(Opera originale, integrale)

Quest'opera, monumentale ma poco nota, perchè rara, fu data alle stampe nel 1884 da Jessie White vedova di ALBERTO MARIO, morto pochi mesi prima (2 giugno 1883) a soli 58 anni. Garibaldi nello stesso giorno era morto a Caprera l'anno prima, e indubbiamente Alberto Mario raccogliendo copioso materiale delle sue gesta, numerosi documenti, ritratti, lettere autografe, carte e piantine, avrebbe voluto celebrarlo con questa grande opera, ma purtroppo lo seguì nella tomba esattamente un anno dopo. La vedova tenne comunque fede all'omaggio che Alberto voleva fare a Garibaldi, e con l'appoggio dell'editore Treves, e con una quantità enorme di stupende incisioni-illustrazioni di Edoardo Matania, dando alle stampe l'Opera gliela dedicò "alla memoria".

Ma questa non è solo un'opera storica su Garibaldi, ma è tutta la storia dei suoi tempi, e dell'Italia di quel periodo, che inizia dopo la Restaurazione, cioè quando non furono prese in considerazione le aspirazioni dei popoli all'indipendenza nazionale e riportò anche in Italia la frammentazione territoriale dell'epoca prenapoleonica. Questo ritorno dell'oppressivo sistema assolutistico non mancò di suscitare ampie opposizioni da parte delle giovani generazioni che, fin dal 1821, diedero inizio alla nuova ondata rivoluzionaria che andò a forgiare i primi giovanissimi patrioti. E fra questi, uno era appena 16enne, l'altro ancora 14enne:
il primo si chiamava
GIUSEPPE MAZZINI, il secondo GIUSEPPE GARIBALDI.

Entrambi vissero in contemporanea i tempi che Alberto Mario e Jessie ci narrano in questa monumentale opera, scritta con una certa obiettività, dove non mancano però anche alcune severe critiche nei confronti degli "Albertisti" (e all'inizio pure lui era "Giobertiano"), critiche nei confronti di Mazzini (pur ammirandolo e all'inizio suo seguace), critiche contro Manin (fu nauseato dalla sua fuga a Parigi dopo la resa di Venezia), e critiche contro lo stesso Garibaldi. A quest'ultimo Mario non gli perdonava di non essere sbarcato in Toscana unendosi a Medici, ma a Nizza per poi andare di corsa a Roverbella a offrire la propria spada al sabaudo suo persecutore, Re Carlo Alberto, firmatario (il 14 giugno 1834) della sua condanna a morte,
Scrivendo Mario a Mazzini ancora nel '56 "...Riguardo al generale Garibaldi, il cuore non mi detta che parole di dolore; e talora, mirandolo ai gradini del trono in atto di spiare il cenno del Monarca per sfoderare contro gli austriaci quella spada che balenò terribilmente ai servigi della Repubblica Romana, non credo agli occhi miei: se la mia voce potesse arrivare fino a lui, se, rozza, e spoglia di ogni autorità com'è, fosse meritevole della sua attenzione, gli direi: Voi amate teneramente l'Italia oggi, ugualmente che per il passato; siete pronto a versare tutto il sangue vostro per suo risorgimento e per la sua gloria; ma oggi, con diversa sentenza del passato, vi convincereste non doverlo versare efficacemente se non combattendo fra i manipoli della Monarchia, che voi giudicate consacrata alla emancipazione della penisola. So, per esempio che quell'immacolato, martire venerando dello Spielberg, ancora afflitto negli stinchi, dopo trenta anni, dalle offese delle catene, vissuto per ben cinque lustri libero dell'anima in mezzo alla riverenza del popolo più libero della terra, per vostra sollecitudine veleggiò alla volta degli Stati Sardi e vi si è pure accasato, firmando condizioni dettate dalla Monarchia. Voi credete che la Monarchia salvi l'Italia, voi figlio del popolo, per il quale vi salutò - angelo delle sue battaglie - ?.

Questo era Alberto Mario !!
Non per nulla al momento della sua dipartita lui era nelle file dell'opposizione; più vicino al Cattaneo e non a Garibaldi, o a Mazzini, e tantomeno al nuovo re sabaudo Vittorio Emanuele II. Che ammira tutti, come uomini, come gesta, Mazzini anche come pensiero, ma l'Italia che lui voleva era un'altra.
Purtroppo la sua desiderata Repubblica Italiana nascerà solo cento anni dopo nel 1948. E contenendo quest'Opera alcune idee antimonarchiche, anticlericali, e perfino anti internazionaliste, possiamo ben capire perchè il monumentale libro pubblicato dalla vedova Jessie (come già detto nell'anno 1884) fu seppellito nella polvere durante tutto il periodo sabaudo, in quello sabaudo-fascista, ma anche ignorato (perchè era forse comodo) nel secondo dopoguerra e nella nuova Italia (allora mezza clericale e mezza internazionalista) del dopo '48.


L'uomo politico e scrittore ALBERTO MARIO, era nato a Lendinara - Rovigo il 4 giugno 1825. Da fanciullo sbarazzino ma intelligente com'era, frequentò due scuole di preti. Ma costretto a recitare salmi e recitar preghiere un'ora la mattina e un'ora la sera, per tale sua manifestata insofferenza fu espulso due volte. Era molto intelligente, leggeva moltissimo, soprattutto storia, ma fu sempre la disperazione di suo padre anche se era orgoglioso dell'ingegno di suo figlio.
Nel 1844 è Studente universitario a Padova. Entrato in una società politica patriottica con vivi sentimenti antiaustraici, oltre che esserne l'animatore, dopo aver espresso la sua audacia nella dimostrazione insurrezionale dell'8 febbraio 1848, scampò sì alle ricerche della polizia, ma dovette avviarsi all'esilio, che gli durò venti anni non interrotto. Riparato a Bologna, nel marzo dopo la notizia delle cinque giornate a Milano e la sollevazione a Venezia, partecipò come volontario alla prima guerra d'indipendenza nel Veneto. Rifugiatosi a Milano dopo la capitolazione prima di Vicenza poi di Treviso (seguita poi un anno dopo da quella di Venezia) conobbe Giuseppe Mazzini e fu da allora profondamente influenzato dalle sue idee. Con il ritorno in Lombardia degli Austriaci riparò a Genova, e qui divenne subito uno dei membri più attivi del gruppo repubblicano, collaborando ai giornali democratici locali, dal "Tribuno" all'"Italia e Popolo".
Compromesso nel tentativo insurrezionale genovese del 29 giugno 1857, organizzato dai repubblicani in concomitanza con la spedizione di C. Pisacane a Sapri, Alberto Mario fu arrestato il 4 luglio con una giovane mazziniana, conosciuta prima e con lui finita in prigione. Questa era Jessie White (9 maggio 1932 - 5 marzo 1906), una giovane giornalista inglese, figlia di una ricca famiglia borghese, ma simpatizzante del movimento repubblicano italiano, mazziniana ardente e unitaria intransigente. Scarcerati dopo un paio di mesi di prigione, in novembre entrambi sono espulsi dagli stati sardi; Alberto si recò con lei in Inghilterra e qui il 19 dicembre sposò Jessie, e insieme aiutarono l'esule Mazzini nella redazione della rivista "Pensiero e azione".
Dopo essere stati a New York, nei primi mesi del 1859 si imbarcano per l’Italia dopo che sono stati raggiunti dalla notizia della guerra intrapresa da Napoleone III.
Raggiungono Garibaldi in Lombardia e Jessie partecipa come infermiera alle imprese garibaldine; sono però nuovamente arrestati ed espulsi. Vanno questa volta in esilio in Svizzera
Rientrati in Italia: dopo la spedizione garibaldina dei "Mille" in Sicilia, dopo la guerra del 1866 e la fallita spedizione su Roma del 1867, Alberto Mario si avvicinò alle posizioni federalistiche e antiaccentratrici di Carlo Cattaneo, di cui fu da allora uno dei più fedeli seguaci e acceso divulgatore delle sue idee, tanto da celebrarlo nel 1870 (l'anno successivo alla morte di Cattaneo) con un significativo libro "La mente di Carlo Cattaneo".
E proprio nel 1870 si crea il contrasto ideologico con la moglie Jessie. Lui oramai accostatosi a posizioni politiche più moderate, federalista logico e convinto, uomo di grande riflessione e coscienza pratica che non si concretizza mai nella volontà di agire violentemente, lei invece intransigente, battagliera, risoluta, non solo fisicamente ma anche con la penna ("io vivo in punta di penna" diceva di se stessa) affrontando le questioni più varie, le problematiche più inusuali: la condizione delle donne, l'istruzione popolare, il sistema penitenziario.
Quanto a Garibaldi, pur essendo mazziniana, essa lo ammirava per l'irruenza delle sue azioni, anche se lo considerava un combattente e non un diplomatico. E forse furono queste opinioni a farla entrare in contrasto con Alberto, ciononostante Jessie gli rimase amica fino agli ultimi giorni, e come abbiamo accennato, fu lei (spesso protagonista e sempre presente nelle campagne garibaldine) a raccogliere il materiale per poi - dedicandola alla sua memoria - dare alle stampe il poderoso libro - che qui riportiamo per intero - "Garibaldi e i suoi tempi".

Alberto Mario nel 1880, diresse pure la mantovana "Provincia", di cui fece uno dei fogli più battaglieri dell'opposizione, fino alla sua morte avvenuta come accennato all'inizio nel 1883, il 2 giugno (nel giorno stesso in cui si celebrava l'anniversario della morte di Garibaldi).
Poche settimane prima di morire, nel fare una delle sue ultime operazione chirurgiche in anestesia totale, raccomandò proprio alla moglie-amica Jesse: "Se mi risveglio in un altro pianeta, ripesca qua e là ciò che ho scritto contro la Chiesa, contro Casa Savoia, contro gli Internazionalisti e sul Sistema Federale". E da quelle carte si può oggi tracciare un denso profilo del personaggio, fissando i dati salienti e imperituri dell'azione e del pensiero, ma senza disgiungerli da alcune riserve storiche e critiche che si possono avanzare.

Una dettagliatissima biografia e antologia degli scritti di Alberto Mario è uscita nel 1984, (nel centenario della sua morte) a cura di Pier Luigi Bagatin col titolo "LA REPUBBLICA E L'IDEALE" . Ricchissima raccolta di scritti e inedite lettere, resa possibile da un Comitato promotore di Lendinara (suo paese natale) e dalla Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. E' questa una raccolta difficile a trovarsi (essendo fuori commercio) ma che raccomando ai miei lettori di cercare, perchè presso gli studiosi, questa antologia di scritti, per i molteplici motivi di interessi proposti, possa avere la meritata attenzione.
Nel Paese Italia anni 2000, questa antologia è ancora straordinariamente molto attuale !!!
Chi lo desidera può visionare l'opera presso l'autore di "Cronologia".

___________________________________

< QUI l'indice generale di TUTTI I 58 CAPITOLI
mentre qui sotto, dopo il PRIMO CAPITOLO, seguono tutti gli altri in successione.

Significativo per i Romani, seguire nei dettagli, la tremenda lotta che ci fu nei numerosi quartieri di Roma per difendere la nuova Repubblica e per cacciare i Francesi accorsi (proprio loro! non meno degli Austriaci) a salvare il clericalismo papalino e il potere temporale del papa (assolutista e repressivo pure lui). Significativa anche la impietosa critica su Cavour (nel '60) che s'impossessa dell'idea repubblicana, la fa diventare monarchica e liquida la prima come una "corbelleria". (e che forse pagò caro - pochi mesi dopo moriva in circostanze non proprio chiare) (vedi Cavour fu assassinato?)

Ovviamente nell'opera non mancano pagine di retorica e di celebrazione del "personaggio Garibaldi" discutibile e discusso, che indubbiamente ha giocato (e ancora gioca) un ruolo di primo piano nella storia italiana e nella formazione delle immagini identitarie, che è – per amici e avversari – ancora oggi una bandiera e un simbolo con cui ci si deve confrontare. Del resto a tramandarne l’intoccabilità ci si sono messi in tanti: i risorgimentalisti, i monarchici, i repubblicani, i fascisti, i comunisti e tutti quelli che ne hanno adattato la figura per (interessati o disinteressati) nobilitare, giustificare, ottenere o coprire qualcosa.
Noi qui abbiamo solo riportato un opera così com'è. Il lettore saprà giudicare, e se curioso e volenteroso, potrà documentarsi meglio, perchè non mancano opere con una sistematica rivisitazione “onesta” dell’intera vicenda risorgimentale. Fra i tanti Denis Mack Smith che si è occupato della vita di Garibaldi cominciando a tracciarne un ritratto meno eroico ma molto più umano.
Ma ci sembra anche "onesta" questa di Jessie White, che ricordiamo oltre essere una giornalista e moglie del grande Mario, era cittadina della liberale Inghilterra e figlia di una ricca famiglia borghese; ma non per questo disattenta alle problematiche sociali e politiche del suo tempo. Degno di attenzione - per l'Italia di ieri e di oggi - è soprattutto il penultimo capitolo: il 57°.


PRIMO CAPITOLO

Nascita di Giuseppe Garibaldi. - Sua genealogia. - Antenati leggendari. - I genitori. - I fratelli. - Indole della madre e sua cultura. - Il giovinetto Garibaldi destinato prete. - Sua indole vivacissima. - A otto anni salva dalle acque una donna, e a tredici alcuni naufraghi. - Sua sensibilità verso le bestie. - Influenza dell' ambiente in cui nacque. - Passione per la caccia e per la pesca. - Il precettore don Giaccone. -. Orrore contro di questo e la lingua francese. - Passione per la geometria e l'algebra. - Conosce e canta tutte le canzoni dei Liguri. - Italianità squisita di Nizza e grande predilezione di Garibaldi per la sua storia.


Quando un uomo ha compiuto per la propria patria fatti straordinari con virtù tutta personale, senza il concorso della fortuna, o d'un alto grado sociale, tutti sono curiosi di conoscere donde viene quell'uomo, quel genio, quale sangue scorre nelle sue vene, quale l'ambiente ove nacque, quali circostanze agirono sulla sua psiche.

Ora in nessun tempo o paese, un individuo ha attirata tanta attenzione quanta Giuseppe Garibaldi; naturale è dunque che i più minuti particolari sul suo conto e dei suoi "garibaldini", fossero con singolare curiosità ricercati.

Il celebre storico Carlyle soleva dire che grand'uomo non nacque mai da genitori stupidi, e purtroppo il cretinismo appare ereditario più assai del genio; ma è altresì vero che le buone come le cattive qualità spesso si trasmettono con vece alterna nella serie delle generazioni.

Vogliono molti che Garibaldi abbia nelle vene sangue prussiano e si esibisce in prova il seguente estratto dei registri matrimoniali della parrocchia di Kuggeberg nella contea della Marca: "Dr. Giuseppe Battista Maria Garibaldi - Catterina Amalia Neuhof maritati il 16 Agosto 1736. Il celebre nostro compatriota Teodoro I (*) spedì da Aiaccio il distinto medico G. B. M. Garibaldi suo confidente, con un incarico per la vecchia sua madre in un podere di Peddenati, poco lontano da Kuggeberg.
(*) Nel 1729 la tirannia del governo genovese, a cui nel 1349 l'isola di Corsica si era donata volontariamente, vi fece scoppiare una guerra che durò 40 anni sotto vari capi, fra cui appunto il tedesco Teodoro di Neuhof che prese il nome di re e regnò dal 1736 al 1741.

Qui a Peddenati egli conobbe e sposò la sorella del suo sovrano e la condusse nel medesimo anno anno ad Aiaccio. Dopo la morte di Teodoro (1741) il Dr. G. B. M. Garibaldi si ritirò a Nizza ove esercitò e per molti anni la medicina, raggiungendo un'età molto avanzata. Un nipote è il Generale Garibaldi, nelle cui vene scorre dunque sangue prussiano".

Altri affermano che la famiglia discenda in linea diretta da Gardebaldo conquistatore tedesco in Lombardia, o dal Longobardo Garibaldo duca di Torino (667). Altri invece fanno risalire la radice nel 1060 quando un Paolo di Garibaldo uomo d'armi e capitano delle genti di Borgolungo, oggi Chiavari, ottenne dai consoli di Genova i mezzi per mettere a dovere i signorotti Conti di Lavagna, e simili masnadieri che opprimevano le popolazioni o derubavano le merci provenienti da Tunisi.

Infine, un paziente scrittore anonimo di una Vita di Garibaldi stampata a Firenze, si dà la pena di raccogliere dai vecchi manoscritti tuttora esistenti nella biblioteca civica di Chiavari e di Genova, tutte le gesta dei Garibaldi o dei Garibaldo.
Un Giovanni Paolo Garibaldi prese parte nella spedizione dei Genovesi per la guerra santa sotto Calisto II e morì a Napoli, come risulta da un codice nell'Archivio generale, dove fra altri particolari della guerra, sta scritto: "In nostro hospicio post dies undecim.... mortuus est Joannes Pauli de Garibaldo cum aliquot ex suis a galearum Inici de Floria etc... ".

E allo stesso tempo (1116) un altro Leonardo figlio di Paolo Garibaldo era notaro dei consoli di Chiavari e scrive: "Et ego Leonardus quondam Pauli de Garibaldo e auctoritate imperiali etc. "

Altro Rubaldo Garibaldo nel 1179 fu uno dei sei consoli di Genova, parteggiò col popolo nei tumulti civili, e con il fratello Giovanni Battista e il figlio Leonardo, poco dopo si segnalarono, sotto la guida del Marchese di Spinola.

Nel 1229, Jacopo un altro figlio di Rubaldo Garibaldo viene fatto esente da gabella per i servigi resi alla patria nella difesa di Nizza.

Nel 1306 i Garibaldi, ormai numerosa famiglia popolana, si unirono a Spinola contro i Fieschi; e Opizzino Spinola, e i Garibaldi furono proscritti da Genova.

Nel 1316 il maturo Domenico Garibaldo figlio di Leonardo fu eletto con altri dal Doge e dal Senato per i preparativi di guerra contro i Grimaldi che fomentarono gli abitanti di Monaco contro la repubblica, e fu nominato provveditore dei capi dei balestrieri di mare. Bartolomeo e Niccolò, figli di Domenico, andarono a Nizza con Spinola per condurre le genti a liberare Amedeo VII duca di Savoia da Ladislao Re di Napoli, e anche Bartolomeo fu balestriere e noto capitano della nave di Niccolò di Oliviero.

Nel 1435 Francesco Niccolò Garibaldi partecipò col generale Assereto alla battaglia navale presso l'isola di Ponza, ove cadde prigioniero Alfonso V di Aragona.
Giovanni figlio di Paolo (1460) militò sul mare, e sempre contro i Fieschi, e figurò nella sommossa che finì con legge espressa per escludere i nobili dal governo della repubblica.

Capo popolano fu Bartolomeo Garibaldi figlio di Giovanni in un' altra sommossa contro i Fieschi nel 1507, e perciò venne cacciato dalla città, ma comparve nelle fazioni di Portofino contro Carlo V. Di qui due rami, Battista e Ugolino; i figli di Battista furono inscritti fra la nobiltà genovese, così Domenico assai più tardi ebbe il titolo di " eccellentissimo" Ugolino; mentre l'altro figlio, dovette ritornare in Chiavari e da lui vuole questo scrittore che proceda in linea diretta il nostro eroe.

Ma non ci riesce rintracciarne la genealogia se non fino a Stefano Garibaldi, che nacque in Chiavari nel 1708. Egli si ammogliò con Angiola Gandolfi, ebbe per figlio Angelo; padre e figlio erano eminenti marinai e negoziarono con le genti d'oltremare. Angelo sposò in Chiavari Isabella Pucce da cui ebbe tre figli, Domenico, Stefano e Giuseppe, e due figlie, Rosa e Angelina. Angelo allevò tutti i suoi figli o alla marina, o come armatori, e nel 1770, con tutta la famiglia si stabilì a Nizza.

Domenico, che viaggiò sempre col padre fino a che questi visse, sposò ROSA RAIMONDO nata a Loano Riviera Ponente...

... da lei ebbe cinque figli: Angelo, Giuseppe, Michele, Felice e Teresa. Il padre, che da mozzo in su non ebbe educazione teorica, fu però uno degli espertissimi capitani di cabotaggio, e sui propri bastimenti armati da lui stesso fece viaggi costanti a tutti i porti del Mediterraneo. Volle che i figli però fossero istruiti e abilitati a commerciare e navigare altri mari.

Angelo, nato nel 1804, il maggiore, intelligente, intraprendente, audace, ne approfittò molto. Ben presto commerciò con gli Stati Uniti e stette per molto tempo a Nuova York, mantenendo frequenti corrispondenze con la famiglia a cui mandava non rari soccorsi: poi si trasferì a Filadelfia, ove fu nominato console Sardo e morì giovane nel 1853. Le sue lettere al secondo fratello Giuseppe, nato nel 1807, gli accesero in petto l'amore della patria, e il senso di dovere verso di essa.

Michele, poco amante dello studio da quando nacque, navigò sempre, da mozzo a capitano, e morì nel '66 mentre Giuseppe guerreggiava in Tirolo. Teresa, l'unica figlia, morì piccina in conseguenza di una scottatura, e fu costantemente da Giuseppe ricordata con pietoso affetto; tant'è vero che morta in America la prima sua figlia, che in memoria della madre aveva nominata Rosa, chiamò la seconda Teresa, o meglio Teresita (sposata Canzio, e madre di dieci figli).

Felice, nato nel 1813, l'elegante della famiglia, fu commerciante fortunato. Morì a Nizza nella casa paterna (1856). Il fratello Giuseppe ereditò da lui una discreta somma con cui acquistò la metà dello scoglio di Caprera e un piccolo cutter onde trasportare da Genova il materiale per costruire la "Casa Bianca", e la sua parte della casa paterna in faccia al porto di Nizza, che egli dal 1856, fino a quando fissò la definitiva dimora nell'isola, abitava con i suoi figli.

Giuseppe, il secondogenito di Domenico Garibaldi e di Rosa Raimondo nacque il 4 luglio 1807, e fu battezzato nello stesso mese, come risulta dal seguente estratto originale dei registri parrocchiali di San Martino (Nizza marittima)
"L'an mil huit cent sept, le jour dix neuf du mois de juillet, a été baptisé par moi soussigné, Joseph-Marie, né le quatre du courant, fils du sieur Jean-Dominique Garibaldi, négociant, et de madame Rosa Raymondi, mariés en face de l' église de cette succursale. Le parrain a été le sieur Joseph Garibaldi, négociant; la marraine, Martin Julie Marie, sa soéur, mes paroissiens. Le parrain a signé, la marraine déclare ne savoir. Le père, présent, a signé. Messieurs Félix et Michel Gustavin, témoins. - PIO PAPACIN "Recteur de Saint-Martin".

Giuseppe era un bel fanciullo dai capelli d'oro e dagli occhi sfavillanti: la sua personcina, era delicata, robusta e perfettamente modellata. Egli fu l'idolo della madre, e ben presto la gioia, l'angoscia, ma anche il suo orgoglio. Il padre, uomo probo, mansueto, metodico, laborioso, viaggiava sempre trafficando nei vari porti del Mediterraneo, portando a casa gli scarsi frutti dei suoi sudori alla moglie tutta dedita alle faccende di casa. Donna amata e rispettata, perché di una bontà angelica e di una operosa misericordia per gl'infermi e per i poveri. La sua pietà religiosa consisteva nell'amare il prossimo più di sé stessa, e benché puntuale nell'osservanza dei riti, era scevra da ogni forma di bigottismo.
Caso raro fra le donne del suo tempo, Rosa coltivava l' ingegno con assidue letture, si teneva al corrente degli avvenimenti e fervidamente assecondava il marito nel provvedere all'educazione dei suoi figli.

Non conveniva però con lui di avviarli tutti alla marina. Già per lei era stato grave l'affanno quando il primogenito vi si dedicò, e credendo di ravvisare nella dolcissima indole di Giuseppe ben altra vocazione, risolse di tenerselo con se e di farne un prete.

Né il padre del bimbo la contrariava, professandole un culto come mente superiore alla sua. Egli modesto e molto moderato nelle sue imprese marittime, accettava il mondo qual'era. Per lui, come per gran parte dei marinai, Iddio, il Re esule e la sua famiglia, limitavano l'orizzonte dei suoi pensieri e dei suoi affetti. Non gli passava neppure per il capo di far impartire ai suoi figli lezioni di ginnastica o di scherma, e in ciò rassomigliava a tutti i genitori suoi contemporanei.
Ma ben sapeva supplirvi il vispo fanciullo, il quale; appena gli riuscì di camminare, scappava di casa a rotolarsi nella sabbia del porto, ben presto delizia dei marinai e dei pescatori che vi stendevano le reti e tiravano in secco le barche.

Fin da piccino, e assai prima che la madre ne avesse sentore, si arrampicava sulle sartie delle grosse barche pescherecce, sdrucciolava giù per i cordami, arte che gli servì più di una volta quando gli occorse più tardi di osservare a volo d' uccello le mosse nemiche, o passare rapidamente da un bastimento ad un altro. L'acqua sembrava il suo elemento nativo, diceva sempre di non ricordare il tempo quando non nuotasse come un pesce. Era dotato di una forza muscolare straordinaria e di una intrepidità che mai gli venne meno.
Non é invenzione posteriore, ma un fatto ricordato dai suoi coetanei che, a 8 anni, egli salvò una lavandaia sul punto di annegarsi in un fosso; che a tredici egli tutto da solo a nuoto trasse a riva alcuni suoi amici, caduti da una barca che si era capovolta.
La madre che lo vedeva tornare a casa sano e salvo, dotata essa stessa di una di quelle nature scevre di egoismo che sacrificano sé stesse senza saperlo, onde sono privilegiate molte donne italiane, non pensò mai a prodigargli quelle cure malaccorte che rendono tanti bambini paurosi e inerti, e coll'esempio più che con le prediche lo allevò a non infliggere il male e a sentirsi beato nel persuadere e nell'operare il bene!

In una delle sue sensazioni infantili il Giuseppe maturo si ricordava l'amaro pianto di rimorso per avere a 7 anni strappato le ali ad un grillo. Si era poi chiesto, se è mai esistito un bambino il quale non sia stato crudele durante quell'età in cui manca la riflessione e non abbia preso gusto, per esempio, a schiacciar le mosche, a torturare gli uccelli, a maltrattare i gatti, ad assistere alle loro sofferenze.
Ebbene, sì , Garibaldi fu proprio quel bambino; guai se vedeva qualcuno recar danno ad animali, ad uccelli, a chiunque non poteva difendersi! gli faceva pagar cara la triste sua compiacenza.

Nascere a Nizza significa nascere nell'eden d'ogni bellezza; significa nascere in mezzo a un lusso portentoso di colori, di forme e di profumi d'ogni maniera. Certo il famoso canto di Goethe nel Wilheim Meister : "Kannst du das Land" , fu ispirato dalla prima vista di Nizza, appena passato il Varo, ove l'azzurro del cielo sorride all'azzurro del mare.
Di qua il mare, di là le Alpi, mentre la città riposa al piede di un ridente anfiteatro, ove boschetti di aranci, sotto cui si cammina senza toccare al primo ramo, circondano le graziose ville, e gli ulivi spandono in alto i loro rami poderosi; poiché così meschini in Provenza qui si ergono maestosi come le querce d'Aspromonte, e scintillanti come gli olmi argentati lungo le rive delle Amazzoni.
Poi le macchie di palme, di cedri, di mandorli e di fichi. Quest'ultimo albero produce un frutto squisito che non ha rivale al mondo e fu la prima tentazione del piccolo Peppino, e il suo solo peccato di gola anche in vecchiaia; tanto che guadagnò sempre un suo dolce sorriso chi all'improvviso poté fargliene dono. Aggiungi i cespugli di mirto, di cisti e di corbezzoli; le siepi di aloé, di cactus, di rose, di gerani che sono come muri divisori, e dappertutto mammole e anemoni e giunchiglie e primavere.
Nizza é nell'inverno più fiorita che nell'estate molti altri paesi. E ogni albero, ogni fiore, ogni uccello e ogni pesce erano a Peppino noti e familiari.

Appena fu egli in grado di maneggiare uno schioppo, corse frequente sulle pendici di Monborone e Mongrosso in cerca delle rarissime pernici; rifacendosi però sui beccaccini abbondanti lungo il Varo. Mai egli mancò alla pesca delle sardelle, che a sciami innumerevoli corrono le acque della spiaggia di Limpia; ed era giorno di festa del suo calendario l'apertura della pesca del tonno nel vicino porto di Villafranca, donde se ne esportano migliaia di tonnellate ogni anno.

Sempre coll'idea fissa di farne un sacerdote, la madre ben presto lo affidò al prete di casa Don Giaccone; ma il ragazzino tutte le volte che gli poteva capitare, se ne fuggiva dal prete e dalla scuola, abborrente per istinto dal primo e dalla lingua francese, in cui per legge durante l'impero francese, e per uso dopo, tutte le lezioni venivano in questa lingua date.
Studiava però la geometria e l'algebra senza farsi troppo pregare, ma di certo i suoi precettori non ebbero a lodarsi di lui, né parteciparono mai al sogno della madre che egli sarebbe divenuto un ottimo prete nell'avvenire.

Giuseppe amava con passione la sua città nativa e i suoi incantevoli dintorni; quella triplice corona di montagne con le eterna neve in cima, austera e severa come il destino, e i ridenti e dolci colli vicini, ove egli stanco del moto e del rumore umano si gettava disteso per lunghe ore contemplando le lontane montagne della Corsica, o seguendo col desiderio i bastimenti che veleggiavano verso l'ignoto. Tutte le canzoni dei Liguri egli conosceva e cantava. "Che peccato - egli diceva in più matura età - che quelle canzoni fossero frivole e non atte a svegliare i sensi e l' amor di patria! Nelle canzoni di un popolo si nasconde non poco della sua forza."

E la stessa osservazione abbiamo udito dalla bocca di un celebre astronomo e ardente patriotta scozzese. " La differenza della sorte della Scozia e dell' Irlanda - diceva il Nichol - deriva in buona parte dall'indole dei nostri poeti. Noi avemmo Burns per poeta nazionale; il quale flagellando l'ipocrisia dei preti e cantando come semidei gli eroi scozzesi, ha reso impossibile per noi la viltà, la schiavitù. Moore invece con ingegno non comune non seppe che cantare gli amori degli angeli o delle Peri, fu frivolo e discolo, tradì la sua missione, fallì alla patria sua."

Della storia della sua Nizza, Giuseppe fu amantissimo, e si deliziava di narrarla agli amici e agli stranieri che la visitavano, conducendoli sopra i bastioni e sulle rovine del famoso castello, illustrandone ogni zolla e ogni pietra. E quasi presago del futuro si compiaceva nel dimostrare che Nizza era italianissima e che sempre i Nizzardi furono in guerra contro i Francesi e contro i Provenzali; che tutte le rovine di Nizza sono state cagionate da guerre, che l'antipatia dei Nizzardi per la signoria francese s'addita nei ruderi della città come nel cuore dei cittadini.
Quando si parlava davanti a lui della festa del 15 agosto, festa che fu fissata da Napoleone per celebrare i suoi fasti e il "ristabilimento della vera religione in Francia" egli ben altra ragione adduceva per tenere a memoria il 15 agosto, essendo quel giorno memorabile per avere i Nizzardi sconfitti i francesi alleati dei turchi.

Difatti come Nizza per clima, per bellezza, per indole, é il tipo dell' italico paese, così nessuna città d'Italia ha più gloriosa storia italica. Obbediente sempre a Roma finché ne durò la potenza, non volle Nizza aiutare Annibale.
Soggetti per poco tempo ai re di Borgogna e ai conti di Provenza, sempre i Nizzardi si ribellarono, ora alleandosi coi Pisani, ora con la repubblica di Genova.
Poi, pur di non essere francesi, nel 1388 si diedero spontaneamente a casa Savoia e stipularono nel 1391 che il conte di Savoia non "... potesse alienare la città in favore di qualsiasi Principe; e se lo facesse, gli abitanti potrebbero resistere con le armi in mano e scegliersi un altro sovrano a loro piacimento senza rendersi colpevoli di ribellione".

Il loro attaccamento alla patria comune spiccò principalmente nel 1542. allorquando Francesco I, che, giusta la tradizione francese, aveva sacrificato l'Italia, dopo che fu vinto a Pavia da Carlo V, per rifarsi di quella sconfitta intrecciò i gigli d'oro con la mezzaluna, trovò in Carlo III detto il Buono suo zio poca resistenza, gli tolse Torino e Pinerolo e tutto il Piemonte, lasciandogli appena Vercelli e inondando Nizza di spie e di emissari.
Avere in mano quell'ambito castello, distruggere la delimitazione d'Augusto imperatore che segnava al Varo i confini dell'Italia, sarebbe stato gran conforto all'orgoglio calpestato del cristianissimo saccheggiatore. E per riuscirvi chiamò al comando dell'esercito provenzale il duca di Enghien e ottenne da Solimano un'armata capitanata da Kaireddin Barbarossa. Ritiratosi il "buon duca" prudentemente a Vercelli, i Nizzardi indussero Andrea Doria a tener testa con le sue poche navi ancorate a Villafranca ai 14 mila Turchi e alle 200 galee del Barbarossa che correvano le acque del Mediterraneo.
I Nizzardi, benché non avessero che trecento uomini di milizia e poco presidio nel castello, giurarono con i magistrati del popolo Galleano, Giusolis, Gandolfo e Blancon di seppellirsi sotto le rovine della città piuttosto che cedere. E il governatore Monteforte s'assunse di far loro osservare la giurata promessa.

Frattanto l'armata gallo-turca di 244 legni davanti al porto intimò due volte la resa, e visto lo sdegnoso rifiuto, operato uno sbarco, occupò le alture di Monborone e di Mongrosso mandando altre truppe sotto le mura e mettendo in batteria 25 cannoni che tiravano palle di 109 libre contro la città. Fu ucciso il nipote di Barbarossa alla batteria di Monborone, per cui il feroce ammiraglio fece uccidere i prigionieri.
Quello stesso giorno 11 agosto il duca di Enghien col fiore della nobiltà francese passò il Varo e dai colli all'occidente della città inviò un rinnegato Nizzardo, certo Grimaldi, ad intimare per la terza volta la resa. Il quale condotto in castello fu strangolato e appeso per un piede sull'alto sperone della torretta alla vista del nemico.

Unite le forze di terra e di mare, i 14 mila gallo-turchi, furiosi di vedersi beffati da così poca gente quasi inerme, decisero un assalto generale di tutti; Barbarossa comandava l'armata in persona e l'Enghien l'esercito.
Tutto l'intero giorno del 15 durò l' uragano; le mura rovinarono, i tetti caddero, una breccia fu aperta al bastione della Paisoliera, ma vi fecero siepe i petti dei Nizzardi. I galloturchi saliti sulla breccia furono respinti non solo dagli uomini armati, ma dalle donne e dai fanciulli che lanciavano pietre e utensili e vasellami domestici.
Cadono tutti i capitani nizzardi, Lascaris, Paptin, Sangiano, e già un turco pianta la mezzaluna sulla breccia, quando Catterina Segurana, armata di solo bastone, balza come leonessa ferita sull' alfiere, lo atterra, e sventolando come trofeo il vessillo, raduna a sé d'intorno tutti i superstiti, ricaccia dalla breccia gli assalitori che portano lo sgomento nelle colonne d'assalto; fuggono tutti costoro lasciando sul terreno 300 morti e numerosi feriti.

Di tre bandiere si impadronirono i Nizzardi, queste, e quella presa dalla Segurana, furono inalberate sul Castello a scorno degli umiliati alleati. Il povero Carlo III fece battere medaglie col motto: "Nicea a Turco et Gallis obsessa".
"Questo - soleva dire Garibaldi - é il 15 Agosto italiano".

E se nel 1691 Nizza fu presa per Luigi XIV, allo stesso re toccò restituirla nel 1696. E se poi - dopo la Rivoluzione - nel 1793 essa fu fatta capoluogo delle Alpi marittime, non perciò i Nizzardi si accesero di troppo entusiasmo per la repubblica e le sperate libertà, ma conservarono in cuore l'odio contro i francesi dominatori, e anelarono perfino al ritorno del re sabaudo Vittorio Emanuele I esule in Sardegna.

SECONDO CAPITOLO > >

PAGINA INDICE CAPITOLI ------- HOME PAGE CRONOLOGIA