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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI 1886-1887

AFRICA: NUOVE OCCUPAZIONI - ECCIDIO DOGALI - I TRATTATI

ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE PORRO - NUOVE OCCUPAZIONI ITALIANE IN AFRICA E PROTESTE DEL NEGUS - INTIMAZIONE DI RAS ALULA - COMBATTIMENTO DI SAATI - COMBATTIMENTO DI DOGALI - DISEGNO DI LEGGE PER AUTORIZZAZIONE DI SPESE STRAORDINARIE E PER LA SPEDIZIONE DI RINFORZO IN AFRICA - DIMISSIONI DEL GABINETTO - OTTAVO GABINETTO DEPRETIS. - CRISPI MINISTRO DELL'INTERNO-IL " CORPO SPECIALE D'AFRICA" - ACCORDO ITALO-BRITANNICO - RINNOVAMENTO DELLA TRIPLICE ALLEANZA - ACCORDO ITALO-SPAGNOLO - DISCUSSIONE DELLO STATO DI PREVISIONE DELLA SPESA DEL MINISTERO DELLA GUERRA PER L'ESERCIZIO 1887-88 - DISCORSO DI FERDINANDO MARTINI - MONUMENTO AI CADUTI DI DOGALI - TENTATIVO DI RICONCILIAZIONE FRA LA CHIESA E LO STATO - MORTE DI DEPRETIS
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( suggeriamo di leggere anche "IL MAR ROSSO, SUEZ, GLI INGLESI" )
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NUOVE OCCUPAZIONI ITALIANE IN AFRICA E PROTESTE DEL NEGUS
ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE PORRO
COMBATTIMENTI DI SAATI E DOGALI

Verso la metà di agosto 1885, il comando italiano di Massaua estendeva l'occupazione verso l'interno prendendo possesso e mettendo un presidio a Saati a 30 chilometri da Massaua.
Il 6 settembre era richiamato il colonnello SALETTA e nominato comandante superiore in Africa il generale GENÈ, che, alla fine dello stesso mese, assumeva anche la direzione e i servizi amministrativi, proclamava la sovranità italiana, faceva abbassare la bandiera egiziana ed imbarcava per l'Egitto i 180 soldati regolari di questo paese, gli ultimi che fino allora erano rimasti a Massaua. Proteste dall'Editto nessuna, Recriminazioni invece del Negus di Abissinia, al quale l'Inghilterra aveva assicurato questi territori ex egiziani, dopo che gli stessi inglesi erano ormai diventati arbitri di tutti i possedimenti dell'Egitto.

Nel nuovo Gabinetto Depretis del 29 giugno 1855, era stato chiamato come ministro degli Esteri il generale DI ROBILANT. Questi, volendo rassicurare il NEGUS GIOVANNI che il Governo italiano non nutriva propositi aggressivi contro l'Abissinia, nel gennaio del 1886 gli inviò -guidata dal generale POZZOLINI- una missione. Ma l'atmosfera non era favorevole, essendo stata resa torbida dalle trame del viceconsole francese SOUMAGNE, residente a Massaua (con due soli cittadini francesi ivi residenti), e il Pozzolini, da questa città, fu richiamato in Italia; temevano a Roma che i membri della missione, inoltratisi in un paese ostile, erano troppo esposti a dei pericoli.
(ma di questo Soumagne, e delle sue trame, parleremo ancora nel prossimo capitolo)
Questo fatto aumentò le diffidenze abissine e inasprì i rapporti italiani con l'Etiopia, specie con RAS ALULA, governatore dell'Hamasien, donde frequenti scorrerie furono effettuate contro alcune tribù locali che dal giorno dello sbarco erano state costrette loro malgrado ad andare sotto la protezione italiana.
I rapporti italo-abissini divennero più tesi nella successiva primavera, a causa dell'eccidio avvenuto presso Gildessa sulla via da Zeila ad Harrar il 9 aprile 1886 della spedizione del conte GIAN PIETRO PORRO, della quale facevano parte il conte CARLO COCASTELLI di Montiglio, il prof. GIOVANNI LICATA, i dott. GIROLAMO GOTTARDI, GUGLIELMO ZANNINI, UMBERTO ROMAGNOLI, PAOLO BIANCHI e GIUSEPPE BLANDINO.

Anche questo massacro commosse il paese. Nella seduta parlamentare del 15 giugno 1886, l'on. DI BREGANZE interrogò il nuovo ministro degli Esteri "riguardo al disastro della spedizione del conte Porro nell'Harrar ed agli intendimenti del Governo circa la tutela degl'interessi dell'Italia sulle coste orientali d'Africa"; l'on. PANTANO svolse un'interpellanza "sugli ultimi episodi della politica coloniale in Africa e sui criteri" a cui questa s'ispirava, domandando "a cosa giovava il tributo di uomini e di denaro che l'Italia rendeva alla politica africana?; in quale modo il Governo intendeva tutelare il decoro italiano in Africa?; perché la "missione Pozzolini" aveva avuta una soluzione così diversa da quella del capitano Schmidt?; se l'occupazione nostra era definitiva o provvisoria?; se quella di Massaua era un'occupazione militare o commerciale? e se il Governo aveva già calcolato la gravità di una occupazione militare e gli svantaggi di una occupazione commerciale".

Il ministro Di Robilant rispose che il Governo declinava ogni responsabilità sull'eccidio della spedizione Porro, "avendola in precedenza già avvertita di non poter assecondare la loro impresa; dichiarò in nome del Governo che "...l'iniziativa di pochi cittadini non poteva assolutamente impegnare quella del paese; e quanto al contegno del Governo in seguito all'eccidio sostenne che non si poteva pensare ad un'azione armata contro l'Harrar. 1° perché il paese dei Somali che avrebbe dovuto esser base dell'operazione non era "res nullius" e perciò l'azione militare doveva esser preceduta da un'azione diplomatica; 2° perché in quel momento l'attenzione nostra sarebbe potuto essere rivolta altrove con più opportunità; 3° perché una spedizione nell'Harrar avrebbe richiesto 6.000 uomini, 25 milioni di spesa ed un anno almeno di tempo; 4° perché, anche a spedizione compiuta, il soggiorno nell'Harrar sarebbe costato 6 od 8 milioni l'anno senza contare le spese per la costruzione di una strada o di una ferrovia.

"E così -dissero gli oppositori alla politica governativa- per la grettezza degli uomini di Governo e per un male inteso proposito d'economia, noi lasciamo invendicati otto connazionali e ci lasciamo sfuggire all'occasione di occupare un'importantissima regione.

Continuavano intanto le razzie a danno delle tribù "sottoposte" alla protezione italiana e il generale Genè (per difenderle!) nel novembre del 1886 fece occupare da una centuria costituita con gli stessi indigeni, il villaggio di Uaà, 40 km. a sud di Massaua, allo sbocco della valle dell'Haddos, cioè in un territorio ex egiziano, ma sotto la recente dominazione inglese lasciato agli abissini.
Prima l'occupazione di Saati ora di Uaà, provocarono le proteste del Negus e di RAS ALIDA. Quest'ultimo anzi non si limitò alle proteste, ma con numerose truppe si portò a Ghinda, a 60 km. ad ovest di Massaua, e il 10 gennaio del 1887 mandò ad intimare al generale GENÈ di sgombrare Uaà e Saati, minacciando, in caso di rifiuto, di decapitare i tre viaggiatori italiani conte SALIMBENI, maggiore PIANO e tenente SAVOIROUG, che, accingendosi ad esplorare il Goggiam, erano stati trattenuti dalle autorità abissine.

Il generale GENÈ non si lasciò intimorire dalle minacce, e all'intimazione rispose che avrebbe respinto ogni attacco; quindi rinforzó i presidi di Uaà e di Saati e dislocò a Moncullo una colonna di riserva al comando del ten. colonnello TOMMASO DE CRISTOFORIS composta di tre compagnie di fanteria, due mitragliere e due "buluc" indigeni, della forza totale di circa 500 uomini.

Il 24 gennaio 1887 (le notizie "volavano" ed erano piuttosto serie) l'on. DE RENZIS interrogò alla Camera il ministro degli Esteri "sulle notizie, indicanti come possibile un attacco abissino contro le nostre truppe d'Africa". Il DI ROBILANT rispose che da un telegramma del GENÈ, giunto il 18, risultava che una colonna abissina si proponeva di attaccare le nostre posizioni, che però erano state rafforzate; e aggiunse che "...non era il caso d'impensierirsi di tali notizie e, appellandosi alla serietà della Camera, affermò che "non gli pareva che nel momento attuale convenisse - e non conveniva certamente - dare tanta importanza a quattro predoni che si avevano tra i piedi in Africa".

Proprio il giorno dopo, il 25 gennaio 1887, con ras ALULA alla testa di 10.000 uomini (e non "quattro predoni"), attaccava violentemente il fortino di Saati, presieduto dal maggiore BORETTI con due compagnie di fanteria, una sezione d'artiglieria e trecento indigeni; ma dopo tre ore di combattimento era costretto a ritirarsi con perdite rilevanti. Il 26 gennaio la colonna di riserva del ten. Colonnello TOMASO DE CRISTOFORIS partì da Moncullo per portare soccorso a Saati, ma a mezza strada, vicino l'altura di Dogali, fu sorpresa dagli uomini di ras Alula. Ritiratisi sul colle, furono accerchiati e con valore incredibile resistettero prima con i fucili, poi, terminate le munizioni, con le baionette. Il De Cristoforis fu anche lui eroe tra gli eroi. Colpito ben quindici volte, meravigliato dall'eroismo dei suoi, all'ultimo drappello che era ancora in piedi, ordinò che fossero presentate le armi ai caduti; quindi continuò a resistere ma poco dopo fu travolto con tutti gli altri; non ne rimase in piedi nemmeno uno. Gli Abissini perdettero circa un migliaio di uomini; gli italiani morti furono 430, e circa novanta feriti che dati per morti e abbandonati dal nemico sul campo, furono, il giorno dopo, salvati dalle truppe italiane giunte in soccorso da Massaua.

Nella seduta parlamentare del 10 febbraio del 1887, il presidente del Consiglio
DEPRETIS dava lettura del drammatico telegramma del generale GENÈ così concepito: "Il 24 ras Alula lasciò Ghinda accampandosi a sud-est di Saati che attaccò il 25, ma fu respinto dopo tre ore di combattimento. Nostre perdite quattro feriti e cinque morti. Le perdite degli Abissini sono sconosciute. Il 26, tre compagnie e 50 irregolari partiti da Moncullo per vettovagliare Saati furono attaccati a mezza via. Dopo parecchie ore di combattimento la colonna fu distrutta. Novanta feriti sono già ricoverati all'ospedale di Massaua. Mi riservo di spedire particolari esatti circa le perdite ed i feriti. Causa l'eccessiva estensione delle nostre linee, ho richiamato i posti di Saati, Uaà ed Arafali.
Ras Alula sembra essere rientrato a Ghinda a causa delle gravi perdite e i numerosi feriti e probabilmente anche per attendere rinforzi e l'arrivo del Negus che si dice essere in marcia".

In seguito a queste gravi notizie, DEPRETIS, in nome dei ministri della Guerra, della Marina e delle Finanze, presentava un disegno di legge per autorizzare una spesa di 5 milioni sui bilanci della Guerra e della Marina per la spedizione urgente di rinforzi militari sulle coste del Mar Rosso.
L'on. BACCARINI faceva pervenire un saluto a quei prodi che avevano combattuto contro un nemico meno miserabile ("i quattro predoni") di quello che pochi giorni prima aveva presentato il ministro degli Esteri; diceva di non ritenere opportuno per il momento di giudicare l'opera del Governo ed esprimeva il desiderio che la domanda dei crediti fosse approvata subito per confortare almeno quelli che esponevano la loro vita per l'onore italiano; e la domanda di credito del Depretis l'approvava in pieno.
Il disegno di legge fu discusso alla Camera il 3 febbraio. Parlarono MUSSI, che affermò "�essere necessario ritirarsi dall'Africa, ma la ritirata doveva conciliarsi con l'onore della bandiera e non avere l'aspetto di una fuga; PAIS-SERRA, ripeté lo stesso concetto, e che "�.il solo accennare a un ritiro in quei momenti sarebbe stato lo stesso che proporre una fuga"; LAZZARO deplorò l'imprevidenza del Governo nell'ordinare e condurre la spedizione in Africa; DI BREGANZE si preoccupò dell'insufficiente organizzazione del corpo d'esercito d'Africa; infine COSTA parlò contro la chiusura della discussione proposta dal Di Rudini e da Spaventa.
Ma la chiusura fu approvata e si passò allo svolgimento degli ordini del giorno.
Che furono cinque: quelli cioè degli onorevoli NAPODANO, FERRARI, FORTIS, ODESCALCHI e PELLEGRINI che deploravano la condotta del Governo; quello di COSTA che invitava il Governo a richiamare le truppe dall'Africa, lanciando la famosa frase "né un uomo né un soldo per l'impresa africana"; quello di PATERNOSTRO che acconsentiva al credito richiesto e riservando ad una prossima tornata la discussione sull'insufficienza politica ed amministrativa del ministero; quello DI CAMPOREALE che voleva che si provvedesse con energia alla tutela del prestigio e alla sicurezza delle truppe d'Africa; quello di POZZOLINI che confidava che il ministero avrebbe saputo prendere "le misure atte a tenere alto in Africa il nostro prestigio militare e la nostra influenza politica"; BACCARINI che proponeva "l'ordine del giorno sopra tutti gli ordini del giorno" e osservava che se il disegno fosse stato votato senza la questione di fiducia avrebbe dato il voto favorevole e in caso diverso lo avrebbe dato contrario.
L'ultimo o.d.g. era quello di CAVALLOTTI che inviava "un pensiero di onoranza" ai Caduti, e pur accusando violentemente il governo a causa della sua politica interna e della scelta a favore della Triplice, accordava "i crediti e i sacrifici richiesti per rinforzare i presidi in Africa e per le necessità presenti della bandiera" e si riservava di "deliberare circa la responsabilità dei ministri, la cui politica e la cui insufficienza e leggerezza, avevano condotto al recente disastro".

La frase del Costa ("né un uomo né un soldo") diventa la parola d'ordine e sarà fatta propria dal movimento socialista durante le successive imprese coloniali. Alcuni deputati radicali, fra cui ACHILLE TEDESCHI ed ETTORE FERRARI, si mantengono sulle stese posizioni.

La discussione continuò il 4 febbraio 1887, e parlarono Bonghi, Bovio e il Di Robilant, che riconobbe infelici le sue parole dette nella seduta del 24 gennaio. La Camera accordò la fiducia al Governo con 215 voti favorevoli e 181 contrari. Il Senato il credito di 5 milioni lo approvò il giorno dopo all'unanimità. Il ministro degli Esteri, giudicando la votazione poco favorevole alla sua politica, si dimise, provocando le dimissioni dell'intero Gabinetto, annunciate dal capo gabinetto alla Camera l'8 febbraio, a causa delle critiche provenienti non solo dall'estrema sinistra e dal gruppo dei "Pentachi", ma anche da diversi esponenti della destra dissidente.


OTTAVO MINISTERO DEPRETIS -CRISPI MINISTRO DELL'INTERNO
IL "CORPO SPECIALE d'AFRICA" -
ACCORDO ITALO-BRITANNICO
RINNOVO TRIPLICE ALLEANZA - ACCORDO ITALO-SPAGNUOLO.

La crisi ministeriale fu travagliata: il conte di ROBILANT, BIANCHERI e FARINI si rifiutarono di formare il nuovo ministero e allo stesso DEPRETIS riuscì quasi impossibile formarne un altro.
Allora il Re respinse le dimissioni e il DEPRETIS, il 10 marzo 1887, annunciando alla Camera questa decisione dichiarò che il Sovrano attendeva dal Parlamento un voto deciso ed esplicito. CRISPI allora chiese la vera ragione della crisi e, non soddisfatto delle dichiarazioni del presidente del Consiglio, presentò una mozione che però fu respinta con 214 voti contro 194. DI ROBILANT tornò a dimettersi e DEPRETIS, accordatosi con CRISPI, il 4 aprile, formò il suo VIII ed ultimo gabinetto che risultò così composto: Presidenza ed Esteri: DEPRETIS; Interni: CRISPI; Finanze: MAGLIANI; Istruzione Pubblica: COPPINO; Grazia e Giustizia: ZANARDELLI; Guerra: BERTOLÈ-VIALE; Marina: BRIN; Lavori Pubblici: SARACCO: Agricoltura: GRIMALDI (riprenderemo più avanti questo discorso)

Prima e durante la crisi furono inviati a Massaua più di 2000 uomini con i quali fu costituito un "Corpo speciale d'Africa" che nell'estate raggiunse la cifra di 5000 uomini (2 reggimenti di cacciatori a piedi, 1 squadrone di cacciatori a cavallo, 2 compagnie di artiglieria da fortezza, 1 batteria da campagna, 1 batteria da montagna, 1 compagnia Genio, 1 compagnia di Sanità, 1 compagnia di Sussistenza ed 1 compagnia treno). Il 18 marzo 1887, il generale GENÈ fu richiamato e sottoposto ad un'inchiesta formata da un consiglio di generali che però non lo trovarono colpevole dei tristi avvenimenti d'Africa.

I TRATTATI

Durante questa crisi ministeriale avvennero due fatti importantissimi di politica estera: un accordo italo-britannico e il rinnovamento della Triplice Alleanza.

Il trattato ITALO BRITANNICO

Fu stipulato il 12 febbraio su queste basi:
1° - Si manterrà, per quanto è possibile, lo "status quo" nel Mediterraneo come nell'Adriatico, nell'Egeo e nel Mar Nero. Si avrà perciò cura di sorvegliare e, in caso di bisogno, impedire ogni cambiamento che, sotto forma d'annessione, occupazione, protettorato o in qualunque altra maniera tocchi la situazione attuale con detrimento delle due potenze.
2° - Se il mantenimento dello "status quo" divenisse impossibile, si farà in modo che non produca una qualsiasi modifica se non in seguito ad un accordo preventivo tra le due potenze;
3° - L'Italia è pronta ad appoggiare l'opera della Gran Bretagna in Egitto. A sua volta la Gran Bretagna è disposta, in caso d'invadenza da parte di una terza potenza, ad appoggiare l'azione dell'Italia sopra qualunque altro punto del litorale settentrionale dell'Africa e particolarmente nella Tripolitania e Cirenaica.
4° - In generale, e in quanto le circostanze lo comporteranno, l'Italia e l'Inghilterra si promettono mutuo appoggio nel Mediterraneo per ogni divergenza che sorgesse fra una di loro e una terza potenza"
.

A questo patto, il 24 marzo, aderì l'Austria-Ungheria.
Il trattato, che rinnovava la Triplice Alleanza fino al maggio del 1892, fu stipulato a Berlino il 20 febbraio del 1887. Inoltre, furono firmati due altri trattati, il primo fra l'Italia e l'Austria-Ungheria, il secondo tra l'Italia e la Germania.

Il primo (ITALIA-AUSTRIA-U.) era formato di quattro articolo:

1° - Le Altre Parti contraenti, non avendo di mira che il mantenimento, per quanto è possibile, dello "status quo" territoriale in Oriente, si impegnano ad usare la loro influenza per prevenire ogni modifica territoriale che rechi danno all'una od all'altra delle potenze firmatarie del presente trattato. Esse si comunicheranno tutte le informazioni capaci di illuminarle mutualmente sulle loro disposizioni, come su quelle delle altre potenze.

Tuttavia, nel caso che per forza degli avvenimenti il mantenimento dello "status quo" nei Balcani o delle coste o isole ottomane nell'Adriatico e nel mare Egeo divenisse impossibile, e che, sia in conseguenza dell'azione di una terza potenza, sia altrimenti, l'Austria-Ungheria o l'Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con un'occupazione temporanea o permanente da parte loro, quest'occupazione non avrà luogo se non dopo un accordo preventivo fra le due sopraddette potenze; accordo basato sul principio di un compenso reciproco per ogni vantaggio territoriale o altro che ciascuna di esse ottenesse in più dello" status quo" attuale, e tale da dare soddisfazione agli interessi e alle pretese ben fondate delle due parti.

2° - Le alte parti contraenti si promettono naturalmente il segreto sul contenuto del presente trattato.
3° - Il presente trattato entrerà in vigore dal giorno dello scambio delle ratifiche e lo resterà fino al 30 maggio 1892.
4° - Le ratifiche saranno scambiate a Berlino in quindici giorni e più presto se si può fare.
In fede di che i rispettivi plenipotenziari hanno firmato il presente trattato e vi hanno apposto i loro sigilli.


Il trattato tra ITALIA e GERMANIA,
sempre del 20 febbraio, firmato da BISMARK e dal conte DE LAUNAY, comprendeva i seguenti sette articoli:

1°Le Alte Parti contraenti, non avendo di mira che il mantenimento, per quanto è possibile, dello "status quo" territoriale in Oriente, s'impegnano ad usare della loro influenza per prevenire, sulle coste e isole ottomane nel mare Adriatico e nel mare Egeo, ogni modifica territoriale che porti danno all'una o all'altra delle potenze firmatarie del presente trattato. A questo effetto esse si comunicheranno tutte le informazioni atto ad illuminarle mutualmente sulle loro disposizioni, come su quelle delle altre potenze.
2° - Le stipulazioni dell'articolo 1° non si applicano in alcun modo alla questione egiziana, circa la quale le Alte Parti contraenti conservano rispettivamente la loro libertà d'azione, avendo sempre riguardo ai principi su cui riposano il presente trattato e quello del 20 maggio 1882.
3° - Se avvenisse che la Francia facesse atto di estendere la sua occupazione o il suo protettorato o la sua sovranità sotto qualunque forma, sui territori nordafricani, sia del villayet di Tripoli, sia dell'impero marocchino, e che in conseguenza di tale fatto l'Italia, per salvaguardare la sua posizione nel Mediterraneo, credesse dovere essa stessa intraprendere un'azione sui detti territori nord-africani, oppure ricorrere, sul territorio francese in Europa, ai mezzi estremi, lo stato di guerra che ne seguirebbe tra l'Italia e la Francia costituirebbe "ipso facto", su domanda dell'Italia e a carico comune dei due alleati, il "casus foederis" con tutti gli effetti previsti dagli articoli 2° e 5° del suddetto trattato del 20 maggio 1882, come se simile eventualità vi fosse contemplata espressamente.
4° - Se la fortuna di qualunque guerra intrapresa in comune contro la Francia portasse l'Italia a cercare delle garanzie territoriali verso la Francia, per la sicurezza delle frontiere del Regno e della sua posizione marittima, come anche in vista della stabilità della pace, la Germania non vi porrà alcun ostacolo, e al bisogno, e in misura compatibile con le circostanze si applicherà a facilitare i mezzi di raggiungere un tale scopo.
5° - Le alte Parti contraenti si promettono mutualmente il segreto sul contenuto del presente trattato.
6° - Il presente trattato entrerà in vigore dal giorno dello scambio delle ratifiche e lo resterà fino al 30 maggio 1892.
7° - Le ratifiche saranno scambiate a Berlino in quindici giorni o più presto se si può fare".

Il trattato ITALO-SPAGNOLO

A tutti questi trattati che garantivano lo "status quo" nei Balcani e impedivano alla Francia di espandersi nel Mediterraneo veniva, il 4 maggio del 1887, ad aggiungersi un accordo italo-spagnolo, che fu poi rinnovato nel 1892 e nel 1895 e al quale aderirono gli imperi centrali. I suoi tre articoli dicevano:
1° - La Spagna non si presterà verso la Francia, per ciò che concerne, tra gli altri, i territori nord-africani ad alcun trattato od accomodamento politico che fosse direttamente o indirettamente rivolto contro l'Italia, la Germania e l'Austria, o contro l'una o l'altra di queste potenze.
2° - Astensione di ogni attacco non provocato, come pure da ogni provocazione;
3° - In vista degli interessi impegnati nel Mediterraneo e allo scopo principale di mantenervi lo "status quo" attuale, la Spagna, e l'Italia si terranno in comunicazione a questo soggetto, comunicandosi ogni informazione atta a chiarire le loro reciproche disposizioni, come pure quelle delle altre potenze.

DISCUSSIONE SULLO STATO DI PREVISIONE DELLE SPESE DEL MINISTERO DELLA GUERRA PER L'ESERCIZIO 1887-88

DISCORSO DI FERDINANDO MARTIN
MONUMENTO AI CADUTI DI DOGALI

Il 18 aprile del 1887 DEPRETIS annunziava alla Camera la costituzione del nuovo ministero (che abbiamo gia accennato sopra) e nel discorso d'apertura, affermava di confidare che il Parlamento avrebbe consentito ai sacrifici che gli sarebbero stati chiesti e assicurava che il Governo non si sarebbe lasciato trascinare da impeti improvvisi ad un impresa che non fosse preparata, meditata e fatta a tempo opportuno; sosteneva inoltre che i sacrifici imposti dalle condizioni generali d'Europa e dalla necessità di proteggere i possedimenti africani e di ristabilire il prestigio delle armi non dovevano interrompere l'opera del progresso civile e i lavori del Parlamento.
Accennando agli ultimi combattimenti, riferiva: "Del valore dei nostri soldati abbiamo avuto una splendida prova nella gloriosa ecatombe di Dogali, che l'Italia non può lasciare invendicata senza offesa della dignità nazionale".

Nella stessa seduta il ministro dei Lavori Pubblici presentò il disegnò di legge sulla convenzione con la Navigazione Generale Italiana per un servizio postale commerciale fra Suez e Aden, la cui relazione fu presentata dall'on. SOLIMBERGO il 1° luglio.
Il 30 maggio 1887 cominciò alla Camera la discussione dello stato di previsione della spesa del ministero della guerra per l'esercizio 1887-1888, che proseguì il 31 maggio, il 2 e il 3 giugno. Presero la parola nella prima tornata BONGHI e BERTOLI-VIALE; nella seduta successiva BONFADINI, DE RENZIS, DEPRETIS, BACCARINI, TOSCANELLI, MARTINI e RICOTTI, che si difese dalle accuse direttegli quand'era ministro, dimostrò che non poteva essere ascritto a lui il disastro di Dogali e informò i colleghi che il generale Genè era stato richiamato per avere consegnato a Ras Alula un grosso carico di fucili a lui diretti e sequestrati dalle autorità italiane e alcuni Assaortini rifugiatisi in Massaua.

Il discorso più importante della seduta del 2 giugno fu quello di FERDINANDO MARTINI e fece notare che "...ancora il Parlamento non sapeva perché si era andati ad occupare Massaua, poiché il Ministro degli Esteri era "una specie di negromante muto, posto a custodia delle ampolle magiche contenenti il segreto della vita e della morte"; considerò un errore quell'occupazione e un errore più grave il persistervi; disse che "...per fare una spedizione in Abissinia sarebbero occorse centinaia di milioni e non meno di 50 mila uomini e per occupare soltanto Cheren dovevano impiegarsi almeno 20 mila uomini e fare immensi sacrifici" E affermò infine la necessità dell'Italia di ritirarsi da Massaua, e polemizzò:

"Che cosa, infatti, ci siamo andati a fare? Ad assecondare i desideri che gli Abissini potessero mostrare verso la civiltà?
Ma il desiderio costante dell'Abissinia non era che uno solo, quello di avere uno sbocco sul mare; e non si sarebbe mai conquistata l'Abissinia alla civiltà se non lasciandole quello sbocco che la congiungesse finalmente al continente europeo; cioè lo sbocco che noi siamo andati a contenderle. La verità era che si voleva partecipare alla politica coloniale; ma bisognava avere chiari propositi e sapere che benefici se ne potevano ricavare. Se si speravano relazioni commerciali occorreva il consenso del Negus e qualora si fosse avuto il campo del Commercio, questo sarebbe stato limitatissimo. Ad ogni modo
- proseguì il Martini - il rimanere a Massaua, senza andare né avanti né indietro è per me il partito peggiore. Intendo il sogno di un impero etiopico sotto il protettorato dell'Italia, non intendo il partito di rimanere a Massaua, sia che io lo consideri sotto un aspetto morale, sia che lo consideri sotto l'aspetto commerciale e politico. Il rimanere a Massaua non è la politica né di un popolo audace, né di un popolo saggio; e non dite che è di un popolo abile, perché alla lunga, in politica, dove non c'è saggezza, non vi è neppure abilità".

BONGHI dichiarò invece fantastica un'impresa contro l'Abissinia e fece notare che il Negus non era né un uomo volgare né di pugno poco forte; ma disse anche che, "dopo Dogali, non era più consigliabile abbandonare Massaua ed era necessario rioccupare Uaà e Saati".
Parlarono pure Toscanelli, che accusò responsabile dei disastri africani il generale GENÈ e il ministro della guerra, sconsigliò la rioccupazione di Uaà e di Saati e sostenne che il partito migliore era quello di piazzare a Massaua una colonia commerciale; DE RENZIS, deplorò le esagerazioni di chi accennava alle difficoltà di un'azione in Abissinia; affermò che l'Italia doveva perseverare come la Francia in Algeria e sostenne che non bisognava indietreggiare qualunque dovesse essere il sacrificio di danaro o di sangue; BRANCA, riconobbe l'importanza politica del possesso di Massaua,
ma disse che "non si doveva andare oltre e parlare di grandi spedizioni e di vendette".

Nella tornata del 3 giugno parlarono: SOLIMBERGO, il quale fu d'avviso che si dovesse trarre profitto dall'occupazione di Massaua con prudenza, sagacia e perseveranza, e dare prova di serietà non sgomentandosi del primo sangue sparso e non sfuggendo i pericoli; DI RUDINÌ che pregò il Governo di esporre i suoi intendimenti e il ministro della guerra che aveva escluse le responsabilità ministeriale nel fatto di Dogali; parlarono ancora gli on. CAVALLOTTI, ELIA E SPROVIERI ed infine il ministro dell'Interno, CRISPI, il quale dichiarò che "...scopo del Governo non era di conquistar l'Abissinia, ma che non intendeva rimanere in un'inazione che sarebbe stata pericolosa al nostro nome ed al nostro onore. Quale fosse stata questa azione da compiersi la Camera non poteva chiedere né al Governo dire. E aggiunse:
"Lo scopo del Governo era uno solo di mostrare anche ai barbari la forza e la potenza d'Italia. I barbari non sentivano se non la forza del cannone: ebbene, questo cannone avrebbe tuonato a momento opportuno, e si sperava che avrebbe tuonato con la vittoria delle armi nostre. L'Italia era una grande nazione, e non le sole imprese coloniali potevano formare i suoi scopi; poiché le grandi nazioni dovevano avere degli ideali. La strage di Beilul, i massacri delle spedizioni Bianchi e Porro non potevano rimanere invendicati, né l'Italia poteva permettere che la barbarie abissina chiudesse alle esplorazioni scientifiche dei nostri viaggiatori ed ai nostri commerci quelle terre lontane. Era questione di fiducia nel ministero: chi l'aveva la votasse. E se il Governo non avesse avuto la maggioranza avrebbe saputo fare ugualmente il suo dovere".

La Camera approvò l'ordine del giorno LACAVA, con la quale si prendeva atto delle dichiarazioni del Governo ed approvò il capitolo 37 bis del bilancio sulle spese per i distaccamenti in Africa.
Il 5 giugno fu inaugurato a Roma, davanti la stazione di Termini, il monumento ai Caduti di Dogali. Ne dettò l'epigrafe BONGHI, inneggiando all'eroismo di quei cinquecento che "con il nome d'Italia nel cuore e non pensando ad altro che di onorarlo, lottarono, combatterono, morirono, suggellando col sangue versato in comune l'unità recente dell'antica patria".

Qui dobbiamo fare una breve parentesi. Nella commozione generale per i morti di Dogali, nei primi giorni di febbraio, in molte città italiane, nelle chiese furono celebrate messe solenni; e questo molti pensarono, forse erano i primi segni di un'apertura della Chiesa verso lo Stato Italiano.
Poi in maggio ci fu un'allocuzione ai cardinali di LEONE XIII, e girarono alcuni voci ...
(ne parleremo più avanti).

Il 14 giugno il ministro della guerra presentò un disegno di legge per un credito straordinario di 20 milioni e per l'autorizzazione di formare un corpo speciale di truppe destinato a costituire i presidi in Africa. Questo corpo doveva essere formato e mantenuto mediante arruolamenti volontari e il contingente di truppa era fissato a 5000 uomini. La relazione, favorevole, a firma dell'on. DE ZERBI, fu presentata il 21 e la discussione cominciò il 29. Vi presero parte RICCIOTTI GARIBALDI, che lamentò l'insufficienza del credito proposto e appoggiò l'occupazione dell'Abissinia; parlarono FERRARI, BONFANDINI, BRANCA, VALLE, MARTINI, LUCHINI, che proposero l'istituzione di una Commissione consultiva coloniale; e intervennero pure Bonghi, Mellusi, Toscanelli, De Zerbi, Mancini, il ministro della Guerra, Di Camporeale, Pais, Pantano, Costa, Crispi, Marcora.
Furono presentati parecchi ordini del giorno. La camera votò su quello dell'on. DI SANT'ONOFRIO, che prendeva atto delle dichiarazioni del Governo e che fu approvato con 239 contro 37; quindi si ebbe la votazione sul progetto che fu approvato con 188 voti favorevoli e 39 contrari.
Presentato al Senato il 1° luglio 1887, il disegno fu discusso il 7 e l'8. Parlarono i senatori DI ROBILANT, CORTE, CARACCIOLO DI BELLA, MASSARANI, ERRANTE, PIERANTONI, CADORNA, il ministro della Guerra e il disegno fu approvato con 79 voti contro 12.

TENTATIVO DI RICONCILIAZIONE FRA LA CHIESA E LO STATO
LA MORTE DI DEPRETIS.

Nel 1887 fu fatto un tentativo -almeno così pensarono alcuni- di conciliazione tra l'Italia e il Papato. Il 23 maggio di quell'anno, nell'allocuzione tenuta in Concistoro, Leone XIII disse:
"Piaccia al cielo che lo zelo di pacificazione, onde verso tutte le Nazioni siamo animati, possa, nel modo che dobbiamo volere, tornar utile all'Italia, a questa Nazione cui Iddio con sì stretto legame congiunge al romano Pontificato e che la natura stessa raccomanda all'affetto del nostro cuore. Noi di certo, come più volte ci avvenne di significare, da lungo tempo e vivamente bramiamo che gli animi di tutti gli italiani giungano ad ottenere sicurezza e tranquillità, e sia tolto finalmente di mezzo il funesto dissidio con il romano pontificato; ma, salve sempre le ragioni della giustizia e la dignità della Sede Apostolica, le quali furono offese più per violenta opera di popolo che per cospirazione di sette. Vogliamo dire che unica strada alla concordia è quella condizione in cui il romano Pontefice, non sia soggetto
al potere di chicchessia, e goda libertà piena e verace, come vuole ogni ragione di giustizia".

Pochi giorni dopo si pubblicava il celebre opuscolo intitolato "La Conciliazione" dell'abate cassinese LUIGI TOSTI, che era stato liberale guelfo nel 1848 e non aveva mai cessato di sperare in un accordo tra la Chiesa e lo Stato. Nell'opuscolo si esprimeva il dolore dei cattolici italiani al pensiero che nel prossimo Giubileo papale tutte le nazioni sarebbero state presenti eccetto l'Italia; si sosteneva esser necessario che il Pontefice e l'Italia si conciliassero ma si affermava che non era possibile chieder che fosse restituito potere temporale. "La breccia di Porta Pia fu un brutto affare; Roma che era del Papa, passò con la forza in altre mani. Chi aprì la breccia fu un determinato numero di uomini che si chiamano "Governo". Chi proprio s'impossessò di Roma fu un individuo morale, un universale, una nazione, l'Italia .... Quando i popoli si reggevano a monarchia assoluta, i principi regnavano e governavano ad un tempo e se usurpavano roba della Chiesa, i Papi sapevano a chi rivolgersi per farla restituire; ma oggi i principi regnano e non governano. Il deposito delle leggi è nelle mani dell'universale, il governo è della Nazione; e se in quello è cosa malamente acquistata, il Pontefice può dolersi di chi la usurpò, ma non può rivolgersi al principe perché gli sia restituita. Perciò, richiesto il Re d'Italia di restituire Roma al Papa, non poté farlo, perché non era più sua. Avrebbe dovuto riconquistarla con la forza al Papa, strapparla dalle mani della nazione e scompaginare questa col ferro del parricidio o con quello dello straniero. Quante stragi! quante rapine! quale naufragio di autorità in tempi di universale ribellione ! Il non "possumus" del Papa e del principe stettero equilibrati nella bilancia della giustizia di Dio".

L'opuscolo così concludeva: "Noi vedremo la Provvidenza sopperire per ora ai mezzi della potestà terrena con quelli della filiale carità di tutta una nazione che gli offriva il cuore, come rocca inespugnabile dentro la quale il Pontefice sommo, tranquillo, mediterà la giustizia di tutti i popoli, e dai suoi spalti la sosterrà con l'indipendenza e la libertà con cui Cristo ci ha liberati. Noi vedremo la sedia gestatoria portata sulle spalle robuste da trenta milioni d'Italiani, noi vedremo sollevato tanto alto Leone XIII a quelle spalle robuste, che abbassando gli occhi, non vedrà più su questa terra questioni e
dissidi. I suoi occhi fisseranno le porte di un nuovo impero, la signoria di tutte le coscienze stanche di guerreggiare desiderose di pace, libero ognuno di soggiacervi. Quelle porte si chiuderanno innanzi ai suoi passi al grido trionfale, che, come torrente di gloria proromperà dall'Alpi al mare: "Ave, Princeps pacis !".

L'opuscolo sollevò un gran rumore e non mancò naturalmente chi rimproverò duramente l'autore, che, pur essendo bibliotecario del Vaticano, teneva un linguaggio simile. Ma padre Tosti non si curò delle critiche tanto più che rappresentava in quel momento uno strumento nelle mani della Curia, per conto della quale agiva. Il 27 maggio ebbe un colloquio con Crispi e gli dichiarò che il Pontefice con la sua allocuzione concistoriale aveva teso la mano all'Italia e che quindi non doveva esser difficile comporre il
dissidio. Padre Tosti avrebbe consigliato Leone XIII a scendere in San Pietro e in occasione del Giubileo a riprendere le sue funzioni in pubblico. In quella circostanza, il Papa e il re avrebbero potuto incontrarsi. "Ciascuno serberebbe impregiudicati i suoi diritti. Né città Leonina, né alcuna parte del territorio italiano. Il re non potrebbe rinunciarvi. Il territorio italiano appartiene alla nazione, e non vi si potrebbe rinunziare dal re. La pace tra la Chiesa e lo Stato sarebbe un gran bene per l'una e per l'altro. In caso di guerra il Governo sarebbe sicuro di non aver nemici in casa".
Infine, padre Tosti pregò Crispi di lasciare al Papa il compimento della Basilica di San Paolo e la restituzione delle rendite di detta basilica, il che sarebbe stato una prova "della benevola condiscendenza dell'Italia verso la Chiesa".

Le trattative dovevano continuare nel massimo segreto tra padre Tosti e ALBERTO PISANI-DOSSI, segretario del Crispi; ma il segreto non fu tale da non lasciarlo trapelare.
Gl'imperi centrali si mostrarono lieti di quei negoziati, la Francia invece fece sapere al Vaticano che non avrebbe visto di buon occhio un accordo tra la Santa Sede e il Governo italiano. Quelle voci delle trattative ebbero un'eco perfino alla Camera, dove il 10 giugno BOVIO svolgendo una sua interpellanza sulla politica del Governo verso il Vaticano, cercò di dimostrare che Chiesa e Stato sarebbero usciti danneggiati da un accordo:
"La conciliazione sarebbe acqua stagnante, un patto di mutua mediocrità tra lo Stato e la Chiesa, un Papa mezzo principe, uno Stato mezzo Cattolico, in un terreno comune, biancheggiante di mezze istituzioni, mezzi uomini e mezza religione".
Il ministro ZANARDELLI dichiarò che lo Stato non avrebbe mai rinunziato ai propri diritti e CRISPI, a sua volta ridimensionò lui stesso le voci che lo volevano fautore di quelle trattative; e disse:
"Noi non domandiamo conciliazioni, né ce ne occorrono, poiché lo Stato non è in guerra con nessuno. Leone XIII non è un uomo comune. I tempi maturano; e mitigano ed estinguono le più fiere avversioni, e potrebbero anche avvicinare Chiesa e Stato. Ma da parte nostra, però nulla sarà toccato al diritto nazionale sancito dai plebisciti. L'Italia appartiene a se stessa, a sé sola, e non ha che un unico capo: il Re !".

Tuttavia le trattative continuarono, e non solo con il Crispi, da parte di padre Tosti per mezzo del Pisani-Dossi, ma con altri ministri e perfino con quello della Real Casa, da parte di negoziatori -si disse poi- non autorizzati dal Pontefice.
Di questo si lagnò il Crispi, e il Santo Padre rispose di non avere incaricato altri di negoziare come risulta da una lettera al Tosti di Monsignor Mocenni, sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede, in data del 25 giugno.
Ma nella seconda metà di luglio le trattative furono troncate essendo in Vaticano prevalso il partito degli intransigenti. Il cardinale RAMPOLLA sconfessò i negoziati e dichiarò che il Santo Padre non poteva rinunziare alla rivendicazione del potere temporale.
Padre Tosti dovette scrivere una lettera di completa ritrattazione, che, secondo la promessa, non doveva essere resa di pubblica ragione; e invece fu pubblicata nell'Osservatore Romano. Così tutto ciò che aveva scritto prima, e lo stesso opuscolo, andò a finire nella carta straccia.
Di "Conciliazione" non si parlerà pià per molti anni.

Prima che i negoziati con la Santa Sede fossero troncati, e precisamente il
7 luglio del 1887, DEPRETIS, malandato in salute, aveva lasciato Roma e si era recato a Stradella per cercare di rimettersi, ma il 29 cessava di vivere. Aveva 74 anni; da quasi quarant'anni era deputato e da circa dieci, come presidente del Consiglio, aveva capeggiato 8 ministeri.

Nato nel 1813, in gioventù mazziniano, sotto ancora Carlo Alberto, nel 1848 a 35 anni fu eletto deputato subalpino, sedendo all'opposizione, quindi acceso avversario di CAVOUR. Nel 1860 prodittatore della Sicilia. Ministro con RATTAZZI (1862) e con RICASOLI (1867.1868), divenne capo della Sinistra parlamentare nel 1873, e nel 1876 succedette a MINGHETTI alla guida del governo. Nonostante una larga maggioranza il suo programma (enunciato a Stradella) trovò un'attuazione solo parziale. Alternatosi con CAIROLI (periodo 1878-1881), contestato dalla stessa sinistra (e in questa, principale oppositore, CRISPI), varò una coalizione meno omogenea, avviando nel 1882-83 la politica detta del "trasformismo", che gli permise di costituire un forte gruppo politico-finanziario di tendenza moderata, e di sostenere la prima espansione coloniale che abbiamo appena accennato in queste pagine (che nei suoi successivi sviluppi parleremo ancora nel prossimo capitolo).

Moriva insomma un protagonista; ma passarono poche ore, e lasciò sulla sua stessa poltrona di capo del Governo, un uomo che pur non di molto inferiore come anni (70), ma piuttosto energico ed efficiente, anche lui mazziniano, poi garibaldino, ma poi convinto monarchico, doveva a sua volta diventare un protagonista nei successivi dieci anni:
FRANCESCO CRISPI.

Parleremo proprio di lui nel prossimo capitolo�

�periodo dal 1887 al 1889 > > >

 

Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - (i 5 vol.) Nerbini 1930
COMANDINI - L'Italia nei cento anni - Milano 1907
MACK SMITH, Storia del Mondo Moderno - Storia Cambridge X vol.
MONDADORI . Le grandi famiglie d'Europa - I Savoia. 1972
CONTE CORTI La Tragedia di Tre Imperi. Memorie e documenti
del Principe Alessandro D'assia, conservati al Castello di Walchen. 1951
DE VILLEFRANCHE G.M. Pio IX- Bologna 1877
F. COGNARSCO Vittorio Emanuele II - Utet 1942
PATRUCCO C. Documenti su Garibaldi e la massoneria - Forni 1914
O' CLERY - The making of Italy - Kegan&Trubner, Londra 1892
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet 
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
STORIA D'ITALIA Cronologica 1815-1890 -De Agostini
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