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Russia: inverno-inferno 1942/1943

8 - La fuga

Avevamo studiato meticolosamente tutte le cose; minimo e quasi nullo risultava l'equipaggiamento, ma tutti e tre avevamo una carabina e alla cintola bombe a mano, era comunque indispensabile avere il senso d'orientamento, essere decisi ed astuti. Prendemmo la direzione sud-ovest puntando dritto su Millerovo; era essenziale agire, muoversi, fare presto. Si decise di scartare la vallata dove correva la strada e si puntò verso la pianura. Avevamo camminato tutta la notte, non badando all'immane fatica e non tenendo conto del tempo, delle soffiate gelide del vento e delle spruzzate di nevischio che ci arrivavano addosso. Ogni tanto ci fermavamo coll'orecchio teso a percepire movimenti, rumori, gli occhi rimanevano puntati in un continuo scrutare per poterci muovere sul terreno sporco e ghiacciato, scansando quello bianco e innevato che poteva essere una trappola perché ci si poteva affondare. Eravamo guidati dall'istinto e da una forza invisibile, sovrumana. Il colore, la luce del giorno che giungeva non era tanto diversa da quella della notte. Era sì più sbiadita, ma sempre grigia e sempre la stessa; il cielo era coperto, anche il sole ci aveva abbandonato.
Raggiungemmo un percorso segnato da scie di automezzi passati da poco; nascosti fra le poche isbe avevano trovato rifugio due automezzi della Croce Rossa. Erano stracolmi di feriti. I conducenti ci raccontarono che la sera precedente s'erano trovati fra l'inferno: la strada, subito dopo Cerkovo, era intasata di ogni sorta di veicoli ed i Russi, occupate le alture, avevano concentrato il fuoco con mortai e carri armati creando uno sbarramento e seminando morte e distruzione. Le previsioni non sembravano tanto rosee; si diceva che il giorno prima i Russi avevano sfondato il fronte e stavano prendendo alle spalle l'ottava Armata italiana.

A nord avevano riconquistato Kantarnirowka e Cerkovo ed ora puntavano su Millerovo per tagliare ogni possibilità di fuga. Noi eravamo lì a consultarci: attraverso i documenti topografici sapevamo che Millerovo non era lontana e che potevamo continuare la marcia. Avevamo recuperato le energie e avevamo l'opportunità di proseguire a bordo di automezzi anche se frammischiati ai feriti. Mi infilai in un cantuccio facendo da appoggio alle braccia martoriate di un compagno e così pure gli altri due, il Piera ed il Vendrame, si erano sistemati alla meno peggio. La giornata era proprio pessima, il tratto impraticabile e pieno di buche ed allora si sentivano le urla, i lamenti dei feriti e ogni genere di imprecazioni. Intanto si avvicinava la sera ed era il momento più propizio e atteso per tentare la sortita. Aggirata una balza, il vento ci fece riudire il crepitio delle mitragliere, i colpi di mortaio, intervallati da quelli degli anticarro. Evidentemente eravamo nel vivo della battaglia. Era stata necessaria una pausa per capire che dovevamo superare l'ultima barriera, la collina, per rivedere la Millerovo dalle tante strade. Ci fermammo per un po' di tempo attendendo le ombre della notte che ci avrebbero portato un po' di calma. Non si trovava la forza di parlare: erano solo gli occhi a leggere in ognuno di noi lo sgomento di dover subire una guerra ed essere invischiati nelle sue spire di morte e atrocità. Provammo a muoverci, ma fatti appena 300 metri una scarica di mitraglia inchiodava i nostri due automezzi e fu allora che capimmo che era arrivato il momento di giocare la nostra vita, il nostro destino.

Decidevamo così di lasciare quegli sventurati alla loro sorte; ci buttammo a terra carponi, strisciando nel buio e osservando che due erano le postazioni che controllavano lo sbocco della strada spazzando il fondovalle con tiri incrociati. Avevamo intuito che solamente 200 metri ci separavano dagli avamposti tedeschi, accorsi per fermare l'avanzata dei Russi. E così si ebbe modo di osservare l'inferno dei due schieramenti che non riuscivano a prevalere l'uno sull'altro. Noi intanto ci portavamo sempre più sotto sfruttando i punti più oscuri e vivendo minuti che sembravano eternità. Le traiettorie degli spari si vedevano partire ed arrivare in un contorno d'immensa confusione. Fiammate di fuoco, sventagliate di mitragliatrici, vampate di esplosioni davano l'idea dell'inferno. A notte inoltrata, quando pareva ci fosse un momento di calma, ci si accorse che eravamo in vista dei Tedeschi che, rintanati come noi, attendevano l'urto dei tanks: i carri armati. Mi venne spontaneo gridare "Italianisc camarad" per sentirci salvi, felici d'essere riusciti a eludere il cerchio di fuoco. Ma era un'illusione: venimmo, infatti, accompagnati alla presenza dell'ufficiale tedesco Comandante, una vera peste poiché riconosciutici Italiani, manifestò subito il suo disprezzo ed in modo frenetico ci affiancò ai suoi soldati con l'ordine di preparare una trincea di sbarramento. Il lavoro appariva febbrile, non era certo facile creare trincee all'istante, ma pistola in pugno, il tedesco minacciava chiunque si dimostrasse poco zelante. Vennero i blindati russi a portare scompiglio travolgendo tutto e scompaginando ogni cosa. In quel frangente capimmo quanto i Tedeschi ce l'avessero con noi Italiani.

Mentre l'armata rumena al sud era travolta, anche la Sesta Armata di Von Paulus si trovava accerchiata e costretta a difendersi contro forze preponderanti e contro il freddo del generale inverno, uno dei più rigidi che segnarono la storia. Nel frattempo, a notte fonda, riapparivano, alla testa della colonna russa, i tanks cingolati da 35 tonnellate. Ogni difesa contro quei mostri era nulla. I Tedeschi se ne erano accorti e con mossa fulminea, lasciavano la periferia per rintanarsi al centro città. E così i pochi automezzi a disposizione erano presi d'assalto perché tutti tentavano di servirsene per accelerare la fuga e svincolarsi dal nemico. Nella ressa c'erano anche soldati italiani. Noi, evitando la confusione, ci eravamo allontanati seguendo l'anello stradale della periferia ma avevamo notato in che modo i Tedeschi si rifiutano di dare assistenza ed aiuto ai nostri compagni: a coloro che si aggrappavano agli automezzi erano riservate le pestate alle mani coi calci dei fucili e poco importava di far vedere la loro tracotanza e vigliaccheria. Cercammo di allontanarci il più possibile da quella zona che rimaneva teatro di continui scontri. I Tedeschi vi facevano affluire numerose truppe provenienti anche dal Caucaso ma i Russi erano ormai padroni della situazione. Noi cercavamo di guadagnare chilometri su chilometri per sfuggire alla loro avanzata ed avere così un buon margine di sicurezza. Non si pensava a niente, né alla fame, né alla stanchezza e tanto meno alle avverse condizioni del tempo. Si tirava avanti con l'unico scopo di allontanarci, di correre verso sud-ovest, verso il Donez, costeggiare il mare e risalire verso l'Ucraina. Sulla strada intanto il traffico aumentava frenetico e caotico. Non eravamo ben visti da coloro che incontravamo e che risalivano verso Millerovo, contesa, accerchiata. Ma a noi poco importava degli altri e si continuava nella marcia, badando a scansare eventuali incontri ed a non dar nell'occhio ai camerati tedeschi.

In un attimo di sosta il Vendrame si accorse di alcuni automezzi abbandonati: una DKV 350 giaceva seminascosto e non era all'asciutto di benzina. Ci pareva di sognare e gridammo al miracolo. Il Piera in un balzo aveva preso posto rannicchiandosi sulla carrozzella con le carabine ed i nostri zaini mentre io salivo sulla sella posteriore avvinghiato al Vendrame per difendermi dal freddo cane. Ci mettemmo in corsa, una corsa dissennata, tanto veloce quanto consentiva il fondo stradale; era un continuo sobbalzo, una bestiale tesa di nervi, di forza, di resistenza. Avevamo percorso sì e no una ventina di chilometri quando un agglomerato di isbe si intravide ad una certa lontananza. Finiva lì il sogno, la corsa: si era esaurita la benzina e con essa la speranza di alleggerire ulteriormente il percorso. Ci avviammo verso il villaggio che sembrava vicino ma che era maledettamente lontano: benché stanchi morti dovevamo raggiungerlo per trovare qualcosa da mangiare e passare la notte al riparo dalle intemperie.
Ci si arrancava, ubriachi di sonno e di sfinimento ma confortati dal pensiero di trovarci ancora vivi, solo perché aggrappati al nostro coraggio. Noi, infatti, eravamo i soli a camminare controsenso ed a vedere la strada delinearsi dritta, spazzata dal vento gelido e pungente che soffiava proveniente dal Volga, dalla steppa dei Calmucchi e poiché scendeva la sera, la temperatura toccava i meno quaranta gradi e più sottozero. I nostri visi erano mascherati dai ghiaccioli che si formavano respirando ma era indispensabile non fermarsi per nessun motivo per non diventare statue od esseri ghiacciati. Era quasi buio quando si arrivò al villaggio: il silenzio dominava sovrano e pareva che non ci fosse segno di vita e che tutto fosse in abbandono. Si bussò alla porta di parecchie isbe, senza che alcuno si facesse vedere, sembrava fossero disabitate. Ci spostammo verso il centro e bussando alla porta con il calcio del fucile, finalmente una "babusca" ci venne ad aprire con aggrappati alla gonna, spauriti più che mai, alcuni bambini. Non ci vollero molte parole: erano le nostre misere condizioni a dirle che si veniva dal fronte esausti, stanchi, affamati, pieni di sonno. La donna aveva capito ed abbassando il capo, col cenno della mano, ci invitò ad entrare. Un'icona appesa alla parete, un pancone ed al centro un tavolo rustico con a fronte il camino, mettevano in evidenza la povertà. S'era subito discosta a rabbonire e sistemare i bambini in un cantuccio, al riparo di un tramezzo ed una stuoia che serviva a toglierli dalla nostra curiosità. Poi venne verso di noi indicando che potevamo accomodarci sulla lettiera dietro il camino che consisteva in un piano rialzato allungato a coprire il forno, il cuocivivande. Noi increduli, seguivamo i suoi movimenti; ci toglievamo finalmente le armi e gli zaini che per giorni e notti ci erano stati di peso mentre lei aveva tolto dal forno due teglie annerite di terracotta per metterle sul tavolo. "Kartoske", patate lessate ed una brodaglia calda di miglio: era tutto ciò che poteva offrirci dimostrando la sua generosità ed il buon cuore di quella gente.

Senza tante parole, aveva intuito che eravamo italiani e forse anche per questo ci soccorreva. "Italiaski carasciò", italiani brava gente, diceva, mentre ben altro sentimento ed altre parole usava per definire gli altri, Tedeschi, Rumeni ed Ungheresi. Smorzata così la fame, il Piera ed il Vendrame furono lesti a buttarsi sulla lettiera, vinti, stracciati dal sonno ed a me non rimaneva altro che vegliare. Uno strano sgabello mi servì per poggiare la schiena contro il muro ed osservare quella donna infagottata che con il tremolio delle mani mostrava una vita tribolata. Era la nonna dei bambini, obbligata ad accudirli ed a pensare a loro, a salvaguardare la casa, in quanto la figlia era dovuta scappare al di là del Volga e il compagno sessantenne era stato deportato dai Tedeschi nei campi di lavoro a Rostov sul mar Nero. Era una realtà che già conoscevo, comune a tutta quella gente, che lei nel suo linguaggio mi borbottava come la recita di un rosario fin tanto che mi addormentai. Mi risvegliai al mattino quando ormai era giorno, sentivamo ancora la stanchezza per le fatiche ed i disagi patiti, ci sentivamo spenti; ciò nonostante, armi alla mano e i quattro stracci in spalla, salutammo riconoscenti quella santa donna e ripartimmo fra gli sguardi mortificati di quelle creature. Inconsci, avevamo ripreso a camminare fra le intemperie di un giorno sconvolto dal tempo. Freddo intenso, gelido nevischio, eravamo quasi sospinti dalle ventate il cui freddo ci penetrava nelle ossa e ci costringeva a muoverci per non diventare fantasmi di ghiaccio. Si doveva rifare parte del percorso del giorno prima, diretti verso Voroscilovgrad poiché la strada che portava a sud a Rostov era troppo lunga e trafficata.

Si camminava uno dietro l'altro, con la sola forza del nostro coraggio, in un'abulia fisica che ogni tanto ci costringeva a far sosta e ad aver così modo di guardarci negli occhi e cercare di indovinare i pensieri dell'uno e dell'altro poiché non c'era tanta voglia di parlare. La nostra mente era confusa così come la nostra situazione. Si era persa completamente la cognizione del tempo: era solo la luce a guidarci nel rigore del terribile inverno. Si camminava nello squallore di una zona pianeggiante, segnata in parte dalla continuità del nevischio ed in parte dai miseri, bruciacchiati ciuffi d'erba; si camminava nella solitudine più completa, senza poter contare le ore e sempre con gli occhi rossi, tesi nel miraggio di scoprire le prime sparute isbe come avvisaglia di territorio abitato, le cui distanze fra i villaggi contavano dai 50 ai 100 chilometri ed anche più. Ci consolava solamente il fatto che eravamo diventati padroni del nostro tempo e della nostra volontà, sguinzagliati in libertà per aver saputo sfuggire agli orrori di una guerra che noi non sentivamo più. E vennero a calare le ombre della sera quando si arrivò al villaggio. Oramai per me era diventato come un gioco bussare, chiedere pane o qualcosa che ci potesse sfamare e pure un riparo per la notte onde sfuggire il rigore del freddo.

 

9 - attraverso la steppa

Ci si svegliò quando il sole era già alto e con il chiacchierio di due vecchi barbuti, impalati come statue, poco lontani, che ci dava occasione di attaccar discorso. Per loro, la nostra presenza non era una sorpresa in quanto altri soldati italiani ci avevano preceduto molti giorni prima. Noi eravamo i ritardatari, con la differenza che quelli, venendo dalle retrovie, avevano avuto la fortuna di essere rimasti fuori dell'accerchiamento; noi invece portavamo addosso i segni, i ricordi di un'incredibile odissea. Si era sulla strada buona, ci assicurarono, ma con una previsione di tre giorni pieni di cammino per arrivare a Voroscilovgrad. Era una tremenda mazzata per i compagni, specialmente per il Vendrame, il più vecchio. Con la stanchezza, dai loro volti trasparivano anche i segni della delusione e questo valeva anche per me. Ma una cosa avevo notato conversando con i due vecchi: la loro disponibilità. Scrutando all'intorno, mi venne il coraggio di chiedere se ci fosse qualche cavallo. La zona era povera, d'accordo, ma la pastorizia era vegeta e praticata. Il Piera, trasognato, mi stava guardando negli occhi mentre io fissavo il suo orologio da polso. I vecchi annuirono e ci accompagnarono dallo "Starosta" il capo del villaggio e del Kolkos. Nel breve tragitto, ammiccavo ai due compagni, particolarmente al Piera, facendo loro capire d'essere indulgenti e lasciarmi fare. Lo Starosta chiese quale fosse la contropartita: siamo Italiani e non siamo dei ladri come i Tedeschi, gli dissi, il nostro scopo è quello di raggiungere velocemente Voroscilovgrad e sfuggire così alle pattuglie tedesche per non cadere nelle loro mani, poiché ci impiegherebbero contro i soldati e le popolazioni russe. L'affare fu fatto: in cambio dell'orologio ci fu lasciato un cavallo al tiro di una piccola slitta. Passammo il resto della serata in compagnia dei vecchi e delle loro mogli che, prese a compassione per il nostro stato, ci sfamarono con brodaglia calda di kapusta e kartoske (verze e patate).

Tutto sommato le circostanze di quel giorno ci davano nuova linfa e buonumore e forza per riprendere il viaggio. Sotto la paglia come la notte precedente, fummo vegliati dallo sguardo del cavallo di cui non sapevamo nemmeno il nome,e anche lui come noi, votato all'arrembaggio, all'avventura. Alle prime luci dell'alba, riprendemmo il cammino alleggeriti degli zaini e dei fucili che avevamo caricato sulla slitta. In essa non c'era posto per tutti, così ce lo scambiavamo di volta in volta. La strada, o meglio la pista, si confondeva nella pianura grigia e squallida, patinata di nevischio e battuta dal vento e sembrava non avesse termine. I chilometri non si contavano, senza incontrare alcun essere, nel silenzio rotto solamente dal monotono sibilare del vento, si procedeva così incitando il cavallo che non doveva fermarsi. All'orizzonte, la zona collinare pareva irraggiungibile. In essa c'era Voroscilovgrad la nostra meta, il nostro sogno, la fine di un incubo. Per noi voleva dire salvezza, non più guerra ma vita. Ed io, come del resto il Piera, eravamo smaniosi di rivedere care conoscenze .io la Lubda e lui la "Maruscina scerzen", la Mariuccia del cuore. Si accarezzava veramente quel sogno.

Le prime ore della sera stavano per prendere consistenza e il giorno moriva. Arbusti e giunchi richiamavano la nostra attenzione: se n'era accorto pure il nostro amico cavallo che di tanto in tanto si fermava a morderne la scorza. Aveva fame anche lui e come noi era sfinito, soverchiato dalla stanchezza. La maratona non era ancora finita e ci pesava molto l'aver cucito migliaia di passi con l'attraversamento della steppa. Eravamo approdati nei paraggi del Donez, il fiume che segnava i confini: di qua l'immensa pianura, la steppa, il Don, il Volga; di là la zona montuosa, le colline del Donez, l'Ucraina. Per un po' lasciammo quella povera bestia cibarsi della corteccia degli scheletriti arbusti e spigolare i pochi fili d'erba che fuoriuscivano dalla coltre di ghiaccio. Era quanto la natura potesse offrire in quel gelido clima invernale. Ci si rimise in marcia ed ecco apparire le prime isbe abbandonate. Trovammo rifugio in una di esse e passammo la notte al riparo dal freddo e dal vento. Per quanto riguarda la povera bestia, il brocco, così l'aveva battezzato il Piera, fu sciolto e lasciato libero, al riparo delle intemperie ed al margine di residui di giunchi e resti di canneto che potevano servire da biada; ma anche lui era svogliato, ridotto a mal partito, stracciato per lo sforzo sostenuto.

Era stata una giornataccia ma fondamentale per esserci portati fuori dal raggio d'azione delle pattuglie ausiliari tedesche. Così, avvinghiati l'uno all'altro, rannicchiati, avvolti nei nostri stracciati pastrani e nella misera coperta, eravamo in attesa di essere vinti dal sonno, mentre il nuovo giorno si avvicinava. A darci la sveglia furono i morsi della fame. Lasciammo quel posto in cui non esisteva vita, manco un cane e la solitudine era padrona assoluta. Il brocco pareva essersi ripreso e noi ci rimettemmo in marcia. La pista ora dava l'impressione che stessimo lasciando l'immensa pianura. Anche la fisionomia del terreno era cambiata: una vegetazione spoglia ma più intensa. Camminammo per qualche ora, poi, finalmente, ecco l'approssimarsi di un grosso villaggio con le sue isbe disseminate su di un terrapieno, oltre il quale si sviluppava la zona alveare del Donez. Fu quasi un obbligo sostare soprattutto perché ci eravamo accorti di essere spiati. Non c'era alcun movimento, ma i pochi rimasti erano tappati in casa ed erano i soliti anziani coi bambini dagli occhi sgranati, curiosi all'inverosimile nel vedere facce di soldati stranieri, se pure di passaggio, aggirarsi nelle loro terre, nei loro villaggi. Andando ad elemosinare qualcosa da mangiare, ricordo che una donna, nel vedermi così giovane, ebbe a maledire chi mi aveva mandato a fare la guerra; diceva che in me vedeva suo figlio e non esitò a pormi una ciotola di brodaglia calda e a riempirmi le tasche di pane e patate. Questi ricordi, a distanza di cinquant'anni hanno dell'incredibile e sembra non esistano più.

Riprendemmo di buona lena la nostra marcia, risalendo la strada a fianco al fiume fino a ritrovare il ponte di barche e passare all'altra sponda. Il guaio era che il nostro brocco non ce la faceva più, dava i segni dell'esaurimento e vane erano le incitazioni. Fortuna volle che in lontananza, verso di noi, arrivasse un gruppo di profughi civili. Anche loro erano al seguito di uno sgangherato carretto, colmo di masserizie, trascinato da un cavallo. Evidentemente facevano ritorno al villaggio, liberato dalla guerra, dai Tedeschi. Ci fermammo per dar fiato al "brocco". Il Piera intanto mugugnava: gli bruciava la storia dell'orologio e la cosa non gli andava giù. Eravamo angustiati, così senza mezzi termini, imposi loro l'alt e quindi chiesi al vecchio il cambio del cavallo. A nulla valsero gli ostinati "nicevu" del vecchio, nè le grida delle babusche o il pianto della ragazzina. Mentre il Piera riattaccava il cavallo alla slitta, il Vendrame consegnava il brocco al vecchio che, impietrito, mani sulla testa ed occhi al cielo, malediva la guerra e le sue conseguenze. Sinceramente devo dire che tale atto, anche se necessario, mi lasciò amareggiato, dispiaciuto, non certo orgoglioso. Allora, per accattivarmi un po' di benevolenza, aprii lo zaino dove tenevo un paio di mutandoni di lana e rivolgendomi alla giovinetta ed al vecchio li donai loro perché non volevo essere un vigliacco. Quei mutandoni li avevo ricevuti pochi giorni prima dell'inizio della ritirata: mi erano stati spediti dalla mamma.

 

 

10 - Lubda

Non pensammo due volte a rimetterci in marcia .... Lasciammo quella zona che limitava il corso del fiume e prendemmo la pista che continuava a salire e superare il dosso di squallide e nude alture. Gli occhi erano fissi verso nord a scrutare lo stradone che uscendo dalla valle, portava a Millerovo. Su quella direttrice si riversava il traffico confuso dei rinforzi tedeschi ed era bene starcene lontana. Passò il tempo in lunghe ore di marcia e vennero le prime ombre della sera. Voroscilovgrad era vicina. Tenemmo duro. Arrivammo a notte inoltrata, giungendovi dalla parte alta della città, a sud-est. Non c'erano luci, sembrava una città spenta, morta. Il silenzio era rotto solamente dal rumoreggiare degli automezzi e dei blindati che a fondovalle percorrevano la camionabile. Raggiunta una piccola conca, stressati, non ci pareva vero essere arrivati. Ci sentivamo felici, consapevoli del coraggio e della forza avuta: avevamo vinto la più grossa delle battaglie, quella della sopravvivenza. Gli orrori, i mille guai passati, l'insonnia, la fame, il freddo e l'estenuante fatica delle marce forzate, era tutto alle spalle come un ricordo. Ora sapevamo di essere salvi e non c'importava più di nulla, manco il fatto di doverci consegnare ai vari Comandi, come prescriveva il Codice Militare.

Sette mesi prima, quando picchiava il solleone, eravamo baldanzosi, corteggiati con devozione dalle ragazze ed ora, come fuggiaschi, le ricercavamo per rincuorarci e ricevere il loro aiuto. Io avevo conosciuto Lubda, il Piera una certa Marusca. Le loro case non erano tanto lontane: si decise di andarle a trovare con l'accordo di ritrovarsi all'imbrunire del giorno seguente. Ripercorsi il sentiero che, seguendo lo steccato, portava alla casa di Lubda. Mi ritrovai davanti allo sgangherato vecchio portone, col cuore che mi batteva forte. Facendomi forza, aprii la piccola porta e, attraversato il cortile, bussai al vetro della finestrella a lato della casa. Provai attimi d'ansia, d'angoscia e quando me la vidi davanti non capii più niente. Lei, sbigottita, mi scrutava da capo a piedi, le sembravo un fantasma!. Più di un mese prima tutti gli Italiani se n'erano andati.... Mi prese per mano e mi accompagnò presso il camino, quel camino testimone un tempo degli abbracci e delle sue amorevoli effusioni. All'intorno tutto era come prima: il battipanni, i fiori di carta colorata che ornavano l'icona alla parete, la panca e l'angolo delle scartoffie; non era cambiato nulla. Mi accorsi più tardi però che era cambiata lei e pure io...., il suo sergentino, mortificato più che mai, vinto, fuggiasco, sporco, impidocchiato... , ero ai suoi piedi e le chiedevo aiuto. Rimase per un po' ad ascoltare il racconto delle mie peripezie, poi, forse mossa a compassione, m'invitò a spogliarmi. Mi fu servito un secchio d'acqua, una vera manna... Mi lavai ed ebbi così modo di liberarmi della sporcizia che, a causa delle svariate vicissitudini, mi portavo addosso. Mi mise a disposizione il suo letto castigato e m'addormentai tosto, vinto dalla stanchezza. Non era ancora l'alba quando, alla chetichella, venne a baciarmi, a lasciarmi il suo ricordo dolce, buono, umano, pietoso.

Giuro che sarei voluto rimanere e che stavo per ribellarmi a tutto. Non m'importava più niente della Patria, dell'Italia, della famiglia, dei compagni e dei sei mila chilometri di lontananza da casa mia.... Con un nodo alla gola la lasciai, correndo dall'altra parte della collina ove ritrovai gli amici, il Piera ed il Vendrame, quest'ultimo febbricitante, stanco. Lo incoraggiammo, dopo tutto raggiungere Rikovo non era un gran problema: erano 40 chilometri di marcia, volenti o nolenti, con una temperatura che volgeva al disgelo. Camminammo tutto il giorno lasciandoci alle spalle Novo Gorlowoka. Era sera inoltrata, buio pesto quando si arrivò a Rikovo e, seguendo i cartelli di segnalazione, si giunse al Centro di raccolta superstiti italiani. Consisteva in un salone, nel cuore di una vecchia fabbrica. Ci trovammo una decina d'Italiani, alcuni soldati rumeni ed altri ungheresi, anche loro sopravvissuti alla battaglia del Don. Non c'era molta organizzazione: valeva solo la parola "arrangiarsi". Quasi tutti, ammutoliti, coprivano sdraiati, parte del pavimento e nei loro volti si leggevano i patimenti della fame, del freddo e di una malcelata sofferenza. Era trascorsa la mattinata senza che i miei compagni decidessero il dafarsi ed io, spazientito, proposi di non indugiare; dovevamo in qualche modo avvicinarci ad uno scalo ferroviario e lì cercare uno dei tanti convogli-tradotta che ci portassero a Dnepropetrovsk. La distanza non era un gran che e quello era il modo migliore di raggiungerla senza doverla fare a piedi. Nessuno s'interessava al caso nostro e questa fu la ragione che ci spinse a partire.

 

 

11 - il convoglio

Non si aveva alcunché da mangiare ed il problema era come vincere la fame. Arrivammo così in un piccolo borgo di una decina di isbe, disseminate per un centinaio di metri lungo la strada e, conoscendone l'ubicazione, sapevo che attorno c'era l'orticello e qualche recinto dove erano rinchiuse le galline, al sicuro dai ladri notturni. Ci appostammo nell'attesa di una maggiore oscurità fino al momento di agire; la faccenda sembrava tanto facile, ma non fu così: la porta era ben chiusa, tanto che il Piera dovette armarsi di fucile per far leva ed il Vendrame impegnarsi manualmente e tirare a fondo onde creare un varco. Naturalmente spettò a me entrare, a fare il predone. Mi trovai in un pandemonio: le galline, spaventate, svolazzandomi attorno, creavano un turbinio di piume e di penne. Ne afferrai una prima, una seconda, poi una terza badando nel frattempo a tirare loro il collo e a passarle fuori ai compagni. Alla fine riuscii a prenderne una quarta. Ma nel tirare il collo a quest'ultima, forse con troppa violenza, mi rimase in mano la testa che non era possibile abbandonare là, in quanto sarebbe stata simbolo di malaugurio per la credenza popolare. Dovetti quindi metterla nella tasca del pastrano badando a non lasciare tracce di sangue lungo la strada. Aspettammo che le galline si chetassero e restammo in ascolto.

Riprendemmo la strada verso una pista da dove provenivano rumori di convogli di treni. Tutto sembrava andare liscio. Ma ecco che una pattuglia tedesca ci intercetta e ci impone l'alt. Con un guizzo mi assesto fra i compagni, zoppicando e trascinato da loro, fingo di essere ferito. Il pastrano è sporco di sangue ed è facile far loro credere di essere stati sorpresi in un'imboscata di partigiani e quindi di aver necessità di essere medicato. I Tedeschi abboccarono e corsero ad ispezionare quell'immaginario luogo da noi descritto e naturalmente in direzione opposta. Quanto abbiamo riso per quella beffa! Proseguendo verso la zona abitata, incontrammo un mezzo barbone, un anziano civile che ci fornì di ogni sorta di informazioni. Si capì che anche lui, come noi, aveva fame. Ci accompagnò a casa sua, una stamberga, dove si accese il fuoco e si arrostirono ben due galline. Divenne una serata insolita, piena di allegria, fatta apposta per dimenticare l'insofferenza, la noia, tutti i guai che avevamo patito, la nostra vitaccia. Il vecchio viveva solo: non disdegnò a offrirci il rimasuglio di vodka di una vecchia "butilka". Si rise, si chiacchierò, poi infine fummo vinti dal sonno e così, in quella stamberga, su quattro stracci, passammo la notte.

Al mattino fu il vecchio stesso a svegliarci: ci mettemmo in viaggio alla ricerca della ferrovia. Arrivammo alla periferia di Stalino raggiungendo la zona dove avvenivano gli scambi dei convogli diretti a Dnepropetrovsk. Ci fermammo ad osservare il movimento: non c'erano ostacoli e la sorveglianza era inesistente. Pochissimi erano gli addetti manovratori, tutti civili; ne incontrammo uno del posto che, a suo dire, se ne fregava della guerra e dei Tedeschi e che ci fece salire su un convoglio di ritorno. Il treno era inverosimilmente lungo, composto per la maggior parte da pianali fatti apposta per il trasporto dei vari automezzi. Trovammo posto su uno di questi e fummo costretti a stare sdraiati per non dare nell'occhio. La posta in gioco era davvero importante: volevamo porre termine alla nostra ritirata, alle nostre sventure. Finalmente il treno si mise in moto: dapprima pian piano, poi aumentando la velocità. Il percorso non offriva nulla di particolare: era tutta pianura ed ogni tanto si notavano acquitrini paludosi, canneti e cespugli, poi la zona divenne boschiva. Non si videro villaggi; solo di tanto in tanto doppi binari permettevano il passaggio dei convogli provenienti in senso contrario. Il più delle volte, era il treno del ritorno, quello vuoto, ad avere la precedenza, quello che strategicamente doveva andare a ricaricarsi e far sì che la guerra continuasse..

 

12 - centro raccolta

Si giunse finalmente a Dnepropetrovsk. Una densa foschia, prima dell'arrivo dell'oscurità, si levò su quello scalo grande, come grande era la città e pesante l'atmosfera, nera come i locomotori a vapore che stavano pronti a dare il cambio agli ultimi arrivati e che sbuffavano e vomitavano fumo e caligine. Altri, invece, erano a ricaricarsi di carbone o sotto un tubo ricurvo a fare il pieno d'acqua. Attraversammo parecchi binari per portarci dall'altra parte dove pochi punti di flebile luce segnalavano il centro direzionale ed altri centri di comando inerenti al settore della regione, l'Ucraina meridionale. Fra il personale che andava e veniva c'erano i civili, gli addetti a dare e portare ordini e, fra questi, i soldati della Todt di guardia e di ronda. Ad uno di questi chiedemmo dove fosse il Comando di tappa italiano, in quanto superstiti eravamo obbligati a ripresentarci e darne comunicazione. Un carabiniere venne a prelevarci e fummo condotti all'Ufficio: lo presiedeva un tenente che, data l'ora insolita, badò a soccorrerci con una bevuta di caffè, a sfamarci e a predisporre un locale adiacente per passare la notte. Solo al mattino, in sua presenza, riferivamo le nostre generalità e la nostra odissea. L'espressione dell'Ufficiale era apatica; provai un senso di ribellione. Egli stabilì che io e l'amico Pierantoni, incorporati all'XI Sezione di sussistenza in forza al Quartier Generale della Divisione Pasubio si dovesse raggiungere il Centro di raccolta reduci e superstiti dell'ARMIR, costituito dopo la disastrosa ritirata nella Russia Bianca e precisamente nella zona di Mozyr, ad una trentina di chilometri da Gomel. Tutt'altro trattamento era riservato al compagno Vendrame che, alquanto sofferente e malconcio, era avviato all'Ospedale militare per essere in seguito rimpatriato. A malincuore ci salutammo e ci separammo, ognuno andando verso il proprio destino e portando con sé i ricordi dei 70 giorni di ritirata e dei duemila chilometri di marcia. Del Vendrame, trentacinquenne, soldato scelto appartenente al Gruppo investigativo delle Camicie Nere, non si è saputo più niente.

 

La nostra libertà era finita: a fatica e di malavoglia dovevamo cercare la forza di reinserirci, di adoperarci per il bene degli altri compagni e tenere alto il nome della Patria lontana, nonostante per noi che avevamo patito fatiche immani per una guerra sbagliata, non avesse più senso. Con il foglio di trasferimento e una razione di viveri - pane nero duro e stomachevole margarina -, ci fu dato l'ordine di partire per Kiev e raggiungere poi Mozyr.

 

Arrivammo al piccolo villaggio, un borgo su un declivio, non toccato dalla guerra e dove una linda chiesetta col suo piccolo campanile dominava una rosa di casupole. Fuori del borgo, alcuni fabbricati a ridosso di un'ampia radura erano adibiti a scuole e delimitati dal campo base sede del Centro di raccolta italiano ARMIR. Fummo alquanto sorpresi nel vedere un soldato fare il piantone, la guardia alla porta del fabbricato, ma più ancora nel notare il sopraggiungere di una Compagnia di soldati, seguita da una seconda e poi da una terza, in pieno assetto di guerra. Erano di ritorno da una delle solite marce, comandati da un odioso ufficiale che esigeva una disciplina da legionari. La sede era diretta da un capitano e l'organico consisteva in un centinaio di soldati, appartenenti alla varie divisioni Ravenna, Sforzesca, Pasubio, Cosseria, Torino, che arrivavano e ripartivano, nell'attesa di essere rimpatriati secondo le disposizioni dei superiori. A me toccò il compito di capo pattuglia poiché era necessario salvaguardare, in accordo con il comando tedesco, la linea ferroviaria vicina che serviva per andare a Gomel. Era vero che i civili partigiani avevano creato il cosiddetto terzo fronte ed operavano all'interno con atti di sabotaggio su convogli e linee di comunicazioni, ma era anche vero che noi, con quello che avevamo passato, non eravamo entusiasti di riprendere le armi e a me quel compito non andava proprio giù. Affiancato ad un caporale e a quattro soldati, partii comunque, per un pattugliamento, scendendo per un sentiero sino a raggiungere un canneto. Da là proveniva uno strano frusciare che a tratti si fermava per poi riprendere. Eravamo all'erta: una sagoma scura avanzava verso di noi. Stavo per premere il grilletto ma un mugolio mi fece desistere; apparve così un bellissimo esemplare di femmina setter dal pelo fitto, lungo, color oro, con un collare. Fui particolarmente attratto dalla mansuetudine che manifestava nel leccarmi le mani: ci veniva dietro quieto ed ogni qualvolta ci fermavamo, col muso mi sfregava le gambe. Era un animale addestrato, intelligente, dallo sguardo mite, che scodinzolando esprimeva il suo affetto. Decisi di tenerlo con me e lo chiamai Lilla: avrei capito in seguito che la sua presenza mi portava un immenso beneficio perché quando mi coricavo, veniva lesto ad accovacciarsi ai miei piedi e mi riscaldava. La temperatura era sempre sottozero e il freddo si sentiva ...

I giorni passavano svelti e mentre i compagni sottostavano alla marcia quotidiana e ad una disciplina insensata, il Piera era in attesa della partenza ed io ero impegnato a preparare le razioni viveri e a fare la contabilità. I viveri di scorta erano quelli lasciati dalla 282^ Divisione tedesca dislocata a Gomel; consistevano in pane nero, scatolame di margarina, krup, semi di miglio, orzo, surrogati di caffè, sigari e sigarette. Un pane nero dalla forma rettangolare e dal peso di 800 grammi, doveva bastare al soldato per cinque giorni, così pure una scatola di margarina, al tutto si aggiungeva una brodaglia giornaliera di kruf o di orzo e l'acqua tinta del surrogato di caffè. Con la partenza del Piera l'organico si era quasi dimezzato. Avevo perso un amico ma ne avevo trovato un altro, Lilla, la cagna che, dovunque andassi mi seguiva sempre, obbediente. Avevo fatto amicizia anche con i soldati rimasti che, rassegnati come me, passavano abulicamente i giorni, fregandosene della disciplina e del tenente, tanto ormai si sapeva che il rimpatrio era questione di giorni.

 

13 - Il rimpatrio

Era il mattino del 15 marzo quando mi fu dato l'ordine di distribuire l'ultima dispensa. Fu singolarmente ricca e ciò era preavviso di partenza per il rientro in Italia e motivo di tanto entusiasmo in noi. Mi avevano ordinato inoltre il compito di catalogare la giacenza viveri e portarne copia al Comando di zona della 282^ Divisione tedesca a Gomel. In pratica dovevo fare il trapasso di consegna. La cosa mi aveva messo a disagio: mi puzzavano quei 30 Km. da fare. Avrei voluto starmene nel gruppo a scanso d'eventuali sorprese e quindi chiedevo ai compagni chi di loro volesse farmi compagnia in cambio della mia razione di sigarette. Un certo Zugliani e il Mori si offrirono di accompagnarmi; partimmo subito puntando verso la ferrovia. Eravamo tre uomini e con noi c'era anche Lilla: formavamo così una pattuglia speciale, autonoma, indipendente. Il modo migliore per arrivare a Gomel era la ferrovia e poiché un convoglio stava per sopraggiungere, approfittammo della sua lenta corsa, per salire e sistemarci. Il treno era lungo: al seguito della locomotiva a vapore c'erano due vecchie carrozze ed alcuni carri che servivano da trasporto di autoveicoli e mezzi bellici. Questo significava che la linea era di particolare importanza dal punto di vista strategico e quindi era oggetto di attentati da parte dei partigiani. Il percorso non era lungo ma attraversava una zona paludosa, con macchie boschive: siccome correva voce che fossero saltati i binari e il ponte, subivamo un continuo rallentamento e interminabili soste. Pur di non lasciar passare altro tempo, tenuto conto che Gomel non era poi tanto lontana, decisi di riprendere lo zaino in spalla e ci rimettemmo in marcia. Nonostante le notevoli difficoltà, badavamo a non mettere piede fuori della linea dei binari poiché i sentieri laterali potevano essere minati. Giungemmo alla sede del Comando di Tappa italiano. Là passammo la notte fra i rumori e il trambusto dei convogli in corsa e le spinte dei vagoni dei treni in formazione; poi, fattosi giorno, andammo ad espletare le pratiche conclusive.

Finalmente ero libero! Con un gran respiro di sollievo potevo gridare contro quella maledetta guerra e i capoccioni che l'avevano voluta. La tradotta che stavano formando era certo uno degli ultimi treni in allestimento per il rimpatrio dei resti del materiale e delle truppe: ciò che rimaneva dell'ARMIR, l'armata italiana, erano le migliaia di caduti e di prigionieri. Il 16 marzo non fu un giorno come gli altri ma un giorno di spasmodica attesa: le ore passavano e la sera stava per sopraggiungere quando finalmente apparve uno sbuffante locomotore che trascinava una lunga fila di vagoni. Noi eravamo lì, trasognati, mentre rivedevamo i compagni che avevamo salutato e lasciato due giorni prima. Si susseguirono i controlli, le verifiche dei superstiti, degli automezzi e del materiale. In testa al treno c'era il locomotore, poi il postale ed una carrozza passeggeri che faceva da sede, ufficio, mensa e dormitorio esclusivamente per gli Ufficiali. Seguivano due vagoni chiusi, come quelli che nell'anteguerra erano adibiti al trasporto degli animali e che servivano ora al trasporto delle bestie-soldato. Il convoglio terminava con una lunga fila di carri piani, sovraccarichi di automezzi tra cui spiccavano i camion con i segni della Crocerossa e fra le cui cabine noi trovammo posto.

Fu il 18 marzo 1943 che iniziò finalmente il viaggio di ritorno e del rimpatrio, ma solo dopo ben 31 lunghissimi giorni e dopo 5.000 chilometri di tran tran e di stanca vita sedentaria volse al termine. Fra l'oscurità della notte in cui veloci ombre si susseguivano, noi stavamo rannicchiati e ci lasciavamo trastullare dai sussulti della corsa e vincere dalla sonnolenza, pensando ai ricordi dei giorni trascorsi. Di giorno, il paesaggio appariva sempre lo stesso: prati e radure, betulle e conifere fuggivano al nostro passaggio e tali visioni rivivono ancora nella mia mente. Si viaggiò nella zona centrale della Russia Bianca e si giunse verso sera a Minsk dove il treno fermò la sua corsa in una selva di binari. Zelanti guardie locali ci proibirono di scendere fino a quando il treno raggiunse finalmente il terminal, di fronte ad un ampio caseggiato che era il Campo contumaciale. In quel luogo, come derelitti che potevano essere portatori di infezioni coleriche o di tifo petecchiale, fummo costretti a scendere con tutti i nostri stracci e in fila, aspettando il nostro turno, a subire, tramite forbici e rasoi, la completa eliminazione di tutti i nostri "peli". Il trattamento si concludeva con una doccia e col rivestimento dei nostri indumenti che nel frattempo erano stati bolliti. .. Lasciato quel terminal, iniziò la corsa alla volta di Brest, verso sud-ovest, il confine polacco: fu l'inizio di un lunghissimo rosario fatto di innumerevoli soste forzate per dare la precedenza ai treni che, in senso contrario, andavano e venivano ad alimentare il fronte del nord-est. Furono necessari 30 giorni e 30 notti per superare il percorso che va da Minsk toccando Brest, Varsavia, Kiev, Cracovia, e attraversando la Slovacchia e l'Austria, giunge a Tarvisio confine, il suolo della Madrepatria. Il susseguirsi delle visioni delle rovine di Brest e Gracovia prima e dell'immensa pianura della Slovacchia e dell'Austria poi, non furono sufficienti a distrarci e a far vincere la noia. Era una sofferenza continua l'incessante numero delle fermate di giorno e di notte durante le quali noi ci sentivamo abbandonati da tutti e colpevoli per essere sopravvissuti..

Avvicinandoci all'Italia il tempo si manteneva benigno. Le previsioni erano buone e il vento era quello di primavera; si presagiva aria di festa perché l'eco dei rintocchi delle campane si propagava fra le montagne annunciando che la Pasqua era vicina. Il nostro cruccio era quello di non poterla festeggiare in famiglia. Finalmente il treno fermò la sua corsa a Tarvisio Dogana. Una certa euforia si manifestò: eravamo in Italia e si compiva l'odissea. I finanzieri ci accorsero calorosamente e alcuni di loro ci accompagnarono al piazzale della stazione dove una Compagnia di militari rendeva gli onori di rito al suono della banda e alcune ragazze, con cestini di fiori e sorrisi, festeggiavano il rimpatrio degli ultimi superstiti. Finita la cerimonia, due pullman ci accompagnarono a Camporosso in un Campo di contumacia dove le autorità ed altri militari ci schedarono minuziosamente e ci tennero in "caotica" prigionia per 15 giorni, da trascorrere con giochi, divertimenti vari, spettacolo di riviste condotte da intraprendenti donnine con lo scopo, simile a un lavaggio del cervello, di farci dimenticare i patimenti della campagna di Russia. Era il 18 aprile, vigilia di Pasqua. L'uscita era preclusa in modo assoluto e i giorni erano diventati opprimenti: la voglia di tornare al paesello, di rivedere la famiglia, i fratelli, i compagni, si faceva sempre più pressante mentre del "can-can" non me ne importava nulla. Venne finalmente l'ultimo giorno. Mi fu data una nuova divisa, nuovi indumenti, nuovo zaino e con una licenza straordinaria di 30 più 10 giorni, fui accompagnato alla stazione di Tarvisio. Mi furono consegnati i documenti di viaggio.

Era il 3 maggio 1943. Durante l'ultimo tragitto in treno, immaginavo la gran sorpresa che avrei fatto ai famigliari; infatti, del mio ritorno nessuno era stato informato. Scesi a Treviso e trovai la coincidenza per Vicenza dove arrivai verso le quattro del pomeriggio. Avevo due ore di attesa per il trenino della Riviera Berica detto "la vacca mora" e quindi per ingannare il tempo, m'incamminai verso il Santuario del Monte Berico, dedicato alla Madonna, per una visita di ringraziamento. Con me c'era Lilla al guinzaglio che avevo lasciato di guardia allo zaino nella piazza antistante la chiesa e che roteandogli intorno, teneva a bada i curiosi offrendo così lo spettacolo della sua intelligenza. Dopo aver preso il trenino arrivai all'imbrunire alla fermata del paese "Ponte di Mossano" e i tre chilometri che mi dividevano da casa li superai con passo svelto, senza sentire alcuna stanchezza. L'incontro con i famigliari fu indescrivibile: i pianti di gioia, le manate sulle spalle, gli sguardi compiaciuti delle zie, dei vicini e più ancora quelli del nonno, esprimevano la fortuna ed il miracolo nel rivedermi vivo e sano, nuovamente fra loro.

Ma non era finita!

Dopo il rimpatrio, fui nuovamente assegnato al Q.G. Sezione Commissariato di Bolzano.
La guerra ora infuriava non in Russia ma in Italia. Il 25 Luglio viene "liquidato" Mussolini. "La Guerra continua", diceva il comunicato di Badoglio! Poi l'8 settembre! La fuga dei capi, con il sovrano in testa. La "Guerra continua" ma non si sapeva contro chi. L'esercito allo sbando.
A Bolzano in poche ore gli eventi precipitarono: fatto prigioniero dai tedeschi, fui sbattuto nel greto del torrente Talvera; ci attendeva la deportazione in Germania; dopo cinque giorni - e fu un vero miracolo- sono riuscito a fuggire. Poi....e poi....

Sante Mucchietto


Prosegue il redattore di queste pagine: Dopo certe esperienze iniziano i silenzi, si diventa muti, per giorni, per mesi, per anni. Con nessuna voglia di raccontare.
Per Sante Mucchietto, in Italia, come per molti italiani, ebbe inizio una seconda fase di vita, molto più dura di quella trascorsa in Russia. Per lui essere vivo in Italia -lo ha detto- gli sembrò quasi un miracolo, dopo che molti suoi compagni da quel campo di concentramento in via Resia, messi su un carro-bestiame finirono deportati in Germania.

Quella tragica esperienza in Russia e poi anche quell'umiliazione di essere catturato a Bolzano dagli stessi tedeschi, l'aveva portato ad un totale mutamento di carattere, e vide così nascere in lui una feroce avversione verso la guerra, e verso... (verso chi, lo possiamo benissimo immaginare: "quelle altre "nobili" e "onorevoli" fughe!).

Ma non finiva lì. Si sentiva circondato da un doppio nemico: da uno era ricercato come disertore, mentre l'altro (e questo fu per molti un dramma senza via d'uscita) se non disertava diventava lui il bersaglio preferito, come se fosse solo lui il responsabile del " disastro".
Riuscendo a sfuggire più volte ai rastrellamenti, si unì e collaborò in modo autonomo con gruppi di partigiani del Vicentino e del Padovano e per quel periodo che va sino alla liberazione ebbe a dire: "Feci il vero uccel di bosco, così da vivere da bestia tra le bestie".

Al posto degli affetti (a quanti, dopo aver sofferto, è accaduto la stessa cosa!) c'erano le ritorsioni; il padre, lo zio, i compagni di scuola erano filofascisti, alcuni anche componenti della X MAS e della nota "S.Marco". Dunque, di chi fidarsi? La casa, il paese erano occupati della SS Tedesche. Dove andare, con chi, contro chi e a far che cosa?

Finì in Italia come sappiamo da altre pagine, anche questo oscuro periodo. A liberazione avvenuta Sante Mucchietto ebbe una croce al merito per la campagna di Russia. Negli anni successivi collaborò prima per rimettere in sesto le condizioni della famiglia, in seguito decise di cambiare vita e di crearsi una famiglia, un'attività. Da anni è pensionato e il suo tempo libero è occupato da due hobbies particolari: collezionare minerali e scolpire materiale ligneo. Per arricchire la sua collezione, partecipa a incontri e a mostre di scambio, alternandosi nello studio e in approfondite ricerche; inoltre è un instancabile lavoratore e sostiene che il lavoro stesso gli restituisce la giovinezza amaramente vissuta ed è come buon medicinale per scordare le esperienze e gli orrori della guerra.

 

Sante Mucchietto è nato il 1° novembre 1921 a Mossano,
piccolo comune del Vicentino noto quale Paese dei 14 Mulini.

Il redattore di queste pagine gli porge tanti auguri, e grazie della sua testimonianza.
Chi volesse mettersi in contatto con lui la sua e-mail è
[email protected]

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