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CRONOLOGIA

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GRECIA - STORIA

I TEMPI DELLA REAZIONE
di Atene per far risorgere la democrazia

I TRENTA TIRANNI - LA MORTE DI TERAMENE - LA CAMPAGNA DI CIRO - LA MARCIA DEI DIECIMILA (SENOFONTE) - LA MORTE DI ALCIBIADE - GLI EROICI MILLE DI TRASIBULO
(404 - 400 a.C.)

 

Come abbiamo visto alla fine delle precedenti pagine, Sparta aveva finalmente conseguito lo scopo per il quale ventisette anni prima aveva imbracciato le armi contro Atene. Ormai tutto il dominio ateniese era ridotto in frantumi e tutta la Grecia riconosceva la supremazia di Sparta. Era dunque un successo militare netto, la sua forza militare era del ersto palese a tutti. Non così quella politica, perchè dopo la conquista occorreva dare alla nazione una nuova organizzazione, che senza limitare eccessivamente l'autonomia dei singoli Stati, tuttavia ponesse a disposizione si Sparta città ora predominante le sue risorse militari e finanziarie.
Anche se c'erano alcuni spartani che premevano per mettere il giogo ad Atene e ai singoli Stati, altri ricordarono che Sparta a suo tempo aveva intrapreso la guerra contro Atene per la libertà degli Elleni ed ora, dopo la vittoria, se si voleva con loro essere leali a tale programma non si poteva fare marcia indietro.
Ma nemmeno si poteva proseguire sulla linea fino allora tenuta da Atene, che era quella di esigere tutto l'anno tributi e prendersi la preorogativa di esercitare la suprema giurisdizione; erano state proprio queste due imposizioni che avevano reso odiosa ai confederati la signoria ateniese.

Si giunse a un compromesso più moderato: Sparta si riservò il diritto di imporre agli alleati contributi solo in caso di guerra. Tuttavia nonostante la supremazia di Sparta, questa non poteva certo essere mantenuta con mezzi semplicemente morali. Perciò Lisandro aveva posto dovunque il governo nelle mani delle classi abbienti che il proprio interesse teneva legate a Sparta; giacchè soltanto l'appoggio militare che offriva a loro Sparta questi nuovi governi potevano conservarsi al potere di fronte al popolo. Pertanto i presidi spartani che erano stati dislocati durante la guerra in una serie di città fra le più importanti, vi rimasero anche dopo conclusa la pace. Non era una vera e propria formale forza di occupazione, ma di fatto lo era. Anzi questa rete di presidi fu completata con altre guarnigioni, spesso richieste dagli stessi governi interessati (filo-spartani o perchè montati sul carro del vincitore). Ai governi di questi Stati per il riordinamento delle proprie cose interne fu comunque lasciato alla loro stessa iniziativa. Ed ognuno prese le sue.
Ora si pensi che quasi tutti i governi provvisori formati da Lisandro erano composti in buona parte da personaggi che erano stati prima all'opposizione o erano reduci dall'esilio. I quali naturalmente approfittarono della loro nuova posizione per rendere la pariglia a coloro che li avevano osteggiati o addirittura cacciati. E tutto ciò ovviamente non avvenne senza frequenti atti di vendicativa dura rappresaglia.
Nella stessa Atene, i trenta Arconti stabiliti da Lisandro presto si abbandonarono ad atti di tirannia; e per rinforzare alcuni decreti ottennero pure da Lisandro una guardia armata per essere protetti. Principalmente non agirono sul popolo povero, ma sui ricchi cittadini, prima di tutto perchè questi con le loro risorse potevano rappresentare un ostacolo al loro violento procedere; poi perchè perseguitando costoro, con vere o presunte accuse, potevano confiscare le loro ricche proprietà che andavano così ad arricchire quel patrimonio di beni da distribuire ai nuovi governanti e funzionari. Del resto gli esiliati a suo tempo erano stati spogliati dei propri beni, e quindi al rientro per tornarne in possesso non si poteva che procedere sull'esempio precedente: cioè confiscare i patrimoni degli avversari.

Tutto questo non avvenne senza imparzialità, senza crudeltà, e spesso usando le false accuse , cioè usando il metodo della rapina. Si aggiunga che alcuni comandanti dei presidi spartani non furono all'altezza della situazione; abituati ad usare il tono brusco militare, operando da militari si fecero di frequente ciechi strumenti degli interessi partigiani oligarchici; e non di rado pure loro sfruttarono la situazione per arricchirsi.
Ma per l'enorme estenzione del territorio direttamente o indirettamente conquistato, Lisandro non aveva altri strumenti; quelli aveva a disposizione, e quindi anche dove ci furono soprusi, angherie, strapoteri, fu costretto a comportarsi con indulgenza. Proprio ad Atene, la più demoralizzata, nessuno osò opporsi agli scellerati, e il regno del terrore fu la norma di vita quotidiana. Tutti coloro che erano anche per poco stati in vista a capi di partiti o solo seguaci di movimenti antiologarchici, dovettero fuggire, per sottrarsi alla sorte di essere accusati come rei di alto tradimento e mandati a morte. Perfino Nicerato, il figlio di Nicia, fu condannato a morte e giustiziato solo perchè non si era voluto associare al movimento oligarchico.

Nel governo dei trenta, c'erano sì quasi tutti fedeli amici di Lisandro, ed anche Ateniesi (opportunistici) filo-spartani, ma anche due noti Ateniesi. Uno era da sempre il capo e la mente degli elementi estremi ed era Crizia (uomo di cultura, poeta, oratore e scrittore politico) che odiava con fanatismo la democrazia; l'altro era Teramene, alla guida di un gruppo più moderato, mal disposto al dispotismo, animato da una qualche considerazione per il bene del proprio paese. Lui era ben istruito nella scienza del governo, tuttavia una macchia ce l'aveva anche lui: lo zelo che profuse nel procurare la ingrata condanna a morte dei comandanti della famosa battaglia navale di Arginusa.

Quando iniziò ad operare il nuovo governo dei trenta, proprio Crizia con i suoi seguaci stabilirono che i diritti poliitici dovevano essere limitati a 3000 cittadini di sicuri sentimenti oligarchici. Teramene ne fu sdegnato e si oppose con tanta energia, fino al punto che Crizia in Senato lo accusò di essere un disturbatore della quiete, un sovversivo, un nemico del nuovo stato, e lo fece dalle guardie arrestare, indi processare.
Teramene si difese egregiamente da solo con validissimi argomenti davanti ai giudici; Crizia si narra che dopo questo intervento, temendo un assoluzione, fece entrare in aula sue fidate guardie che ogni tanto, ma sistematicamente, con quasi noncuranza, facevano vedere ai giudici la punta di un pugnale. I giudici così intimoriti condannarono a morte Teramene.
Lui era stato scolaro di Socrate, e questi corse in Senato ad opporsi alla scellerata sentenza. Il filosofo si avventurò in una appassionante difesa. Ma rischiò molto, perchè ad un certo momento, indignato per i comportamenti dispotici di Crizia e dei suoi sostenitori, esortò i senatori e il popolo a vendicarsi dei loro presuntuosi oppressori.
Teramene fu condannato a bere la cicuta. Senofonte rese immortale questi istanti, quando l'uomo con intrepidezza, calma e forza d'animo andò incontro alla morte. Dopo aver sorseggiato il veleno, l'ultima goccia con calma la versò a terra dicendo "Questo per il virtuoso Crizia".
Socrate, solo per i suoi meriti si salvò dallo sdegno di Crizia e dai tiranni suoi seguaci. Ma ben presto venne il suo turno, quando gli stessi uomini politici gli proibirono di educare e istruire la gioventù. Poi pure lui con accuse infamanti di empietà e di corruzione dei giovani finì sotto processo che si concluse con la condanna a morte e a bere pure lui la cicuta.

Crizia eliminato Teramene, aveva ora un pensiero fisso. Temeva da un momento all'altro un ritorno di Alcibiade, che - ricordiamo- dopo la sfortunata battaglia di Egospotami, temendo un'altra irragionevole ingratitudine (e dagli oligarchi qualcosa di più serio) si era autoesiliato in Tracia, dove per i suoi buoni rapporti con il Satrapo persiano Farnabazo si proponeva di recarsi alla corte persiana; non sapremo mai cosa progettava. Ma sappiamo che gli ateniesi oppressi dalle miserie e dalle angherie, avevano già cominciato a pensare proprio ad un ritorno di Alcibiade per essere liberati dai tiranni.
Dunque Alcibiade era considerato da Crizia con piena ragione il nemico più pericoloso, e quindi emanò un decreto di messa al bando per Alcibiade. Non solo, ma con l'influenza di Lisandro (anche lui volendo mantenere buoni rapporti con i Persiani) Crizia ottenne che il bando fosse esteso anche nelle province persiane. E qualora catturato di consegnarlo ad Atene vivo o morto.

INTANTO ALLA CORTE PERSIANA

Qui dobbiamo fare un passo indietro, per dare un'occhiata ai fatti nel frattempo avvenuti alla corte persiana e alla Satrapia di Sardi.
Abbiamo già visto nelle precedenti pagine, che Ciro
, il secondogenito di Dario, giovane e ambizioso, nutriva in animo il disegno di soppiantare suo fratello maggiore Artaserse e insediarsi sul trono egli stesso.
Con questo progetto, finanziò e aiutò gli Spartani di Lisandro, così prima o poi il favore gli sarebbe stato restituito.
Sua madre Parisatide aveva adoperato ogni suo potere con Dario, per persuaderlo di dichiarare Ciro suo successore ad esclusione del suo primogenito Arsame. Ma Dario non voleva commettere un tale atto di ingiustizia. Quando Dario morì (nel 404 a.C.) il nuovo re nel suo ingresso assunse il nome di Artaserse Mnemome. Ciro disperato giurò la sua distruzione. Artaserse informato che il fratello tramava contro la sua vita lo fece arrestare, tuttavia la vita gli fu risparmiata per la solita intercessione della madre, e fu così generoso da ristabilirlo nel governo in una delle più belle province dell'Asia Minore.
Ma l'ingrato Ciro non si diede per vinto, quasi subito cercò il modo di come deporre il fratello. Tornò a far ricchi regali a Lisandro, poi di nascosto (nel 402 a.C.) allestito un proprio esercito con mercenari greci al comando di un certo Clearco - un esule spartano- e un numero considerevole di barbari, si preparava a marciare alla volta di Susa per abbattere con la forza il fratello.
I suoi preparativi non potevano passare inosservati. Lo stesso Alcibiade che viveva in esilio ai confini del territorio persiano - che si riprometteva di aver bisogno di Artaserse per far ritorno ad Atene per abbattere il governo spartano dei tiranni, lo informò che si stava tramando contro di lui.
Artaserse svolse delle indagini, ma Ciro gli fece sapere che i sudditi della provincia affidata al satrapo Tisaferne da tempo erano in ribellione contro di lui, e che l'esercito approntato era appunto per un pronto intervento in caso di sommossa. Ma proprio Tisaferne piuttosto accorto sospettò qual'era il vero progetto di Ciro, e con dati di fatto mise sull'avviso Artaserse, che non perse tempo con lo stesso Tisaferne nell'approntare un potente esercito per andare al momento opportuno incontro al fratello e dargli battaglia.

Infatti questi nella primavera del 401 si mise in cammino con il proprio esercito composto da 90.000 barbari e da 10.000 mercenari greci, e giunse senza incontrare resistenza fin quasi alle porte di Babilonia, qui radunati i capi greci (che rispetto ai barbari erano dei veri combattenti) rivelò qual'era la sua vera intenzione, e li incitò a dimostrare il loro valore e il loro coraggio per una causa che avrebbe anche a loro portato benefici e ricchezze.

Nel frattempo si era mosso anche il grande esercito di Artaserse, si narra fosse composto da circa un milione uomini e da centinaia di carri. Nei pressi del villaggio di Canara (o Cunassa) ci fu il contatto con le forze del fratello che già aveva schierato il suo esercito in ordine di battaglia.
Nonostante forze di gran lunga superiori a quelle di Ciro, la parte centrale con Artaserse al comando, incappò proprio in quel settore dov'erano i diecimila ateniesi, che lottando come dei leoni, li accolsero massacrandoli. Molti persiani di diedero alla fuga disordinata, e mentre Ciro con soddisfazione guardava le truppe di Artaserse fuggire davanti ai greci, lo sguardo cadde proprio su un cavallo che non poteva essere se non quello di suo fratello. Esaltato dalla vittoria e eccitato dalla visione si mise a gridare "Io lo vedo", e nello stesso tempo seguendo gli stimoli della sua ambizione, e l'occasione che gli si presentava, si mise a galoppare a testa bassa verso di lui, uccise di propria mano il comandante della guardia reale, intrepido si fece avanti fra coloro che lo volevano fermare, poi giunto a pochi metri dal fratello, ferì con un dardo il suo destriero, e questo si impennò gettando a terra Artaserse. In un lampo il re persiano era già su un altro cavallo. Ciro ancora più invasato per aver visto il fratello rovinare a terra, prese nuovamente la mira per scoccare un altro dardo, ma fu più veloce Artaserse, che con un preciso dardo al suo petto lo fulminò.
In un attimo il copro di Ciro fu sommerso da un nugolo di dardi lanciati dai seguaci del re. Un altro seguace, benchè Ciro fosse già morto con un fendente gli tagliò la testa, e per punizione di aver osato alzare la mano contro il fratello, con un altro fendente gli staccò dal braccio la mano assassina.

A quel punto, l'esercito di Ciro che già vinta la battaglia aveva in mano la vittoria, vedendo cadere il loro condottiero, si abbandonarono alla fuga, soprattutto il contingente barbaro, mentre quello greco, proprio quello che aveva vinto lo scontro con la cavalleria di Artaserse, fu ben presto circondato dagli uomini di Tisaferne.
Il famoso Senofonte, allora giovanissimo, che era nelle truppe di Ciro come cadetto, nel suo Anabasi fece un dettagliato resoconto dell'intera infausta spedizione.
E soprattutto, nella Ciropedia, ci ha lasciato un ritratto del giovane Ciro, vittima di una sua stravangante e colpevole ambizione. Secondo il suo racconto "Ciro come atleta sorpassava tutti quelli del suo tempo. Egli adempiè ai suoi impegni con la più grande puntualità ed onore. Ricompensava i buoni uffici con straordinaria generosità e singolare prudenza, sempre in proporzione del vero merito non per favore, e comandava con la miglior grazia del mondo. Sembrò dilettarsi della sovranità, in quanto essa lo abilitava a fare del bene; e in nessun altra maniera impiegò il suo gran potere nel compierlo. Con questa condotta si acquistò la stima dei Greci e dei Barbari".
Senofonte fa però menzione delle sole virtù e tace del tutto riguardo ai vizi, ai difetti, alla sua illimitata ambizione, tale da indurlo ad alzare le armi contro il fratello, per privarlo non solo della corona ma della vita.

I tragici eventi non finirono però con la morte di Ciro. I greci volendosi giustificare, dissero costernati che erano stati condotti in Persia da Ciro senza essere informati delle sue intenzioni; che loro non avevano nulla contro il monarca persiano, e quindi implorarono di poter far ritorno sani e salvi al loro paese.
Tisaferne con un'aria di indulgenza promise, il re Artaserse pure lui promise, addirittura disse il primo che avrebbe procurato provviste e guide per farli ritornare in patria. Poi per discutere i particolari logistici, invitò i quattro generali nella sua tenda. Fuori venti capitani per discutere altri particolari. Ma era un tranello, in un attimo i capitani furono circondati e fatti a pezzi da duecento persiani, mentre i quattro generali portati davanti al re furono decapitati alla sua presenza.

I diecimila greci che erano accampati poco lontano ben presto caddero nella costernazione non vedendo tornare indietro i propri ufficiali. E ben presto non dubitarono di fare la stessa brutta fine. Essendo a seicento leghe dalla Grecia, circondati da montagne e deserti, senza viveri, senza denaro, senza guide, senza duce, e con i persiani alle calcagna, una ritirata fino in Grecia era un'impresa quasi impossibile.

Nel generale abbattimento venne fuori la genialità del giovane cadetto Senofonte. Comportandosi come un grande ed esperto generale, disse loro che avevano ancora qualcosa: il proprio coraggio! Ricordò loro le famose giornate di Maratona, delle Termopili, quelle di Platea. Inoltre quelli che avevano alle calcagne erano - da non dimenticare - stati vinti. Ed infine che i Dei vendicatori della perfidia li avrebbero assisititi nella grande impresa di far ritorno in Grecia sani e salvi.
Come un incallito uomo d'arme, scelse e promosse sul campo nuovi comandanti di squadra, di plotone, diede disposizioni per come marciare nella ritirata: non sparsi, non a colonna, ma a quadrati pronti a difendersi in qualsiasi momento da un attacco nemico. Ed infatti, fin dal primo momento della ritirata, i greci subirono diversi attacchi, che però respinsero sempre, né mai modificarono i piani dell'improvvisato condottiero; e poichè Senofonte nella sua relazione non ne accenna altri attacchi, è verosimile che i persiani a un certo punto si stancarono di attaccarli, convinti che sarebbero morti da soli nell'attraversare i grandi fiumi, il deserto, le alte montagne che avevano davanti.

Iniziò così la famosa "Marcia dei Diecimila", che forma l'argomento dell'Anabasi di Senofonte, una fedele ed elegante storica narrazione. Ad onta delle innumerevoli difficoltà che incontrarono in ogni passo nelle circa 1900 miglia di cammino, dopo quattro mesi giunsero a Pergamo, a rivedere l'agognato azzurro del mare Egeo, dopo aver superato laceri, contusi, affamati, il Tigri, l'Eufrate, i deserti della Media, le alte montagne innevate dell'Armenia, del Turkistan, il Ponto.
Questa ritirata, la più straordinaria ricordata da qualunque storia, se è particolarmente ammirata dai maestri guerrieri per l'audacia dell'impresa, è decisamente unanime l'ammirazione verso quel geniale giovane cadetto, l'artefice della audace e impossibile impresa: Senofonte.
Il famoso Ateniese, che divenne celebre come generale, come storico e come filosofo, era appena uscito dalla scuola di Socrate. Nel partecipare con l'ambizione giovanile alla sfortunata impresa - che il maestro però aveva disapprovato - nel momento critico si dimostrò un vero discepolo di Socrate, e l'educazione della bellicosa Atene aveva fatto il resto.
Abbiamo detto che divenne celebre, ma anche per lui ci fu poi l'ingratitudine ateniese. Questo perché al suo ritorno la sua fama destò gelosie. Gli invidiosi dei suoi successivi successi (ricordavano sempre agli altri che aveva accompagnato Ciro. Fino a quando sempre battendo su questo tasto, lo esiliarono da Atene. Ma anche in esilio in piccolo paese vicino ad Olimpia, pur occupandosi solo di lettere, di agricoltura e della caccia, non ebbe pace. Soprattutto quando insorse la guerra fra i Lacedomi e quelli dell'Elide. Questi ultimi non gli lasciarono godere il piacevole soggiorno e lo forzarono a partire. Quasi vecchio si ritirò a Corinto, dove visse fino a 90 anni, dedicandosi alle sue numerose opere, ammirate per la semplicità e l'eleganza.
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Noi qui nel tornare ad occuparci della Grecia sotto i tiranni, dobbiamo nuovamente riprendere il discorso su Alcibiade messo al bando dai Tiranni. Bando che il perfido Crizia tramite Lisandro, anche lui in buoni rapporti con i persiani per ben altri motivi, ottenne di estenderlo anche in quelle province, promettendo chissà cosa, o quale alleanza, se catturavano e consegnavano ad Atene Alcibiade vivo o morto. Convinse anche il satrapo Farnabazo; e proprio lui che aveva dato ospitalità ad Alcibiade, con un atto di viltà diede ordine ai suoi soldati di arrestralo per consegnarlo ai Greci.
Non fu una cattura facile. Un manipolo di guardie incaricate di arrestarlo, avendo per lui riverenza, non osarono forzare la sua casa per catturarlo. Ma alla stessa appiccarono il fuoco per farlo uscire. Alcibiade in un primo momento tentò di spegnere l'incendio, poi con la spada in mano decise di uscire per affrontare i suoi assedianti, che anche in questo caso provando soggezione nell'attaccarlo si ritirarono davanti a lui. Purtroppo un dardo di uno di loro, lo centrò in pieno petto facendolo stramazzare al suolo morto all'istante.

Così perì nell'età di quarant'anni questo straordinario uomo, proprio nel momento che i suoi concittadini il quel momento critico avevano bisogno della sua assistenza dei suoi servigi e della sua genialità.
Alcibiade lo abbiamo conosciuto in diverse pagine nell'arco di venti anni. Il suo carattere ci ha mostrato un singolare misto di buone e cattive qualità. Fu il terrore e il flagello del suo paese e degli altri stati della Grecia e sperimentò per l'intero corso della sua vita le più stravaganti prese di posizioni e insieme i capricci della fortuna, ora con gli Ateniesi, ora con gli Spartani, ora con i Persiani.
Difficile dire se le sue migliori qualità si possono definire virtù. Poichè nella sua condotta scopriamo più arte ed accortezza che onore ed integrità; più vanità ed ambizione che vero amore per la patria; essendo il suo continuo scopo il vivere il raggiungimento di un solo scopo, quello personale.
Per privati motivi di ambizione egli persuase i suoi concittadini d'impegnarsi nella spedizione Siciliana, il cui infelice insuccesso è giustamente ricordato come il principio della rovina di Atene.

GLI EROICI MILLE DI TRASIBULO

La morte di Alcibiade ad Atene, se da una parte rese felice Crizia e i suoi seguaci per essersi disfatti del temuto avversario e del suo probabile rientro, dall'altra - quella che appunto aspettava il suo ritorno - fu costernata nel vedere che il terrore arrivava anche molto lontano. Ma assieme ai democratici, questa volta vi era anche una fazione oligarchica indignata che esautorata prima da Lisandro poi dagli arroganti uomini che lo spartano aveva messo al potere, questa fazione (quella moderata, seguaci del povero Teramene, finito come sappiamo) iniziava a temere che prima o poi - nell'esprimere un semplice dissenso - sarebbe venuto il loro turno. La discordia era ormai palese, e questa infuse nuovo coraggio agli emigrati ateniesi. Fra essi l'uomo più eminente era TRASIBULO, che si era trovato capo del movimento democratico nel 411 (furono allora gli equipaggi della flotta di Samo a proclamarlo tale), e poi sotto gli ordini di Alcibiade aveva rivestito importanti cariche militari.

Esiliato da Atene dopo la disfatta e l'insediamento dei trenta tiranni, aveva trovato rifugio e una buona accoglienza a Tebe. Muovendo da qui nell'inverno del 404-403 occupò con trenta seguaci la fortezza diroccata di File, sulla punta del Parneto, ai confini della Beozia. Come detto sopra, con l'aria che tirava ad Atene, ben presto affluirono a lui numerosi partigiani, e quando su ordine dei trenta tiranni le truppe spartane di presidio, circa 3000 uomini, furono inviate a combatterlo, Trasibulo era già così forte che non solo respinse l'attacco, ma inflisse perdite al nemico.
Incoraggiato dal successo, con i suoi mille uomini a disposizione, Trasibulo osò e marciò alla volta del Pireo, dove prese posizione sulla strategica altura di Munichia.
I trenta tiranni intimoriti che insospettati cittadini si unissero ai partigiani di Trasibulo, diedero l'ordine di trucidare immediatamente tutti coloro che possedevano armi.
Poi inviarono le loro truppe ad attaccarli, ma anche questa volta l'assalto eroicamente venne respinto. Nella parte nemica ci fu qualche sensibile perdita, ma sul campo di battaglia del nemico che era arretrato fu trovato un corpo con il petto squarciato da un anonimo dardo; ed era il cadavere di Crizia. La modesta vittoria di mille uomini si trasformò in un attimo in una clamorosa vittoria, della massima importanza.

Ad Atene diffusasi subito la notizia, fra gli oligarchi scoppiò il panico, in un attimo il governo dei trenta precipitò nella rovina, la maggior parte fuggì da Atene cercando rifugio ad Eleusi. Il popolo - come capita di solito in questi frangenti - parteggiando o per l'uno o per l'altro - non trovò di meglio che scannarsi reciprocamente in una irrazionale guerra civile.
I 3000 messi sotto pressione elessero un nuovo governo di dieci persone, scelte fra i seguaci di Teramene. Che erano sì moderati, ma pur sempre oligarchi, e quindi non si mostrarono minimamente disposti a ripristinare la democrazia, e quindi la guerra civile continuò.
Il precario governo oligarchico, non trovò altra soluzione che rivolgersi per aiuto a Sparta; lo zelante Lisandro inviò subito una squadra navale al Pireo, e lui stesso radunò un corpo di opliti ad Eleusi.
Con questo intervento, era evidente che i democratici non sarebbero stati in grado di tener testa a tali forze.

Paradossalmente l'àncora della salvezza per i democratici venne proprio dalla medesima Sparta.
La parte più saggia di Sparta, non era rimasta sorda alle grida di indignazioni che giungevano da Atene e dagli altri Stati, dove gli uomini messi al potere da Lisandro governavano con la tirannia, l'arroganza e il terrore. Non era personalmente responsabile Lisandro, non era lui direttamente a guidare quei governi, ma era anche vero che quelli erano sue fidate pedine.
A Sparta lui aveva amici, che dopo i clamorosi successi lo glorificavano come grazia divina, ma aveva anche molti nemici che proprio per queste eccessive lodi, lui che era così ambizioso, temevano che diventasse un onnipotente uomo di stato. Magari con l'appoggio proprio di quei suoi amici tiranni che lui aveva disseminati per l'intera Grecia.

Sul trono degli Euripontidi sedeva PAUSANIA, il nipote del vincitore di Platea. Lui e gli Efori, decisero che prima che fosse troppo tardi, il sole di Lisandro doveva tramontare; e mentre questi era già ad Eleusi a organizzare l'esercito per riversarlo su Atene, Pausania avocò a sè la soluzione del conflitto, e alla testa di un esercito della lega del Peloponneso entrò nell'Attica.
Anche se era fortemente armato, lui non voleva fare la guerra, ma solo l'arbitro della situazione. E proprio in grazia alla sua mediazione tra le due parti fu concluso un patto di pace. Tutto ciò che era avvenuto doveva essere condonato e dimenticato. Saggiamente si decise però che per i famosi trenta, questa amnistia era esclusa; anzi furono tutti sacrificati al pubblico sdegno.
Terminò la guerra civile, i patti furono giurati da entrambi le parti, oligarchici e democratici. Quest'ultimi ancora accampati a Munichia nel Pireo nel settembre del 403 a.C. fecero il loro ingresso in città.
La rivoluzione era finita. Pausania soddisfatto sciolse l'esercito e perfino il presidio spartano all'Acropoli abbandonò Atene, dove finalmente ritornò la tranquillità e la vita.
Si narra che in questa scellerata breve guerra civile perdettero la vita più cittadini Ateniesi che non nei dieci anni della guerra Peloponnesiaca.

Quanto al governo, fu lasciato in facoltà degli stessi Ateniesi di procedere al riordinamento della costituzione dello Stato, e siccome l'oligarchia si era fino allora mantenuta al potere con l'appoggio dello spartano Lisandro, cessato questo appoggio, fu ripristinata la democrazia, sostanzialmente con l'antica formula. A vigilare Trasibulo che si dette molto da fare per far dimenticare con giuramento tutte le ingiurie passate, e non fu facile far cessare il reciproco odio di cittadini che per mano di altri cittadini avevano perso figli, mariti, parenti e amici.

Anche Eleusi, l'anno dopo venne riammessa ad Atene, senza che Sparta facesse opposizione.
Tutto ciò causò a Sparta del malcontento, molti disapprovarono Pausania di essere stato troppo magnanimo, che il patto stipulato era un grave errore politico. Molti s'indignarono che a pochi mesi dalla conclusione di una lunga guerra durata ventisette anni, si era ora giunti con i vari perdoni e le varie amnistie a far tornare sui banchi di governo gli uomini che quella guerra l'avevano istigata e sostenuta.
Si giunse perfino a mandare sotto processo Pausania per alto tradimento; ma il consiglio degli anziani non solo lo assolse, ma estese anche in altre città ad Atene confederate, il riordinamento della propria amministrazione, che costò l'allontanamento di tutti quei governi in mano agli ex amici di Lisandro.


Ricordiamo che tutto questo era avvenuto, mentre in Persia, Ciro marciando contro il fratello Ataserse era rimasto ucciso; mentre Senofonte marciava con i 10.000 per far ritorno in Grecia; mentre i Greci nelle province asiatiche tentavano di ribellarsi alle satrapie persiane e invocavano Sparta per essere liberate.
E Sparta con la sua ultima politica pur avendo apportato un completo mutamento negli stati confederati, e risolto alcuni problemi interni, pur esautorando Lisandro, la politica estera era rimasta legata all'indirizzo di Lisandro, noto amico della Persia, e quindi il problema era tutto da risolvere. L'appello dei greci asiatici fornirono il pretesto per dedicarsi proprio a questo problema.

E ci fu una ragione di più quando appresero che Conone (l'inetto condottiero che si era dato alla fuga a Egospotami, causando la totale disfatta ateniese, e che per la vergogna non si era più presentato ai suoi concittadini), rifugiatosi a Cipro, divenuto comandante di flotta dei Persiani, o per riscattarsi andando in aiuto di Atene, o per ambizioni politiche, aveva proposto ad Artaserse di invadere la Grecia in mano agli arroganti Spartani.

ll re persiano convinto del progetto, finanziato Conone per allestire una grande flotta, era in procinto di iniziare questa guerra. E in parte l'aveva già iniziata.

Ma di questo e altro parleremo nel prossimo capitolo.

LA GUERRA DI SPARTA CONTRO LA PERSIA > >
(intanto ad Atene c'è una levata di scudi per abbattere il giogo di Sparta)

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Bibliogrfia e testi
Varie citazioni di Pausania. Cicerone, Strabone, Quintiliano, Plutarco, Plinio
SENOFONTE, Anabasi
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECA
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1 - Sei
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI

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