SESTO CAPITOLO


"Il fuggiasco, insinuatosi fra le montagne di Sestri, camminando per dieci notti
e dormendo di giorno, giunse a casa, sfigurato e lacero..."

SESTO CAPITOLO

LA SPEDIZIONE IN SAVOIA

Effetto delle persecuzioni in Piemonte sugli esuli. - Mazzini organizza le spedizioni nella Svizzera. - È costretto ad accettare Ramorino per capo, - Tradimento di Ramorino. - Garibaldi marinaio sardo. - Cospiratore. - Proscritto. - Creduto morto. - Cambia nome. - Capitano in secondo. - Legge la propria condanna a morte - Altri degni esuli italiani. - Panizzi. - Avezzana. - Gustavo Modena. - Facile critica. - Risultato degli insuccessi.

"Dall'Alpi allo Stretto fratelli siam tutti!
Su i limiti schiusi, su i troni distrutti
Piantiamo i comuni tre nostri color!
Il verde, la speme tant'anni pasciuta;
Il rosso, la gioia d'averla compiuta;
Il bianco, la fede fraterna d'amor.
Su Italia! su, in armi!
Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì! »


(Quest' ode: "All' armi all' armi !" scritta da Berchet in occasione delle rivoluzioni di Modena e Bologna 1830 fu l' inno di guerra della Giovine Italia. È la vera Marseillaise dell' Italia.).

L'effetto immediato delle atroci persecuzioni in Piemonte fu diametralmente opposto dentro e fuori del regno: predominante fu all'interno lo sgomento e il terrore e la certezza della inutile ribellione contro la forza armata. All' esterno invece al bollente sentimento di patria venne ad aggiungersi un fremito di vendetta per i fratelli e per gli amici assassinati, ed anche il rimorso di aver cercato scampo nell'esilio invece di partecipare pure loro al martirio, come avevano partecipato prima alle opere preparatorie e alle speranze.
Essere vivi e liberi in paese di liberi e non muoversi per strappare i compagni superstiti dalle mani del carnefice sembrava viltà ai giovani ardenti quali erano Nicola Fabrizi e Campanella e Ardoino e Fanti e Scovazzi e Gustavo Modena e tanti altri che fino alla loro ultima giornata si conservarono intemerati e puri.

Circondato da tali elementi, vivendo insieme con il fratello del perduto Jacopo Ruffini e con la madre derelitta di lui, facile è capire la febbrile attività con cui Giuseppe Mazzini veniva ordinando una spedizione in Piemonte attraverso la Savoia malcontenta e desiderosa di separarsi dal regno Sardo per unirsi alla Francia o meglio alla Svizzera, a cui naturalmente appartiene.
Nè i mezzi mancavano perché tra gli esuli vi erano ricchissimi lombardi, fra i quali basterà nominare Gaspare Rosales, che forniva il denaro occorrente; e dal Belgio arrivavano armi e dai vari cantoni della Svizzera sopraggiungevano esuli tedeschi, polacchi, ansiosi di battaglie liberatrici.

A Ginevra, Mazzini trovò tale entusiasmo e aiuti da potere quasi pubblicamente arruolare e coll'aiuto di Carlo Bianco organizzare militarmente una colonna di volontari, che si volle affidata al comando di Ramorino, già generale al servizio della Polonia. I compatrioti lo amavano; in Savoia era popolare perché qui era nato; fra i Genovesi era venerata sua madre che dimorava nella loro città. Mazzini diffidava di quell'uomo, ma accusato da alcuni di ambizione personale, spedì senza ulteriore indugio a Ramorino 40.000 lire per organizzare un' altra colonna a Lione, facendo di Ginevra il centro d'azione.
Ma Ramorino se ne stava a Parigi sciupando il denaro al gioco e in intelligenza con Luigi Filippo per impedire la spedizione che fissata per l'ottobre del 1833 fu rimessa a novembre, indi a dicembre e in ultimo al gennaio dell'anno seguente. Intanto Celeste, fratello di Ciro Menotti, correva a spronarlo. Solamente il 31 gennaio Ramorino capitò con due generali, un aiutante e un medico, e incontratosi con Mazzini gli promise di «condurre alla vittoria l'animosa gioventù, o di morire con essa.»

Naturalmente durante tutto questo tempo i governi della Francia e del Piemonte erano informati di ogni movimento e presero le debite precauzioni.
I tedeschi organizzati nei cantoni di Berna e di Zurigo furono quasi tutti arrestati prima di arrivare al luogo di convegno sulla frontiera. Lo stesso governo di Ginevra, costrettovi, sequestrò le barche e le zattere destinate al trasporto per il lago; e al Grabski, a cui Ramorino aveva affidato l'ordinamento dei polacchi, si fecero mancare le armi per colpa dello stesso.
Mazzini, che seguito da Campanella, da Ruffini e da Pistrucci, era riuscito a allontanarsi da Ginevra benché l'albergo fosse circondato da gendarmi, era pur sempre fiducioso purché si procedesse dritto per Saint-Julien. C'era qui una scarsa guarnigione piemontese che facilmente si poteva sorprendere, dopo di che il grosso della colonna avrebbe proceduto per il ponte della Calle e Annecy.
Ma Ramorino invece di muovere per Saint-Julien, costeggiò la frontiera, con gran dispetto di Mazzini, il quale per la fatica, l'angoscia e le notte insonne era assalito da febbre alta e pur tuttavia proseguiva il suo cammino col fucile in spalla, rivolgendo al generale frequenti e acerbi rimproveri.
Ma in che modo vi rispose Ramorino ? Vi rispose, salito a cavallo, con la lettura d'un proclama che scioglieva la sua colonna, dando per scusa il non veder comparire l'altra colonna che doveva spalleggiarlo. In tal modo disertando proditoriamente il suo posto, si allontanò lasciando a Carlo Bianco di tirar fuori di pericolo l'abbandonata gioventù.

Circondati dai soldati svizzeri, francesi e sardi, tutta la colonna fu presa o dispersa; allora, e non alla prima fucilata, come malignamente insinuarono i suoi calunniatori, Mazzini cadde in deliquio, e fu da Fabrizi e da altri trasportato fuori delle file. Quando ritornò in sé, giaceva in una caserma svizzera. Ogni speranza era caduta e le persecuzioni infierivano.

Contemporaneamente, e con la risolutezza a lui naturale, Garibaldi, che aveva fatto il sacrificio della propria carriera come capitano marittimo, arruolandosi, come si é detto, marinaio di terza classe nella regia marina sarda (*), spingeva tutti i giovani valenti di sua conoscenza all'impresa redentrice. Era suo intento, insieme con questi arditi, di impadronirsi, ad un segnale dato, dell' arsenale di Genova, della caserma dei carabinieri in piazza Sarzana e quanti bastimenti possibili nel porto della città.
Garibaldi non era che semplice marinaio di terza classe, ma gli era stato affidato, in omaggio alla sua riconosciuta perizia, il battello come pilota, e così poteva frequentemente andare e venire dal porto di Genova.


(*) Nella Matricola sta scritto: "Marinaio di terza classe Giuseppe Maria Garibaldi e come nome di guerra Cleombroto."

Il dottor Odicini lasciò scritto nelle sue memorie inedite che Garibaldi era pilota.
Probabilmente, dopo fatta la sua propaganda sull' Euridice, Garibaldi ottenne di imbarcarsi sul Des-Geneys. Con questo, di certo egli si recò a Genova, leggendosi sulla Matricola: «imbarcato sul Des-Geneys il 3 febbraio 1834, assentatosi senza licenza dalla suddetta fregata regia il 4 febbraio 1834. »
Garibaldi nelle memorie originali scrive soltanto: "Certo non provò Colombo maggior contento alla scoperta d'un mondo di quello che provavo io nel trovare chi s'occupasse della redenzione italiana e mi tuffai interamente in quell'elemento che sentivo essere il mio, ed in Genova il 4 febbraio 1831, io uscivo dalla Porta della Lanterna alle 7 pom., vestito da contadino e proscritto".

 

Cos'era accaduto?
Quando giunse dalla Svizzera il tanto sospirato segnale, Garibaldi (e qui fece manifesta la tempra del proprio carattere) non volle così presto compromettere i compagni senza una qualche certezza di buon successo; li avvertì soltanto di tenersi pronti e di assecondarlo al suo primo appello. Scese da solo a terra (era il 4 febbraio) per assicurarsi come doveva aver luogo la prossima progettata espugnazione della caserma dei carabinieri in piazza Sarzana. Poi ritornando allo scalo della dogana seppe da voci amiche che la spedizione in Savoia era fallita, gli arresti incominciati, la dura repressione pure. Impensierito, continuò guardingo il suo cammino; quando, compratasi la Gazzetta di Genova, lesse la seguente drammatica notizia che rimosse dal suo animo ogni dubbio su cosa bisognava fare.

"4 febbraio 1834.
Da più mesi il Governo di S. M. sapeva che la propaganda rivoluzionaria ordiva un repentino assalto in Savoia, e che i fuorusciti polacchi riparati nel Cantone di Berna dovevano pigliarvi parte, con buon numero di profughi italiani recatisi a tal fine in Svizzera. Sapeva essersi radunati nei Cantoni di Vaud e di Ginevra alcune migliaia di schioppi, e fatte provvigioni di divise e di suppellettili militari. Ebbe certo anche notizia che l'invasione stata procrastinata più volte, ma che era stata definitivamente fissata per il giorno 27 gennaio; che i fuoriusciti italiani con i loro ausiliari dovevano convenire in Vevey per sbarcare sulle coste del Chiablese, e per tale scopo si erano già noleggiate molte barche; che i polacchi avevano lasciato il Cantone di Berna il 26. Il Governatore di Savoia avvisò subito in modo di premunirsi per questa folle e colpevole aggressione; infatti, i polacchi si trovarono sulla sponda svizzera del Lago al giorno prefissatto, ma i loro compagni, appreso che erano state prese delle energiche misure dalla parte savoiarda, non solo ricusarono di imbarcarsi, ma negarono di consegnare ai polacchi le armi del deposito fatto in Vevey e di
permettere loro l'imbarco sui navicelli noleggiati. Allora questi marciarono su Nyon, dove s'imbarcarono; ma invece di venire a riva sulle sponde del Chiablese, approdarono sul territorio ginevrino a due miglia dal confine della Savoia. Il governo cantonale, informato della cosa, aveva fatto prender le armi alle milizie, ed il 1° febbraio corrente il sindaco della guardia notificò al Comandante di Saint-Julien l'arresto ed il disarmo di quella masnada di circa 300 uomini, che aveva pigliato terra alle falde di Bellerive presso Ginevra".

Non gli rimaneva a Garibaldi in tale frangente che di mettersi in salvo, e così fece, d'intesa con i compagni, che, a rivoluzione fallita in Savoia, non si sarebbero mossi di certo in quella di Genova con la repressione regia messa subito in atto.
Garibaldi riparò in sulle prime da una fruttivendola, la quale, nascostolo nel retrobottega, gli fornì degli abiti da contadino dei dintorni. Con questi, abbandonati quelli marinari, uscì per la porta della Lanterna tranquillamente, come un contadino che va per i fatti suoi, verso San Pier d'Arena.
In quei tempi e per molti anni dopo, non accadeva mai che un genovese, e ancor di più se donna, ricusasse di proteggere e di aiutare un patriota inseguito dai soldati del re.

Il fuggiasco, insinuatosi fra le montagne di Sestri, camminando per dieci notti e dormendo di giorno, giunse a casa, così sfigurato e lacero, che la zia, a cui egli incaricò di avvertire la propria famiglia, non lo riconobbe, anzi a tutta prima lo aveva cacciato dalla porta come un mendicante. Il padre, nel vederlo, montò su tutte le furie, la madre lo scongiurò piangendo e in ginocchio di arrendersi e implorare perdono dai superiori. Giuseppe temendo che i deboli parenti lo implorassero pure loro di arrendersi, si allontanò subito da casa, attraversò a nuoto il Varo, allora gonfiato dalle sciolte nevi, e il 15 febbraio 1834 trovò rifugio in terra straniera.

Per molto tempo fu creduto dai membri dell' associazione che Garibaldi, il quale aveva assunto fra i suoi il nome di Borel, fosse stato fucilato, perché nella Gazzetta Piemontese del 19 febbraio si leggeva:
"Chambéry, 18 febbraio 1834.
Angelo Volonteri e Giuseppe Borrel (sicuramente un omonimo - Ndr.) entrambi stranieri, i quali facevano parte della banda entrata il giorno 3 a Les Echelles, e qui furono presi armati, sono stati giudicati dal Consiglio Divisionario di Chambery nella seduta del 15, e condannati alla pena della morte ignominiosa. La sentenza é stata eseguita ieri, 17."

Invece Garibaldi (Borel) aveva da alcuni mesi nuovamente cambiato il nome in quello di Giuseppe Pane, e dato che il Dumas per primo e tutti i biografi dopo di lui diedero libero volo alla fantasia inventando aneddoti durante il suo soggiorno in Francia, citiamo il passo seguente delle sue Memorie
" Stetti alcuni mesi inoperoso in Marsiglia, godendo l'ospitalità dell'amico mio Giuseppe Paris. Un giorno m'imbarcai da secondo a bordo dell' Unione, capitano Francesco Gazan. Mi trovavo, verso sera, nella camera del bastimento, vestito in gala, per scendere a cena. Udendo un rumore nell'acqua, mi affacciai con il capitano in entrambi i balconi. Un
individuo stava annegando sotto la poppa e distante da ogni soccorso. Io mi lanciai in acqua, e con molta fortuna salvai l'infelice - spettatrice un'immensa popolazione plaudente.
Era il salvato Giuseppe Rambano, giovane di 14 anni. Ebbi la guancia bagnata dalle lacrime di gratitudine di una madre, e le benedizioni di una famiglia intera.
Un viaggio ancora coll'Unione nel Mar Nero; uno in Tunisi con una fregata da guerra, costruita in Marsiglia per il Bey.
Nel mio ultimo soggiorno in Marsiglia, vi infieriva il cholera, facendo grandissima strage. Si erano aperte infermerie, in cui si presentavano i volonterosi per offrire servigi. Io diedi il mio nome in una di quelle, e nei pochi giorni che rimasi in quella città, passai ogni notte assistendo i cholerosi.
Finalmente passai a Rio-Janeiro col brigantino Nautomin, capitano Beauregard".

Prima di abbandonare la Francia lesse nel Peuple de Marseille la traduzione del seguente documento tolto dalla Gazzetta Piemontese del 17 giugno 1834, N. 72


"Genova, 14 giugno. SENTENZA.
Il Consiglio di Guerra Divisionario sedente in Genova convocato d'ordine di S. E. il sig. Governatore Comandante generale della Divisione. Nella causa del Regio Fisco Militare contro Mutru Edoardo del vivente Gioanni, d'anni 24, nativo di Nizza Marittima, marinaro di 3a classe al R. Servizio. - Canepa Giuseppe Baldassare del fu Gioanni Battista, d'anni 34, nato e domiciliato in Genova , commesso in commercio , sotto-caporale provinciale nel 1° reggimento Savona. - Parodi Enrico del vivente Giovanni d' anni 28, marinaro mercantile, nato e domiciliato in Genova. - Deluz Giuseppe, detto Dall'Orso, del fu Francesco d'anni 30, nato a Praia dell'isola di Terzeira (Portogallo), marinaro mercantile di passaggio in Genova. - Canale Filippo del vivente Stefano, d'anni 17, nato e domiciliato in Genova , lavorante libraio. - Crovo Giovanni Andrea del vivente Giovanni Agostino, d'anni 36, nativo di Caruglia (Chiavari) e domiciliato in Genova, sostituito segretario del tribunale di Prefettura. - Garibaldi Giuseppe Maria del vivente Domenico, d'anni 26, nativo di Nizza Marittima, capitano marittimo mercantile e marinaro di 3" classe al R. Servizio. - Caorsi Giovanni Battista del fu Antonio, detto il figlio di Tognella, d'anni 30 circa, abitante in Genova. - Mascarelli Vittore del vivente Andrea, d'anni 24 circa, capitano marittimo mercantile, dimorante nella città di Nizza.
I primi sei detenuti e gli altri contumaci, inquisiti di alto tradimento militare; cioè:
- Il Garibaldi, il Mascarelli e il Caorsi di essere stati i motori di una cospirazione ordita in questa città nei mesi di gennaio e febbraio ultimi scorsi, tendente a fare insorgere le Regie Truppe, ed a sconvolgere l'attuale Governo di Sua Maestà;
- di avere il Garibaldi e il Mascarelli tentato, con lusinghe e somme di denaro effettivamente sborsate, d' indurre a farne pur parte alcuni bassi ufficiali del Corpo Reale di Artiglieria; e
- di avere il Caorsi fatto provvista, a sì criminoso scopo, di armi state poi ritrovate cariche, e di munizioni da guerra;
- E gli altri sei, di essere stati informati di detta cospirazione, di non averla denunciata alle Autorità Superiori, e di esservisi anzi associati.
Udita la relazione degli atti, gli inquisiti presenti nelle loro rispettive risposte, il Regio Fisco nelle sue conclusioni, ed i difensori nelle difese degli accusati presenti rigetta l'eccezione d'incompetenza opposta dai difensori di alcuni accusati.
- Ha pronunciato doversi condannare in contumacia i nominati Garibaldi Giuseppe Maria, Mascarelli Vittore e Caorsi Giovanni Battista alla pena di morte ignominiosa, dichiarandoli esposti alla pubblica vendetta come nemici della Patria e dello Stato, ed incorsi in tutte le pene e pregiudizi imposti dalle Regie Leggi contro i banditi di primo catalogo, in cui manda gli stessi descriversi.
- Ha dichiarato il Mutru Edoardo, Parodi Enrico, Canepa Giuseppe Baldassarre, Deluz Giuseppe e Canale Filippo non convinti, allo stato degli atti, del delitto ad essi imputato, ed inibisce loro molestia dal Fisco. - E finalmente ha dichiarato e dichiara insussistente l'accusa addebitata all'Andrea Crovo, e lo rimanda assolto.
- Genova, 3 giugno 1834.
Per detto Illustrissimo Consiglio di Guerra BREA Segretario
-Vista ed approvata: Il Governatore, Comandante Generals della Divisione, Marchese Paolucci."

Garibaldi lo lesse nel Peuple de Marseille
ma qui abbiamo anche l'originale

Ecco il Nostro in esilio come per la stessa causa vi sono stati i migliori suoi compatrioti i quali, impotenti di giovare alla patria rimanendoci, cercarono all'estero di fare risuonare puro e degno il nome di essa fra le altre genti.
E in quello stesso anno Panizzi fu da lord Brougham nominato vicebibliotecario del Museo britannico; onore singolare mai conferito ad altro straniero.
E Avezzana nel Messico fu la provvidenza del popolo che lo ospitava, e per una brillante vittoria ottenuta contro il Generale De Mora ebbe il seguente lusinghiero attestato:

"Esercito Liberatore - Dio e libertà".
"Al signor Comandante generale D. José Avezzana, dal quartier generale di Orizaba."

"Con ufficio del 13 corrente ho ricevuto il rapporto dell'Ecc.mo signor Governatore del brillante risultato ottenuto dalla spedizione sotto il comando della S. V. sulla capitale Ciudad Vittoria. Tanto splendido avvenimento é un anello di più che abbiamo aggiunto alla formidabile catena, con la quale si ha da legare il dispotismo orrendo degli usurpatori contro gli uomini liberi. Godete in cotal trionfo, mentre che io da queste parti gli do tutta la pubblicità possibile per confusione dei nostri nemici, celebrandolo con le dimostrazioni proprio della sua importanza. Intanto ho scritto al signor generale Estevan Montezuma perché vi conferisca il comando dei quattro stati su cui si estendeva quello del generale Mora.
"Antonio Lopez di Sant'Anna".

Né va dimenticato Gustavo Modena, fior di patriota e attore drammatico di genio, il quale molto prima di dedicarsi all' arte ove il padre aveva toccato sì alto grado, era tutto inteso all' amor suo primo e ultimo - l'Italia.
Di padre trentino nato in Venezia, passò la gioventù in Milano ove i gemiti dello Spielberg ulcerarono il suo giovane petto. Studente a Padova a 16 anni, era sempre in lotta con gli sbirri e con i soldati austriaci e finalmente in un tafferuglio con una pattuglia, in cui un amico suo, Quaglio di Rovigo, gli cadde ucciso accanto, egli fu ferito così gravemente ad un braccio che per molto tempo si era disperato della sua vita. Convalescente passò il Po e presto si distinse come attore; ma scoppiati i moti dell'Italia centrale vi si gettò a capofitto; e quando tutto fallì, egli, già affiliato alla Giovine Italia, raggiunse Mazzini in Marsiglia e prese parte attivissima nei preparativi della spedizione di Savoia. Ma poi cacciato con la sua devota moglie, la bellissima Giulia, errò nel Belgio, poverissimo, correggendo bozze di stampa, vendendo maccheroni di Napoli e formaggio di Lodi. Si rifugiò infine in Inghilterra dove strinse sempre più con Mazzini quell'amicizia intensa che solo la morte troncò.

Ora è facile criticare gli insuccessi e biasimare l'abnegazione di questi pionieri, ma c'é chi crede in buona fede che se tutti questi uomini d'ingegno, di cuore e di coraggio sl fossero accontentati di starsene a casa in panciolle intenti all'avvocatura, alla medicina o al teatro, oggi l'Italia sarebbe una e indipendente?
Ed é lecito pensare che senza la incrollabile fede nei destini della patria, ancorché andassero sommerse nel sangue una dopo l'altra le sante ribellioni dei pochi, la rivoluzione del maggior numero ne sarebbe in ultimo emersa che i Principi di casa Savoia avrebbero giocato la piccola corona nella speranza di guadagnare quella di tutta Italia?

Essi superarono gli altri Principi d'Italia nell'accorgliela, ma soltanto i martiri e le vittime e gli agitatori dei primi trent'anni del secolo gettavano in terra il seme che essi stessi e i loro successori fecero fruttare inaffiandolo con il proprio sangue, scaldandolo con l'ardente carità di patria.

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