Ma Napoleone - Chi era?

"Tutti nascono anonimi come me, in una anonima Ajaccio, in un'anonima isola, in un anonimo 15 agosto, di un anonimo 1769, da due anonimi Carlo e Letizia Ramolino; solo dopo diventano qualcuno; e se prima di ogni altra cosa sono capaci di non deludere se stessi, anche la volontà divina si manifesta sull'uomo." (dal Memoriale di Sant'Elena")

LA MORTE DI NAPOLEONE - IL TESTAMENTO DI NAPOLEONE

QUI UNA SINGOLARE "AUTOBIOGRAFIA"

"Invano si tentò e si tenta di diminuire la gigantesca figura di Napoleone, invano una legione di dotti e di ricercatori s'ingegna a dimostrare che il colosso non era esente da qualche meschinità, da qualche debolezza; invano il Taine ricorre, contro colui che chiama "il gran condottiero italiano", a tutto l'arsenale della sua critica pesante e formidabile. Napoleone, il Napoleone della leggenda rimane ritto nella storia, più sorprendente, più ammirabile, più vicino, dopo ogni attacco, al tipo simbolico che di lui ci dà la tradizione popolare.
Il Taine, infatti, sbagliò e soprattutto fece opera antiscientifica limitandosi a raccogliere nelle memorie dei nemici personali del gran Corso le maldicenze e le calunnie che vennero diffuse dalla de Stael, dal de Pradt, dal Marmont e dai libellisti inglesi. Per agire scientificamente secondo i precetti del metodo sperimentale e positivista che d'altronde proprio Taine preconizzava, l'illustre storico avrebbe dovuto citare anche gli elogi entusiastici del Molien, dello Chaptal, del Bausset, del conte di Ségur, del conte Las Cases, del dottor Antonmarchi, ecc.; avrebbe inoltre dovuto considerare e far considerare gli scritti di Napoleone, e cercare infine di fare almeno una media fra il bene e il male che si dissero del grande personaggio, per formulare un giudizio sano, imparziale e convincente. Ma nella sua esplorazione dei memorialisti dell'Imperatore, il Taine procedette come nei suoi viaggi, mirando unicamente ad attingervi degli appunti tali da corroborare delle idee e delle teorie preconcette. Egli dimenticò troppo spesso che la scienza è infinitamente superiore alla passione e che la verità finisce sempre col trionfare, nella storia come nella vita. Perciò i posteri si sentono obbligati a dar ragione al Courier contro il Taine, davanti alla figura storica di Napoleone, che non poteva né potra essere rimpicciolita da sforzi di critica avversa".
(Dalla raccolta dei proclami e discorsi politici di Napoleone).
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A parte la Biografia, il Memoriale di Sant'Elena, le sue imprese in cronologia Anno x Anno, la "Campagna d'Italia" nei Riassunti della "Storia d'Italia", e Napoleone in La Rivoluzione Francese, ci piace qui fare una sintesi delle ultime pagine della bellissima biografia di Raffaele Ciampini, "Napoleone", Utet, 1941; capitolo "Conclusione".

Cosa scrissero gli storici di Napoleone? C'è chi lo ha esaltato e chi lo ha disprezzato.
Ovviamente quelli che fino allora erano servi lo hanno benedetto, i loro padroni maledetto.

Ma chi -amici o nemici - lo ha veramente capito?

Napoleone Bonaparte si alza, gigante e solitario, sulla soglia del secolo XIX, ed è rimasto sempre presente nel XX, come il vero creatore dell'Europa moderna.
Se si nominano in una discussione tanti e tanti generali, condottieri, re, principi, imperatori, e poi si nomina lui, tutti gli altri diventano dei piccoli nani.

"E perchè precisamente l'uomo che sortì gli effetti più rovinosi non potrebbe essere il vertice dell'intero genere umano, così alto, così superiore che tutto rovina per invidia nei suoi confronti?" (Nietzsche: La volontà di potenza, af.877)

Non dimentichiamo anche questa frase riportata nel suo "Memoriale di Sant'Elena - anno 1816":
"...Abbiamo bisogno di una legge europea, di una Corte di Cassazione Europea, di un sistema monetario unico, di pesi e di misure uguali, abbiamo bisogno delle stesse leggi per tutta Europa. Voglio fare di tutti i popoli europei un unico popolo... Ecco l'unica soluzione che mi piace."

Ecco la chiara visione napoleonica degli Stati Uniti d'Europa (Che cerchiamo ancora oggi di fare). Un disegno genialmente demoniaco nella sua origine, perfettamente razionale nelle sue deduzioni.
"L'Europa non è più una tane di talpe...Quello che vuole ottenere a forza coi suoi uomini dovrà un giorno fondersi, spintovi dalla ragione e dalla necessità, in un patto spontaneo: un giorno da tutti quei popoli ne nascerà uno solo, un popolo solo... Ecco l'unica soluzione che mi piace".

Ovviamente non piaceva all'Inghilterra, ormai sulla strada del colonialismo (protettorati, sfruttamento economico ecc. ecc. giustificate come "missione civilizzatrice" nei confronti di "civiltà barbare"), e che alla fine del secolo "di Napoleone", con le sue "conquiste" (fatte con le cannoniere) poteva vantare nel mondo un impero coloniale cento volte più esteso della sua stessa isola.

Victor Hugo, che ha esaltato la leggenda napoleonica in versi spesso soltanto sonori, ma qualche volta grandiosi, ha espresso assai bene questo concetto in una poesia dal titolo significativo di "Lui" pubblicata nelle "Orientales". « Toujours Napoléon éblouissant et sombre - sur le seuil du siècle est debout ». "Egli è il creatore del secolo XIX, eppure il secolo non ha preso il nome da lui, e si è chiamato piuttosto il secolo delle nazionalità". Così dunque si è verificato questo fenomeno storico interessante, che il secolo delle nazionalità ricostituite, il secolo che ha avuto il culto e la religione della patria e della libertà, è stato aperto e creato da uno (dicono i detrattori) dei più formidabili oppressori delle patrie e della libertà che la storia ricordi. La contraddizione non è senza un suo profondo significato, e chiarirla nella sua origine e nella sua più intima essenza, equivale in realtà a chiarire tutto il vero significato della storia napoleonica, tutta la portata storica del Primo Impero.
Nel 1813, che fu il vero anno fatale per l'Imperatore (poichè nel 1814 egli non è che un capo nazionale, e l'Impero ha ormai cessato di esistere, egli non combatte più per salvare l'Impero, ma unicamente per difendere il territorio della Francia contro l'invasione nemica) l'Impero crolla con vertiginosa rapidità sotto i colpi della prima vera e grande coalizione che si sia formata in Europa contro la Francia imperiale e rivoluzionaria.

"E' la vecchia Europa - (questa frase l'abbiamo sentita di recente da oltre oceano - anno 2003) dice Edoardo Driault- l'Europa feudale e monarchica che insorge contro la giovane Europa di Napoleone, contro l'Europa dei diritti dell'uomo, l'Europa rivoluzionaria che aveva tentato di trovare la propria unità soggiacendo alla legge ferrea della conquista, nei limiti dell'impero: secondo quello storico è l'Europa dell'equilibrio, cioè della instabilità, delle competizioni e delle guerre, che respinge la propria unità, quella unità che avrebbero potuto darle soltanto il genio e la volontà di Napoleone, per fare invece trionfare la politica oppressiva della Santa Alleanza. La verità è che l'unità non poteva venire dal di fuori, come espediente imposto dalla forza delle armi e dalla conquista, ma per essere duratura e feconda bisognava che partisse dall'intimo, dal sentimento e dagli interessi delle nazioni e dei popoli, da un senso di profonda ed effettiva solidarietà".

La caduta di Napoleone rappresenta piuttosto il trionfo della coscienza nazionale presso i singoli popoli, un immenso progresso in confronto all'Europa feudale di prima; l'Europa feudale e monarchica era stata distrutta da Napoleone sui campi di Austerlitz, di Jena e di Wagram, con la conquista dell'Italia, con l'Atto di mediazione svizzera, con la Confederazione del Reno, con la conquista della Spagna. Manzoni ha detto di lui che "il fulmine teneva sempre dietro al baleno", e questo è vero in tutti i sensi: all'azione militare e alla vittoria sui campi, teneva subito dietro la ricostruzione civile e politica, e sua prima cura nei paesi conquistati era organizzarli secondo i principi sanciti dal codice, in modo che quei paesi in pochi mesi cambiassero aspetto; ed era una ricostruzione che si estendeva in superficie ed entrava nel profondo, rinnovandoli dalle fondamenta; in essi tutta la vita riceveva un impulso vigoroso; si schiudevano germi nuovi, i popoli ritrovavano la propria storia e tutti se stessi, riprendevano le vie maestre della loro tradizione e del loro passato, muovendo verso l'avvenire.

Avvenne un mutamento profondo nel costume anche nel popolo italiano. Napoleone a Sant'Elena così lo ricordò, perfino nei minimi e insignificanti particolari:

"Dopo il mio passaggio, l'Italia non era più la stessa nazione: la sottana, che era l'abito di moda per i giovani, fu sostituita dall'uniforme: invece di passare la loro vita ai piedi delle donne, frequentavano i maneggi, le sale d'armi, i campi militari; i bambini stessi iniziarono a giocare sul selciato con interi reggimenti di soldatini di stagno; indubbiamente dopo averlo sentito raccontare in casa tra le mura domestiche dai loro padri, imitavano i fatti di guerra e le mie battaglie. E quelli che cadevano non erano più gli italiani, ma gli austriaci. Prima, nelle commedie e negli spettacoli di piazza, veniva sempre messo in scena qualche italiano vile, anche se spiritoso, e di contro a lui un tipo di grosso soldato straniero, forte, coraggioso e brutale, che finiva sempre col bastonare l'italiano, fra le risa e gli applausi degli spettatori. Anche se non c'era proprio niente da ridere ma semmai da piangere. Orbene: il popolo italiano non tollerò più allusioni di questo genere; gli autori dovettero cambiare copione. Iniziarono a inserie italiani valorosi, che mettevano in fuga lo straniero, vi sostenevano il proprio onore e il proprio diritto. Vi sembra poca cosa tutto questo? No! La coscienza nazionale si era formata. E l'Italia ebbe per la prima volta i suoi canti guerreschi e gli inni patriottici".
(Memoriale di Sant'Elena)

Era -dirà qualcuno- servaggio anche questo, senza dubbio, ma di natura e carattere profondamente diverso. Il nome Italia cominciò a varcare le frontiere, a imporsi alle attenzione dell'Europa, a farsi stimare tra i patrioti di ogni nazionalità, poichè molti italiani mostravano di saper morire combattendo e che possedevano anche loro un orgoglio; non quello oppressivo, compressivo, depressivo, di tanti tempi anteriori. E che purtroppo, poi, finito questo "momento magico", tornò in quelli con la Restaurazione. Per un breve periodo per fortuna. Ma anche questo Napoleone lo aveva previsto: "deve passare una generazione, poi i giovani che verranno, capiranno, e vendicheranno l'oltraggio che io ora soffro qui "(a San'Elena - dalle Memorie ).

Napoleone, forse senza rendersene conto, era così un grande risvegliatore di dormienti, un animatore instancabile di neghittosi. Vincendo i re e fecondando la vita profonda dei popoli, egli fece nascere una nuova coscienza, con tutto un mondo nuovo di aspirazioni e di bisogni, là dove prima non era che sottomissione; creò i popoli moderni con le loro esigenze e la loro volontà, là dove prima non erano che greges di sudditi e re imperiosi, Orazio direbbe timendi. Naturalmente (ed è forse inutile dirlo) non creò dal nulla, e la sua ricostruzione trovò dovunque un nuovo pensiero in elaborazione, un nuovo fermento di desideri, un nuovo germogliare di idee ma precipitò il processo di dissoluzione dell'antico, ruppe tutti i legami che tenevano avvinto l'uomo moderno, e fu veramente, da questo punto di vista, l'uomo del destino.

Certo, l'antico regime non era morto, né sarebbe stato possibile spegnerlo in pochi anni così compiutamente che non potesse avere ritorni offensivi, il soprassalto degli agonizzanti (e così fu): una storia millenaria non poteva essere cancellata in così breve periodo di tempo neppure da Napoleone; anzi dopo il 1815 l'antico regime in apparenza trionfa. Esso si era servito delle armi stesse di Napoleone, e aveva chiamato i popoli alla riscossa contro di lui proprio in nome di taluno di quei princìpi che erano la forza dell'Imperatore francese: così facendo riconosceva implicitamente la vittoria definitiva di Napoleone, e la vitalità di quel mondo nuovo che voleva abbattere quello vecchio. Poi, ottenuto lo scopo, quei princìpi vennero oppressi e conculcati, fin dove era possibile, e si cercò di rimettere l'Europa nel sepolcro di prima; ma l'Europa non era più la stessa e il suo sonno fu soltanto apparente.

Fino dai primi giorni del 1813 Stein aveva sognato per la Germania una ricostruzione in una forte unità nazionale, che abbracciasse tutti i tedeschi, un impero germanico, un grande Reich. Come si potrebbe chiamare medioevale e feudale una Europa nella quale potevano germogliare questi concetti? L'Austria riprende ed allarga il proprio predominio in Italia: Venezia non risorge, e diventa anzi un possesso austriaco: ma chi potrebbe affermare che la Venezia del 1815 sia la stessa del 1797 e che quei diciotto anni di storia non abbiano lasciato tracce? (sorgono infatti, i vari Manin !). Milano ritorna austriaca, ma non è più la Milano di prima, e fin dai primi giorni della restaurazione, la battaglia fra classicisti e romantici rivela un cambiamento profondo, un rinnovamento totale dei sentimenti e delle idee. E non è la stessa Spagna quella nella quale rimettono piede i Borboni, e i nobili, che in Francia seguono i monarchi legittimi rimessi sul trono dalle armi straniere, possono sembrare dei revenants, con le loro parrucche e con i loro codini: essi hanno dormito per tanti anni un sonno inquieto e agitato, ma la Francia, e con essa tutta l'Europa, è stata nel frattempo ben desta e non ha fatto che andare avanti.

Anche l'Italia ormai si incammina, per quanto di nuovo spezzata e divisa, verso la propria unità: il Conciliatore e L'Antologia (che non erano giornali della plebe ma di intellettuali) rivelano un intimo travaglio, una reale unità degli spiriti sotto le divisioni apparenti, che dovrà tradursi negli atti. Il culto che uomini del popolo e uomini d'arme consacrano a Napoleone, ha la sua ragione profonda: anche se alcuni nostri pensatori e nostri scrittori restano invece diffidenti verso di lui, perchè, tutti protesi verso l'avvenire della patria, preferiscono cercare una Italia che nulla debba allo straniero (per quanto -paradossalmente- talora rivendichino l'italianità di Napoleone), una Italia che sviluppi la propria storia, e, imbevuti del sentimento della indipendenza e della unità, l'Imperatore sembra ad essi un oppressore, il cui ritorno potrebbe ritardare la libertà della patria.

Ma a noi Napoleone appare come l'iniziatore dei tempi moderni: lo spettacolo dell'Europa nei primi venti o venticinque anni dell'Ottocento ci sembra uno dei più straordinari che presenti la storia: i più accaniti nemici di Napoleone hanno dovuto assorbire qualche cosa del suo prodigioso pensiero e, per abbatterlo, hanno dovuto servirsi di lui, del nazionalismo che lui aveva creato, e così riconoscere e consacrare la sua vittoria. Non ne è rimasta immune la Russia, dove Speranski sognava riforme nel senso indicato dal Codice, la libertà, l'uguaglianza, l'abolizione dei privilegi e della schiavitù, e una Costituzione sul tipo di quella consolare; non ne è rimasta immune neanche l'Inghilterra, per quanto, circondata dal mare e isolata, i soldati francesi non abbiano potuto toccarne il suolo. Essa è costretta a mettersi alla testa di tutte le coalizioni, a perfezionare la propria industria e il proprio commercio, a rinforzare la propria flotta, e, per vincere Napoleone, quanto più questi tenta di escluderla dal continente, tanto più essa è costretta a farsi europea; le guerre contro l'Impero sono state una delle cause della sua recente ricchezza.

Ma soprattutto, dal travaglio dell'età napoleonica è nata la nuova coscienza italiana, ed è nata la Germania moderna: sono queste le due conseguenze più grandiose della conquista napoleonica. Una nuova cultura e un nuovo pensiero politico si diffondono per tutta l'Europa, e la rinsanguano, negli anni che seguono immediatamente il 1815: il diritto dei popoli a disporre di sè, a scegliersi ciascuno liberamente il proprio governo, a vivere ciascuno libero e indipendente dagli altri popoli, con la propria vita storica e nazionale, con la propria unità, con le sue tradizioni, la sua cultura, il suo passato; un nuovo concetto dei rapporti sociali e un nuovo ordinamento amministrativo, tutto ciò è conseguenza della conquista napoleonica, e dei diritti dell'uomo trasportati oltre le frontiere di Francia fra le varie nazioni; é il grande fenomeno storico dell'Ottocento. Naturalmente, come é già stato accennato, c'é nell'edificio napoleonico qualche cosa di anacronistico, oserei dire di sorpassato e di archeologico, che rende tutta la costruzione precaria. Sorge il problema se un impero di tipo romano, di quella vastità, formatosi per effetto della conquista con tanta inevitabile fretta, potesse avere vita lunga e feconda nel secolo XIX. Talune istituzioni napoleoniche ci fanno la penosa impressione di una stonatura, dopo la rivoluzione e i diritti dell'uomo: così la nobiltà imperiale, tutti quei duchi, conti, baroni, quei titoli e quelle cariche così antiquate di arcicancelliere dell'Impero, arcitesoriere, vicegrande elettore, ecc. E tutto ciò non era soltanto nelle forme, ma era nell'essenza stessa dell'Impero napoleonico, e nel concetto che Napoleone se ne faceva: egli riteneva indispensabile al suo sistema il ritorno all'antico, alle distinzioni, agli onori, alla nobiltà.

Dopo Tilsitt, si allontana sempre più dallo spirito e dagli uomini della rivoluzione, per tentar di rientrare nella grande tradizione monarchica da lui ereditata; della rivoluzione voleva conservare i principi, ormai consacrati nel codice, sacrificando le forme: voleva unite le forme antiche allo spirito nuovo. Qui é tutto il carattere dell'Impero napoleonico; ma non é difficile accorgersi che c'é un equivoco alla base del sistema. A uno spirito completamente nuovo come era quello emanato dalla rivoluzione, erano anche necessarie forme corrispondenti, anch'esse completamente nuove. Napoleone si accorgerà dell'equivoco, ed egli stesso lo denuncerà, quando riconoscerà l'errore commesso sposando una arciduchessa austriaca: egli aveva davvero voluto unire (ci sia concessa questa espressione popolare) il diavolo e l'acqua santa. Alienò da sè la rivoluzione e i rivoluzionari, senza guadagnarsi durevolmente gli uomini dell'antico regime: tolse slancio e vigore all'impulso rivoluzionario, senza riuscire a infondere una vita nuova nelle istituzioni antiche.

Col passare del tempo, e in mezzo alle difficoltà crescenti, non ebbe più l'appoggio dei rivoluzionari, né fu sostenuto dall'antico regime: figlio della rivoluzione, meglio sarebbe stato ch'egli avesse seguito la rivoluzione fino all'ultimo, affidandosi ad essa soltanto, e senza tentare unioni impossibili.
Come tutto l'Impero ha in se' qualche cosa di anacronistico, così ha qualche cosa di archeologico il concetto che egli ha di Roma e dei romani, e ciò che egli tenta fare di Roma: la sua Roma non é mai un organo vivo inserito in un corpo vivo. Egli toglie Roma all'Italia per farla diventare città francese, la seconda città dell'Impero, né d'altra parte osa o vuole ricostruire l'Italia. Non vuole ricostruirla anche perché non intende privarsi di Roma; non é infatti concepibile l'Italia senza Roma; ma Roma senza l'Italia, abbassata al rango di seconda città di una nazione alla quale essa non appartiene, inserita per forza in un organismo non suo, e ridotta a puro simbolo, é veramente una città morta. Che cosa infatti vale il passato, se esso non vive anche nel presente e non continua nell'avvenire, se é pura memoria storica e letteraria, ed é ridotto a contemplare sterilmente se stessa? Roma avulsa dall'Italia era città svuotata di tutto il suo contenuto, era città-ricordo e cittàmuseo: le rovine stesse dell'antichità non si animavano più della vita presente, ma erano fine a se stesse. Napoleone ebbe, sì, il merito di iniziare a Roma scavi e lavori grandiosi, ma scavi di scarsa importanza, poiché in essi era evidente la preoccupazione archeologica, non la ricerca di una gloria passata, sprone ed esempio della gloria avvenire.

I romani stessi Napoleone li vede fuori della realtà e della storia, e si immagina che essi debbano corrergli incontro, e alzare benedizioni verso di lui, perché egli li libera dal giogo odioso dei preti politicanti: ha, dei romani del suo tempo, un concetto tutto retorico, lontanissimo dalla realtà. Quando vede che essi non gli sono per niente grati, anzi gli oppongono la loro resistenza passiva, e malgrado le violenze continuano ad essere fedeli a un povero vecchio prete disarmato, Napoleone si irrita e li minaccia: anche questi romani egli li ha voluti rigenerare, ed essi non sanno che farsene. In realtà vedeva Roma e i romani attraverso la retorica rivoluzionaria e attraverso quei libri di storia che aveva letto con tanta passione, né si rendeva conto delle vere condizioni e del vero avvenire di Roma. Non avere ricostituito l'Italia come regno unito e indipendente, con Roma capitale, e la corona divisa da quella francese, fu forse per Napoleone un errore fatale; ma fare questo avrebbe significato rinunciare all'Impero, e d'altra parte é lecito domandarsi se la cosa sarebbe stata possibile.

L'Impero ebbe breve durata: ma non si può fare a meno di ammirare la mente dell'uomo che lo concepì e lo fece diventare realtà, il genio che racchiudeva in se stesso tutte le più alte qualità che possono rendere venerabile un uomo: alti concepimenti, pensiero originale e profondo, novità di concetti politici, energia indomabile tutta tesa al raggiungimento del fine, genio militare come altri non ne ha mai conosciuto la storia. Si possono enumerare i suoi errori, perché certamente ne commise, come tutti i mortali; si possono anche additare le sue lacune, i suoi torti: ma non si può denunciare in lui nulla di misero, di piccolo.

Tutto in Napoleone porta il segno della grandezza suprema. Per questo ha sempre esercitato e continua ad esercitare tanto fascino sulla immaginazione degli uomini: perché egli é uno spettacolo che veramente non ha precedenti. Anche a distanza ormai di tanti anni, si sprigiona da lui una tale forza vitale che non è possibile avvicinarlo senza esserne soggiogati. Si può dire che, morto, é più vivo che mai, e continua a operare, a pensare, a agire, sulla umanità in un senso o nell'altro. Può essere o non essere amato, può forse anche essere odiato, ma davanti a lui non é possibile restare indifferenti, e non é possibile all'uomo che pensa, fare a meno di porsi, almeno una volta nella vita, il problema di Napoleone.

Ci si può anche porre il problema dei suoi precedenti, ci si può chiedere se la sua figura risulti maggiore o minore in confronto a quella di altri grandi personaggi della storia, se debba nulla agli imperatori che lo hanno preceduto, poiché soltanto con essi può essere paragonato. Il parallelo é legittimo, poiché lo ha invocato Napoleone stesso, se sono vere alcune parole che gli vengono attribuite da Villemain: «Chateaubriand mi ha paragonato a Tiberio, che non si muoveva da Roma che per andare a Capri. Che idea! Traiano, Diocleziano, Aureliano, passi: uno di quegli uomini che dovevano tutto a se stessi e sollevavano il mondo. Voi che conoscete bene la storia, non vi colpisce la somiglianza del mio governo con quello di Diocleziano?».

Si é anche paragonato a Mario: «questo contadino di Arpino che la guerra mise al disopra del patriziato romano, schiacciò due volte gli eserciti nordici, e allontanò per tre secoli l'invasione dei popoli barbari con le sue reclute di proletari del Lazio e con i suoi veterani bruciati dal sole africano ».

Quando diceva queste parole egli era a Mosca, dove era andato per tentar di respingere la discesa dei barbari verso l'occidente e aveva anch'egli per reclute i figli dei contadini, aveva nelle sue file alcuni veterani bruciati dal sole dell'Africa. Ma i suoi veri predecessori, coloro che gli hanno insegnato l'arte di governo, e che hanno creato una organizzazione statale dalla quale egli ha preso in parte la sua, sono gli imperatori romani, ed é ad essi che egli si richiama di continuo, ad essi che vuole riallacciarsi. « Io sono della migliore stirpe dei Cesari, di quelli che fondano». Accetta il parallelo con tutti, a incominciare da Giulio Cesare, poiché sente di continuare l'opera di tutti, e tutti li difende contro Tacito ("Tacito li ha sistematicamente denigrati....non ha capito l'impero e ha calunniato gli imperatori; Tacito è della minoranza del vecchio partito di Bruto e Cassio. E' un senatore scontento, uno che si vendica quando è nel suo studio con la penna in mano" "gente come lui sono parolai, venditori di fumo, i quali non sanno che chiudersi in una critica sterile, incapace di illuminare e di costruire. Tacito e i suoi imitatori moderni non sono dei buoni maestri di storia...Io non voglio storia sistematica, congetture declamatorie, che spiegano male i grandi uomini, e falsano i fatti, per tirarne fuori una morale di comando..".. "Vi posso assicurare che Tacito non mi ha mai insegnato nulla. Conoscete voi un più violento e più ingiusto detrattore della umanità come Tacito? Alle azioni più semplici trova mille motivi colpevoli. Fa di tutti gli imperatori uomini profondamente perversi, per farsi ammirare il suo genio che ha saputo penetrarli... Ha ragione chi dice che i suoi annali non sono una storia dell'impero, ma uno specchio fedele dei tribunali di Roma...Lui che parla continuamente di delazione è il primo dei delatori".

Poi Napoleone ci parla di Cesare, naturalmente, che é, di tutti, quello che gli appare più grande: «Il giorno in cui, per un caso fortunato mi imbattei in Bossuet, e lessi quello che scrive di Cesare, il quale vittorioso a Farsaglia fu visto in un attimo in tutto l'universo, quel giorno mi parve che si lacerasse di cima in fondo il velo del tempio, e credei di vedere avanzare gli dei. Da allora questa visione mi ha seguito dovunque, in Italia, in Egitto, in Siria, in Germania, in tutte le mie più grandi giornate».

E, insieme ai Cesari, Carlomagno: tanto da questo che da quelli, l'impero ha derivato qualche elemento: anzi Napoleone arriva a un concetto romano dell'impero attraverso il ricordo di Carlomagno. Quando in Francia viene proclamato l'Impero, e l'Imperatore é consacrato dal Papa, Napoleone si richiama all'esempio di Carlomagno, e se ne dichiara il successore e l'erede; in questo primo momento Carlomagno é il suo grande e immediato predecessore, ed egli cinge la sua corona; così, sia per gli antecedenti storici, che per i concetti imperiali e per la forma di governo, Napoleone, nei primi giorni dell'Impero, segue l'esempio di Carlomagno: soltanto più tardi, in seguito al progressivo sviluppo della conquista e alla necessità di organizzarla, risale agli imperatori romani.
Era fatale che Napoleone evocasse il precedente di Carlomagno, ma era anche fatale che subito lo superasse, per raggiungere gli imperatori romani. Napoleone ha bisogno dell'esempio di Carlomagno per giustificare storicamente l'Impero e la trasformazione del regime consolare; ma, nato dalla repubblica che era tutta imbevuta di ricordi classici, per tanta parte una conseguenza dello spirito classico, che aveva riempito di se tutta la Francia durante il XVII e il XVIII secolo, era inevitabile che anche il regime consolare, nel quale tutto é classico, a incominciare dal nome, evolvesse verso quella forma superiore della politica classica che era stato l'impero romano: i punti di contatto colpiscono, e nel corso di questa esposizione non pochi sono stati notati.

Non a caso Napoleone citava espressamente Diocleziano come uno dei suoi antecedenti, ed istituiva egli stesso il proprio parallelo con lui: «Voi che conoscete bene la storia, non vi colpisce la somiglianza del mio governo con quello di Diocleziano? Questa rete stretta che butto a tanta distanza, questi occhi dell'imperatore che vedono dovunque, questa autorità civile che ho saputo conservare onnipotente in un impero tutto militare... Vi sono in me molti punti di somiglianza con Diocleziano». Ma non rigettava il parallelo con un imperatore mite, Trajano: «Come lui, ho vinto in Oriente e sul Reno; all'interno ho ricostruito la società con la moderazione che é la mia norma di governo. Ho preso il posto del terrorismo, come Trajano quello di Domiziano... ». E non respingeva il parallelo con Costantino: «Sarò un Costantino; soltanto, né remissivo al temporale, ne scismatico nella fede». Tutti, dunque, i migliori fra gli imperatori romani.

Il parallelo meriterebbe di essere sviluppato ampiamente e dovrebbe esaminare i principi politici, la struttura amministrativa, l'organizzazione militare, le manifestazioni culturali, e sarebbe opera immensa. Ma taluni tratti generali saltano subito agli occhi: alla base, la sovranità del popolo e tutti i poteri del popolo delegati a un uomo solo, senza restrizioni di sorta: tale potere supremo, attribuito in teoria dalla libera scelta dei cittadini, ma in realtà dalla forza delle armi: nessun modo di salvaguardarsi dal potere assoluto del principe: tutti i poteri sottostanti vengono assegnati dal potere centrale, cioé dal capo dello stato; abolite all'interno tutte le distinzioni e i privilegi, poiché tutti sono cittadini, ma cittadini ridotti a fare soltanto la volontà del principe, e a pagare le tasse, senza poter mai fare udire la loro voce: lo stato si occupa di tutti i servizi nessuno eccettuato: dell'insegnamento, dell'assistenza, dell'annona, perfino dei culti: tutti i servizi dello stato classificati, coordinati, definiti scrupolosamente nelle rispettive attribuzioni, in modo che non si produca mai confusione, e l'uno non invada il terreno dell'altro: i territori conquistati, divisi e suddivisi in numerose province, strettamente legate al potere centrale e dipendenti da questo: lo stato che entra dappertutto, che vigila tutto, che chiede tutto, che basta a tutto: un codice dove tutto é minuziosamente previsto, strumento ottimo per, dirigere la vita privata, "sorte de geométrie morale » dice benissimo il Taine, nella quale i teoremi, strettamente concatenati, derivano tutti, l'uno dietro l'altro, dalle definizioni e dagli assiomi della giustizia astratta: tutti questi non sono che alcuni dei punti di contatto che é facile trovare fra l'impero napoleonico e l'impero da Diocleziano a Teodosio.

Carlomagno é come il modello che Napoleone trova nella tradizione della Francia e nella leggenda: ma Diocleziano fornisce gli esempi e le realtà burocratiche ed amministrative, gli organi di governo. Tutto ciò vale per l'organizzazione dell'Impero, per la sua struttura, per il suo scheletro: non, naturalmente, per la forza vitale, per il soffio intimo che lo anima, per lo spirito che lo pervade: questo viene dall'uomo che dirige la macchina complicata, la quale riceve tutto il proprio vigore da lui, e all'uomo non é facile trovare precedenti. Non può essere avvicinato che a Cesare e ad Alessandro.
Del primo egli ha non soltanto il genio militare e l'indomabile energia, ma anche le capacità organizzative, l'aspirazione alle grandi costruzioni politiche, l'ambizione e la capacità di dare al proprio tempo l'impronta del proprio genio, e di creare in politica un'opera che possa sfidare i secoli. Come per Cesare la conquista delle Gallie fu la strada che lo portò alla dittatura e al potere supremo, così per Napoleone la conquista dell'Italia: e come Cesare aveva pacificato e organizzato le Gallie dopo la conquista, ed esse erano divenute uno degli elementi della sua politica e una delle basi del suo potere personale, così l'Italia per Napoleone.

Cesare trasforma, come Napoleone, la repubblica in monarchia, salvando quanto era salvabile delle istituzioni repubblicane, portando l'ordine e la disciplina là dove le guerre civili avevano messo l'orgasmo e il disordine. Come Napoleone, Cesare si propone una ricostruzione che nasca dall'interno, vuole rialzare tutto il tono della vita morale e intellettuale di Roma, vuol creare una forte compagine statale, vuole presentarsi come pacificatore e civilizzatore. Come Napoleone, egli si appoggia da principio sulle legioni per innalzare il proprio potere, ma supera subito questo suo primo stadio della vita politica, e allora si appoggia sul popolo e sulla borghesia, limitando l'autorità del Senato. Quella di Cesare é, come quella di Napoleone, una democrazia a larga base nella quale sono soppressi i poteri intermedi, e non é consentito ai partiti di ostacolare l'opera del potere centrale.
Come Napoleone, Cesare si preoccupa di ricostituire tutta la società, incominciando dalla famiglia, nella quale vuole riportare l'ordine e la morale: pensa anche egli a un codice che sarebbe, se potesse raccoglierlo, tutto il diritto romano, cioé la civiltà di Roma, applicabile a tutto l'impero, e capace di dare ali impero l'unità giuridica e amministrativa. Come Napoleone, Cesare s impadronisce del potere con un colpo di stato militare, ma dà subito a quel potere un carattere civile, ed egli aspira a governare non come desideri comandanti di eserciti, ma come capo civile: come l'Imperatore dei francesi, egli tenta di assorbire nel nuovo regime politico tutte le forze ancora vitali e tutti gli organi ancora utili; nessuna frattura con il passato, ma sviluppo e proseguimento del passato.
Come Napoleone, Cesare approfitta della generale stanchezza determinata dalle guerre civili, e del bisogno che tutti sentono di un ordine nuovo, che non può essere che quello monarchico. Napoleone sente e proclama l'affinità propria con Cesare, e lo considera il proprio maestro: detta le sue memorie nella forma dei Commentari di Cesare.
La spedizione d'Egitto non può che richiamare alla nostra memoria il ricordo di Alessandro, ed egli stesso, in Siria e in Egitto ricerca le tracce del conquistatore macedone, ha il senso preciso di riprenderne, a distanza di secoli, l'opera interrotta, di portare la civiltà del suo tempo là dove Alessandro aveva portato la cultura ellenica. Hanno certamente influito su Napoleone quelle parole di Alessandro e quei tratti del suo carattere, conservati dalla leggenda, che ci rivelano la tempra eccezionale dell'uomo, la vastità dei suoi sogni, l'immensità dei suoi desideri, la sua sete di gloria. Talune di queste parole, del resto quasi sicuramente leggendarie, hanno il risalto e l'intensità di certe parole non leggendarie di Napoleone, e l'immaginazione di questi ne é stata certamente colpita. «Cercati un altro regno - dice Filippo a Alessandro - la Macedonia é troppo piccola per contenere la tua sete di gloria». A chi gli chiede se voglia combattere nei giochi olimpici: «Si, se avessi per rivali dei re».
Al momento di partire in guerra contro i persiani divide tutto il suo regno fra gli amici, e a chi gli chiede che cosa riserbi a se stesso: «La speranza». Achille gli sembra felice di avere avuto Patroclo per amico e di essere stato cantato da Omero.

L'immaginazione di Napoleone ha la stessa grandezza di aspirazioni: per l'uno e per l'altro il mondo non é abbastanza grande per contenere l'ardore dei loro sogni. Hanno l'uno e l'altro, quando iniziano la carriera delle armi, lo stesso fascino di giovinezza. Il greco, perché tale, più misurato, meno impetuoso, più armonico, nel suo aspetto fisico così come nel suo spirito e nel suo genio: Napoleone, perché romano, più concreto, più aderente alla realtà, con un senso più sviluppato del possibile e del reale: tanto l'uno che l'altro imbevuti del pensiero e della cultura del loro secolo, con il senso di una missione da compiere, che é quella di abbattere il vecchio mondo che si alza davanti a loro, e di respingere la barbarie.
Napoleone che marcia contro la Russia richiama Alessandro che conquista la Persia; quando Napoleone in Egitto sogna di muovere contro l'India, é certamente spronato dai ricordi del conquistatore greco: certe parole di Alessandro ai suoi generali dubbiosi, conservateci da Arriano, richiamano in maniera che colpisce parole di Napoleone in Egitto, che ci sono state conservate da Bourrienne, da Miot, e da altri: lo stesso ardore di una immaginazione che non conosce limiti, e per la quale i confini della terra sono troppo ristretti, lo stesso bisogno di immenso: quando Napoleone vuole affrontare il deserto, andare in India per colpire al cuore la potenza inglese, poi di là risalire verso il nord, invadere l'Asia e la Russia, e prendere l'Europa alle spalle, richiama Alessandro che vuole arrivare al Gange dal quale ormai lo separa un viaggio che sembra breve al suo desiderio, e poi di là scendere verso l'oceano, attraversare il golfo Persico, invadere l'Africa, marciare contro le colonne d'Ercole, entrare nel Mediterraneo, e dopo avere sottomesso l'Africa e l'Asia, dare all'impero macedone i confini del mondo. Aegri somnia, forse, per l'uno e per l'altro: ma é interessante osservare che in Napoleone rivivono gli immensi desideri di Alessandro. Come questi aveva sognato l'unità del mondo antico, compiuta dalla sua conquista e dalla civiltà ellenica, così Napoleone sogna, compiuta dalla conquista, l'unità dell'occidente.

Alessandro é, come Napoleone, organizzatore dei paesi conquistati, vi applica la legislazione greca, vi promuove la cultura, le industrie, i commerci, porta la luce in paesi condannati alla immobilità e al silenzio, legati a un sistema politico che doveva cadere davanti a una civiltà più avanzata. Come Napoleone porta lo spirito della rivoluzione al seguito delle aquile imperiali, così Alessandro porta con se' il pensiero greco fecondato da Platone e Aristotele, fonda colonie che sono centri di civiltà e di cultura, lega per mezzo di esse l'Oriente alla Grecia, lo strappa a un sonno millenario; fu questa la sua grande missione storica, e fu ciò che rimase dell'opera sua.

Non é possibile a Napoleone trovare altri antecedenti e altre somiglianze: é unico, tutto eccezionale, tutto fuor di misura. Ciò che Cesare e Alessandro osarono contro un mondo informe e barbarico che aspettava il piede del conquistatore e la parola del legislatore, Napoleone lo osa quasi ai nostri giorni, e in un mondo civile, che non é disposto a farsi domare e asservire: ma egli agisce come spinto da una voce interiore, da una potenza alla quale non sia capace di opporsi, con la coscienza che la storia gli assegna tale missione, e ben sapendo che forse il precipizio lo attende in fondo alla strada per la quale si é messo.
In Russia egli sa di giocare una carta suprema, e che forse va incontro alla propria rovina: «Un Imperatore muore in piedi, e allora non muore... Dal sublime al ridicolo non c'é che un passo».
Una delle ragioni del fascino che ha sempre esercitato sulla umanità, é questa sua fredda chiaroveggenza, che in lui si unisce alla immensità delle aspirazioni, a una immaginazione che non mette limiti e condizioni all'ardore dei propri sogni e dei propri desideri: si ritorna così al nostro punto di partenza, alla sua ambizione.

Certo, l'ambizione lo ha spinto per la sua strada solitaria e terribile, ma é stata l'ambizione di dare al mondo un nuovo ordinamento, una nuova forma, quella che scaturiva dal suo pensiero. In realtà, strumento consapevole di una storia che lo spingeva avanti con una forza che veniva da un passato di secoli, e che egli assecondava con tutta la lucidità del suo genio.
Tutti questi elementi hanno creato la leggenda napoleonica; egli é così smisurato che anche la sua fama oltrepassa i limiti consueti alla storia, e in pieno secolo XIX si tramuta in leggenda. Non si può fare una storia della fama di Napoleone, bisogna fare una storia della sua leggenda.
La leggenda nasce dal fascino che la storia napoleonica esercita sulla immaginazione degli uomini, così come l'Imperatore avvinceva coloro che lo avvicinavano. Simile anche in questo al Macedone, Napoleone continua e continuerà a soggiogare l'umanità a distanza di secoli, e continuerà a vivere, oltre che negli innumerevoli libri di storia, in una seconda vita che é quella, favolosa, creatagli dai poeti e dalla leggenda.
Nei primi anni dopo la caduta, si assiste, ed é naturale; a una fioritura di libelli antinapoleonici.
«Quest'uomo che non era neppure francese» scriveva il poeta Fontanes, che all'Imperatore non aveva lesinato adulazioni servili quando era ancora potente. Anche Chateaubriand, nell'opuscolo che scrisse «Buonaparte e i Borboni» affermava, naturalmente a titolo di spregio, l'italianità dei Buonaparte, quella italianità che solo pochi italiani rivendicano invece con onore.

Napoleone diventa l'orco di Corsica, e non si sa quante altre cose spiacevoli e oltraggiose. Ma col passare degli anni succede una rivoluzione profonda negli spiriti, i Borboni non riescono a inserirsi nella nuova storia di Francia, e perdono rapidamente quella breve popolarità che avevano ottenuto soprattutto a causa della enorme stanchezza prodotta dai torbidi della rivoluzione dalle guerre. I demi-soldes incominciano ad elaborare e a diffondere la leggenda napoleonica: la attingono da essi i poeti colti e i poeti popolari, la figura di Napoleone lentamente si trasforma, assume quell'aspetto con il quale ormai é passata alla storia, e che é conosciuta da tutti: cappello a tre punte e cappotto grigio. La vera figura di Napoleone Buonaparte entra piano piano nell'ombra e prende il suo posto l'Imperatore, o semplicemente NAPOLEONE. Basta questo nome, così come quello di Alessandro, di Cesare, di Carlomagno, ad evocare tutto un grande periodo di storia.

Incominciano a venire alla luce i libri di memorie e le storie del Primo Impero; tutti coloro che credono di avere qualche cosa da dire, che hanno lavorato in un modo nell'altro con l'Imperatore, scrivono le loro memorie: il desiderio di leggere i ricordi dei contemporanei é tale e tanto che la produzione non basta alla richiesta, e libri di memorie si inventano in parte o per intero. Stendhal dedica la sua "Storia della pittura in Italia" «a Sa Majesté Napoléon le Grand, retenu à l'île de Sainte-Hélène », mentre Heine scrive nel 1816 "I due Granatieri" e Byron nel canto terzo del "Child Harold" dedica a Napoleone alcune strofe ch'egli immagina dettate sul campo di battaglia di Waterloo. Non é possibile qui seguire tutto ciò che il ricordo e l'ammirazione hanno ispirato agli scrittori francesi e stranieri che hanno cantato Napoleone; tutta una vasta letteratura esiste sull'argomento. Napoleone, fra il 1821 e il 1851 domina, si può dire senza timor di sbagliare, tutto il pensiero e tutta la letteratura francese. E così che si può assistere alla nascita e allo sviluppo della leggenda, a quella vasta fioritura di letteratura napoleonica nella quale si rispecchia l'ammirazione non ragionata per l'Imperatore, in Francia, in Italia, in Germania, in Inghilterra, perfino in Russia.

La rivoluzione del 1830 fu almeno in parte napoleonica, nel senso che non solo parteciparono ad essa i superstiti del Primo Impero, ma anche vi influirono molto le idee napoleoniche; perché già si parla e si discute di idee napoleoniche, e molti si chiedono che cosa l'Imperatore volle fare sul piano europeo creando l'Impero, e quali fossero i suoi disegni definitivi. C'é appena bisogno di dire che il problema non é posto storicamente, e la soluzione é quella, accessibile a tutti, che i tempi desiderano, e quale é presentata dalla leggenda: Napoleone é il difensore e il liberatore dei popoli oppressi, il padre delle nazioni, il Prometeo dell'Europa moderna.
E' un Napoleone, si direbbe, veduto attraverso Mazzini e Lamennais, il Napoleone di Mickiewicz e dei poeti polacchi. Anche gli storici seguono la leggenda, e scrivono libri nei quali il meraviglioso ha gran parte, e Napoleone é rappresentato come l'uomo dei soldati e del popolo; Thiers fu una nobile eccezione: la sua grande opera storica, per quanto, specialmente nella prima parte, dettata dall'ammirazione per l'Imperatore, pure conserva ancor oggi molto del suo valore.
Né devono essere dimenticati due onesti funzionari napoleonici, Bignon e Thibaudeau, i quali tentarono di dare alle loro opere fondamento scientifico, e scrissero libri ben documentati che sono utili anche oggi. Ma quei trent'anni rappresentano in complesso l'esplosione della leggenda, della quale Hugo, Balzac e Béranger sono gli esaltatori e i profeti.
Ci volle il colpo di stato del 2 dicembre e il Secondo Impero per mettere molta acqua su tutto quel fuoco: si assiste allora a un capovolgimento dei giudizi e alla distruzione sistematica della leggenda. Napoleone III, che volle presentarsi come il continuatore del suo grande zio, ed al quale i patrioti italiani tante volte ricorsero invano invocando proprio quelle idee napoleoniche delle quali il nipote aveva così a lungo parlato; Napoleone III ottenne un effetto contrario a quello che egli aveva desiderato, e al posto della leggenda suscitò tutta una letteratura ostile: storici o polemisti, nel primo Imperatore colpiscono e scherniscono il terzo, e la letteratura napoleonica del Secondo Impero é quasi tutta ostile a Napoleone III. In realtà egli riuscì; con la sua tirannide senza gloria, a fare odiare sé e tutti i Buonaparte, e gli storici non seppero vedere nel Primo Impero che l'origine prima della situazione impossibile creatasi in Francia. Perfino Thiers ne viene influenzato, in modo che la conclusione della sua storia é in netto contrasto con l'adesione integrale dei primi volumi; Taine e Lanfrey si dànno alla negazione ostinata e sistematica, l'uno e l'altro con grande dottrina e con grande forza dialettica: più che storia é polemica, anche se talora geniale come è il caso di Taine.

Tolstoi rientra in quest'ordine di idee: la sua descrizione di Napoleone prima della battaglia della Moskowa ha innegabilmente una forza rappresentativa meravigliosa, più dannosa alla gloria napoleonica di qualsiasi negazione ragionata.
Ma soltanto dopo il 1870 il problema napoleonico viene posto con criteri rigidamente storici, senza apriorismi e senza preconcetti. Mentre nel pubblico degli intellettuali permane, ostinata, la diffidenza (per esempio, la prima edizione del Grande Dizionario Larousse é fortemente antinapoleonico e anti repubblicano) e mentre la leggenda che non era mai scomparsa del tutto continua la sua vita nel popolo, e si moltiplicano anche fuori di Francia le edizioni delle vecchie storie di Napoleone, tutto un intenso lavoro di ricerca appassionata si esercita sulla storia napoleonica per opera di studiosi di grande valore, e non si esagera affermando che essa viene rinnovata di cima in fondo, con risultati e soluzioni diverse, ma con una genialità e una ricchezza veramente mirabili, indice della piena coscienza che s'é fatta l'età moderna della enorme portata storica del fenomeno napoleonico. 170.000 libri sono stati scritti su Napoleone !!!

Sorel, Masson, Vandal Houssaye, Driault, Chuquet, e, in tempi più vicini a noi, Madelin, Bainville, Meynier, Lefebure, e tanti altri in Francia; e, fuori di Francia, Fournier, Sybel, Kircheisen in Austria e in Germania, Lord Rosebery, Holland Rose e Seeley in Inghilterra, Lumbroso in Italia, Tarlé in Russia, hanno dedicato alla storia napoleonica lavori che non possono essere ignorati. Le soluzioni variano da storico a storico, e mentre, per esempio, alcuni, come il genialissimo Sorel (uno dei più grandi storici moderni), non vedono in Napoleone che il successore e l'erede della politica estera del Comitato di salute pubblica e il difensore eroico dei confini naturali della Francia (difesa che lo avrebbe costretto alla guerra continua contro l'Inghilterra, e quindi al blocco, e quindi all'impero), altri, come Driault, hanno visto in lui semplicemente un imperatore romano, l'erede dei Cesari e di Carlomagno; mentre il Vandal, altro scrittore mirabile, ha preferito studiare a fondo aspetti particolari della storia napoleonica, Houssaye ha rappresentato il grande dramma della caduta in pagine che certamente rimarranno, e Chuquet non solo ha illustrato aspetti particolari della storia napoleonica, e ha pubblicato lettere e documenti importanti, ma si é anche fatto lo storico della giovinezza di Napoleone, con una completezza e una ampiezza che non si può fare a meno di ammirare. Queste opere non rimanevano ristrette alla breve cerchia degli studiosi, ma avevano ampia diffusione fra gli intellettuali, e in generale nella borghesia colta; per esempio le opere di Sorel, di Masson, di Heussaye e di Vandal hanno conosciuto un successo, come si dice, di vendita e di pubblico, che é un indice sicuro del progressivo ritorno dagli spiriti al culto di Napoleone.

Attraverso quei libri la figura dell'Imperatore esercitava un fascino profondo su tutti i lettori d'Europa, poiché il loro successo non si limitava alla Francia: la leggenda acquistava nuovo impulso e nuovo vigore, a di questa sua nuova vita si facevano interpreti scrittori notissimi, anche sa di non grande valore, coma d'Esparbés, Coppée, Rostand; tutti sanno la grande diffusione dell' "Aiglon" che, pur nella sua mediocrità poetica, ha scosso a trascinato tanti pubblici d'Europa; mentre un artista coltissimo a raffinato coma Maurizio Barrés, indicava nella tomba di Napoleone, alla quale agli immaginava traessero alcuni irredenti in pellegrinaggio eroico a religioso, «la carrefour da toutes les énergies que l'on nomme audace, volonté, appétit» a nel suo romanzo "Les déracinés" dedicava a Napoleone alcune dalla più mirabili pagina cha mai siano stata scritta su questo argomento.
Intanto si moltiplicavano la edizioni di documenti inediti, soprattutto di memorie di contemporanei, taluna di alto valore storico, poche di notevole interesse letterario, tutta più o mano singolari coma documentazione o testimonianza anche soltanto aneddotica. Venivano così pubblicata la memorie di Madama da Rémusat, di Chaptal. di Thibaudeau, di Talleyrand, di Pasquier, di Norvins, a ristampata quelle di Ménaval su Maria Luisa, di Barras, dal barone Fain, di tanti altri, segno di un favore a di una curiosità parsistente a sempre rinascente. La Francia ebbe, fra il 1880 e il 1920, il culto dell'Imperatore, anche se si ha talora l'impressione che non sempre essa abbia afferrato tutto il valore a tutto il significato della storia dal Primo Impero: essa combattè la guerra dal 1914-1918 sotto i segni della gloria napoleonica e dette alla celebrazioni dal primo centenario dalla morte, nel 1921, una grandiosa solennità.

Ma anche in Italia il ricordo dell'Imperatore é sempre stato vivo a operante. La studiosa cha ha dedicato le sua indagini accurata ai canti dedicati a Napoleone dai poeti italiani d'arte a popolari negli anni che seguono alla morta di lui, ha dovuto esaminare un numero imponente di documenti poetici, troppo spesso inferiori, per merito, all'argomento, ma che sono espressione fedele dalla profonda impressione da lui esercitata sulla immaginazione dal popolo a dai singoli.
Non gli vengono risparmiata né lodi né critiche: agli é esaltato coma il restauratore dalla patria a perfino della libertà, é paragonato ai re cha opprimono l'Italia dopo il 1815, e in loro confronto é trovato gigante. «Sol nella morta agli uomini - nel resto ai numi egual» canta iperbolicamente un anonimo; Paolo Costa afferma cha «tremanti i re lo spinsero - di là dall'Oceano» e che l'umanità languente si ostinò a sperare in lui anche negli anni dell'esilio; mentre un altro anonimo dichiara di non averlo amato, poiché Napoleone non poteva essere amato dai patrioti italiani, ma di averlo ammirato come un essere di statura eccezionale. Questa é poesia colta, o che pretende di essere tale, ad esprime i sentimenti dalla borghesia letterata, ligia alla idee della rivoluzione: diversi sono i pensieri e i sentimenti del popolo, che era rimasto fedele al Papa, e aveva dovuto subire la coscrizione.

Basti un esempio par tutti: dice un epitaffio anonimo, dovuto certamente a una penna non volgare, ma che esprime il pensiero del volgo : «Qui giace un uom cha fu da' vivi un mostro - sugo e midollo del tartareo chiostro. - Abbenché tra' cristiani abbia la cuna - mai raligion conobbe o legge alcuna - Perfido, ingiusto, traditore in guerra - empì di sangue a di terror la terra ». Elogi e condanna non meditate, e come tali non hanno cha un significato episodico. Maggior interesse presenta par noi l'atteggiamento dei pensatori a degli storici. Botta, Colletta, Papi, hanno scritto libri sulla storia napoleonica, che sono rimasti e rimarranno: il loro giudizio sulla persona dell'Imperatore é equo e imparziale; anzi, nella storiografia italiana del Risorgimento si raggiunge nei riguardi di Napoleone una misura, una acutezza, e un equilibrio, che raramente si trovano negli storici francesi che hanno scritto prima del 1860. Gli storici nostri posseggono una obbiettività che deriva loro dalla posizione particolare dell'Italia durante l'età napoleonica: l'Italia deve molto all'Imperatore, ma non tutto. Ed é stata insieme aiutata e osteggiata da lui, ed é forse più quello che essa gli ha dato di quello che ha ricevuto. E' nostro dovere affermare che fra gli storici napoleonici anteriori a Thiers, Lazzaro Papi é fuor di discussione il più grande, sia per l'arte del racconto, sia per la ricchezza e la precisione delle notizie, sia per l'equilibrio del giudizio. La sua é un'opera poco invecchiata, che può essere letta anche oggi con piacere e profitto, e assai superiore a tutto ciò che é stato scritto su Napoleone in Francia e fuori di Francia fra il 1815 e il 1845; ciò non toglie che, in Francia e fuori di Francia, lo storico lucchese di solito venga ignorato, e lo ignorino di solito anche gli italiani che scrivono oggi su Napoleone, e non sia stato neanche citato da uno scrittore russo recente, il Tarlé, il quale in appendice a un libro su Napoleone, parla della storiografia napoleonica.

Ma quando l'opera del Papi fu pubblicata, ebbe subito grande diffusione fra noi, e se ne fecero in pochi anni tre o quattro edizioni, fatto sempre notevole in Italia. Negli stessi anni in cui vedeva la luce la storia del Papi, usciva a Roma, in 14 volumi, una compilazione di Erasmo Pistolesi, che é anche oggi la più ampia opera napoleonica in lingua italiana, con il titolo "Effemeridi di Napoleone Bonaparte", racconto non privo di meriti, e per quei tempi, di informazione abbastanza sicura, in cui la vita dell'Imperatore é ricostruita giorno per giorno dalla nascita fino alla morte; largo spazio vi é dato, per la prima volta, agli anni di Sant'Elena: segno anche questo della curiosità e dell'interesse che continuava a destare presso di noi la vita prodigiosa del grande italiano.
L'opera del Pistolesi é anche oggi pochissimo nota, e non é citata, ch'io sappia, né da nessun autore, né da nessuna bibliografia napoleonica. Ma gli storici e i politici del Risorgimento, ripeto, guardarono in generale con diffidenza a Napoleone, né il Secondo Impero e l'aiuto di Napoleone III poterono cambiare il giudizio; non si credeva che il Primo Imperatore volesse dare davvero l'unità e l'indipendenza al popolo italiano, e si pensava piuttosto ch'egli considerasse l'Italia poco più o poco meno di un feudo. Il Tommaseo, che si pose tante volte il problema di Napoleone, anche perché visse in Francia, in Corsica e a Venezia, dove tutto era pieno del ricordo di lui, dice di ammirarne il genio potente, ma di disprezzarne l'anima. L'Impero gli appare nulla più che un gran tramenio di popoli, di corone; e di tele dipinte. Campoformio era sempre presente al pensiero suo e di quanti invocavano con lui l'aiuto del terzo Buonaparte, al quale i patrioti veneti chiedevano nel '49 che cancellasse l'onta di quella soppressione della veneta libertà.

Del resto, scrittori e pensatori del Risorgimento, tutti presi dal problema assillante della indipendenza e della libertà, non si sono molto occupati di Napoleone: scarseggiano o mancano le opere sull'Imperatore, e dopo gli storici che abbiamo citato più volte, nessuno sembrava sentisse il bisogno di narrare, e pochi di leggere in italiano, la storia del Primo Impero; tanto più che il Thiers, il Norvins e il Laurent de l'Ardéche avevano avuto grande diffusione anche in Italia. Gli storici italiani nelle vicende napoleoniche tengono d'occhio soprattutto, ed é naturale e insieme significativo, le vicende della Cisalpina, della Repubblica italiana, e del Regno Italico: sentono che di lì é incominciata per l'Italia una nuova storia, come nelle guerre napoleoniche é rinata la virtù guerriera degli Italiani.

Così Fabio Mutinelli scrive una "Storia del regno d Italia", e Alessandro Zanoli due volumi "Sulla milizia cisalpina e italiana dal 1796 al 1814" mentre Antonio Zanolini pubblica una opera ancor oggi importante su Antonio Aldini e i suoi tempi. Il Pecchio e il Coraccini studiano invece l'amministrazione e la finanza del Regno Italico. Aspetti particolari del 1814 e della caduta del regime napoleonico in Italia vengono esaminati da altri, per esempio da G. Martini per ciò che concerne la Repubblica ligure; il Bianchi e il Carutti studiano invece la monarchia di Piemonte, mentre Cesare Cantù, prima nella "Storia di Cento anni" e poi nella "Cronistoria", fa larga parte agli eventi della storia napoleonica, e soprattutto alle cose italiane durante il predominio francese, e Carlo Belviglieri, nello stesso tempo, inizia dall'anno 1804 una sua importante "Storia d'Italia".

Ma chi, durante il Risorgimento, ha sempre presente al pensiero Napoleone, e senza dedicargli studi speciali non lascia passare occasione senza esprimere su di lui talora il proprio sdegno e talora la propria ammirazione, é il Gioberti. Per il Gioberti, naturalmente, Napoleone é italiano «perché - scriveva - la Corsica é sempre appartenuta moralmente e geograficamente all'Italia, e perché politicamente, che io mi sappia, non ha mai fatto parte della Francia, dal diluvio fino ai tempi in cui nacque Napoleone».
Nel Primato il Gioberti parla di «quella gran testa del Buonaparte» come dell'unica nell'età moderna «che abbia concepito la necessità di tentar l'unione, o - com'egli diceva - la fusione di tutti gli elementi speculativi e reali della società europea». Nel "Gesuita moderno" afferma che Napoleone é stato mandato dalla Provvidenza perché salvasse il cattolicesimo e insieme la civiltà; é questa del Gioberti una mirabile pagina che pochi conoscono, ma che non può essere dimenticata in un libro che vorrebbe anche indicare, sia pure sommariamente, come Napoleone ha influito sul pensiero italiano. Dopo avere descritto per sommi capi le condizioni di nuova barbarie nelle quali era caduta l'Europa, e ancor più minacciava di cadere per effetto delle sètte nate dalla rivoluzione francese, esalta la ricostruzione compiuta dal Buonaparte: «Or che fece la Provvidenza, mallevadrice di eternità alla civiltà come alla chiesa? Suscitò un uomo, perché anche qui, come ai tempi d'Ildebrando, la salute non poteva procedere che da una mente unica. E benché lo scegliesse di animo, di genio, d'ingegno squisitamente italico, poiché si trattava di sovvenire non solo all'Italia, ma all'Europa meridionale, non volle che fosse di una lingua sola, ma di molte, e come dir poliglotto; e lo elesse italogallo, facendolo nascere in una isola nostrale e da famiglia italiana antichissima, ma nel punto che quella accoglieva' l'insegna francese: lo educò in Francia, cagione della sua fortuna, ma lo fregiò dei primi allori in Italia, centro precoce della sua gloria... ».

Bisogna rileggere tutta questa pagina, nella quale Napoleone é detto, con argomenti più solidi di quelli di Nietzsche, «non solo francese e italiano, ma europeo»; nella quale egli é esaltato soprattutto perché «cattolico per istinto non meno che per interesse, rialzò gli altari della fede romana; riavvezzò gli spiriti indisciplinati alla maestà dei riti, all'autorità del comando, all'unità del governo, alla gerarchia dei meriti e dei gradi sociali... Recò le idee salutari dovunque giunsero le sue armi trionfali, segò le montagne con vie comode e spaziose, arricchì di forti le spiagge, accrebbe la comunione morale dei popoli, avvalorò le tendenze unificative di Europa, e infuse nella tela politica, nell'amministrazione civile, nella strategia militare medesima, il genio unitario e acuminato del cattolicismo; quel genio cui dopo il gran papa del secolo XI, nessuno ebbe al pari del Buonaparte: degno di essere salutato come l'Ildebrando secolare e guerriero dell'età moderna. E perciò nell'epoca più bella del suo potere fu sommo riformatore; ma riformatore sapiente, che non crea se non cose durabili, e sa conoscere la capacità e come dire la tenuta dei tempi, per adattar loro le proprie opere, e non addossare ai presenti un carico che non siano in grado di portare e di tramandare alle prossime generazioni. Il cielo insomma, creando Napoleone, ristoratore della religione cattolica e della cultura, confermò in modo cospicuo la divinità di quella parola: et portae inferi non praevalebunt adversus eam ». Pagina mirabile, che compendia tutto quello che gli uomini migliori del Risorgimento italiano pensarono e sentirono verso Napoleone, quando si posero il problema di lui fuori d'ogni polemica, con mente serena.

Questo Napoleone italiano, restauratore, con il cattolicesimo, della civiltà europea, e unificatore dell'Europa, esaltato con tanta eloquenza da un grande pensatore italiano dell'Ottocento, é quello che a noi sembra rendere meglio l'immagine sua quale é stata tramandata dalla storia.
Per Gioberti, dunque, come per Nietzsche, Napoleone é europeo; per il poeta-filosofo tedesco anzi egli é un buon europeo: buono perchè, fra l'altro, egli ha inaugurato, a suo dire, una età classica della guerra; ma noi sappiamo che per Napoleone la guerra non fu mai fine a se stessa, ma fu soltanto un mezzo: anche qui il pensatore italiano ha visto più giusto e più addentro del tedesco, quando ha appunto sostenuto, nel tomo quarto del Gesuita moderno, che la lode delle armi «non può essere suprema se non é ordinata al servigio delle idee» ed ha affermato che «i più lodati degli ultimi secoli furono quei duci che combatterono per una causa nobile, o che furono ad un tempo riformatori di stati e di nazioni, come il gran Federigo e il Buonaparte, soli comparabili agli eroi della antica tempra, perché in essi l'arte militare fu un semplice mezzo, non fine ultimo, né unica professione».

Noi questa definizione di europeo, e anche di buon europeo, possiamo accettarla, ma dandole un contenuto ed un significato assai più vicino al pensiero del Gioberti che a quello di Nietzsche. Buon europeo nel senso che tentò di dare unità a una Europa che era stata travagliata, quando egli ne iniziò la conquista, da secoli di distruzione e di guerre, e che era ancora disunita nei suoi elementi costitutivi, minata nelle sue forze vitali, e cercò di stabilire in Europa un ordinamento durevole. All'Europa dell'equilibrio, che é un'Europa di competizioni, cioé un'Europa senza pace, in eterna lotta con se stessa, senza vero equilibrio, minacciata di distruzione da disordini e rivoluzioni sociali che egli oscuramente presentiva, e delle quali temeva l'avvento, tentò di sostituire l'Europa dell'impero, cioé un'Europa gerarchicamente costituita, l'Europa della unità.

Non, come taluni hanno detto, gli Stati Uniti d'Europa, poiché questi presuppongono una accettazione libera della unione, che ai primi dell'Ottocento sarebbe stata impensabile, e che a Napoleone doveva apparire utopistica e irrealizzabile, e, anche se attuabile, un artificio imbelle e di vita precaria; poiché non dobbiamo dimenticare che Napoleone fu uomo di guerra e soldato, ed ebbe, come tale, il culto della forza, e fede nella virtù costruttiva della spada, e attribuì alla forza possibilità smisurate, e credé nella moralità della guerra, del sangue sparso per una causa che egli definiva giusta: e nulla fu più lontano dal suo pensiero che le ideologie pacifiste e umanitarie.
Tentò al contrario di istituire il regno della forza, la quale doveva diventare strumento di governo, e dirigere, nelle mani del capo dello Stato, tutta la vita civile e i rapporti fra le nazioni. Non dunque gli Stati Uniti d'Europa, ma un vasto e forte sistema di alleanze coatte (quello che egli chiamava il suo sistema continentale) più durature a suo giudizio delle alleanze spontanee, una immensa federazione sotto l'egemonia della Francia, nazione più civile e più guerriera delle altre, e quindi più degna delle altre di farsi maestra e signora dei popoli.

Ma questo concetto, nel quale si compendia tutta la politica estera napoleonica, noi possiamo affermare che in ultimo rimase senza effetto e fallì: egli non si rese conto che il problema del secolo era la ricostituzione delle nazioni nei loro confini etnici, linguistici, geografici e culturali, quei confini che la proclamazione dell'Impero, con la necessità della egemonia francese e il culto della forza, lo costringeva a violare di continuo. Volle dare al nuovo ordine europeo l'antica forma dell'Impero con un contenuto tutto nuovo e rivoluzionario, che era in antitesi con essa, e che quindi non poteva adattarvisi; di qui una contraddizione intima che minava il sistema alla base e che non gli avrebbe mai permesso di continuare, anche se l'Impero avesse potuto consolidarsi.

Ma l'uomo aveva una così eccelsa statura intellettuale, ed era un così formidabile costruttore, che, anche battuto, fecondò l'Europa, la rinnovò dalle fondamenta, e la ricostituì, per quanto in una direzione del tutto diversa da quella che egli aveva sperato. La rinnovò con le sue istituzioni, con le sue leggi, col suo pensiero, che era poi in gran parte il pensiero del movimento rivoluzionario dal quale egli era uscito: la rinnovò anche con le sue azioni militari, obbligandola a prendere le armi, costringendo i popoli a farsi guerrieri e a combattere per una causa che non era più soltanto quella dei re, ma era anche la causa della loro patria (vedi in Italia dopo Caporetto), cioé la causa popolare per eccellenza.

Le guerre imposte da lui diventarono guerre nazionali, ed ebbero presso i singoli popoli un potere fecondatore e vivificante. La spada ch'egli aveva impugnata, a lungo andare si rivolse contro di lui, poichè egli stesso aveva insegnato agli uomini a diventare cittadini e soldati, li aveva chiamati a una nuova coscienza, a una nuova dignità, che é oggi la nostra dignità comune, la dignità dei popoli e delle nazioni.

Come nel Rinascimento si era avuta una dignitas hominis, così si ebbe, per effetto di Napoleone, ed ancora si ha, una dignitas patriae, una dignità nazionale. Per questo l'Europa contemporanea, la quale cerca ancora ansiosamente il proprio ordinamento e la propria gerarchia, é sempre per tanta parte una Europa napoleonica; ed anche per questo la figura dell'Imperatore esercita ancora tanto fascino e attira con tanta forza l'indagine dei pensatori e degli storici: i suoi problemi sono ancora i nostri, noi cerchiamo ancora le soluzioni che egli cercò; noi tutti sentiamo di dovere a lui qualche cosa.
Tale é, se non erro, il significato profondo della storia di Napoleone, e tale è il posto che occupa nel mondo moderno il suo tentativo di impero.

"L'Europa non è più una tane di talpe..." diceva allora Napoleone.
Ma sembra che gli europei -di oggi- non hanno ancora capito che continuando a litigare, faranno un'altra volta nascere un "impero" governato da una potenza straniera che non è europea.
Non hanno capito! eppure già nel 1914-1918, tutti i belligeranti europei nell'incapacità di mettersi d'accordo, erano già usciti dal conflitto tutti sconfitti, causando così uno spostamento della potenza continentale.
Siamo oggi nel 2000! Eppure sembra che dobbiamo dar ragione agli americani quando dicono "Siamo alle solite, alla vecchia Europa". Cioè alle "liti di comari". Con la Germania e la Francia da una parte, e l'Italia dall'altra, mentre la faticosa marcia per una vera unione europea politica è appena iniziata, ma non compiuta, dopo duecento anni di gestazione.

"... L'Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune... Tale unione dovrà venire un giorno o l'altro per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato,  e dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la lega dei popoli". (Memoriale di Sant'Elena)

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