CINQUANTUNESIMO CAPITOLO

CAPITOLO CINQUANTUNESIMO

LA MORTE DI CAVOUR - L'AMARO ASPROMONTE - POI LONDRA
Morte di Cavour. - Partito democratico in piedi. - Il Re rivendica per sé l'iniziativa. - Brigantaggio nel Napoletano. - Garibaldi alla riscossa. - Opposizione dei suoi alla sua dittatura fuori del campo- Si arrende in apparenza. - Sarnico. - Aspromonte narrato da Garibaldi. - Ferita e convalescenza. - Garibaldi in Inghilterra - Ritorno a Caprera.


1° giugno 1861 - Inizia una misteriosa malattia di Cavour nel pieno della sua attività. Dopo cinque giorni di febbri il male si aggrava e muore. Una vera sciagura questa, giacché nessuno valeva a sostituirlo.
(La sua morte - così banale, oscura e in un certo senso improvvisa - ha sempre dato voce a trame criminose. Vedi a proposito "MA CAVOUR FU ASSASSINATO?"

Tornavano ora (ma anche in seguito) tutti a formulare ipotesi in quale giorno e in quale modo il conte di Cavour avrebbe rivendicato Roma e Venezia alla patria. Ma forse nessuno dubita che se egli fosse rimasto alla testa degli affari, se avesse anche soltanto governato la politica italiana dalla sua villa di Leri, i giorni tristi di Sarnico e di Aspromonte, di Lissa e di Custoza e soprattutto di Mentana, sarebbero stati risparmiati all'Italia. Camillo di Cavour avrebbe scelto "il suo modo".
Forse sarebbe andato avanti animoso, o forse avrebbe lasciato che altri lo facessero, o forse avrebbe tagliato corto sulla prima ad ogni tentativo. Con lui (e anche qui bisogna mettere un "forse") non si sarebbe avuta la politica di Macbeth, che per dieci anni trascinò l'Italia in una serie di disastri e di umiliazioni. La sua mano vigorosa (forse) avrebbe scritto pagine ben diverse di storia per la sua patria.

12 GIUGNO - Il Barone Ricasoli � incaricato da Re di formare il nuovo governo, che vara il 12 giugno, mantenendo anche il ministero degli esteri e della guerra. Il Re si affrett� a dire che gli dispiaceva la scomparsa del Conte, "per� tale luttuoso evento non ci arrester� un istante sul cammino della nostra politica; vedo l'avvenire chiaro come in uno specchio e niente pu� sgomentarmi".
Anche se finivano i dissidi tra Cavour e il Re, Vittorio Emanuele sent� presto la mancanza di quell'"uomo forte" spregiudicato ma "intelligentissimo" che era stato Cavour. Con Ricasoli ben presto ci furono dissensi; mediocre era lui e mediocre era il ministero da lui organizzato, salvo Minghetti cresciuto alla scuola cavouriana.
Inoltre c'era Napoleone III che senza il Cavour la questione romana rischiava di fallire; infatti invi� a Torino il generale Fleury ad annunciare che avrebbe conservato le sue truppe a Roma.
Il Re diplomaticamente fece buon viso a cattiva sorte, ripromettendosi di esaminare la questione pi� avanti (intanto -gli mand� a dire prudentemente- che avrebbe pensato per il momento solo al suo Piemonte), mentre Ricasoli pi� religioso di Cavour pens� di essere lui il salvatore del Papato, che sarebbe andato a Roma non per distruggere ma a edificare, che avrebbe dato alla Chiesa il mezzo di riformare se stessa. Un utopia insomma. Commettendo tante ingenuit�. Che non andavano bene n� a Napoleone III n� a Vittorio Emanuele II.

Morto Cavour, il partito democratico fu di nuovo in piedi, adoperando i comitati di provvedimento e facendo propaganda di insurrezione con la stampa. Garibaldi incitava ognuno ad armarsi, diceva imminente l'ultima lotta per Roma e Venezia, riconsacrava l'antico programma Italia e Vittorio Emanuele, rifiutando la presidenza dei Comitati di provvedimento, di cui diffidava reputandoli repubblicani. Allora corse da un capo all' altro della penisola la parola d'ordine che si dovesse ad ogni costo rimanere uniti sotto Garibaldi, e, ben presto 800 associazioni, dette "emancipatrici", tennero un'adunanza in Genova proclamando Garibaldi presidente di un Comitato esecutivo di 21 membri, parecchi de' quali, ben più che accettare, può dirsi che subirono il programma monarchico.
Non pensavano ad altro che alla lotta. Se l'iniziativa fosse stata monarchica essi erano con la monarchia: in caso di indugi, sarebbero stati essi stessi gli iniziatori senza imporre alcuna bandiera alle popolazioni che dovevano liberarsi. Garibaldi, accortosi di questo indirizzo, fece intendere senza nasconderlo il suo pensiero a chi voleva e a chi non voleva comprenderlo: su di lui poteva contare chiunque si muovesse; egli stesso era pronto a dare l'impulso, ma con l'antico programma, non con un altro. Fu egualmente chiaro anche rispetto ad altre controversie: il suo primo pensiero era assalire gli austriaci anzitutto; a Roma si sarebbe pensato poi.

Bettino Ricasoli come abbiamo già detto sopra era succeduto al Cavour; lui godeva simpatie perché lo si credeva capace di tener testa a Napoleone, e si ricordava a suo onore un discorso violento contro l'Austria pronunziato mentre Cavour era ancor vivo. Ma il Re non lo amava. Un ministro che pensava con la sua testa e sapeva volere, qual era stato Cavour, era già abbastanza; e con il Ricasoli non si affiatava, in parte per ragioni private, in parte perché lo giudicava uomo di non grande levatura negli affari di Stato. E così le cose procedevano alla peggio.

Bastogi alle finanze, Miglietti alla giustizia, Menabrea, Minghetti, Peruzzi, Scialoja erano compagni di Ricasoli; ma il gabinetto si reggeva male e senz'ordine. Napoli e Sicilia parevano (e lo erano per davvero) sull'orlo della guerra civile; Ponza di S. Martino era accusato di amoreggiare con i borbonici; Spaventa faceva la guerra ai garibaldini; il generale Durando comandante la guarnigione di Napoli domandava 12 battaglioni per mantenere l'ordine; e il Minghetti, richiamato Durando e S. Martino, riunì il potere civile e militare nelle mani di Cialdini.

Quello che fu definito "brigantaggio" aveva alzato il capo in modo che Pinelli non solamente lo combatteva duramente, ma non dava pace nemmeno aile popolazione sospette di complicità. Bruciava i villaggi di Ponte Laudolfo e di Casaudile e poi assicurava il mondo che "l'ordine regnava nel Napoletano".

Mazzini del resto era piuttosto ben informato. Il 12 febbraio 1862 mi scriveva:
"Crespi, Mordini e Miceli sono andati a Caprera. Garibaldi pensa ad una spedizione in Dalmazia, e gli arruolamenti sono cominciati. - Il progetto sta fra lui, il re e Rattazzi. Ricasoli ne é escluso, ma sa tutto ed é contrario e dice di volerlo impedire.
Rattazzi andò a Parigi con lettera autografa del Re per proporre lo sgombro di Roma ed una cooperazione morale per la Venezia in cambio di una alleanza offensiva e difensiva sul Reno.
- Se Rattazzi riusciva, Ricasoli sarebbe stato condannato, e lui saliva al potere. Luigi Napoleone ascoltò, ma nulla rispose di concludente, si pensa però che l'azione lo deciderà ad accettare; di qui il progetto di Garibaldi in Ungheria.
Se riesce, credono che Luigi Napoleone accetterà, ed occupando Napoli lascerà liberi al Re i suoi 60.000 uomini ora nel Sud. Se non riesce, allora essendo il tentativo fuori d'Italia, il Re non ne sarebbe compromesso."

"Mi accorsi - scrisse Garibaldi a Bertani in marzo - che il tempo é venuto di riprendere la nostra croce".

Queste parole bastarono per far affluire i volontari in Lombardia; mentre il generale si intratteneva ai bagni di Trescorre sotto il pretesto di essere in mala salute. Napoleone, stanco di lottare contro il destino e temendo sempre l'influenza dell'Inghilterra in Italia, rimandò il suo ambasciatore a Torino, riconoscendo in tal modo ufficialmente il Regno d' Italia.
Nel frattempo Ricasoli si mostrò favorevole ad un progetto di Kossuth, secondo il quale si doveva attaccare l'Austria dal Danubio.

Garibaldi con i suoi vecchi generali avrebbe capitanata l'impresa. Anche Rattazzi non era contrario a questo tentativo, e non si oppose quindi al reclutamento dei volontari in Brescia e in Bergamo, anzi segretamente lo favorì. Ma non appena i garibaldini seppero che si progettava di mandare Garibaldi fuori d'Italia, si insospettirono tutti, Bertani come Mario, Crispi come Mazzini.
Intanto, caduto Ricasoli per oscuri intrighi di corte, il suo successore è (ti pareva!) Rattazzi cui tuttavia Garibaldi diede piena adesione, però soggiungendo: "Depretis veglierà". - Si disse, e si credette universalmente che Rattazzi fosse favorevole ad una spedizione nel Veneto, ma questa supposizione non é avvalorata da alcun fatto o documento. Egli aveva aderito al tentativo sul Danubio e a null'altro.
Garibaldi invece era fermo nei suoi disegni sulla Venezia, nonostante i consigli dei suoi amici, Mario, Mosto, Bertani, nonostante il contrario avviso di tutta la Commissione emancipatrice.

Indetta una riunione a Trescorre, proprio il 5 maggio, anniversario della partenza dei Mille a Quarto, Garibaldi tentò di piegarli alla sua volontà; e poiché non ci riuscì, li accusò di essere tutti d'accordo con Mazzini per mandare a vuoto i suoi piani. Mosto e Bertani si ritirarono addolorati; Mario gli disse apertamente che quand'anche il tempo fosse stato maturo ad una spedizione, solo Roma avrebbe avuto il potere di ravvivare l'entusiasmo degli Italiani, quanto al passaggio nel Veneto questo sarebbe stato impedito dal governo prima ancora che la spedizione fosse divenuta abbastanza forte per resistere.

"Voi, Mario, siete un mazziniano" esclamò il Generale fortemente concitato.
"Né mazziniano, né garibaldino - questi replicò - penso con la mia testa".
"E' questo é il male" replicò il Generale, che si sentiva sempre dittatore. Ma alla riunione di Trescorre nessuno dei suoi lo ascoltò.
Egli aveva capito e l'indomani scrisse:

Trescorre. 6 maggio 1862.
Nel 5 maggio in Trescorre ho potuto avvalorarmi nel concetto che si meritano i miei correligionari politici - confermarmi che non ci può essere democrazia senza onestà d'intendimento e rispetto alla volontà nazionale.
Non più diffidenze dunque in un paese che deve trovarsi compatto nelle ultime battaglie dell'indipendenza. I membri del consiglio dell'Associazione emancipatrice, eletti nell'adunanza generale de Genova, che si componeva dei delegati di tutte le Associazioni liberali d' Italia, confermarono in questo solenne anniversario il patto fondamentale, su cui posa l'avvenire della patria, il concerto che lega questa nazione, che vuole risorgere tutta, al suo Re leale e galantuomo.
I nostri convincimenti furono trovati da noi tutti consentendo al nobile plebiscito siculo-napoletano, al programma glorioso delle nostre vittorie.
Italia e Vittorio Emanuele !... Ecco la nostra bandiera, ecco il voto consacrato dalle moltitudini, proclamato oggi dall'entusiasmo per il re guerriero di mezzo milione di popolo, a cui fanno eco tutte le popolazioni. - Ecco la meta a cui devono tendere tutte le aspirazioni. - Ecco finalmente il vangelo politico su cui posero la destra, ieri - uomini che mi onoro di chiamare fratelli, uomini che l'Italia ed il Re troveranno sempre cooperatori sulla via che conduce alla intera nazionale rigenerazione.
GIUSEPPE GARIBALDI.

Venuto in chiaro così al governo, che non per imprese sul Danubio, bensì per far testa al Mincio si proseguivano gli arruolamenti; il 15 maggio furono arrestati Nullo e Ambiveri, con molti volontari, a Sarnico, e ad Alzano Maggiore, sequestrate delle armi, iniziati dei processi.
I bresciani vollero invadere le prigioni per liberare Nullo, ma i soldati ebbero ordine di far fuoco; caddero a terra quattro uccisi, parecchi feriti. Garibaldi fece dire allora al prefetto di Bergamo che i volontari erano arruolati d'ordine suo, le armi raccolte da lui, che egli solo si dichiarava responsabile di tutto ciò che potesse succedere.
Il governo rispose che avrebbe fatto rispettare la legge, né mai avrebbe potuto concedere che altri tenesse il suo posto. Chi biasimerà questa risposta? Bensì sarebbe stato logico che, arrestato Nullo, si arrestasse egualmente la persona a cui egli obbediva, ovvero che si facesse comprendere nettamente a Garibaldi che nessuna spedizione contro Venezia o contro Roma sarebbe stata tollerata. Ben lungi da ciò, Garibaldi non soggiacque ad alcuna molestia a Trescorre, e qui lui, quasi a protesta contro l' esercito, che aveva tirato sul popolo, iniziò una sottoscrizione per offrire una spada d'onore a certo Papoff, ufficiale russo, che a Varsavia aveva rotta la spada, piuttosto che sguainarla contro un popolo inerme. La protesta suonò ancor più chiara nella Gazzetta di Milano, dove egli scrisse:
" Che i soldati italiani devono combattere i nemici della patria e del Re, non già uccidere e ferire i cittadini inermi. - Alla frontiera e sui campi di battaglia, le milizie. Là e non altrove é il loro posto".

Tutto ad un tratto egli abbandona la presidenza delle Società emancipatrice e si ritira a Caprera come se avesse rinunciato a qualsiasi proponimento di spedizione (*).
(*) Infatti, Garibaldi lasciò scritto nelle sue memorie:
"Disgustato delle cose di Sarnico - e tornato a Caprera - io non avrei abbandonato la mia solitudine - se le notizie dell'Italia meridionale fossero state meno tetre. I miei amici di quelle parti - soprattutto dalla Sicilia - mi narravano il malcontento crescente ed il pericolo di un movimento autono misto coadiuvato certamente da tutti gli altri partiti che con il malgoverno di Rattazzi avevano alzato la testa. - L'opinione generale era, che al richiamo (qui minacciato) del Pallavicino una insurrezione sarebbe scoppiata in Sicilia. Tali considerazioni mi fecero decidere a visitare la capitale dell'Isola."

Nessuno fu da lui informato dei suoi progetti, tranne il vecchio Ripari che non lo abbandonava mai. E questi scrisse ad un amico a Genova:
"L'aquila vola verso il sud". Infatti, pochi giorni dopo, eccolo a Palermo in mezzo a tutto un popolo pieno di entusiasmo per lui, e per il suo grido:"a Roma".

II vecchio Pallavicino, prefetto di Palermo, era ardente come un giovanotto e si sentiva fiero di averlo suo ospite ancora una volta nell' antico padiglione del Palazzo Reale; lui che diceva: "O Roma, o morte! o popolo dei Vespri, popolo del 1848, popolo del 1860. Napoleone, il traditore del 2 Dicembre, il traditore della Repubblica romana, l'assassino della Francia, deve sgombrare da Roma, e se nuovi Vespri sono necessari, vi siano pure nuovi Vespri!"

Tremila fucili datigli alla dogana gli bastavano ad armare una schiera di volontari raccolti nella foresta della Ficuzza. Le più alte dame di Palermo rivaleggiavano con le più umili popolane nel confezionare camicie rosse per la legione romana. Ma le sorti della spedizione erano segnate; poteva immaginarlo chi sapeva che a quei giorni dominava più che mai nei consigli della Francia, quella donna fatale che fu l'imperatrice Eugenia; lei che disse al Nigra con quel piglio di disprezzo ben familiare al suo labbro allorché parlava dell'Italia: "Morte finché si vuole, Roma mai!".
Le sorti erano segnate: il governo mandò gli ordini più rigorosi al Pallavicino affinché si reprimesse l'insurrezione ad ogni costo, anche arrestando Garibaldi.
Il vecchio prigioniero dello Spielberg rifiutò sdegnosamente di obbedire e diede la sua dimissione.

Il nome di Garibaldi in Sicilia, in quei giorni, poteva rappresentare, volendo, guerra civile; tant'é vero che il principe Umberto qui recatosi con la principessa Margherita, per inaugurare il tiro nazionale, ebbe così fredde accoglienze che preferì ripartire subito, mentre Garibaldi continuava a gridare: "Italia e Vittorio Emanuele, a Roma, a Roma! ".
Sopraggiunsero molti dei suoi antichi ufficiali, e Garibaldi prescrisse alle Società emancipatrici di organizzare le spedizioni come per il passato; si doveva incontrarlo sulla sacra via di Roma, per mare o per terra, mentre lui con i suoi tremila volontari avrebbe passato lo Stretto prendendo la via degli Abruzzi.
Ma nello stesso tempo che divideva la sua legione in 4 battaglioni, con le guide sotto gli ordini di Missori, con i picciotti sotto Corrao, e con Clemente Corte capo di Stato maggiore, il Re, proponente Rattazzi, firmò un proclama agli Italiani, invitandoli a stare in guardia contro le colpevoli impazienze e le improvvide agitazioni, promettendo che quando l'ora del compimento della grande opera fosse giunta, la voce del Re stesso si sarebbe fatta udire.

Ma non aveva forse Garibaldi già ricevuta nel 1860 la lettera tutta di pugno del Re che gli ordinava di non passare il Faro, e cionondimeno i fatti non si erano poi compiuti? e Vittorio Emanuele non aveva egli accettato il Regno di Napoli dalle sue mani ?
Alea jacta est!... ma l'appello veniva troppo, tardi.

Il questore De Ferrari (con Pallavicini come detto sopra dimissionario) fu nominato prefetto di Palermo e il general Cugia comandante militare della Sicilia; questi bandì lo stato d'assedio in tutta l'isola, come Cialdini nelle province napoletane, avendo sotto i propri ordini 60 battaglioni e la squadra.
Garibaldi evitò con la destrezza consueta di far scontrare le truppe nell' isola, riunì la sua legione a Villa Rosa e mosse trionfalmente per Castrogiovanni, dove il generale Mella con la sua brigata dell'esercito, e con altra brigata il generale Ricotti speravano di prenderlo fra due fuochi.

Garibaldi aveva dato l' ordine di evitare ad ogni costo una lotta con la truppa, e quando giunse vicino a Catania, ove vi era un corpo di questa, egli stesso andò in mezzo ai soldati proclamando il dovere di combattere uniti i nemici della patria in Roma. Perché non fosse qui arrestato, non si comprende; poté invece tornare fra i suoi e condurli a Catania, dove fu accolto con gioia ed entusiasmo così irresistibile che il prefetto ed il comandante di piazza non osarono farsi vivi, anzi si ritirarono a bordo della fregata reale, il "Duca di Genova".

Garibaldi non dubitava di trovarsi nelle stesse condizioni del 1860, di poter rinnovare la stessa epopea, e tanto più facilmente ci credette che, giunti il Mella e il Ricotti, fu avvisato dell'ordine avuto da questi di non attaccarlo.
Il 24 giunsero in porto due vapori, l'"Abbatucci" francese e il "Dispaccio" italiano, né le tre fregate che qui si trovavano badarono ad impedire che Garibaldi se ne impadronisse.
Tremila uomini furono imbarcati, ma con pochi viveri, né fu dato l'ordine di trovarne a Melito e a Reggio. Qui Cialdini sentiva di poter prendere la sua rivincita. Il fuoco della "Maria Adelaide" decise Garibaldi a piegare a destra dove il Cialdini aveva spedito il colonnello Pallavicini con ordini precisi e assoluti.

Si vuole che le guide scelte per condurlo in Aspromonte tradissero il Generale; fatto sta che i volontari stanchi ed estenuati dalla fame dovettero fare una camminata di 40 ore anziché di 10, giunsero in S. Stefano la notte del 28 affranti dalla fatica. Solamente 1200 rimanevano dei tremila e si accamparono sulla cima di Aspromonte.
Ancora una volta egli proibì severamente ogni zuffa con i regolari, e prese posto al centro in prima linea, davanti alla strada da dove le truppe dovevano salire.
In quel momento non sapeva ancora se c'era l'ordine di lasciarlo passare o di sbarragli la via per Roma. Ma l'incertezza durò per poco. Il Pallavicini aveva diviso i suoi in due colonne, spingendo sulla destra quell'Eberhardt, che il giorno del 1° ottobre essendosene fuggito con i suoi dall'acquedotto sopra Maddaloni, per poco non fece perdere a Bixio una posizione, mentre apriva il varco ai borbonici per rientrare a Napoli.
Con la seconda colonna a sinistra e con un battaglione dei Forestali lasciato in alto e che occupavano la cima di Aspromonte, Pallavicini era riuscito completamente a circondare i garibaldini. Poi verso le 5 pomeridiane, i bersaglieri sotto Eberhardt, distesi a catena, cominciarono il fuoco.

Con la persona ritta, immobile in mezzo ai suoi, Garibaldi non fece udire che due parole: "Non rispondete. Viva l'Italia!".
I suoi obbedirono, fremendo. Se non che Menotti, visto il padre toccato da una palla, e ferito lui stesso, sguinzaglia il suo battaglione contro gli offensori. Corrao, l'audace compagno di Pilo, non tardò a seguirne l'esempio, e con lui Raffaele De Benedetto, colui che era destinato a perdere la vita più tardi combattendo per Roma.
Contro lo stesso Garibaldi, già contuso alla coscia sinistra, miravano i bersaglieri di Eberhardt. Egli comandò risolutamente la cessazione del fuoco da parte dei suoi e si fece ubbidire, quando una palla, più ben diretta delle altre, lo colpì al malleolo del piede destro, e lo si vide salutare col cappello i fratricidi, gridando "Viva l'Italia!" poi cadere nelle braccia di Enrico Cairoli, che insieme a Nullo e a Guastalla lo trasportarono sotto un albero rinnovando l'ordine che le trombe dessero il segno di cessare il fuoco.

Sparsasi la voce che Garibaldi era stato due volte colpito e ferito, corse un fremito d'ira e d'indignazione fra i volontari ma anche fra i regolari. Erano rimproveri amari degli uni contro gli altri, imprecazioni contro chi aveva comandata la strage, e le lacrime solcavano le guance di tutti.
In quel mezzo un aiutante di campo del generale Pallavicini avanzò con l berretto in capo, a cavallo ed armato, spingendosi fino a Garibaldi ed intimandogli la resa.

Garibaldi, senza avere udita l'insolente intimazione, ordinò che gli venisse tolta la spada per insegnargli come si presenta un parlamentare. Ma di lì a poco il Pallavicini si trovò qui di persona, a testa scoperta, e quasi inginocchiandosi davanti a Garibaldi, lo pregò di arrendersi, non avendo egli "patti" da offrire, bensì "solamente ordine di combatterlo".

Garibaldi, raccomandati a lui i disertori e i feriti, volle essere trasportato alla vicina cascina detta Marchesina, e di là la mattina dopo sopra una rozza barella, che ancora quel popolo conserva, la croce del moderno redentore, fu imbarcato a bordo del "Duca di Genova". Il Cialdini, ritto sul ponte della "Stella d'Italia", col cappello in testa, con le braccia incrociate, esultando poté contemplare il suo rivale vinto, ferito e prigioniero. Egli solo poteva rallegrarsi di questa vittoria !.
(alla fine del capitolo diamo una parte della narrazione di questo episodio, che lo stesso Garibaldi scrisse e che il signor Guerzoni ha poi pubblicato).

Sul "Duca di Genova" mancava il ghiaccio e ogni mezzo di cura; cosicché quando Garibaldi giunse al Varignano, dove una stanza squallida e nuda lo accolse, il suo piede e la gamba erano talmente gonfi e infiammati, che non solamente era impedita l'estrazione della palla, ma non si poteva nemmeno esser certi se la palla fosse rimasta dentro la ferita.
L'Italia rimase attonita a simile notizia. Io (Jessie) mi trovavo allora a Milano a raccogliere denaro per le spedizioni che si preparavano con gioia in tutte le città italiane. Avvertita dal Sindaco che per me aveva già ricevuto l'ordine di arrestarmi, passai la frontiera a Chiasso e giunsi a Lugano prima che qui fosse giunta la notizia.
Trovai là Cattaneo e Mazzini nello stesso luogo. Cattaneo pianse come un fanciullo; ma il grido che scoppiò dalle labbra di Mazzini, bianco per l'angoscia, mi parve dovesse essere quello di Davide per il figlio; chi l'avesse udito non avrebbe potuto più dubitare dell'intenso affetto che egli nutriva per Garibaldi, nonostante i dissensi che avevano tenuto divise le loro due anime.

Essendoci decisi più tardi di raggiungere il Generale a La Spezia, e accompagnarlo dietro sua richiesta a Pisa, in un albergo, ebbi modo di notare altre qualità di quella natura straordinaria che era Garibaldi. Nessun risentimento covava per il torto ricevuto, nessuna insofferenza per i dolori acuti ond'era martoriato: lo strazio suo era solo per l'impedita liberazione di Roma, per le crudeltà atroci commesse contro i disertori, crudeltà che fecero inorridire tutta l'Italia.
Il maggiore De Villata fece fucilare a Fantina, senza processo, sette giovani accusati di diserzione, benché si avesse la prova che due di essi non lo erano. I nomi di questi erano Ballestro romano, Ceretti rodigino, Bianchi di Graffignana, Pensieri di Pavia, Botteri di Parma, Della Morna milanese.
Il De Villata, che aveva così barbaramente violato il codice penale militare, fu promosso a luogotenente colonnello, come fu promosso il colonnello Pallavicini a maggiore generale, e decorati di croci e di medaglie, i gloriosi vincitori di Garibaldi all' Aspromonte.

Queste colpe la storia rinfaccerà al governo di Rattazzi, con la sola giustificazione di avere, benché troppo tardi, impedito che Garibaldi precipitasse l'Italia in una guerra con la Francia.

Garibaldi soltanto potrebbe narrare le torture della ferita, e dei suoi dolori artritici. Fu martire anche della propria celebrità, perché i più famosi chirurghi vollero visitarlo e curarlo a modo proprio; chirurghi e medici inglesi, belgi, il famoso Nélaton francese, che sbraitò per tutta l'Europa avere proprio lui scoperta la palla nella ferita.
Il pietoso ufficio di estrargliela toccò in sorte a quel valente e fior di patriota che fu lo Zanetti di Firenze, oltre i medici curanti Ripari, Basile, Albanese, che non abbandonarono mai un solo momento il loro paziente. Zanetti, sempre persuaso che la palla fosse rimasta nella ferita, la cercò nella piaga per due notti consecutive, poi all'ora della medicazione, allargata la ferita, vi pose dentro le sue pinzette. Ai piedi del letto stavano i tre medici e un belga; Garibaldi teneva fra i denti un fazzoletto, e mi stringeva la mano. Nel momento in cui Zanetti afferrò la palla, il paziente disse: "Per Dio c'é!". Passò appena un istante e la palla compariva nelle pinzette del Zanetti.

Il Generale baciò lui e ognuno di noi; nessuno aveva gli occhi asciutti. Sparsasi la notizia per l'albergo, tutti accorsero nella stanza. La marchesa Pallavicino giunse per prima con Menotti e Mario. Tutti vollero un pezzo del lenzuolo e dei pannolini inzuppati nel sangue del Generale per conservarli come reliquie preziose!
Ben presto incominciò la convalescenza. La ferita si rimarginava bene, ma i medici dichiararono che il clima di Caprera - dove lui voleva andare subito - poteva essere fatale durante l'inverno, e un giorno il Generale mi pregò di accompagnare Ripari per vedere se la villa offertagli da un cortese patriota di Pisa sarebbe stata adatta per un soggiorno d'inverno.
Tornammo incantati della bellezza del luogo, e della comodità del pianterreno messo a disposizione; ma Garibaldi non volle più saperne. Aveva il cappello tirato sugli occhi e una fisionomia rabbuiata che metteva in fuga ogni espansione confidenziale. "Non mi occorrono ville - disse- e torno domani a Caprera, non voglio fare debiti, né vivere di carità."

Basso ci mostrò allora l'enorme spesa segnata dall'albergatore; spesa di cui non si erano mai dati pensiero gli amici, e che era oltre ogni dire ingiustificata, mentre lui stesso la notte dell'arrivo a Pisa aveva fissato un equo trattamento per la famiglia, per i suoi tre medici, per la sua ordinanza. Né egli se ne amareggiava senza ragione.
Ritornò subito a Caprera. La palla di Aspromonte mutava faccia alla sua vita. Togliendogli ogni vigoria e prontezza di azione sul campo di battaglia, gli impediva di mettere in pratica anche nelle piccole faccende della vita quotidiana il suo proverbio favorito: "Chi vuole vada, chi non vuole mandi. "

La ferita e le sofferenze che ne derivarono indebolendo la sua salute gli impedirono quel costante esercizio all'aria aperta, con cui egli era solito sfidare il nemico sempre vigilo e che insidiava i suoi giorni.
I contadini poterono più ammirare il suo passo rapido e fermo nel salire le montagne di Caprera; non più poté aggirarsi a suo capriccio col fucile in spalla per le montagne e le foreste della vicina isola di Sardegna, delle quali conosceva ogni sentiero ed ogni anfratto, e dove era conosciuto ed amato in ogni casa signorile e in ogni umile capanna, dalla Maddalena a Cagliari.

Troppo crudelmente e troppo presto era caduta sopra di lui la maledizione della vecchiaia, lui che aveva un cuore così giovane e volontà così salda. A 56 anni fu ben duro per lui il dovere stendere la mano affinché altri lo sorreggessero; duro l'esser portato dove lui "non voleva". Ma gli fu forza piegare il capo al suo destino. Appena in qualche raro intervallo lo spirito gagliardo sfidava gl'impacci del corpo logoro e infiacchito; la volontà indomita trionfava ancora in lui, novello Prometeo, spezzando le catene degli uomini e del tempo.

La catastrofe d'Aspromonte immerse nel lutto tutta l'Italia. Dal Congresso di Parigi fino a quel giorno il popolo aveva avuta cieca fiducia che in un modo o nell'altro si sarebbe andati avanti. Avremmo avuto una guerra regolare contro l'Austria, noi a fianco dell'esercito, o si sarebbero fatta le spedizioni dei volontari, e l'esercito regolare li avrebbe seguiti! Ma ecco che questi due elementi, i quali uniti avrebbero dovuto combattere lo straniero, si sbranarono l'un l'altro.

Rattazzi cadde sotto lo sdegno generale; fu perfino suggerito al Re di chiamare Ponza di S. Martino per reprimere con parole forti lo spirito rivoluzionario; ma il Ra ebbe troppo buon senso.
Lasciava Minghetti occuparsi dal suo regionalismo, Spaventa predicare la necessità di uno Stato onnipotente, e intanto teneva d'occhio alla Polonia insorta, alla Serbia a alla Romania che si agitavano sempre di più, e all'Ungheria che sembrava sempre sull'orlo di una rivoluzione.

Mazzini lavorava indefessamente in questo senso acquistando armi per deporle sulla frontiera veneta, e ritornava nella Svizzera lasciata da lui dopo Aspromonte. Di tutta queste cose era consapevole il Re. II discorso fatto da Napoleone il 5 novembre, poco benevolo all'Austria, ravvivò un po' le speranze; c'erano trattativa più o meno dirette fra il Re e Mazzini; però il Re fece intendere esplicitamente e in iscritto "di non potere ammettere che il partito (mazziniano) prendesse l'iniziativa nei fatti che dovevano succedere, e se ciò accadesse sarebbe stato represso con la forza"; però di essere disposto a pigliare iniziative avendo comune con Mazzini lo slancio e il desiderio di fare.
"Io - aggiunse - giudico le cose da me con la massima energia, e non con timide pressioni altrui".

Mentre queste trattative accademiche erano in corso, Garibaldi presa una delle sue improvvise decisioni, e accettando i ripetuti inviti dei suoi ammiratori in Inghilterra, lasciò Caprera su un piroscafo proveniente da Marsiglia, accompagnato dai figli, da Basso, dal suo medico Basile e da Guerzoni, allora suo segretario, arrivò a Malta, e di là salì sopra uno dei piroscafi della compagnia Peninsulare e si diresse verso Suothampton.
La gioia degli emigrati di ogni nazione, che allora facevano di Londra il loro quartier generale, la schietta contentezza del popolo inglese, che aveva per Garibaldi un vero e proprio culto, non trovarono riscontro se non nello sgomento che l'annunzio del suo arrivo produsse negli uomini del governo, nell'aristocrazia a nei circoli diplomatici.

Bisogna riportarsi a quei tempi, prima che la stella di Napoleone III volgesse al tramonto, per intendere tutta l'importanza (e timori) di quell'avvenimento.
Palmerston era sempre stato campione dell'alleanza con la Francia imperiale. Solida oltremodo era l'intimità della Regina con l'Imperatore e con l'Imperatrice, amicizia che non fu poi smentita neppure nei giorni della sventura del '71.
Abbiamo detto timori, perchè la polizia aveva proprio in quei giorni si era inventata la congiura di Greco per assassinare Napoleone con la complicità di Mazzini.

Ora l'Imperatore aveva un terrore mortale di Mazzini. Accanto a lui tenne per anni la più abile spia, un tedesco che aveva esposto la sua vita più volte per l'Italia. Costui vivendo nella più stretta intimità con Mazzini per ben 20 anni, ogni giorno mandava il suo rapporto a Napoleone. Pochi degli amici di Mazzini nutrivano sospetti sopra quell'uomo, e contro quelli che invece lo mettevano sull'avviso, lo stesso Mazzini si ribellava, dicendo: "Se avesse voluto tradirmi, poteva darmi legato mani e piedi alla polizia durante tanti viaggi cha abbiamo fatti insieme".
Né alla risposta dei diffidenti di: "Non convenirgli uccidere l'oca cha fa le uova d'oro" si arrendeva e continuava anzi a fidarsi dell'uomo; solamente dopo la caduta dell'Impero si ebbe la prova dalla straordinaria abilità che quell'uomo metteva nell'infame mestiere dalle sue lettere poi trovate negli archivi.
Ora proprio da questo losco confidente, l'Imperatore sapeva quanto era infondato l'affare Greco; ma cavalcava la voce, perchè il suo scopo era di screditare Mazzini in Inghilterra, come cercava con ogni mezzo di screditare Garibaldi in Italia.

L'idea di questi due uomini riuniti in Inghilterra, e del suo mortale nemico portato in trionfo da quel popolo che mai volle partecipare al fanatismo che egli aveva saputo inspirare alla corte e a certi ministri, dava a Luigi Napoleone la febbre; di conseguenza scongiurava i suoi confidenti in Inghilterra di allontanare in qualsiasi modo da lui il calice amaro.
Inoltre con le moltitudini eccitabili e turbolente degli operai, le quali tutte riconoscevano come capo qualche amico di Mazzini - come Stansfeld a Halifax, Coweu a Newcastle, Mac Adam in Glasgow, Rawlings a Liverpool, ecc., - l'aristocrazia temeva che al contatto con il gran liberatore le idee democratiche acquistassero troppo vigore.

Ma come fare? Il più piccolo sfregio, la minima freddezza da parte del governo, o delle classi alte, non avrebbe che raddoppiato il favore del popolo per un simile ospite. Occorreva dunque ben altra tattica; tuttavia così fu deciso che tutta l'Inghilterra senza distinzione di partito o di classe dovesse unirsi nel dare il benvenuto all'eroe dei due mondi.

Giunto a Southampton, nel "Ripon" tutto fu preparato: preparato il ricevimento ufficiale, l'ospitalità nella casa del deputato Seely nell'isola di Wight, poi a Londra nel palazzo del duca di Sutherland; fu deciso dal municipio di Londra di conferirgli la cittadinanza, si combinò con tutte le società operaie per fargli alla stazione di Southampton un'accoglienza trionfale.

Non pochi italiani moderati residenti in Londra si prestarono all'accordo.
A Southampton si raccolse il fiore dell'aristocrazia, col duca di Sutherland in testa; vi convennero i delegati dei municipi di tutte le città, i rappresentanti di tutte le società operaie: mai insomma, nessun guerriero trionfante ebbe tali manifestazioni di rispetto e di ammirazione da una intera nazione. Si fece avanti abilmente per primo nel " Ripon" il Negretti, ottenendo dal Generale, scritto in lapis, ciò che segue:
" Miei cari amici.
Desidero di non ricevere dimostrazioni politiche".

Nonostante una pioggia dirotta, le ovazioni non cessarono mai; finalmente il battello Sapphire recò il Generale all'isola di Wight, ove per otto giorni consecutivi fu visitato da tutti i più illustri personaggi dell'Inghilterra: Lord Palmerston, Gladstone, allora ministro delle finanze, il poeta Tennyson, che lo pregò di piantare una palma nel suo giardino, il duca di Sommerset ministro della marina, che mise a disposizione di lui piroscafi e yacht regali, e intanto piovevano deputazioni da tutte le grandi città per ottenere la promessa di una visita.
Tutti questi onori erano da Garibaldi gustati con grande soddisfazione, e sono ingiusti coloro che di ciò gli fanno torto. Fosse stato al potere il governo conservatore, poteva una cosa simile destare sospetto, ma Garibaldi aveva sempre professato viva gratitudine ai liberali inglesi (che erano al governo), per l'atteggiamento da loro assunto in favore dell'unità italiana: Russell come Gladstone, Palmerston come Stansfeld. Né egli mancava ai suoi amici privati e politici.

Il primo uso che fece del yacht della regina fu per andare a Portsmouth espressamente, a visitare la mia famiglia, di cui era stato ospite adorato nei giorni meno luminosi della sua vita. Morto era mio padre che egli aveva tanto amato, e alla mia famiglia poche gioie erano rimaste come quella visita.
Mazzini, pregato, lo visitava e lo mise in guardia dell' agguato che gli era stato teso; ma Garibaldi si credeva forte abbastanza del fatto suo, e gli premeva molto il sapere che cosa doveva attendersi nel caso di un nuovo tentativo contro l'Austria o sopra Roma.
Molto meglio, a giudizio di Mazzini e dei vecchi amici d'Italia, era l'accettare gli inviti delle province, dove in ogni contea si erano organizzate dimostrazioni per il compimento della liberazione e dell'unità d'Italia.

Il giorno 11 Garibaldi fece solenne ingresso in Londra, e qui l'accoglienza superò oltre misura quella di Southampton. Dubito che neppure per il funerale di Wellington una tale massa di gente fosse attirata da un sentimento comune verso un solo individuo, quale si vide allora nella metropoli. La stazione di Nine Elms fu addobbata come sala di ricevimento, e vi si raccolsero i membri del Parlamento, gli aldermen, gli operai, gli emigrati, i rivoluzionari di ogni nazione.
Notevole era l'indirizzo di benvenuto degli aldermen di Londra:

"Generale !
Gli abitanti della metropoli britannica salutano il vostro arrivo, e sono lieti dell'occasione di poter attestare un'entusiastica ammirazione al più grande dei patrioti viventi, all'imperterrito e disinteressato campione della libertà sul caro e classico suolo della sua patria, nonchè su quello della libertà universale.
La libera Inghilterra saluta con amoroso e cordiale rispetto il grande apostolo della libertà, l'eroico e cavalleresco soldato la cui spada é brandita solo per le cause giuste, il conquistatore di un regno, il liberatore dei suoi fratelli dall'oppressione; colui che, povero rimanendo, arricchisce gli altri poveri, il cittadino di tutti gli affetti e di tutte le abnegazioni, che antepone al proprio diritto il bene dell'umanità; l' uomo veramente buono, onesto e leale la cui virtù privata fa a gara con le virtù politiche e con la sua magnanimità, e del quale invano si cercherebbero esempi a Roma o a Sparta.
Vi siano dunque rese grazie, o Generale, d'essere venuto fra noi e di averci onorato con la vostra presenza.
Noi ferventi e sinceri ci rivolgiamo alla Provvidenza benefica la quale miracolosamente ha salvato in un crudele conflitto una vita tanto preziosa al mondo cristiano e all'umanità; e le chiediamo dal fondo dei nostri cuori di completare la vostra guarigione, di rendervi la salute, affinché possiate compiere quanto vi rimane ancora, onde l'avvenire sia glorioso più del passato, e affinché le vostre grandi e nobili opere raccolgano maggiori frutti e più utile all'Italia ed a tutte le nazionalità oppresse."

Gli operai fecero un'affettuosa allusione a Mazzini, come meritevole di riconoscenza e di omaggio per tutto ciò che aveva fatto per l'Italia, per la libertà e per l'umanità, esprimendo la speranza di potere un giorno manifestargli tutto il loro amore e la loro riconoscenza.

Finalmente, dopo sei ore di carrozza, a quattro cavalli, Garibaldi giunse di fronte a Stafford House, ove fu visitato dalla più alta aristocrazia della Scozia e dell'Inghilterra.

Feste e presentazione di una spada d'onore al Palazzo di cristallo, visita all'esposizione agricola di Bedford, banchetto alla villa del Duca di Devonshire, banchetto ufficiale dato da lord Palmerston, presenti tutti i dignitari dello Stato.

Poco tempo rimaneva a Garibaldi per la politica. Ma lui che non si lascia imporre la volontà da nessuno, uscì il primo giorno per fare visita a Stansfeld, all'amico d'Italia e non della "avventura", e che poche settimane prima, ministro sotto Palmerston era stato accusato di complicità nell'affare del Greco per aver fatto i più splendidi elogi di Mazzini, dicendo che "la sua più alta felicità era chiamarlo amico", e che poi rassegnò il portafogli per non essere d'imbarazzo al suo capo.
Garibaldi restituì a Mazzini la sua visita e accettò un banchetto in casa del famoso rivoluzionario russo Herzen. Erano presenti Ogareff, redattore del giornale il "Kolokol", Mazzini e Saffi, Stansfeld e Mordini, l'ex-prodittatore della Sicilia.
Il brindisi di Mazzini fu bellissimo e fu fatto in francese:
"Mon toast comprendra tout ce que nous aimons et tout ce pour quoi nous combattons: "à la liberté des peuples! - à l'association des peuples! - à l'homme qui, par ses actions, est l'incarnation vivante de ces grandes idées, - à Joseph Garibaldi !"

E Garibaldi che veramente si sentiva fra i suoi, così rispondeva:
"Je vais faire une declaration que j'aurais du faire depuis longtemps; il y a ici un « homme qui a rendu les plus grands services à mon pays et à la cause de la liberté. Quand « j'etais jeune et que je n'avais que des aspirations, j'ai cherché un homme qui put me con seiller et guider mes jeunes années; je l'ai cherché comme l'homme qui a soif cherche l'eau. Cet homme je l'ai trouvé; lui seul a conservé le feu sacré, lui seul veillant quand tout le monde dormait. Il est toujours resté non ami, plein d'amour pour son pays, plein de dé vouement pour la cause de la liberté.
Cet homme, c'est mon ami Joseph Mazzini.
A mon maître!"

Questo banchetto e più tardi l'arrivo di numerosi patrioti italiani e ungheresi, come Missori, Klapka e altri, e le visite fatte da Garibaldi a Ledru Rollio e Louis Blanc, spaventarono di nuovo gli amici di Napoleone, che non mancava, in via persuasiva, di affrettare la partenza dei Generale dall'isola.
Ma anche in Italia si temeva un riavvicinamento tra Garibaldi e Mazzini e l'avvio di troppi stretti legami con gli esuli polacchi e ungheresi.

Allora si misero d'accordo il duca di Sutherland, l'aristocratico ospite, e Fergusson, il famoso medico chirurgo, e trovarono, come pretesto, che le visite promesse dal Generale alle grandi popolate città dell'Inghilterra erano pericolose per la sua salute.
A quest'annuncio protestò Basile, medico di Garibaldi, affermando che la salute del Generale era soddisfacentissima, e che si poteva intraprendere il progettato viaggio senza alcun pericolo.
Il popolo si agitava, la stampa non taceva, e gli amici e gli esuli facevano ogni specie di pressione sul Generale per indurlo a non cedere ai cospiratori aristocratici. Garibaldi non si trovò mai in una posizione così imbarazzante; ogni suo momento era occupato; un giorno egli visitò il sepolcro di Ugo Foscolo, per deporvi una ghirlanda di alloro in bronzo con la seguente iscrizione:
"......ai generosi
giusta di gloria dispensiera è morte"
.

Un altro giorno dovette ricevere il diploma della cittadinanza di Londra; e accettare un pranzo ufficiale del Lord Mayor, poi un altro ricevimento ufficiale del Gran Cancelliere, presenti ancora Palmerston e gli altri ministri.
Il tempo incalzava, fu giocoforza fargli sapere che la sua presenza metteva in difficoltà il governo.
Aveva la sera prima rifiutato, piuttosto sdegnosamente, una sottoscrizione, che in un istante fruttò 50.000 sterline, per lui e come pensione per la sua famiglia; lui era irritato e annoiato.
Garibaldi a quel punto prese la sua decisione; la notte tra il 20 e il 21 disse a Sutherland: "parto ! ",
e scrisse ad uno degli organizzatori dei ricevimenti in provincia la lettera seguente:

"21 Aprile.
Cari amici,
Accettato i ringraziamenti del mio cuore per la vostra simpatia e per il vostro affetto. Sarò felice se potrò rivedervi in circostanze migliori, e quando potrò godere con tutto agio dell'ospitalità del vostro paese. Per il momento io sono obbligato di lasciar l'Inghilterra. Ancora una volta, la mia gratitudine sarà sempre viva per voi.
GIUSEPPE GARIBALDI.

Il giorno dopo egli fu visitato dal Principe di Galles, poi separato con furberia da Menotti e da Guerzoni di cui si temeva l'influenza; s'imbarcò col duca di Sutherland sul suo yacht "l'Ordine" e fermatosi a Malta seppe che si trattava di farlo viaggiare per qualche tempo in Oriente.
Maffei, segretario allora dell'ambasciatore italiano a Londra, telegrafava la lieta notizia ai ministri di Torino. Menotti però, informato da Mazzini, avvisò Basile, e Garibaldi insistette per l'immediata discesa a Caprera, avvisando Cairoli del suo ritorno immediato, "nonostante gli altrui disegni di più lunga navigazione."

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NOTA.
Ecco come Giuseppe Garibaldi riferisce l'episodio disgraziato di Aspromonte nei suoi Frammenti a matita:

" Catania si era mostrata degna di Palermo e della Sicilia. A Catania trovammo un vulcano di patriottismo. - Uomini, denaro, vettovaglie e vesti per la mia nuda gente.
La Provvidenza ci inviò due vapori ed io, amante del mare, dall'alto della torre del convento dei Benedettini che domina Catania, salutai la venuta dei due piroscafi con lo sguardo appassionato di un amante. - Uno era italiano, roba nostra - l'altro francese.
Buonaparte non ci aveva rubato Roma, che teneva da tredici anni? - e perché non potrò io disporre di un suo piccolo legno per una Notte? - Due fregate italiane custodivano il porto e si accorsero naturalmente dell'intenzione nostra - Dovendo attraversare lo Stretto di notte bisognava fare i preparativi di giorno. Le fregate vigilavano accuratamente e quasi chiudevano l'entrata del porto di Catania. Esse nella notte - esarebbero all'ancora, e in quel caso potevano tenersi molto vicine; ma non pronte a inseguirci nella nostra uscita - oppure si terrebbero esse sulla macchina - ed allora impossibile di star così vicini agli scogli in una notte oscura - poiché tutto intorno al porto di Catania é scoglio che incute timore di giorno. Di notte quella costa é di un oscuro, di un tetro d'inferno.
- Ostile l'esercito che circondava Catania, e che aumentava di numero ogni giorno. Ostile la squadra che senza dubbio sarebbe pure aumentata. Non vi era miglior espediente che di approfittare dei due provvidenziali vapori e tentare il passaggio.
Se le fregate incrociavano, non potendo esse tenersi vicino agli scogli, noi gli scogli li avremmo stretti quanto più si poteva.
Se le fregate ancoravano sulla bocca del porto passando sotto le loro batterie non potevano colpire, per l'inclinazione data ai cannoni. Io aveva calcolato dall'alto l'altezza delle batterie delle fregate e l'altezza dei due piccoli piroscafi - entrambi visibili ed a poca distanza.
Presi tale decisione - io scesi dalla torre del Convento e m'incamminai verso il porto per sollecitare l'imbarco ordinato da varie ore. Erano tremila e più i miei compagni, che con me dovevano attraversare il mare, ma appena mille ne potevano ospitare i due piroscafi. Quello fu un momento terribile. Nessuno voleva rimanere a terra, eppure molti lo dovevano. Vi era un'assoluta impossibilità di fare altrimenti.

Col cuore lacerato io vidi rimanere a terra quella cara gioventù, che altro non voleva che precipitarsi nella impresa la più ardua e la più pericolosa, senza chiedere dove si andava nè chiedere chi era il loro guidatore? Oh! Chi può disperare dell'avvenire d'una patria con uomini tali? - eppure quegli stessi uomini che si cercò di schiacciare, di distruggere, erano poco tempo dopo trascinati come malfattori nelle prigioni dello Stato - con i nomi di ribelli, briganti e camorristi!

I piroscafi che non potevano ricevere più di mille uomini - ne ricevettero più di duemila - ma erano stracarichi di un modo, come non ho mai visto.
Chi poteva impedire l'imbarco a quella buona ma disperata gioventù? Non ne entravano più sui bastimenti quando materialmente nemmeno un solo vi poteva più mettere il piede, dalla gran calca. Era cosa spettacolare !

Così - verso le 10 pomeridiane quasi a notte fonda - si uscì dal porto di Catania . Le fregate - come avevo previsto - non potendosi tenere all'àncora vicino al porto, dovevano tenersi piuttosto scostate quasi al largo; l'espediente nostro fu allora di costeggiare vicinissimo gli scogli al settentrione del porto.
Anche questa volta la fortuna marciò con la spedizione dei Liberi - e prima di giorno noi toccavamo la sponda meridionale della Calabria a pochissima distanza dal punto ove sbarcammo nel '60 - e dove rimaneva lo scheletro del "Torino", che per molto tempo ancora sarà lì testimonio della rabbia ridicola dei Borboni.

Il "Torino" era uno dei più bei piroscafi che io mai avessi veduto. Proprietà nazionale ed individuale italiana - quel bel vapore si sarebbe potuto salvare al paese non essendovi né necessità, né gloria militare nel distruggerlo.
Ancora una volta noi salutammo il continente italiano, pieno il cuore di speranze e con la meta di scuotere a libertà gli schiavi fratelli di Roma.
Ma il continente italiano non rispondeva degnamente alla chiamata del risorgimento. Il Moderantismo aveva gettato tra le moltitudini la sua ghiacciata parola - e per sciagura quei falsi moderati erano i corifei della rivoluzione del 60 e quindi possenti ad ingannare i popoli.

Lo stesso giorno dello sbarco in Calabria si occupò Melito. Da Melito vi erano tre vie da prendere. L'orientale per Gerace - la centrale per San Lorenzo ed i Monti - e l' occidentale per Reggio. Per Reggio fummo fortunati nel 60 e quindi si scelse quella.
Da tutte le notizie raccolte io non dubitavo che in quella estremità del continente italiano non si facessero quanti preparativi si potevano per fermarci - e veramente puntando su Reggio io avevo poca speranza di penetrarvi.
Ciononostante - il fortunato nostro passaggio e la celerità di cui eravamo capaci ci mettevano nella possibilità di entrare a Reggio - non avendo potuto ancora i nostri avversari radunare in quella città forze sufficienti per chiudercene l'entrata.

Con un colpo di mano corne quello del '60 - e con la simpatia della popolazione, di cui non dubitavo, noi saremmo entrati in Reggio. Ma molto dubbioso era, se potevamo entrare senza combattere e contrariamente al '60 noi dovevamo evitare i combattimenti.
Tali considerazioni mi obbligarono di accennare a Reggio - ma poi deviammo e prendemmo a destra nella direzione d'Aspromonte.
Il letto del torrente (S. Niccolò} fu la via che si seguì per raggiungere le alture. Nonostante però una celere marcia la nostra retroguardia fu attaccata da una compagnia di truppa. Io che ero già giunto sulla montagna, quando fui avvertito di tale attacco, tornai indietro e vidi che tutto era già terminato.

La strada dei monti che avevamo presa ci faceva sì evitare i corpi di truppa - ma ci lasciava in quasi assoluta mancanza di viveri. Il primo giorno si cenò con alcune pecore comperate dai pastori, ma furono insufficienti. Bisognava quindi marciare fortemente, sia per trovare dei viveri come per oltrepassare Reggio ove si sapeva si stavano ingrossando ad ogni momento le truppe.

Quei due giorni di marcia per i monti furono veramente disastrosi La gente aveva mangiato pochissimo ed alcuni quasi nulla. Grande difetto anche nelle calzature, per cui si doveva rallentare la marcia. Poi si consideri che la maggior parte dei giovani che mi accompagnavano oltre all' essere poco assuefatta alla fatica - perché gente agiata - erano giovanissimi - ed io avevo l'anima straziata di vederli in così misero stato - trascinarsi piuttosto che camminare.
Qui mi accade ricordarmi di quei bei nobili di preti, che ci tolsero quasi del tutto la gente della campagna. C'era quindi mancanza di gente robusta e forte per le marce; tuttavia quei miei poveri giovani hanno fatto marce forzate e non poche - sostenuti solo dalla forza morale perchè penetrati nell'amor di patria.

Non é da stupirsi se i sedicenti briganti che con tanta ostinazione tengono testa alle nostre truppe regolari nelle province napoletane hanno potuto sostenersi fino ad oggi e vi si sosterranno forse ancora per un pezzo - se dura loro la protezione del Papa e di Buonaparte.
Tutti questi briganti sono uomini dei campi e della montagna - la suola naturale dei loro piedi non si consuma mai. Io mi ricordo un mio compagno di caccia contadino con cui cacciavo sui monti di Nizza - che quando andavamo a caccia si toglieva le scarpe e le poneva nella cintura.
Con uomini simili si può fare facilmente trenta miglia in una notte - sorprendendo il nemico, batterlo e dopo d'aver aver fatto bottino ritirarsi in luoghi sicuri.
Senza preti quella gente svelta, coraggiosa, quella popolazioni robusta sarebbe con noi, ed agevolerebbe immensamente a raggiungere la meta prefissa dalla nazione italiana.
Io marciavo avanti - e - singolare - quella mia gente, in numero di circa cinquecento, non solo marciava con me, ma era obbligato a fermarla spesso perché non mi passasse avanti, spinta, povera gente, anche dalla fame e dalla speranza di trovare più avanti qualche cosa da mangiare. Si giunse finalmente alla casetta forestale d'Aspromonte, ove si credeva di trovare alcuni viveri - ma nulla - vi trovammo le porte chiuse.
Un campo di patate sfamò i primi giunti - che avevano pure avuto la previdenza di portare con sè alcune fascine secche adatte ad arrostire qualcosa, e così l'operazione pasto fu eseguita in un momento. Da parte mia mangiai quelle patate arrostite deliziosamente.

Il 28 agosto, credo, si giunse in Aspromonte in numero di circa cinquecento, ed accampammo intorno alla casetta - io dentro. I miei poveri compagni giungevano alla spicciolata in uno stato da far pietà - affranti dalla fatica e dalla fame, e sprovvisti la maggior parte dei necessari indumenti. Eppure tra quella brava gioventù non si sentiva un lamento. Nel corso della giornata giungevano sempre piccoli drappelli dei nostri - e nello stesso tempo viveri che si erano mandati a cercare - e che la brava popolazione dei paesi vicini ci offriva spontaneamente.- Così passammo quel giorno.

Mi pare d'aver detto che l'ultima marcia alquanto forzata - aveva il doppio scopo di porci presto a settentrione di Reggio e di cercare da mangiare. Quest' ultimo motivo mi stimolava a sollecitare la marcia - inquieto ed impaziente di trovar presto cibo per la gente, quindi un enorme allungamento della colonna, e ovviamente la coda di questa rimaneva indietro.
In una marcia simile era impossibile distinguere le gride di ogni frazione della colonna. Indi non mancavano deviamenti di direzione. Nella notte poi con la scabrosità dei sentieri di montagna e l'oscurità dei boschi. Inoltre molti, dalle informazioni prese, conoscevano che io non seguivo le tracce dei paesi, ma bensì verso un campo situato al limitare d' una foresta, e prendendo loro consiglio dalla fame si dirigevano di preferenza verso i paesi, ove si presentasse loro più possibilità di trovare dei viveri.

Tali e tanti motivi fecero sì che alla fine del giorno 28, per le defezioni di questi affamati, ce ne mancarono all'appello più di cinquecento, che caddero la maggior parte poi in potere della truppa che si avvicinava ad Aspromonte; gli altri pur non catturati, cercavano in ogni modo di non essere colti dalla truppa a Santo Stefano alcune miglia distante; così seppero quasi subito ch'essa s'incamminava per Aspromonte e quando alcuni di loro si ricongiunsero con i nostri riferirono.
Feci subito riunione e ordinai di marciare verso una posizione più conveniente, che io avevo individuata. La posizione era magnifica, e se avessimo dovuto combattere dei nemici anche in numero doppio di quanto era la truppa italiana io non dubitavo della vittoria.
E qui commisi un errore, che per rispetto a me non é citato da nessuno di quanti scrissero sul fatto doloroso d'Aspromonte; ma che in ossequio alla verità io devo confessare.

Non volendo combattere, perché aspettare la truppa?
Avrebbe dovuto il capo che la comandava mandarmi un parlamentare prima d'attaccare? Ma non dovevo io supporre che finalmente si voleva rompere, e che per non dar tempo ai soldati di riconoscere chi avevano di fronte loro avrebbero cominciato il fuoco da lontano per poi subito giungere al passo di trotto - come fecero.

Io dovevo supporre tutto questo ma non lo feci. Io dovevo marciare, prima dell'arrivo della truppa, lo potevo fare ma non lo feci.
Avrei molti motivi da anteporre a mio favore: per esempio - la distribuzione dei viveri ch'erano giunti, o che stavano per giungere. Infatti mentre io vedevo giù la truppa avanzare alla nostra volta, delle file di donne e di uomini si scorgevano in lontananza carichi di provviste per noi.
Non é questo sufficiente motivo, perché la gente qualche cosa aveva mangiato - e si poteva fare almeno una piccola marcia fino a Santa Eufemia - distante due ore - dove la popolazione con varie delegazioni mi aveva caldamente invitato.

Oppure marciare io, con parte della gente a Santa Eufemia, e mandare il generale Corrao in altra direzione. Avrei potuto ancora frazionare di più la gente. Tutte queste misure, che potevano almeno momentaneamente allontanare la catastrofe, io avevo nella mente di eseguire, ma ciò bisognava eseguirlo con la celerità che mi era servita in tante altre occasioni. E non lo feci.

Un altro motivo era quello di aspettare la gente nostra che marciava ancora, e che poteva giungere da un momento all'altro. Motivo anche questo insufficiente, poiché, chi non si era riunito a quell'ora o aveva poca voglia di riunirsi, o era stato arrestato - od era corrotto, e si sarebbe riunito in altri luoghi.
Infine un po' di indecisione da parte mia - posso dire insolita - fu la colpa di quanto avvenne.
Ora devo confessare che quando vidi la forza (e certo nessuno la scoprì prima di me) alla distanza di circa tre miglia che marciava su di noi con sollecitudine, non mi passò nemmeno per idea la ritirata - nemmeno se fosse stata quella forza doppia di quello che era.

Solamente ordinai al capo di Stato Maggiore di rettificare la linea occupata dai nostri e prendere alcune migliori posizioni. La foresta d'Aspromonte formava nel luogo in cui ci trovammo un contrafforte di piante che avanzava verso la pianura. A ponente del contrafforte il bosco si limitava, in linea retta scendendo dal monte verso la pianura, ed al di fuori del bosco verso ponente pure, il colle era privo d'alte piante e ricoperto solo di basse felci - formando un piano interrotto e convesso, che terminava alla nostra destra nella pianura ed al fronte nostro nel letto di un torrente.

lo avevo fatto formare la nostra linea sull'alto del bosco, la sinistra al Monte, dove mi collocai io stesso per esser la parte più alta e dove appoggiavano la loro sinistra alcuni dei battaglioni del corpo di Menotti.
Menotti essendo alla destra del suo corpo si trovava al centro.
La destra comandata dal generale Corrao si stendeva oltre l'estremità.
Avevo ordinato che si schierassero alcuni uomini a catena sul fronte della linea, e che il resto fosso tenuto in colonna nei vuoti che si trovavano nella linea del bosco. Due compagnie furono staccate a gruppetti sulla nostra sinistra formando una perpendicolare con la nostra linea e con la direzione del torrente che dominavano.
Una terza compagnia fu inviata pure sulla nostra sinistra ad occupare una sporgenza che dominava tutta la linea - dove si temeva che sabbero comparse alcune compagnie di bersaglieri - che staccati dal grosso della truppa minacciavano di fiancheggiarci.

Ho già detto: che alla vista della truppa non mi sarei ritirato, nemmeno se avessi saputo che ci sarebbe successo di peggio di quanto poi ci successe.
Avevo commesso l'errore di non marciare appena scoperta la truppa - Ma io non dovevo marciare alla vista di essa. Perchè ciò sarebbe stata una fuga - e a dire la verità vi era poca voglia di fuggire.

Di modo che noi gurdammo tranquillamente il veloce avvicinarsi dei soldati italiani - i quali giunsero al passo di trotto sulla collina che fronteggiava la nostra al di là del torrente. Stendersi in linea e cominciare un fuoco d' inferno sarebbe stato la cosa di un momento. Invece io correvo qui e là sul fronte delle nostre catene - e pur addolorato dalla piega che prendevano le cose - brutte quelle che udivo sulla destra - avendo alcuni già risposto alle fucilate degli assalitori - continuavo a raccomandare loro di non far fuoco ed i miei aiutanti percorrendo la linea raccomandavano le stesse cose. Infine ordinavo alle trombe di comandare il cessare il fuoco.

Io fui ferito alle prime fucilate - accompagnato all'orlo del bosco - dove fui obbligato di sedermi - rimasi quasi nell'impossibilità di poter distinguere ciò che succedeva sulla linea. Ove avessimo avuto a che fare con dei nemici, la cosa sarebbe di certo andata diversamente. Avrei potuto collocare, dietro le prime piante, le nostre catene e con loro potevo rimanere io stesso. Lasciare avanzare la truppa al di qua del torrente, poi dopo averla a bruciapelo presa a fucilate, l'avremmo caricarla di fronte col vantaggio dell'altura, e caricata di fianco sulla sua destra spingendovi, con lo stesso compito, le compagnie che si trovavano a gruppi nella nostra sinistra.

Tutto ciò poteva operarsi molto prima che le compagnie dei bersaglieri, che marciavano per il bosco per sorprenderci sulla nostra sinistra, potessero comparire e prender parte alla battaglia.
Io non ho mai dubitato che per quanto valorosi fossero i soldati che avevamo di fronte, essi non avrebbero potuto evitare di essere sbaragliati.
Io ho fatto gli elogi del colonnello Pallavicini - e sono oggi della stessa opinione. In primo luogo - noi potevamo cadere in peggiori mani. In secondo, egli eseguiva gli ordini che aveva, con valore e risoluzione. Ciò nonostante - ripeto - se noi avessimo avuto davanti da combattere veri nemici dell'Italia, e non fratelli, l'Italia in quel giorno avrebbe contato una splendida vittoria in più.

Già dissi in un altro luogo che alcuni picciotti dell'ala destra avevano risposto al fuoco della truppa. Questo l'avevo visto nel momento in cui fui ferito. Ma ciò che non vidi - e seppi dopo - fu che gli stessi picciotti e Menotti nel centro - avevano eseguito una scarica.
È positivo però che da tutte le parti della linea dal centro alla sinistra - ove si trovavano in maggioranza i veterani di tutte le mie campagne - dei volontari italiani, e che più immediati erano alla posizione da me occupata - nessuno si mosse né fece fuoco.
Seduto - attorniato dai miei prodi fratelli d'armi - io ebbi la prima medicazione al mio piede destro - alla coscia sinistra un'altra palla mi aveva ferito, ma fu poca cosa.
Nel frattempo giungevano alcuni della truppa - e tra essi alcuni di coloro che mi avevano servito nei tempi passati - e vidi il cordoglio sul viso di tutti - meno alcuni giovani ufficiali dell' esercito - che senza dubbio - nuovi nei combattimenti credevano di aver riportato una strepitosa vittoria.
Io ebbi qualche scambio con alcuni di questi per i loro spropositi - ma fu cosa di momenti.
Giungendo la truppa sulla linea nostra - e non sapendo nulla di me - molti dei nostri si ritiravano per il bosco - di modo ché si rimase in pochi e questo accelerò il disarmo della gente.

I miei ufficiali di Stato Maggiore con il colonnello Pallavicini stipulavano alcune condizioni - fatica inutile - poiché fummo trattati come prigionieri di guerra - e come tali accompagnati a Scilla e come tali imbarcati a bordo della fregata il "Duca di Genova" e condotti alla Spezia.
Da Aspromonte alla Spezia - io devo tuttavia ricordare con gratitudine il trattamento del colonnello Pallavicini - del maggior Pinelli del comandante Wright, del "Duca di Genova" - del colonnello Santa Rosa, - e del comandante Ansaldi al Varignano - e del capitano di Porto, Rossi (uno dei mille), alla Spezia."
(Giuseppe Garibaldi, di G. GUERZONI. Capitolo decimo. Vol. II).

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Come abbiamo già letto sopra,
Garibaldi tornò a Caprera, fece poi il viaggio trionfale in Inghilterra,
e tornato in Italia seguitò incessantemente a pensare al Veneto e a Roma.

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