, l'amico di Galileo e di Giambattista Porta, e della stessa scuola. Teologo, filosofo e canonista sommo, non era meno versato nelle discipline naturali, fisica, astronomia, architettura, geometria, algebra, meccanica, anatomia; a lui si attribuisce la scoperta della circolazione del sangue. Mescolato nella vita attiva, non specula, come Bruno e Campanella, e non inventa, come il Galileo, ma scende nella lotta tutto armato, e mette le sue cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie le sue armi con la sagacia dell'uomo politico, anzi che con la passione del filosofo e del riformatore; perchè il suo scopo non è puramente filosofico o scientifico, ma è pratico, indirizzato a raggiungere certi effetti. Mira a interessare nella lotta i principi, come facevano i protestanti, sostenendo la loro indipendenza verso il potere ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli, il Sarpi nega al papa ogni potestà su' principi, e vuole al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune, non altrimenti che semplici cittadini. Emancipare lo Stato, secolarizzarlo, assicurargli la sua libertà dirimpetto alla corte di Roma, questo era un terreno comune, dove spesso s'incontravano principi e riformatori. Paolo Sarpi ebbe il buon senso di mantenervisi, con una chiarezza e fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D'ingegno sveltissimo e di amplissima coltura, non lascia tralucere delle sue idee se non quello solo che può avere un effetto pratico a quel tempo e in quella società, usando una moderazione di concetti e di forme più terribile che non l'aperta violenza. Taglia nel vivo con un'aria d'ingenuità e di semplicità, come chi ti faccia una carezza. Cinque volte si tentò di ammazzarlo; e all'ultima, colpito dal ferro assassino, esclamò: - Conosco lo stile della romana curia. -
La sua "Storia del Concilio di Trento" è il lavoro più serio che siasi allora fatto in Italia. Quel concilio era la base della restaurazione cattolica, o piuttosto reazione, e delle pretese della corte romana. Vi fu consacrato il potere assoluto del papa e la sua supremazia sul potere laicale. Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali, che curia e gesuiti cercavano di far valere negli Stati, concitando contro di sè non solo i protestanti, ma i principi cattolici. Era il medio evo rammodernato nella superficie, di apparenze più corrette e meno rozze.

Scrivere la storia di quel concilio, e dimostrare la sua mondanità, cioè a dire i fini, le passioni e gl'interessi mondani, che resero possibili quei decreti, e prevalenti le opinioni estreme e violente, era un attaccare il male nella sua base. A questa impresa si accinse il Sarpi. E se la passione politica fosse in lui soprabbondata, tirandolo a violenza d'idee e di espressioni, e a volontarie alterazioni e mutilazioni di fatti, il suo scopo sarebbe mancato. La sua forza è nella sua moderazione e nella sua sincerità. Nè questo egli fa solo per sagacia di uomo politico, ma per naturale probità e per serietà di storico e letterato. La storia nelle sue mani non è solo un istrumento politico: è un sacro ufficio, che egli non sa prostituire alle passioni contemporanee, e al quale si prepara con ogni maniera di studi e d'investigazioni. E qui è l'interesse di questo libro. Ha voluto scrivere una storia imparziale con sincerità e gravità di storico, e riesce parzialissimo, perchè l'uomo con le sue passioni, con le sue simpatie e antipatie, co' suoi fini politici, con le sue opinioni traspare da ogni parte e si fa valere. La parzialità non è volontaria, e non è nella materialità de' fatti, ma è nello spirito nuovo che vi penetra, non solo nella sua generalità dottrinale, ma nelle sue più concrete determinazioni politiche ed etiche. Non c'è autorità che tenga; Sarpi studia tutto, sente tutti; ma decide lui. L'autorità legittima è nella sua ragione. Il suo ideale è la Chiesa primitiva e evangelica, sgombra di ogni temporalità, e non di altro sollecita che d'interessi spirituali.

Sarpi condanna soprattutto la gerarchia, "nata di ambizione papale e d'ignoranza de' principi". Nè per questo fra Paolo si crede men cattolico del papa, anzi è lui che vuole una vera restaurazione cattolica, riconducendo la religione nella prisca sincerità e bontà, e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte le confessioni, che dovea essere procurata, e fu impedita dal Concilio. Perciò chiama il Concilio l'"Iliade" del secolo" per i mali effetti che ne uscirono, e la sua opera giudica non una riforma, ma una "difformazione". Qual' era la riforma da lui desiderata, traspare da' concetti che attribuisce a quel buon papa di Adriano sesto, "uomo germano, e pertanto sincero, che non trattava con arti e per fini occulti", il quale confessava il male esser nato dagli abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana, e prometteva piena riforma, "quando anche avesse dovuto ridursi senza alcun dominio temporale, e anco alla vita apostolica".
Grande è in questo libro l'armonia tra il contenuto e la forma. Il concetto fondamentale del contenuto è questo, che come la verità è nella sostanza delle cose, non nei loro accidenti e apparenze, così la religione ha la sua essenza nella bontà delle opere, e non nella osservanza delle forme o nelle concessioni e grazie pontificie, e parimente non è la diligente narrazione de' peccati, ma il proposito di mutar vita, che assicura efficacia alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello spirito nuovo, che, già adulto, dalla moltiplicità delle forme e degli accidenti saliva all'unità e alla sostanza delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli, Bruno, Campanella e Galileo e Sarpi, e che in questa Storia penetra anche nella forma letteraria. Perchè qui la forma non è niente per sè, e non è altro che la cosa stessa, liberata da ogni elemento fantastico e rettorico, è il positivo e il reale, proprio l'opposto della letteratura in voga. Il Pallavicino, che per commissione della Curia scrisse una storia del Concilio in confutazione di questa, dice: "Il fuoco delle ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o con la pioggia del sangue". Dice cosa gravissima con lo spirito distratto dalla forma, cercando metafore. Qui la forma non è espressione, ma ostacolo; nè da questi lisci può venire la grave impressione che pur deve fare sullo spirito un pensiero così feroce, base dell'Inquisizione.
Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano; nella forma vi penetra una energia e una precisione di colorito, che ti rende la cosa nella sua crudeltà e insieme nella sua ragionevolezza. C' è la cosa come sentimento e come idea.

"Se non potranno con le dolcezze - dice Adriano a' principi tedeschi - ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta via, vengano a' rimedi aspri e di fuoco, per risecare dal corpo i membri morti."

Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l'importanza del contenuto nella indifferenza della forma, una forma che è il contenuto stesso nel suo significato e nella sua impressione. Trovi in lui una elevatezza d'ingegno, che gli fa spregiare i lenocini e gli artifizi letterari, una viva preoccupazione delle cose, una chiarezza intellettiva accompagnata con un vigore straordinario d'analisi, e quel senso della misura e del reale che lo tien sempre nel vivo e nel vero. Aggiungi l'assoluta padronanza della materia, la conoscenza de' più intimi secreti del cuore umano, la chiara intuizione del suo secolo e della società in mezzo a cui viveva ne' suoi umori, nelle sue tendenze e ne' suoi interessi, e si può comprendere come sia venuta fuori una prosa così seria e così positiva. L'attenzione volta al di dentro, e non curante della superficie, ti forma un'ossatura solida, una viva logica, maravigliosa per precisione e rilievo, ma scabra e ruvida.
Manca a questa prosa quell'ultima finitezza, che viene dalla grazia, dalla eleganza, dalle qualità musicali. È il difetto della sua qualità più spiccato in lui, non toscano e con l'orecchio educato più alla gravità latina che alla sveltezza del dialetto natio.

Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, Sarpi non erano esseri solitari. Erano il risultato de' tempi nuovi, gli astri maggiori, intorno a cui si movevano schiere di uomini liberi, animati dallo stesso spirito. Cosa volevano? Cercare l'essere dietro il parere, come dicea Machiavelli; cercare lo spirito attraverso alle forme, come dicea la Riforma; cercare il reale e il positivo, e non ne' libri, ma nello studio diretto delle cose, come dicea Galileo; o, come diceano Bruno e Campanella, cercare l'uno attraverso il molteplice, cercare il divino nella natura. Sono formule diverse di uno stesso concetto. Riformati e filosofi nelle loro tendenze s'incontravano su di un terreno comune. Camminavano con disugual passo; molti erano innanzi troppo; altri restavano a mezza via; ma per tutti la via era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla superstizione e dalla fantasia e fatte venerabili, e guardare le cose svelate nella loro sostanza o realtà, guardarle col proprio sguardo, col lume naturale. La lotta contro Aristotile e gli scolastici, contro le forme e le dottrine ecclesiastiche, contro le "intrusioni umane" nella Chiesa, contro i simboli, le fantasie, i dogmi, il soprannaturale, era il lato negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale, come metodo e come contenuto: l'uomo e la natura studiati direttamente dall'intelletto, prendendo per base l'esperienza e l'osservazione. Paolo Sarpi trasportava la lotta dalle generalità filosofiche in mezzo agl'interessi, dove potea aver favorevoli i principi e i popoli: perciò fu il più temuto, ed ebbe più influenza.

Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole restaurazione, cioè a dire conciliazione, come volea il Sarpi, e come fantasticava il Campanella, si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che era pratico e compatibile. Ma la storia non si fa co' "se", nè col senno di poi. Il movimento era ancora nella sua forma istintiva, nel suo stato violento e contraddittorio. D'altra parte la Chiesa più che da sentimenti e convinzioni religiose era mossa da interessi mondani e da passioni politiche. Perciò la restaurazione si chiarì un'aperta reazione. Nessuno di queste condizioni morbose ha avuto una intelligenza più chiara che Paolo Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture:

"Le pene canoniche erano andate in disuso, perchè, mancato il fervore antico, non si potevano più sopportare... Il presente secolo non era simile a' passati, ne' quali tutte le deliberazioni della Chiesa erano ricevute senza pensarci più oltre, là dove nel presente ognuno vuol farsi giudice ed esaminar le ragioni... Il rimedio è appropriato al male, ma supera le forze del corpo infermo, ed in luogo di guarirlo sarebbe per condurlo a morte e pensando di riacquistar la Germania, farebbe perdere l'Italia, ed alienare quella maggiormente."

Così parlava il cardinale Pucci, per dissuadere Adriano sesto, che voleva a forza di pene canoniche sradicare le idee nuove, e ricondurre

"l'aureo secolo della Chiesa primitiva, nel quale i prelati avevano assoluto governo sopra i fedeli, non per altro se non perchè erano tenuti in continuo esercizio colle penitenze; dove ne' tempi che corrono, fatti oziosi, vogliono scuotersi dall'ubbidienza".

Del qual parere era anche il cardinale fra Tommaso da Gaeta, a cui il Sarpi fa dire:

"Il popolo germanico, che sepolto nell'ozio presta orecchio a Martino che predica la libertà cristiana, se fosse con penitenze tenuto in freno, non penserebbe a questa novità."

Oltre a questo rimedio delle penitenze, il buono Adriano voleva una seria riforma, quando anche dovesse lasciare il potere temporale. Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo modo:

"Non esservi speranza di confondere ed estirpare i luterani colla correzione de' costumi della Corte; anzi questo essere un mezzo di aumentare a loro molto più il credito. Imperocchè la plebe, che sempre giudica dagli eventi, quando per l'emenda seguita resterà certificata che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte, si persuaderà facilmente che anco le altre novità proposte abbiano buoni fondamenti... In tutte le cose umane avviene che il ricevere soddisfazione in alcune richieste dà pretensione di procacciarne altre e di stimare che sieno dovute. Nissuna cosa far perire un governo maggiormente che il mutare i modi di reggerlo; l'aprire vie nuove e non usate essere un esporsi a gravi pericoli, e sicurissima cosa essere camminare per li vestigi de' santi pontefici. Nissuno avere mai estinto l'eresie con le riforme, ma con le crociate e con eccitare i prencipi e popoli all'estirpazione di quelle."

Quel bravo cardinale ammette che c'è del cattivo; ma non bisogna toccarvi, per non dar ragione agli avversari. E all'ultimo riserba il più prezioso, la ragione.... più importante:

"Nissuna riforma potersi fare, la quale non diminuisca notabilmente l'entrate ecclesiastiche; le quali avendo quattro fonti, uno temporale, le rendite dello Stato ecclesiastico, gli altri spirituali, le indulgenze, le dispense e la collazione de' beneficii, non si può otturare alcuno di questi che le entrate non restino troncate in un quarto."

Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a passo: il qual sistema moderato non piacque a' tedeschi, i quali rispondevano motteggiando che da un passo all'altro sarebbe corso un secolo. Si può immaginare quale impressione dovessero fare su' contemporanei queste rivelazioni di Paolo Sarpi, che metteva in tanta evidenza i motivi mondani e politici della ristaurazione cattolica.
La quale, essendo aperta reazione, fondavasi sopra idee e tendenze affatto opposte alle altre. Questi proclamavano l'indipendenza e la forza della ragione, quelli la sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano la coltura e la scienza, quelli stavano con la pura fede, co' poveri di spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si fondavano sull'esperienza e sull'osservazione; gli altri sulla rivelazione e sull'autorità di Aristotile, degli scolastici, de' santi Padri e de' dottori. Gli uni facevano centro de' loro studi la natura e l'uomo; gli altri sottilizzavano sugli attributi di Dio, sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni volevano togliere alla Chiesa ogni temporalità, e semplicizzare le forme ed il culto; gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme, anche le assurde e le grottesche, e non che rinunziare al temporale, ma volevano dilatare la loro ingerenza e il loro dominio, prendendo a base il potere assoluto del papa e la sua supremazia anche nelle cose temporali. Fin d'allora valse il motto: "Aut sint ut sunt, aut non sint"; o vivere così, o morire.

Questa reazione così cieca sarebbe durata poco, se non fosse stata sorretta dalla tenace abilità de' gesuiti, la milizia del papa. I quali, doma l'aperta ribellione co' terrori dell'Inquisizione, vollero guadagnare alla restaurazione anche le volontà e le coscienze, mostrando in questo assunto una conoscenza degli uomini e del secolo e un'arte di governo, che li resero degni continuatori della politica medicea. Persuasi che governa il mondo chi più sa, coltivarono gli studi e si sforzarono di mantenere il primato del clero nella coltura. Non potendo estirpare in tutto il nuovo, accettarono la superficie, e vestirono la società a nuovo per meglio conservare il vecchio. Presero dunque aria di uomini colti e liberali, scossero da sè la polvere scolastica, e per meglio vincere il laicato presero ne' modi e ne' tratti apparenze più laicali che fratesche, confidandosi di abbatterlo con le sue armi. Divenuti amici e protettori de' letterati e fautori della coltura, apersero scuole e convitti, e presero nelle loro mani l'istruzione e l'educazione pubblica. Non mancarono i teatrini, le commedie, le accademie, altre imitazioni degli usi laicali. La superficie era la stessa, lo spirito era diverso. Perchè, dove gli uomini nuovi miravano a tirare l'attenzione dal di fuori al di dentro, dagli accidenti e dagli accessorii al sostanziale, dalle forme allo spirito, essi miravano a coltivare la memoria, ad allettare i sensi e l'immaginazione più che l'intelletto, a trattenere l'attenzione sulla superficie, sì che l'intelligenza fra tante cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde usciva una coltura mezzana e superficiale, più simile ad erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente la tempra fiacca de' più, contenti di quello spolvero, che dava loro un'aria di nuovo, l'aria del secolo e così a buon mercato.

I gesuiti vennero in moda, sfogandosi i mali umori del secolo sopra gli altri ordini religiosi, come restii ad ogni novità. Il loro successo fu grande, perchè in luogo di alzare gli uomini alla scienza, abbassarono la scienza agli uomini, lasciando le plebi nell'ignoranza e le altre classi in quella mezza istruzione, che è peggiore dell'ignoranza. Parimente, non potendo alzare gli uomini alla purità del Vangelo, abbassarono il Vangelo alla fiacchezza degli uomini, e costruirono una morale a uso del secolo, piena di scappatoie, di casi, di distinzioni, un compromesso tra la coscienza e il vizio, o, come si disse, una doppia coscienza. E nacque la dottrina del "probabilismo", secondo la quale un "doctor gravis" rende probabile un'opinione, e l'opinione probabile basta alla giustificazione di qualsiasi azione, nè può un confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo un'opinione probabile. Un giudice, dice un dottore, può decidere la causa a favore dell'amico, seguendo un'opinione probabile, ancorchè contraria alla sua coscienza. Un medico, dice un altro dottore, può con lo stesso criterio dare una medicina, ancorchè egli opini che farà danno. Richiedono sola cautela che non ci sia scandalo, e non già perchè la cosa sia in sè cattiva, ma per il pregiudizio che ne può venire.

Questa morale rilassata era favorita da un'altra teoria, "directio intentionis", formulata a questo modo, che un'azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito. È la massima che il fine giustifica i mezzi, applicata non solo alle azioni politiche, ma alla vita privata. Non è peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico, per battezzarlo. Uccidi il corpo, ma salvi l'anima. Non è peccato uccidere la donna, che ti ha venduto l'onore, quando puoi temere che svelando il fatto noccia alla tua riputazione.
E all'ultimo viene la dottrina "reservatio et restrictio mentalis". Il giuramento non ti lega, se tu usi parole a doppio senso, rimanendo a te l'interpretazione, o se aggiungi a bassa voce qualche parola che ne muti il senso. Non è bugia, dice un dottore, usare parole doppie che tu prendi in un senso, ancorchè gli altri le prendano in un senso opposto. E non è bugia dire una cosa falsa, quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai ammazzato il padre; pure puoi dire francamente: - Non l'ho ammazzato -, quando dentro di te pensi a un altro che realmente non hai ammazzato, o ci aggiungi qualche riserva mentale, come: - Prima ch'egli nascesse, non l'ammazzai di certo. - Questa scaltrezza, aggiunge il dottore, è di grande utilità, porgendoti modo di nascondere senza bugia quello che hai a nascondere.

Vedi quante scappatoie! E ce n'era per tutt'i casi. In quell'arsenale trovi come puoi senza peccato non andare talora a messa, o spendervi poco tempo, o durante la messa conversare, o andando a messa guardare le donne con desideri amorosi. Se vuoi rimanere in buon rapporti presso il tuo confessore, scegli un altro, quando hai commesso qualche peccato grave. E se ti pesa il dirlo, usa parole doppie, o fa una confessione generale per gittarlo così alla rinfusa nella moltitudine de' peccati vecchi.
Ciascuno immagina, con quella facile scienza, con quella più facile morale, che seguito e che favore dovettero avere i gesuiti, maestri, confessori, predicatori, missionari, scrittori, uomini di mondo e di chiesa. Seppero conoscere il secolo, e lo dominarono. E mantennero il dominio con l'energia e la logica della loro volontà. Salirono a tanta potenza che ingelosirono i principi, e posero talora in sospetto anche i papi. Prendendo a base l'ubbidienza passiva, di modo che l'uomo dirimpetto al suo superiore fosse "perinde ac cadaver", stabilirono la monarchia assoluta. Ma volevano che il papa dominasse i principi, e volevano loro dominare il papa.

I principi si difendevano, offendendo, e cercando fino un sostegno nelle idee nuove. Così Paolo Sarpi difendeva la libertà di Venezia. La lotta era disuguale, perchè alle armi spirituali era scemata la riputazione, e i principi avevano guadagnata tutta quella forza, ch'era mancata a' feudi ed a' comuni. I gesuiti allora, non trasandando le armi puramente ecclesiastiche, operarono principalmente come un corpo politico, e seppero maneggiare le armi mondane con una tenacità uguale alla destrezza. Presero aria di democratici, e cercarono forza ne' popoli contro i principi. Fin dal 1562 Lainez, il secondo generale de' gesuiti, sosteneva nel Concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma la società ha il dritto di scegliersi essa il suo governo. Il cardinale Bellarmino sostiene che il potere politico è da Dio; ma il dritto divino è non ne' singoli uomini, ma nella intera società, non ci essendo nessuna buona ragione che uno o molti debbano comandare agli altri; che monarchia, aristocrazia, repubblica sono forme che derivano dalla natura dell'uomo; e che perciò, quando c'è alcuna legittima ragione, può il popolo mutare la sua forma di governo, come fecero i romani. Ecco già spuntare la "sovranità del popolo", e il "dritto dell'insurrezione".

Mariana vuole la monarchia, ma a patto che ubbidisca al consiglio de' migliori cittadini raccolti in senato. Era spagnuolo, e scriveva sotto Filippo terzo, che tenea Campanella nelle prigioni di Napoli. Non ammette il dritto ereditario, "nato dalla troppa possanza de' re e dalla servilità de' popoli", e causa di tanti mali, non ci essendo niente più mostruoso che "commettere le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al capriccio di una donna". Re che offende i dritti de' popoli e disprezza la religione è come una bestia feroce, e "ciascuno gli può metter le mani addosso". I dritti di successione non possono esser mutati che col consenso del popolo; perchè "dal popolo viene il dritto della signoria". Il re ha il suo potere dal popolo; perciò "non è signore dello Stato o de' singoli individui, ma un primo magistrato, pagato da' cittadini". Il re non può da solo porre le tasse, fare leggi, scegliersi il successore; perchè "le son cose che interessano non solo il re, ma anche il popolo". Il re è sottoposto alle leggi, e quando le viola, il popolo ha il dritto "di deporlo e punirlo con la morte". Queste erano le risposte che davano a' principi i gesuiti. Ma erano armi a doppio taglio. Perchè si potea loro rispondere che se il dritto di signoria è non nei singoli individui, ma nella universalità de' cittadini, quel dritto nelle faccende ecclesiastiche è non nel papa, ma nella Chiesa o universalità de' fedeli, e per essa nel concilio, che può perciò deporre e anche punire il papa. Che cosa diveniva allora il loro papa, il vicario di Dio? Essi erano repubblicani dirimpetto allo Stato, ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa. E, per dire la verità, si mostravano repubblicani per meglio dominare i principi, ed erano assolutisti per avere tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio dir già che i loro scrittori erano di mala fede, anzi moltissimi erano sinceri, credenti e patrioti, primo fra tutti Mariana. Parlo de' capi, più uomini politici che uomini di fede.

Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli. Il che è così poco giusto, come dire che Marino corruppe il gusto. Furono effetto e causa. Furono il cattolicismo rammodernato, accomodato possibilmente a' nuovi tempi per meglio conservarlo nella sua sostanza; furono l'intelletto che succede alla fede e all'immaginazione, e si affida più nell'arte del governo che nelle passioni e nella violenza, l'intelletto spinto sino alla sua ultima depravazione, sofistico e seicentistico; nacquero da quello stesso spirito che portò sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un progresso, un naturale portato della storia. La loro responsabilità è questa, che, trovando nel secolo fiacchezza e ignoranza, non lavorarono a combatterla per migliorare l'uomo, anzi la favorirono e se ne fecero piedistallo. Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza de' superiori, e stretta in pochi. E quando la coltura, rotte le dighe, si diffuse, finì il loro regno.
La diffusione della coltura era visibile in Italia. E non parlo solo delle scienze esatte e naturali, dove i gesuiti si mostrarono valentissimi, seguendo anche loro la via aperta da Galileo, ma pur delle scienze storiche e sociali. L'abbondanza dell'oro per la scoperta dell'America e la crisi monetaria diede occasione ai primi scritti di economia, il "Discorso sopra le monete e la vera proporzione fra l'oro e l'argento" di Gaspare Scaruffi, che propugnava, come Campanella, l'uniformità monetaria; e il trattato sulle "Cause che possono fare abbondare i regni di oro e d'argento" di Antonio Serra di Cosenza, scritto alla Vicaria, dove l'autore, come complice di Campanella, era tenuto prigione.

Moltiplicarono i trattati di giurisprudenza, massime nella seconda metà del secolo, Alberico Centile nel suo libro "De iure belli" fa già presentire Grozio, e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Turamini, che scrisse "De Pandectis". Tra gl'interpreti del dritto romano sono degni di nota l'Alciato, l'Averani, il Farinaccio, il Fabro. Fondatori della storia del dritto furono il "gran" Carlo Sigonio, come lo chiama Vico, e il Panciroli, maestro del Tasso.
Pubblicarono lavori non dispregevoli di cronologia l'Allacci, il Riccioli, il Vecchietti. Comparivano storie venete, napolitane, piemontesi, pisane, il Nani, il Garzoni, il Summonte, il Capecelatro, il Tesauro, il Roncioni: cronache più che storie, volgari di sentimento e di stile. In Roma naturalmente si sviluppava l'archeologia. Il Fabretti di Urbino scrivea degli "Acquidotti romani" e della "Colonna traiana", e pubblicava in otto serie quattrocentotrenta iscrizioni dottamente illustrate. Moltiplicavano le compilazioni, le raccolte, come sussidio agli studiosi. Il Zilioli scrisse l'"Indice di tutti i libri di dritto pontificio e cesareo", e il Ziletti in ventotto volumi il trattato "Iuris universi". Avevi già annali, giornali, biblioteche, cataloghi, e simili mezzi di diffusione. Vittorio Siri aveva pubblicato il "Mercurio politico" e le "Memorie recondite", l'Avogadro il "Mercurio veridico". Il Nazzari cominciò a Roma nel 1668, il "Giornale de' letterati", e il Cinelli pubblicava la "Biblioteca volante", una specie di storia letteraria. Comparivano gli "Annali" del Baronio, le "Vite de' pàpi e cardinali" del Ciacconio, la "Storia generale de' concili" di monsignor Battaglini, la "Storia delle eresie" del Bernini, la "Napoli sacra" di Cesare Caracciolo e la "Sicilia sacra" del Pirro, liste e notizie di vescovi, la "Miscellanea italica erudita" del padre Roberti, la "Bibliotheca selecta" e "l'Apparatus sacer" del gesuita Possevino, il "Mappamondo storico" del padre Foresti, continuato da Apostolo Zeno, un primo tentativo di storia universale.

Aggiungi relazioni come la "Descrizione della Moscovia" del Possevino, i viaggi del Carreri napolitano, che nel 1698 compì a piedi il giro del mondo, la "Relazione" dello Zani bolognese, che fu in Moscovia, le "Lettere" del Negri da Ravenna, che giunse fino al capo Nord, la descrizione delle Indie del fiorentino Sassetti, che primo die' notizia della lingua sanscrita. Si conoscea meglio il mondo, e meglio i popoli stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino delle Indie orientali, il Falletti ferrarese della "Lega di Smalcalda", il Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente elegante delle "Guerre di Fiandra", il Davila con semplicità trascurata delle "Guerre civili di Francia", il padre Strada prolissamente delle cose belgiche.

A questa coltura empirica e di mera erudizione partecipavano tutti, laici e chierici, uomini nuovi e uomini vecchi, e i gesuiti vi si mostravano operosissimi: si pensava poco, ma s'imparava molto e da molti. La coltura guadagnava di estensione, ma perdeva di profondità. Chi avesse allora guardata l'Italia con occhio plebeo, potea dirla una terra felice. Rivoluzione e guerra aveano abbandonato le sue contrade: piena pace, tranquilli gli spiriti, in riposo il cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti: l'Inghilterra aveva Cromwell, ella avea Masaniello. L'Europa camminava senza di lei e fuori di lei, tra guerre e rivoluzioni nelle quali si elaborava e si accelerava la nuova civiltà. Lei giaceva beata in quel dolce ozio idillico, che era il sospiro e la musa de' suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva la libertà di coscienza, dalle rivoluzioni inglesi usciva la libertà politica, dalle guerre civili di Francia usciva la potente unità francese e il secolo d'oro, la monarchia di Carlo quinto e di Filippo secondo si andava ad infrangere contro la piccola nazionalità olandese.

L'Italia assisteva a questi grandi avvenimenti senza comprenderli. Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e fattarelli curiosi, la parte teatrale. E sì che tra quegli avvenimenti c' erano pure grandi attori italiani, Caterina de' Medici, Mazzarino, Eugenio di Savoia, Montecuccoli, il cui trattato della guerra è una delle opere più serie scritte a quel tempo. Si combatteva non solo con la spada, ma con la penna: le quistioni più astratte interessavano ed infiammavano le moltitudini; dall'attrito scintillavano nuovi problemi e nuove soluzioni; era una generale fermentazione d'idee e di cose. Ciò che fermentava nel cervello solitario di Bruno e di Campanella, fluttuante, contraddittorio, lì era pensiero, stimolato dalla passione, affinato dalla lotta, pronto all'applicazione, in un gran teatro, fra tanta eco, con una chiarezza e precisione di contorni, come fosse già cosa.
Questa chiarezza è già intera in Bacone e in Cartesio, dove il mondo moderno si scioglie da tutti gli elementi scolastici e mistici, da tutti i preconcetti, e si afferma in forme nette e recise. Perciò Galileo, Bacone, Cartesio sono i veri padri del mondo moderno, la coscienza della nuova scienza. Il metodo, che Galileo applicava alle scienze naturali, diviene nelle mani di Bacone il metodo universale e assoluto, la via della verità in tutte le sue applicazioni: l'induzione caccia via il sillogismo, e l'esperienza mette in fuga il soprannaturale. Cartesio col suo "de omnibus dubitandum" riassume il lato negativo del nuovo movimento, togliendo ogni valore all'autorità e alla tradizione - e col suo "cogito, ergo sum" pone la prima pietra alla costruzione dell'edificio, inizia l'affermazione.

Come la Riforma, così Cartesio pone a fondamento della coscienza il senso individuale; e come Galileo stabilisce il mondo naturale su' fatti, così egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto, "io penso". All'esperienza esterna si aggiunge l'esperienza interna, l'analisi psicologica. L'ente, ch'era il primo filosofico, qui è un prodotto della coscienza, un "ergo". L'evidenza innanzi a' sensi e innanzi alla coscienza, il senso interno, è il criterio della verità. Cartesio, che era un matematico, introduce nella filosofia la forma geometrica, credendo che in virtù della forma entrasse nel mondo metafisico quella evidenza ch'era nel mondo matematico.
Era un'illusione, il cui benefizio fu di cacciar via definitivamente le forme scolastiche e aprire la strada a quella forma naturale di discorso, di cui Machiavelli avea dato esempio, ed egli medesimo nel suo ammirabile "Metodo". Queste idee non erano nuove in Italia, anzi erano volgari a tutti gli uomini nuovi; ma, naufragate in vaste sintesi immature e senza eco, rimanevano sterili. Qui le vedi a posto, staccate, rilevate, formulate con chiarezza ed energia, e parvero una rivelazione. D'altra parte Cartesio ebbe cura di non rompere con la fede, e di accentuare la natura spirituale dell'anima e la sua distinzione dal corpo, base della dottrina cristiana, sì che dicea parergli meno sicura l'esistenza del corpo che quella dello spirito; oltre a ciò, con le sue idee innate lasciava aperto un varco alla teologia e al soprannaturale. Così egli ti dava la prima filosofia nuova che sembrasse conciliabile con la religione, in un tempo che per l'infanzia della critica e della coscienza non era facile pesare tutte le sue conseguenze.

Perciò, come la Riforma religiosa, la sua riforma filosofica ebbe un gran successo; perchè le riforme efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana dal passato e dallo stato reale degli spiriti. Aggiungi la sua superficialità, l'estrema chiarezza, la forma accessibile, quel presentar poche idee e nette innanzi alle moltitudini: si rivelava già lo spirito francese volgarizzatore e popolare. La conseguenza naturale della riforma era questa, che l'uomo rientrava in grembo della natura, diveniva una parte della storia naturale. Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza, lo studio della coscienza o de' fatti psicologici diveniva la condizione preliminare di ogni metafisica, come lo studio della natura diveniva l'antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva dalle astrazioni degli universali ed entrava in uno studio serio dell'uomo e della natura, nello studio del reale. Per questa via modesta e concludente si era messo Galileo; di là uscivano i grandi progressi delle scienze positive. Cartesio applicava alla metafisica gli stessi procedimenti della filosofia naturale, togliendola di mezzo al soprannaturale, al fantastico, all'ipotetico, e dandole una base sicura nell'esperienza e nell'osservazione.

Ma i fatti psicologici erano ancora troppo scarsi e superficiali, perchè ne potesse uscire una soluzione de' problemi metafisici, e l'Europa era ancora troppo giovane, troppo impregnata di teologia e di metafisica, di misteri e di forze occulte, perchè potesse aver la pazienza di studiare i dati de' problemi prima di accingersi a risolverli. Le "idee innate" e i "vortici" di Cartesio, la "visione di Dio" di Malebranche, la "sostanza unica" di Spinosa, l'"armonia prestabilita" di Leibnizio erano teodicee ipotetiche e provvisorie, che appagavano il pensiero moderno abbandonato a se stesso, e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l'impulso era dato, e fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale dell'intelletto umano, la scienza dell'uomo. Le meditazioni di Cartesio, i maravigliosi capitoli di Malebranche sull'immaginazione e sulle passioni, i "Pensieri" di Pascal, dove l'uomo in presenza di se stesso si sente ancora un enigma, preludevano al "Saggio sull'intelletto umano" di Giovanni Locke, l'erede di Bacone, di una grandezza eguale alla sua modestia. Ivi la riforma cartesiana aveva la sua ultima espressione, il suo punto di fermata; ivi la filosofia trovava il suo Galileo, realizzava l'ideale del suo risorgimento, al quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini nuovi, acquistava la sua base positiva, fondata sull'esperienza e sull'osservazione, sulla "cosa effettuale", come diceva Machiavelli, e col "lume naturale", come dicea Bruno, con la scorta dell'occhio del corpo e della mente, come dicea Galileo, e leggendo nel libro della natura, come dicea Campanella.

Cadevano insieme forme scolastiche e forme geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella sua età umana; agli oracoli dottrinali succedevano forme popolari, e vi si affinavano le moderne lingue. La semplicità, la chiarezza, l'ordine, la naturalezza divenivano le qualità essenziali della forma, e n'era un primo e stupendo esempio il "Saggio" di Locke. Così la filosofia nella sua linea divergente dalla teologia giungeva sino all'opposto, dal soprannaturale e dal soprasensibile giungeva al puro naturale ed al puro sensibile, giungeva al motto: "Niente è nell'intelletto che non sia stato prima nel senso". E non era già un concetto astratto e solitario, era lo spirito nuovo, penetrato in tutto lo scibile, e che ora, come ultimo risultato, faceva la sua apparizione in filosofia. Anche la morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico, e cercava la sua base nella natura dell'uomo, e non dell'uomo quale l'avea formato la società, ma nell'integrità e verginità del suo essere. Comparve un dritto naturale, come era comparsa una filosofia naturale; ed entrano in iscena Grozio, Hobbes, Puffendorfio. A quel modo che Campanella e Sarpi con tutti i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella purità delle sue istituzioni, e in nome di quella attaccavano come alterazione e falsificazione l'opera posteriore de' papi, i filosofi vagheggiavano l'uomo primitivo, nello stato di natura, e combattevano tutte le istituzioni sociali, che non erano di accordo con quello.

Il movimento religioso diveniva anche politico e sociale; l'idea era una, che si sentiva ora abbastanza forte per dilatare le sue conseguenze anche negli ordini politici. Sorge uno spirito di critica e d'investigazione, che non tien conto di nessun'autorità e tradizione, e fa valere il suo scetticismo in tutti i fatti e i princìpi tenuti fino a quel punto indiscutibili, come un assioma. Bayle è là, con la sua ironia, col suo dubbio universale. Come Locke realizzava il "cogito", egli realizzava il "de omnibus dubitandum".
E chi paragoni il suo "Dizionario" con le "Raccolte italiane", può vedere dov'era la vita e dov'era la morte.
Che faceva l'Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d'idee? L'Italia creava l'Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I suoi poeti rappresentavano l'età dell'oro, e in quella nullità della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati, lasciando correre il mondo per la sua china, si occupavano del mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di Roma e di Atene; e poichè le idee erano date e non discutibili, si occupavano de' fatti, e non potendo essere autori, erano interpreti, comentatori ed eruditi.
Letteratura e scienza erano Arcadia, centro Cristina di Svezia, povera donna, che non comprendendo i grandi avvenimenti, de' quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e Carlo, si era rifuggita a Roma co' suoi tesori, e si sentiva tanto felice tra quegli arcadi, ch'ella proteggeva, e che con dolce ricambio chiamavano lei "immortale e divina". Felice Cristina! E felice Italia!

L'inferiorità intellettuale degli italiani era già un fatto noto nella dotta Europa, e ne attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo. Gli stessi italiani aveano oramai coscienza della loro decadenza, e non avvezzi più a pensare col capo proprio, attendevano con avidità le idee oltramontane, e mendicavano elogi da' forestieri. Giovanni Leclerc scriveva anno per anno la sua "Biblioteca", una specie d'inventario ragionato delle opere nuove. E come si tenea fortunato quell'italiano, che potea averci là dentro un posticino! La lingua francese era divenuta quasi comune, e prendeva il posto della latina. Un movimento d'importazione c'era, lento, e impedito da molti ostacoli, e vivamente combattuto nelle accademie e nelle scuole, dove regnava Suarez e Alvarez, tra interpreti e comentatori.
La "Fisica" di Cartesio penetrò in Napoli settanta anni dopo la sua morte, e quando già era dimenticata in Francia, e non si aveva ancora notizia del suo "Metodo" e delle sue "Meditazioni". Grozio girava per le mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome faceva orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento si annunziava negli spiriti, quel non so che di vago, quel bisogno di cose nuove che testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello, dopo lungo sonno, si svegliasse. I renatisti penetravano nelle scuole co' loro "metodi strepitosi", come li chiamava Vico, promettitori di scienza facile e sicura. Definizioni, assiomi, problemi, teoremi, scolii, postulati cacciavano di sede sillogismi, entimemi e soriti. Il "quod erat demonstrandum" succedeva all'"ergo". Chiamavano "pedanti" i peripatetici, e questi chiamavano loro "ciarlatani".

Sempre così. Il vecchio è detto "pedanteria", ed il nuovo "ciarlataneria". E qualche cosa di vero c'è. Perchè il vecchio nella sua decrepitezza e stagnazione ha del pedante, e il nuovo nella sua giovanile esagerazione ha del ciarlatano. Ciascuno ha il suo lato debole, che non può nascondere all'occhio acuto e appassionato dell'avversario.
La riforma cartesiana in Italia non produsse alcun serio progresso scientifico, com'è d'ogni scienza importata e non uscita da una lenta elaborazione dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee nuove. Le quali, cacciate d'Italia co' roghi, con gli esili, con le torture e coi pugnali, vi rientrarono sotto la protezione delle idee cristiane. La riforma era detta il "platonismo cartesiano", ed aveva aria di ribenedire la religione in nome della filosofia. L'Inquisizione, in quel movimento rapidissimo d'idee, preoccupata di Spinosa, aperto nemico, lasciava passare il nuovo Platone, che almeno non toccava i dogmi. I peripatetici invocarono l'Inquisizione contro i novatori, e i novatori rispondevano proclamando Aristotile nemico della religione. Così il movimento ricominciava in Italia, col permesso o almeno la tolleranza di Roma. Ed era movimento arcadico, confinato nelle astrattezze e rispettoso verso tutte le istituzioni. Il movimento rimaneva superficiale; ma si diffondeva, guadagnava gli animi alle novità, sopraffaceva i peripatetici, s'infiltrava nella nuova generazione, la metteva in comunione coll'Europa, preparava la trasformazione dello spirito nazionale.

Il serio movimento scientifico usciva di là, dove s'era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellettuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'investigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monumenti. Già non erano più semplici eruditi, erano critici. In Europa la critica usciva dal libero esame e dalla ribellione: era roba eretica. In Italia era parte di Arcadia, un esercizio intellettuale sul passato, e li lasciavano fare.
Il critico di Europa era Bayle; il critico d'Italia era Muratori. Le sue vaste e diligenti raccolte, "Rerum italicarum scriptores, Antiquitates medii aevi, Annali d'Italia, Novus thesaurus inscriptionum", la "Verona illustrata" e la "Storia diplomatica" di Scipione Maffei, le "Illustrazioni" del Fabretti segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione, e nella erudizione si sviluppa la critica. Non è ancora filosofia, ma è già buon senso, fortificato dalla diligenza della ricerca, e dalla pazienza dell'osservazione. Muratori è assai vicino a Galileo per il suo spirito positivo e modesto, e pel giusto criterio. E anche egli osò. Osò combattere il potere temporale, osò porre in guardia gl'italiani contro gli errori e le illusioni della fantasia. Se non gliene venne condanna, fu tolleranza intelligente di Benedetto decimoquarto, il quale disse che "le opere degli uomini grandi non si proibiscono", e che la quistione del potere temporale "era materia non dogmatica nè di disciplina".
Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti, perchè negava la magia, e parve eretico al padre Concina, perchè scrivea "De' teatri antichi e moderni"; ma quel buon papa decretò "non doversi abolire i teatri, bensì cercare che le rappresentazioni siano al più possibile oneste e probe". L'Italia papale era più papista del papa.

Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina, tutto Grecia e Roma, tutto papato e impero, fra testi e comenti, con le spalle vvlte all'Europa. Dommatico e assoluto, sentenzia e poco discute, in istile monotono e plumbeo. È ancora il pedante italiano, sepolto sotto il peso della sua dottrina, senza ispirazione, nè originalità, e così vuoto di sentimento, come d'immaginazione. Pure già senti che siamo verso la fine del secolo. Già non hai più innanzi l'erudito che raccoglie e discute testi, ma il critico che si vale della storia e della filosofia per illustrare la giurisprudenza, e si alza ad un concetto del dritto, e ne cerca il principio generatore. Anche la sua "Ragion poetica", se non mostra gusto e sentimento dell'arte, colpa non sua, esce da' limiti empirici della pura erudizione, e ti dà riflessioni d'un carattere generale.
Ecco un altro uomo d'ingegno, Francesco Bianchini, veronese. A che pensa costui? Pensa agli assiri, a' medi e a' troiani. Non raccoglie, ma pensa, cioè a dire scruta, paragona, giudica, congettura, arzigogola e costruisce. I monumenti non rimangono più lettera morta: parlano, illustrano la cronologia e la storia. Per mezzo di essi si stabiliscono le date, le epoche, i costumi, i pensieri, i simboli, si rifà il mondo preistorico. In questa geologia della storia i fatti e gli uomini vacillano, si assottigliano, diventano favole, e le favole diventano idee. Comparve la sua "Storia" nel 1697, quando Giambattista Vico aveva ventinove anni.

L'erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo, ma sul morto, nello studio del passato. Questo era il carattere del suo progresso scientifico. Quelli che si occupavano del presente a loro rischio, erano cervelli spostati. E tra questi cervelli balzani c'era il milanese Gregorio Leti, che pose in luce la cronaca scandalosa dell'età in uno stile che vuol essere europeo e non è italiano, e Ferrante Pallavicino nel suo "Corriere svaligiato", una specie di satira-omnibus, dove ce n'è per tutti. In quel vacuo dell'esistenza sciupavano l'ingegno in argomenti grotteschi, e in forme che parevano ingegnose ed erano freddure, un seicentismo arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il "Teatro de' cervelli mondani", L'"Ospedale de' pazzi incurabili", la "Sinagoga degl'ignoranti", il "Serraglio degli stupori del mondo". Sono discorsi accademici, infarciti d'erudizione indigesta, più curiosa che soda. I quali erano la vera piaga d'Italia, e attestavano una coltura verbosa e pedantesca senz'alcuna serietà di scopo e di mezzi. Il più noto di questi dotti, e ce n'erano moltissimi, è Anton Maria Salvini, cervello ingombro, cuore fiacco e immaginazione povera, vita vuota. E volle tradurre Omero.


(quarto capitolo) Il tempi di GIAMBATTISTA VICO > > >

 

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