Dalla   Russia con orrore  - Memorie 


 
Russia: inverno-inferno 1942/1943
(Memorie di un ventenne sopravvissuto: Sante Mucchietto)

LA GIOVINEZZA - LA PARTENZA PER LA RUSSIA - VERSO IL FRONTE - SUL DON
NATALE DI GUERRA - L'ADDIO AI COMPAGNI - CERKOVO: LA VALLE DELLA MORTE
LA FUGA - ATTRAVERSO LA STEPPA - IL RITORNO - L'8 SETTEMBRE
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1 - La giovinezza

Prima di iniziare i miei 5 anni di guerra è necessario risalire al 1935, l'anno che senz'altro ha contrassegnato il mio destino proponendomi giorni irti, fatti all'insù, giorni di vita tutti in salita. Frequentavo allora il III° anno di ginnasio quando per mancanza di risorse economiche dovetti abbandonare la scuola e rientrare in famiglia. Mio padre conduceva in fitto il primo dei 14 mulini della valle e mio nonno fungeva da padrone. A lui era rimasta una vecchia casa ed il piccolo podere della vigna, lasciatogli dal bisnonno Sante. Ma anche questa sua proprietà, l'anno successivo ebbe ad estinguersi per sanare i debiti. Erano tempi molto duri e a mezzogiorno e a sera erano contate 13 bocche da sfamare. A segnalare le ristrettezze economiche, e come ago della bilancia, era l'aringa arrostita dal sapore di fumo e baciata dalla polenta. Avevo allora 14 anni e non mi rassegnavo a dover perdere gli studi. Tanto che alcuni mesi dopo ritentai a riprendere la scuola come privatista. Ma fu tutto inutile. Non c'erano i mezzi e fu allora che il nonno mi volle con sé beniamino, e lui per me fu il gran maestro, soprattutto maestro d'onestà. Ultraottantenne, lo chiamavano il "galantuomo" ed era sulla bocca di tutti; non per niente aveva fatto il sindaco per diversi anni. Il 1935 era pure l'anno in cui l'Italia era andata a fare la guerra all'Abissinia e l'anno seguente cantava vittoria e creava l'Impero. Agli occhi del mondo era diventata grande e più grande ancora era stata nell'anno 1938 diventando campione del mondo per merito degli Azzurri di Pozzo.
Erano cose belle e piacevoli a sentirsi alla radio e per gli Italiani l'inizio del benessere. Per me, invece, la vita non era migliorata, anzi direi, peggiorata. Non c'era nessuna alternativa di miglioramento. Col nonno dovevo zappare la vigna, col padre dovevo essere sempre pronto a fare l'asino. Venivo comandato ad andare per i casolari dei contadini sperduti tra le colline del paese a ritirare il grano e riportare il macinato; sacco sulle spalle su e giù per scorciatoie e sentieri tortuosi e sconnessi. Ero il secondo dei sette fratelli e forse quello che sgobbava di più.

Venne l'anno 1939 a farmi diventare giovane di leva, a farmi capire che potevo cambiare mestiere e non essere più di peso alla famiglia e, in certo qual modo, che potevo avvalermi degli studi conseguiti gli anni prima. Sottoposto alla visita medica di leva e abilitato, non esitai un istante ad esternare a quelle autorità il desiderio, la mia volontà di arruolarmi volontario. Fui esaudito e fu la mia liberazione. La cosa, non era stata bene accolta in famiglia e tutti mugugnavano dandomi del matto e credevano ad uno scherzo. Solo dopo alcuni mesi, vedendo arrivare la cartolina precetto, si resero conto della realtà. Ed eccomi a Vicenza. E' il 10 dicembre 1940. Fu il giorno in cui al Distretto militare lasciai i panni borghesi per rivestire quelli in grigioverde. Mi fu dato un foglio di via e alla stazione, con pochi soldi in tasca, salii sul treno con destinazione Bolzano IV Compagnia di Sussistenza. Sul treno e durante il viaggio non sentivo alcun rimorso, alcun rimpianto per aver lasciato la famiglia, i compagni di borgata, il paese. Mi sentivo sereno, fiducioso, convinto che avrei cambiato la vita, che avrei trovato altri compagni, altre cose e che mi sarei trovato tra le montagne e gente che parlava tedesco. Il colletto della giacca che indossavo era orlato da un cordoncino dorato per indicare che sarei stato soggetto ad un corso di specializzazione, quindi militare di carriera. I primi giorni, se pure un po' spaesato, non mi furono pesanti, non mi fu difficile l'ambientamento con i soldati anziani e con la vita di caserma. Lo studio di cose nuove mi piaceva ed i primi sei mesi passarono veloci. Grazie all'educazione avuta a scuola ed ai consigli del nonno, avevo imparato, oltre che ad essere disciplinato e rispettoso ad essere altruista con tutti. Era l'unico modo per farmi benvolere.
Superato brillantemente il 1° corso, iniziai il secondo e passai ai Magazzini Generali di C.d'Armata, fuori città, non tanto lontano dalla caserma. Il corso era teorico-pratico: dovevo badare ai controlli meteorologici, di stoccaggio e di distribuzione. Al nono mese di servizio mi furono dati i gradi di Sergente. Non avevo ancora compiuto i 20 anni e fui avviato a frequentare il corso di logistica alla Scuola della Farnesina di Varna, vicino Bressanone. Eravamo 21 allievi e ne uscii il solo promosso. Fui avviato al Quartier Generale alla Sezione di Commissariato militare di Bolzano. I miei superiori erano allora il Maggiore Margoglio ed il Maresciallo Piliteri. In un anno avevo bruciato tutte le tappe. Mi pareva di essere diventato importante, quasi quanto un generale, godevo di libertà di servizio, di un speciale trattamento e rispetto, ma non mi sono mai montato la testa ....

 

2 - La partenza per la Russia

Ho l'ordine di presentarmi presso la Sezione di Commissariato Militare, dove il Colonnello Pini, come un buon padre, mi comunica, mettendomi le mani sulle spalle, che la Patria ha bisogno di me. Devo quindi essere trasferito, aggregato ad un reparto misto presso il 232° Reg.to di Fanteria dislocato presso Laives, e in seguito, dopo qualche giorno di preparazione, essere inviato a raggiungere il Corpo di Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.). Sono assegnato alla 3^ Compagnia e faccio conoscenza con i nuovi compagni di vario grado, in parte giovani ed in parte più vecchi di me perché richiamati. Nei loro volti non c'è aria di allegria ma solo confuso disagio; l'attesa della partenza viene colmata da lunghe marce giornaliere ed estenuanti esercitazioni.
Lo slogan ricorrente, infatti, ci vuole pronti, forti, coraggiosi, veri soldati.... Giovane com'ero, impegnato ad eseguire e a far rispettare gli ordini, predisposto ad un facile adattamento, non mi soffermavo certo a tante riflessioni; organizzai comunque una protesta quando, dopo la pesante fatica delle marce, ai soldati della Compagnia, affamati, in fila per il misero rancio, veniva distribuito solamente brodaglia con un po' di pasta e pane ammuffito. E questo non aiutava certo a sollevare il morale... Finalmente ci viene comunicata la partenza e, il 24 maggio, l'ordine di sfilare, con zaino in spalla, sotto il naso delle alte autorità, per far vedere l'efficienza e ricevere il loro plauso e il loro saluto. Qualche giorno dopo si sarebbe ripetuto il copione, con l'accompagnamento delle note della fanfara, si sarebbe sfilato attraverso la città e i sobborghi della periferia fino alla stazioncina di Bronzolo, centro parco ferroviario di smistamento della città di Bolzano. Su un binario ci attendono una decina di carri merci ed una carrozza passeggeri che sarà riservata naturalmente al Comandante ed ai suoi Ufficiali. Nell'attesa della partenza, qualcuno scrive le ultime cartoline, qualcun altro l'ultima lettera. Io sono assillato dal pensiero del futuro e mi chiedo "come sarà l'arrivo a quell'immensa pianura della lontana Russia?". Con il calar della sera un trombettiere ci chiama all'adunanza e si ha l'ordine di prendere posto. La sistemazione nei vagoni chiusi coincide con l'addio alla branda: accovacciati, raggomitolati, si passa la notte a tu per tu senza la possibilità di guardarci in faccia, fra il rumore di altri convogli che vanno e vengono fino al sorgere del giorno quando, una locomotiva, con un grande scossone, viene a prendersi la merce umana. Sullo spiazzo antistante la stazione c'è il nostro comandante ed è segnale che la partenza è imminente. Si sentono i martelli sferragliare sulle ruote mentre gli agenti controllano ogni carro con il suo carico. L'attesa si fa spasmodica, snervante; ma ecco il capoccia con il suo rosso berretto, ancora qualche minuto di silenzio, e il suo fischietto segnala che si parte ... Il treno è lungo, sono due locomotori a trascinarlo in una corsa non tanto veloce anche perché la strada è sempre a salire sino al Passo del Brennero.

Così ha inizio l'odissea di un viaggio che sembrerà non finire mai. Saranno 31 giorni ininterrotti fatti di soste più o meno prolungate, attese, scambi di precedenza per altri convogli, corse al rilento, e noi lì, con gli occhi rossi, gonfi, avidi di vedere, scrutare paesaggi insoliti, nuovi, pianure distese, casolari sperduti nell'ondulazione dei prati, e macchie d'alberi nelle vastità dei boschi. Spasimante sarà pure la sinfonia del trantran del treno che toglie il senso della realtà e costringe ad una sonnolenza irrequieta confondendo i ricordi con i sogni.... I giorni passano lenti, unico mio diversivo è quello di consultare di tanto in tanto il carteggio topografico per curare l'orientamento ed analizzare la situazione. Arriveremo a Varsavia dove i segni della guerra sono evidenti: edifici sbriciolati, ponti divelti, rottami di ogni genere testimoniano che c'è stata battaglia e più si andrà verso nord più apparirà l'orrore della distruzione. Nessuno venne a dirci che eravamo arrivati alle retrovie del fronte Nord dove con maggior intensità infuriavano i combattimenti e dove tutto era movimento di truppa, di blindati, di automezzi. Si vedevano pure squadre di operaie, le donne del posto, mobilitate, militarizzate dal Reich, obbligate all'abbandono delle loro case, all'abbandono dei figli, allontanate dai loro villaggi perché abili, e quindi utili al ripristino delle strade, soprattutto quelle della rete ferroviaria.

Tutto e tutti dovevano contribuire al raggiungimento della vittoria. Era questo il motto, lo slogan. Noi eravamo ancora abbastanza lontani dalle linee del fronte. Eravamo arrivati a Brest. Non c'erano che vecchi e bambini spauriti e diventava consueto vedere donne contrassegnate con la stella di David: erano destinate al lavoro forzato, sorvegliate dalle S.S. Il loro calvario era segnato: erano condannate all'esaurimento fisico col lavoro; poi quando le forze non le avrebbero più rette, erano avviate ai lager della morte. Neppure prigionieri si erano visti, e sì che al sentire ne avevano fatti tanti, nella sacca di Minsk, al nord della Bielorussia. L'impressione che si provava era tremenda, crudele ed in qualcuno di noi incominciava a svanire la speranza di un ritorno. A consolarci, così per dire, erano i bollettini delle avanzate al sud, verso il Caucaso, delle colonne corazzate. Lo spirito dei soldati tedeschi era alto e per loro la vittoria era vicina. Ma gli altri bollettini che provenivano dall'Africa non erano altosonanti e per noi soldati italiani erano di tutt'altro umore. Grande era così in ognuno di noi la confusione e lo sconcerto, tant'è che qualcuno provava a canterellare ironicamente la canzone "Illusione dolce chimera sei tu." Sembrava un paradosso; una prova si ebbe il giorno dopo quando ci fu cambiata la rotta e fummo avviati al sud verso Kiev.

 

3 - Verso il fronte

La notte l'avevamo passata alla zona periferica di Brest; all'alba eravamo già in movimento. Il paesaggio era in parte offuscato dalla foschia e la visione dell'immensa pianura, del terreno paludoso in ebollizione era grigia, misera, bruciacchiata. Il treno correva lentamente, parallelamente al grande fiume, il corso del Dniepr e ci vollero ben quattro giorni per superare la distanza dei 1200 km. tra Brest e Kiev. Le soste erano diminuite ed avvenivano solo per il rifornimento di acqua e carbone alle locomotive. Infuriavano intanto le battaglie per la conquista del bacino del Donetz e all'inseguimento delle truppe russe che si erano sganciate e correvano ad assestarsi al Don. L'euforia dei Tedeschi per la strepitosa vittoria di Kharkov non si era ancora spenta, era fortemente sentita per l'annientamento delle armate sovietiche in quella sacca.
Avevano fatto 240.000 prigionieri. Il loro morale era alle stelle e facevano sfoggio del loro credo e delle loro doti di superuomini invincibili. Lungo tutto l'arco del nostro trasferimento, i segni della guerra divennero sempre più evidenti e più marcati all'avvicinarsi a Kiev, la capitale dell'Ucraina. Lungo la ferrovia il terreno era divelto, cosparso di buche profonde; in vicinanza alla città si vedevano i caseggiati bruciacchiati, distrutti. Era venuta la sera a cancellare col sopraggiungere dell'oscurità quello scenario di desolazione, fatto di sagome astratte e di penombre ed era arrivata anche la pioggia a farci sentire gli acri odori del fumo. Il passaggio della guerra in quella zona era stato violento, quasi fulmineo. Lo si sentiva non troppo lontano perché durante le poche ore di sosta, erano le pattuglie a sorvegliare, a trafficare nel dare ordini di partenza o a convogliare treni, dirottarne altri, lanciare imperiosi comandi e rompere così il lugubre silenzio. Ricordo che non potevamo scendere dal nostro vagone e nulla potevamo vedere. Ogni cosa ci era preclusa e così avevamo perso la cognizione del tempo.

Il nostro interminabile viaggio ci portò finalmente a Dnepropetrovsk, una grande città che non appariva tanto sconvolta, ma spenta, svuotata in parte dalla sua gente che se ne era andata per non sottostare agli ordini dei Tedeschi. Dnepropetrovsk era un centro terminale, sede di comando tappa, con parecchi quartieri adibiti a sedi dei vari comandi, e lì brulicavano come formiche i soldati dalle uniformi multicolori, di vari paesi: Tedeschi, Ungheresi, Rumeni. I Tedeschi erano i padroni, a loro spettava la precedenza. Gli Ungheresi con i loro cavalli trascinavano carrette, i loro carriaggi per il trasporto di vettovaglie, e così pure i Rumeni: dovevano seguire le guarnigioni che si erano impegnate e battute per la conquista del bacino carbonifero, il Donetz.
Degli Italiani nessuna comparsa; solo un maggiore, alcuni sottufficiali e alcuni soldati acquartierati in uno stanzone, un vecchio magazzino, davano istruzioni per l'avvicendamento e le modalità per raggiungere il proprio reparto. Mi ci vollero ancora due giorni per raggiungere la sede, sempre provvisoria dell'11 Compagnia di Sussistenza, facente parte della Divisione Pasubio. Mi sembrava di essermi disperso in un mondo di sogni . . . Ebbi comunque modo di rendermi conto della reale situazione e di assistere allo smistamento di truppe, al passaggio di colonne motorizzate, camion colmi, stipati di soldati, seguiti da autoblinda e da carri blindati, armati d'ogni genere, e tutti alla rincorsa delle avanguardie che inseguivano i Russi in ritirata. A segnare le piste erano i canali di fanghiglia e pozzanghere che si creavano con la persistenza delle piogge e della forte umidità. Le ruote dei mezzi sprofondavano con facilità in quella rossa polenta, e più di uno rimaneva intrappolato, inchiodato fino a quando qualcun altro non fosse stato pronto a dare una mano . . . Finalmente mi venne comunicato che dovevo aggregarmi ad una colonna di una decina di automezzi, giusto appunto quella della undicesima Compagnia Sussistenza che era venuta a fare in Dnepropetrovsk il carico di viveri.

Era il 12 luglio del 1942. La partenza avvenne con l'oscurità onde evitare possibili attacchi aerei nemici; la visione all'intorno era quasi nulla e solo la flebile penombra delle mezze luci ci permetteva di individuare la pista fangosa che ci portava a Stalino, capoluogo del bacino carbonifero del Donetz, la regione che alcune settimane prima era stata felicemente conquistata in un solo sbalzo in concomitanza con la battaglia per Kharkov. Dovevamo attraversare piccoli e tortuosi saliscendi, eravamo sempre in tensione e avevamo grande paura. Con continui sobbalzi e strattoni, ci lasciavamo alle spalle chilometri e chilometri senza incontrare anima viva. Così era passata la notte fino al sorgere dell'alba, quando vinti dalla stanchezza e per la necessità di raffreddare i motori, si dovette fare sosta a ridosso di alcune isbe di un villaggio. Spiccava fra queste il kolkos, una costruzione tipica, fatta di mattoni il cui impasto alla luce risultava fatto con terra, paglia e sterco bovino, il tutto ricoperto di bianca calce.
La sosta non fu lunga e si riprese a viaggiare con i favori del vento che in quella zona la faceva da padrone e man mano che si andava avanti cambiava la morfologia del terreno: se prima erano le pozzanghere a segnalare la pista, ora era la terra battuta da cui si sollevava la scia di neri polveroni. Avevamo fatto una cinquantina di km e non ci pareva vero di essere giunti nelle vicinanze di Stalino. A segnalarcelo furono le dune, i dossi, i cumuli di carbone, i comignoli delle miniere disseminate lungo l'arco della periferia. Il paesaggio era nero, tetro, senza vita, perché nulla si muoveva; tutto era lasciato all'abbandono. Provvisori cartelli segnalavano la direzione delle varie località ed altri cartelli con segni convenzionali indicavano i vari corpi di appartenenza. Non fu difficile per noi trovare e prendere la via per Rikovo.

Così eccoci a percorrere una strada battuta, ghiaiosa, a cavallo di nude e sterili colline che costituivano la regione del Dombass. Di tanto in tanto venivamo superati da mezzi motorizzati: portaordini, ambulanze portaferiti. Si incontravano pure gruppi di soldati intenti ad operare, controllare, stendere o sostituire linee telefoniche; di gente, di civili, nessuna traccia, nessun segno. Apparve Rikovo in fondo all'orizzonte, all'est, un agglomerato sempre più grande, in evidenza. La si raggiunse in pieno giorno, quando il sole picchiava forte e la sonnolenza ci investiva, ma si doveva stare sempre all'erta a guardare all'insù che il cielo fosse libero, pulito, sgombro da quei puntini neri, o meglio da quelle virgole che erano gli "apparecchi" sempre pronti e fulminei a piombarci sopra. Fra una casa e l'altra si notavano costruzioni massicce dove fra i rossi mattoni spiccavano le allegoriche effigi della stella rossa con falce e martello. Quelle erano le fabbriche Kolkos dove alcuni mesi prima si lavorava ed ora erano là, macchiate, coi segni della distruzione per il passaggio della guerra e tutto sembrava fermo, senza vita. Attorno c'erano disordinati agglomerati di case basse, d'isbe costruite in parte con assiti di legno e altre con terra e paglia imbiancate secondo l'usanza locale; Rikovo era una cittadina abbastanza importante, distesa e disseminata lungo la rotabile che porta a Novo Gorlowka e Voroshilovgrad. Avevamo scelto una radura e fra alcune isbe, una fattispecie di baracche, i camion della colonna si erano sparpagliati come al gioco del nascondersi per prevenire così i possibili attacchi aerei. Tranne alcuni soldati posti a fare da sentinella, quasi tutti riposarono; io avevo preso lo zaino ed ero andato ad accovacciarmi poco lontano ai piedi di una parete ed all'ombra di cespugliosi prugnoli. Avevo sonnecchiato, ma più che un sonno era stato un dormiveglia, perché ero assillato dalla morbosa necessità di conoscere il termine effettivo di quel continuo spostamento.

Mi sentivo abulico, avvertivo dentro di me un certo disagio; l'esuberanza dei miei vent'anni era prigioniera, contenuta, ostacolata anche dalla mancanza di contatto con la gente. Venne sera inoltrata e di conseguenza si ripartì. Fu ancora lo stridore, il rumoreggiare dei motori ad accompagnarci nella notte. Una sorda monotonia ne rompeva il silenzio e solo la passionaria luce della luna ci era di buon auspicio: il suo apparire fra le nuvole mi aveva invogliato a riattaccare discorso e a chiedere: "ma insomma dove sono questi Russi?" I primi albori del giorno successivo ci vide a Voroshilovgrad. La zona era spaccata in due dalla camionabile; i rioni parevano dispersi e le isbe adagiate su dolci pendii collinari. La strada era trafficata, i palazzacci al suo ridosso erano sede centrale dei vari organi del regime e negli spiazzi antistanti, degli scuri edifici erano adibiti a scuole o enti culturali. Fu in uno di questi che si era provvisoriamente acquartierata l'Undicesima Compagnia di Sussistenza e qui ebbe a finire il mio lungo viaggio di avvicendamento. In quei primi giorni di permanenza, avevo avuto sentore di come era stata occupata la città e di come erano stati accolti i soldati italiani, ciò malgrado la gente efficiente era scomparsa; la maggior parte era fuggita all'occupazione, il restante era stata retata dai servizi ausiliari tedeschi. Avevo preso una specie di viottolo che portava alla parte alta della collina, dove si innalzava un raggruppamento di isbe e case basse. Erano costruite con assiti ed in parte con tronchi d'albero, racchiuse da uno steccato che ne impediva la vista. Formavano un semicerchio con al centro il portone tipico orientale di tipo cosacco come quelli che si erano visti nel film di Taras Bulba. Una porticina al centro ne permetteva l'accesso ed io avvicinandomi mi ero sporto a spiare. Ne rimasi sorpreso, soprattutto per la scena rappresentata da un gruppo di quattro ragazze sedute su un lungo pancone, le quali vedendomi erano quasi esplose di gioia. Una di esse mi era venuta incontro e prendendomi per mano, sussurrando "mosna..." mi invitava a sedere fra le altre. Rimasi molto imbarazzato fra l'allegro parlottare e da quella festosa accoglienza.

Quello fu il mio primo incontro con la gente. Bello, interessante, bellissimo per i miei vent'anni. Lubda era il nome di quella ragazza. Ci ritornai giorno dopo giorno, sera dopo sera. Fra me e lei si era instaurato un rapporto di affettuosa amicizia che servì a dimenticare tutti i disagi di quell'interminabile viaggio che fino a qualche giorno prima sembrava non finisse mai. E così era scomparso il pensiero della guerra, quella guerra che io dovevo servire, e che ormai ci lambiva perché vicina a pochi Km.... Nei pressi del nostro accampamento, la nostra base, ho ancora viva la visione delle persone dallo sguardo patito, non certo felice, con al seguito bambini piagnucolanti e sbrindellati. Erano i Russi, i rimasti del posto che come accattoni, gesticolando, imploravano col porgere la mano, il pizzico di Maquorka, il tabacco, durante il giorno della distribuzione delle sigarette. Ognuno di noi aveva diritto alla razione giornaliera . Era cosa normale per me non fumatore che ne facessi dono ai compagni e a Lubda, la mia amata e maestra di lingua russa. Ma dov'erano le sue amiche e perché era sempre sola? Alla mia domanda, Lubda andò a prendersi un variopinto fazzolettone, una specie di foulard, se lo mise in testa facendosi l'annodo alla nuca. In verità non sembrava più lei, ma una ragazzina, una zingarella, per non dire, una mocciosa. Quello era il trucco per non essere retata dai poliziotti tedeschi e lo stesso trucco valeva per le sue amiche. Degli Italiani non aveva paura ma dei Tedeschi sì. Era rimasta a salvaguardare la casa con il nonno che di giorno era sempre alla ricerca di cibo per mangiare. La mamma, ancor giovane era dovuta scappare al di là del Don, al Volga, alla steppa dei Calmucchi, per non essere presa e deportata al servizio dei nemici. "Questa guerra non è bella né per me né per te", mi disse Lubda, guardandomi fisso negli occhi. Quelle parole bastarono a farmi comprendere il suo dramma, il disagio e le bestialità alle quali doveva sottostare o viceversa fuggire. Le sigarette che le donavo potevano servire al nonno per il baratto, per avere il pane, il sale o il miglio.

Arrivò l'ordine di partire per una missione di rifornimento viveri. Ci vollero un paio d'orette per predisporre gli automezzi e formare la colonna: partimmo con destinazione Dnepropetrovsk. Erano giorni di calura. Le voci di Radioscarpa dicevano che i reparti combattenti della Pasubio avevano raggiunto il corso del fiume Don, quindi erano impegnati in un lavoro di riorganizzazione e d'assestamento. Anche il cielo si manteneva pulito: faceva caldo afoso di giorno, un po' meno di notte. Due giorni impiegammo per l'andata ed altrettanti per il ritorno. Nelle pause giornaliere era necessario spogliarsi, mettersi a torso nudo per vincere il caldo, ma soprattutto per spidocchiarsi. In tutta la zona, dal Dniepo al Volga, fra la popolazione era persistente un'epidemia pidocchiale. Per evitarne il contagio, si doveva stare lontani dalla gente. Ma chi era senza pidocchi? Tutti ce li avevamo addosso. Era diventata cosa divertente lo sfotterci quando qualcuno, alla prima pozzanghera, al primo acquitrino, si gettava dentro, si lavava e strizzava i panni. Ma la cosa più curiosa, ridicola, attraversando i villaggi, era la visione di come quelle "babuske" davano la caccia ai pidocchi. Le vedevi accovacciate sulla soglia di casa o sulle panche al sole, con le gambe divaricate e le ginocchia a mo' di morsa stringere teste d'altre donne o testoline di bambini e raschiarle con lunghi pettini rozzi di legno, da sembrare zelanti tessitrici. Era cosa veramente penosa, ma anche questo faceva parte di questa sporca guerra.

4 - Presso il Don

I giorni a Olkovirok non passarono tanto bene: la vita si trascinava stanca e apatica. Ognuno di noi aveva un compito diverso ma non c'era movimento: qualcuno si spogliava e cacciava i pidocchi, qualcun altro si metteva ad arrostire al sole. I giorni passarono così fino a quando, un mattino di fine agosto, con l'arrivo di una dozzina di automezzi proveniente da Millerovo, giunse l'ordine di evacuare la Sezione e di trasferirci a ridosso del fronte. Lo sapevamo: accettammo il fatto come liberazione benché in fondo al cuore, in ognuno di noi, si temesse l'incognita del domani. Due soli automezzi bastarono per il carico di tutto l'equipaggiamento. Alcuni soldati avevano avuto il compito di andare a Voroshilovgrad per il rifornimento di viveri e a me toccò l'ordine di portarli fuori dalla steppa, guidarli verso il fiume. Avevo fatto tutto il possibile per anticipare l'oscurità durante il passaggio del ponte. Avevo predisposto che in quel punto gli automezzi si tenessero a distanza il più possibile pur accelerando la marcia. Avevamo superato l'ostacolo ma, in un baleno, due aerei da caccia presero di mira l'ultimo mezzo della colonna ed in un paio di tornate lo fecero fuori con tutto il carico. Erano intervenute le batterie contraeree, ma non fecero un granché. Noi ci eravamo sparpagliati, pancia a terra, e pregavamo il buon Dio che ci scampasse dal pericolo. Si ebbe modo di ripartire con un'unità in meno, frastornati, con ancora il fischio delle pallottole e gli scoppi nella testa e le vampate delle mitragliatrici stampate negli occhi. La cosa migliore era non pensarci, affidarsi al coraggio ed alla buona sorte.

Passammo la notte superando Olkovirok e, con marcia spedita, si arrivò a Millerovo. Avevamo percorso più di 300 Km; Millerovo era un grosso centro di comunicazione stradale, una città cresciuta dove finiva la pianura, la steppa, ai piedi di una zona collinare, oltre la quale, in un raggio di 200-300 km., correva la grande ansa del Don. Il corso del fiume rappresentava la linea del fronte. La conformazione delle colline era simile a quelle della nostra Toscana, liscia, brulla, con assenza di vegetazione arborea e quasi priva di quella boschiva. La terra era rossiccia, come bruciata. Avevo fatto fermare la colonna per far prendere fiato agli autisti e renderci conto della situazione. Sapevo che in Millerovo aveva preso sede il quartier generale della Celere. Al grande incrocio stradale, al nord della città, ne avevo scorto il casco piumato. I Russi avevano battezzato i bersaglieri "soldat kurke", soldati gallina, del resto quelli della Torino, col simbolo del toro, erano chiamati "Division Corova" e quelli della Pasubio con il simbolo della lupa erano la "Division Sabaca". Formavano le componenti del Corpo di spedizione italiano (SIR) attestatesi sul Don per una lunghezza di fronte di 60 km. . . . L'insieme delle altre divisioni come la Cosseria, la Sforzesca, la Ravenna ed il Corpo d'Armata Alpino formava L'ARMIR. C'era grande movimento di truppa quel giorno; un grande afflusso era diretto sullo stradone al sud-est che portava a Stalingrado, dove i Tedeschi con i Rumeni e gli Ungheresi erano impegnati alla conquista del basso Don ed alla zona del Volga, con l'accerchiamento di Stalingrado. A quell'incrocio c'era una selva di cartelli tedeschi, rumeni, ungheresi ed italiani. La strada che portava alla località di Ver Cruscelin, al oltre 200 km. da Millerovo, si dipartiva con un lunghissimo rettilineo in terra battuta e costeggiava il digradare delle colline da una parte ed il canneto acquitrinoso della steppa dall'altra.

Fu su questo tratto che incontrammo una lunga fila di prigionieri sotto scorta dei soldati tedeschi. Li aizzavano a camminare e non concedevano grazia a quelli che, stanchi e sfiniti, davano segni di non farcela e si accasciavano al suolo. Un colpo alla nuca era la loro liberazione ed era segno vistoso della crudeltà dei Tedeschi che indifferenti li lasciavano insepolti. L'impressione nostra era tremenda, diventava atroce; non per niente da tempo non correva buon sangue tra Italiani e Tedeschi e perduravano le divergenze fra le alte sfere di comando. Quei prigionieri venivano dal fronte, dal campo di battaglia. Gli ultimi giorni del mese d'agosto erano caratterizzati da violenti combattimenti. I Russi avevano posto strategicamente fine alla ritirata ed il loro scopo era di contattarci, di assaggiare le nostre difese che al di qua del Don miravano a consolidarsi in vista anche della stagione invernale. Anche il paesaggio cambiava, man mano che ci si avvicinava al fiume la terra si rinverdiva, perdeva quel suo colore bruciato e qua e là si vedevano cespugli di rovi ad intervallarsi con tratti pianeggianti e dossi di collina. Fu verso sera che arrivammo a Ver Cruscelin. La località era rappresentata da poche case, isbe sparpagliate, disperse fra loro in un terreno collinoso dove la pastorizia primeggiava. L'agricoltura non era ancora sentita. La gente era originaria cosacca. I vecchi barbuti dimostravano una loro particolare fierezza: con lo sguardo severo, non erano inclini a dialogare; così pure le "babuske" che non amavano farsi vedere e soprattutto badavano che le ragazze non avessero alcun contatto con noi e tutti, dai vecchi ai bambini, calzavano stivaloni tipici di pelle e berrettoni baschi di lana grezza. A Ver Cruscelin i giorni furono vissuti nella tranquillità. Le notizie che arrivavano dal fronte erano scarse: si trattava di moderate attività di pattuglie. La grande massa d'acqua del fiume Don divideva gli opposti schieramenti e serviva a far tacere i cannoni da una parte e le catiusce dall'altra . . .

5 - La mia isba

Raggiungemmo una località prestabilita, a soli 7 km dalla linea del fronte. Era una borgata, per così dire, d'isbe, che davano inizio ad un esteso avvallamento, dove un fiumiciattolo, con le sue acque, era di mezzo a disegnare un puzzle di stagni nei quali si specchiavano gli sterpi insecchiti del canneto. Incaricato dei servizi logistici, scelsi la parte alta della zona, da dove la vista poteva dominare tutta la valle. Tutte le isbe erano disabitate; la gente infatti era fuggita o riparava in altre località in quanto la zona, essendo a ridosso del fronte, ne era strategicamente interessata. Avevo scelto per me l'abitazione di una "zinca", una signora che per l'età assomigliava molto a mia madre. Viveva e tirava a campare, assistita dalla figlia di qualche anno più vecchia di me. Si chiamava Fiegna: era una ragazza di poche parole, una vera cosacca, scaltra, che andava e veniva e non si sapeva cosa facesse. Mi vedeva rientrare la sera e andarmene di mattino. Ci tenevo molto a conversare con la giovane, a rendermi utile col portare qualche cosa da mangiare e cercavo il più possibile di non essere invadente. Ogni qual volta la donna mi vedeva, bestemmiava alla guerra ed era sempre a dire: "ma perché, così giovane, ti hanno mandato a fare la guerra, questa guerra..." Lo spazio che occupavo in quella casa era un paio di metri, la lettiera. Consisteva in un rialzo nel retro del camino che, come usanza locale, figurava al centro della casa e consentiva di scaldarci al tiepido calore proveniente dal focolare e da quella specie di forno al di sotto della lettiera. Una stuoia di molti colori serviva da materasso sul quale si dormiva vestiti. Il fuoco era poca cosa. Era alimentato da pani di torba, rozzi, semplici manufatti di risorsa locale che indicavano tutta la povertà del posto. Nonostante tutto, era funzionale e bastava per sopravvivere. Infatti i giorni grigi, ventosi avevano già cominciato a far sentire il freddo gelido di provenienza siberiana.

A dicembre la situazione climatica era già molto difficile: il freddo ci costringeva a tapparci fra le fragili pareti di paglia e di fango di terra e i soldati al fronte erano tappati nei bunker sotto terra come talpe. Ero a conoscenza che i reparti in linea, nei mesi d'ottobre e novembre avevano lavorato sodo nel costituire tre capisaldi di difesa ed erano battezzati cifratamente con le ultime lettere dell'alfabeto. Il caposaldo Z era il più avanzato, collegato agli altri, non meno importanti. Lo spirito che correva in tutti era d'ottimismo ed appartenere alla Pasubio era un orgoglio. Il valore di questa Divisione era conosciuto attraverso i bollettini di guerra sia italiani che tedeschi. I giorni si alternavano con il nevischio e con il vento della Siberia che a fasi alterne spazzava la nuvolaglia ed il pulviscolo terroso ghiacciato della terra veniva schiaffeggiato in faccia, come tanti aghi pungenti, che ferivano nella carne viva . . .

 

6 - Natale di guerra

I giorni trascorrevano veloci ed io già contavo il mio terzo Natale di guerra. Il freddo si faceva sempre più forte e la temperatura sempre più rigida. Dal fronte non trapelavano notizie, il silenzio faceva presagire che qualcosa stava per accadere. Anche l'attività aerea si era fatta più intensa, specialmente lungo la strada Bougusha-Millerovo. Al nord, sul settore delle Divisioni Cosseria e Sforzesca, già nel mese di settembre ed ottobre, i Russi erano riusciti a crearsi una testa di ponte di là dal fiume e strenui combattimenti non valsero a ricacciarli. Quella testa di ponte ed il fiume ghiacciato avevano loro giovato moltissimo per ammassare ingenti forze in uomini e mezzi corazzati.

Con il giorno di Natale era iniziato un continuo, infernale martellamento d'artiglieria su tutto l'arco del fronte tenuto dalla nostra 8° Armata, su quello tenuto dai Rumeni e sul fronte della sesta Armata dei Tedeschi che tentavano di occupare Stalingrado. I nostri reparti rispondevano al fuoco come potevano, ma la breccia era già fatta, così come al sud, sul settore di Stalingrado. Il comando russo stava completando il movimento a tenaglia e per noi Italiani, la sorte era ormai segnata. L'alba del giorno 26 sorgeva con gli echi del frastuono delle cannonate e degli scoppi delle granate e col passare delle ore, il rumoreggiare si faceva sempre più distinto, sempre più vicino . Noi, preoccupati guardavamo le colline che cintavano l'avvallamento dietro le quali scorrevano le acque ghiacciate del Don, e dove di tanto in tanto apparivano bagliori di fuoco, seguiti da nuvole di fumo. La battaglia era in corso.
Verso l'una, un portaordini ci veniva a comunicare l'ordine di evacuare la zona, distruggere tutto quello che non era possibile portarci addietro, e raggiungere il Quartier Generale. Eravamo accerchiati! Già dalla strada, in lontananza, si vedevano movimenti di soldati appiedati, a piccoli gruppi e colpi d'artiglieria li seguivano e li disperdevano. Noi intanto ci eravamo adunati: tutti i documenti e la contabilità della Sezione stavano scoppiettando nel fuoco perché l'ordine era di bruciare qualsiasi cosa potesse essere utile al nemico. Solo il libro protocollare mi ero infilato nello zaino assieme a quattro scatolette ed al quadrello di pane nero che mi doveva sfamare per i dieci giorni a seguire e che, poco prima, ero corso a prendermi a casa di Fiegna. Lei e sua madre erano già fuggite e a loro avevo lasciato parte del mio vestiario, anche per alleggerirmi del peso. Intanto cominciavano a cadere le bombe: l'isba che quaranta giorni prima avevo adibito a sede era in fiamme; non c'era tempo da perdere e dietro ordine del Tenete Rocchi, raggiungemmo la strada che già brulicava di soldati sbandati; ci fu molto faticoso fare quel tratto in salita perché pareva ci avessero tagliato le gambe. Eravamo un gruppo di quindici unità; ci tenevamo in contatto chiamandoci per nome, in quanto si doveva stare sparpagliati per non fare da bersaglio. Eravamo mischiati ad altri soldati e non c'era tempo di guardarci in faccia. Alcuni avevano iniziato a camminare già dalle prime ore della notte, qualcun altro s'era messo in cammino di mattino.

Tutti avevamo addosso il silenzio della disperazione. Qualcuno imprecava, bestemmiava contro la sorte ed i Comandanti e per la mancanza degli automezzi. I nostri due in dotazione, che avevamo lasciato il giorno prima, erano adibiti, sembra, al trasporto dei feriti. Eravamo quindi tutti appiedati e grande era la confusione. C'era gente stanca, sfinita, che stentava a tenere il passo e noi a rincuorarli, dicendo loro: "Dai, ce la faremo". Eravamo in marcia già da un paio d'ore e la strada era in salita. Il Vendrame, Il Carletto, lo Zanni, il Rombaudi, dietro a me, ogni tanto mi chiamavano ed io, voltandomi a cercarli con lo sguardo, non potevo evitare di vedere lo spaventoso scenario di disgregazione, di disordine. La strada era diventata come un biscione d'esseri umani sospinti a fuggire agli orrori della guerra. E non mancavano i caccia a seminare maggior scompiglio ed ancora morte e disperazione. Era terribile dover sottostare indifesi ai mitragliamenti feroci, assassini, vedere quei caccia abbassarsi e passare sopra a volo radente.

Non rimaneva altro che chiudere gli occhi, tappare gli orecchi e considerarsi già all'altro mondo. Io che ho vissuto quei momenti, non li posso certo dimenticare. Eravamo sull'imbrunire di una sera grigia e la nostra marcia non poteva arrestarsi: mancavano una decina di km. per raggiungere il Quartier Generale. Intanto il buio era calato e ci proteggeva, ci salvava. Faceva freddo, ma non si sentiva, non si sentiva neppure la fame, solo il bisogno, il coraggio di andare avanti e di restare ammutoliti. Al nord c'erano quelli di Kantarmirowoka e più in giù, ma più vicino, quelli di Cerkovo. Tra i bagliori ed i fumi, si sentivano sinistramente gli scoppi dei barattoli e gli odori delle conserve; poi ancora si vedeva il lampeggiare delle pallottole traccianti dei carri blindati, strategicamente appostati. Erano visioni d'angoscia, di terrore e quel che è peggio, era il sapersi accerchiati e non avere scampo. Era quasi notte quando raggiungemmo la zona, il punto d'incontro. Era un'altura molto estesa, coperta dal brulicare di reparti vari, gruppetti d'uomini frammisti in un ammasso fra slitte stracariche di zaini e d'esseri umani, morti nello spirito, sfiduciati, con pochissimi mezzi di trasporto. Generali, Colonnelli, Maggiori ed altri ufficiali: eravamo diventati tutti uguali. Migliaia erano i soldati e non c'era più baldanza in alcuno: tutti erano costretti a tacere, a meditare una rassegnazione ingloriosa, immeritata; tanti, tantissimi erano quelli che avevano perso tutto e vagavano con i soli pastrani stracciati a ripararsi dal nevischio e dal vento gelido, pungente, tenendosi stretti, ammucchiati. Altri soldati invece si stavano cercando spauriti, disperati . . .

 

7 - L'addio ai compagni

 

Fu un vero miracolo incontrarmi col Pierantoni, il caro amico di sempre. Ero seguito dal Vendrame, mentre gli altri facevano gruppo appartato col Tenente Rocchi. Eravano noi tre a discutere sul da farsi e fu cosa unanime lo stesso pensiero: tentare di svincolarsi, non arrendersi prigionieri. Tanto ormai la sorte era segnata e valeva la pena giocarsi la vita. Il Vendrame era un esperto conoscitore di macchine, di automezzi e poteva fungere da autista; il Piera era un buon conoscitore di quadrupedi ed io, meglio ancora, potevo districarmi col linguaggio, dialogare con la gente. L'accordo fra noi fu unamime, completo: ci recammo dal Superiore ad avanzare le nostre proposte e ci fu dato il permesso di andarcene. Ci fu l'abbraccio, ed a torto, il nostro voltafaccia inconsueto, crudele, verso tutti, compagni e superiori; un voltafaccia vergognoso, di addio, a quelle migliaia d'uomini impotenti e pieni di disperazione. E noi ci lanciammo di corsa in direzione sud-ovest verso la valle di Cerkovo.

Si venne a saper più tardi l'epilogo della gloriosa Pasubio, la sorte dei suoi due reggimenti, il 79° Verona e l'80° del Mantova e relativi reparti. La valle di Cerkovo cambiò nome e fu chiamata la valle dei morti. Pochissimi si salvarono; gli altri invece furono ricordati giustamente nel regno della gloria.

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