ISLANDA 
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IL RUOLO DELL'ISOLA NELLA 2nda GUERRA MONDIALE

Islanda 1933-1940

Inglesi in Islanda
La mossa di Churchill e la battaglia del Nord Atlantico

di Edoardo Cicchinelli

Per comprendere meglio quale fu il ruolo dell’Islanda durante la Seconda Guerra Mondiale sarà opportuno cominciare a considerare gli eventi dal decennio precedente lo scoppio del conflitto. Come abbiamo visto, raggiunto un compromesso soddisfacente per quanto riguardava la questione dell’indipendenza, gli islandesi si volsero alle loro questioni interne; ma a questo punto furono le grandi potenze europee a bussare alla porta del piccolo paese subartico.

A partire dal 1933 i tedeschi aumentavano le loro attenzioni verso Islanda, mentre gli inglesi sembravano non dar peso a questa attività e continuarono i loro rapporti politici all’insegna della normalità. La vocazione puramente continentale della Germania ed i rapporti di lunga data fra Islanda ed Inghilterra sembravano dare a quest’ultima la convinzione che i tedeschi non avrebbero mai potuto intervenire sugli equilibri della regione: solo nel Novembre 1933 vi è il primo rapporto di un qualche interesse del console inglese a Copenaghen (essendo ancora una colonia, a Reykjavik vi era solo un distaccamento dell’ambasciata britannica presso la Danimarca): sir Hugh Gurney notava che la situazione dell’isola andava complicandosi per via di un fastidioso sviluppo del nazismo fra i giovani della capitale. Apparso in forme organizzate all’inizio dell’anno, il neonato Partito Nazionalsocialista Islandese di Gisli Sigurbjorson tentava di ottenere rispettabilità politica legando il suo credo ad un programma nazionalista ed indipendentista.

Fu il maresciallo Italo Balbo che diede la prima prova di come il valore della regione stesse cambiando. Già nel 1931 il comandante italiano aveva concluso una traversata storica, da Orbetello a Rio de Janeiro in 7 tappe. Nel 1933 si pensa ad una impresa spettacolare: la “Grande Crociera del Decennale dell’Era Fascista”, un raid aereo dall’Italia a Chicago e New York e ritorno. La mattina del 30 giugno del 1933 Balbo, alla guida degli “Atlantici” (così vennero ribattezzati dal regime i componenti della spedizione) comanda il decollo di 24 idrovolanti modello Siai Marchetti S55 – X, appositamente modificati; fecero scalo a Reykjavik il 5 luglio successivo; gli islandesi si resero finalmente conto, forse con un po’ di inquietudine, di come i nuovi mezzi tecnologici potessero rivoluzionare la loro esistenza.

Alle elezioni del 1934 il Partito Nazista Islandese raccolse pochi voti e non ottenne rappresentanza parlamentare, eppure divenne oggetto di più seria osservazione. Prima di inoltrare il resoconto annuale per quell’anno, sir Gurney chiese alla delegazione di Reykjavik un dossier sul partito. L’ufficio redasse un documento tranquillizzante: si ribadiva che il partito non si presentava come asservito alla Germania, delineandosi piuttosto come spiccatamente antidanese ed indipendentista. Comunque gli iscritti, anche se supportati dalla colonia tedesca, erano troppo pochi per esercitare una qualche influenza significativa. Di tutt’altro avviso era invece Howard Little, lettore di Inglese presso l’università di Reykjavik, nonché giornalista del Manchester Guardian. Dalle pagine del suo giornale, egli ribadiva come l’assenza di qualunque difesa sull’isola la poneva a rischio insurrezione. A suo dire in Islanda abitavano non meno di 500 tedeschi, quasi tutti giovani uomini, perfettamente in grado di sgombrare il campo in attesa dell’arrivo di un contingente armato vero e proprio. Il “Northern Department” degli affari esteri di Londra (Foreign Office) , dopo le necessarie verifiche, riscontrò l’infondatezza di queste asserzioni, evidentemente esagerate, e non tardò ad etichettare Little come un allarmista.

Anche se non si rivelo’ una buona fonte di informazioni, questo zelante professore ebbe il merito di attirare le attenzioni dell’intelligence inglese sull’isola e, nell’Ottobre 1936, il ministero degli esteri assegnò all’Islanda una sede diplomatica autonoma; venne nominato console John Bowering e Londra, oltre a compire un gesto ben gradito dai locali, dava prova di un nuovo e più attento interesse.
Dall’aprile del 1937 Bowering fu in grado di presentare i primi dossier approfonditi. La sua attività fu rivolta soprattutto a tenere d’occhio i tedeschi; Bowering sembrava piuttosto scettico riguardo la presenza di agenti tedeschi nel paese, anche perché vi era ben poco su cui esercitare le tradizionali attività di servizi segreti.
Il partito nazista o, più in generale, attività germanofile, erano invece temi più interessanti: il partito rimaneva senza dubbio piccolo, ristretto a parte della gioventù borghese della capitale e praticamente inesistente nel resto dell’isola, eppure come già Little aveva fatto notare, un paese privo di qualunque protezione era una facile preda.
Un mese più tardi il “Foreign Office” intercettò un piano tedesco per la penetrazione nelle isole Faroer; il rapporto dei servizi segreti militari venne girato al console, che ricevette ordine tassativo di sorvegliare qualunque attività potesse essere messa in relazione con tale manovra.

In generale però Bowering non sembrava particolarmente allarmato, e le elezioni del Giugno 1938 sembravano dargli ragione: i partiti di sinistra riportarono una vittoria netta, il partito conservatore, l’unico che poteva essere soggetto a qualche convergenza con i nazisti, perse 3 seggi, mentre i nazionalsocialisti riportavano un pessimo risultato rispetto alle elezioni del 1934, e rimasero non rappresentato in parlamento.
Il biennio ‘38-’39 vide un incremento di iniziative tedesche, sia pubbliche che private, per tentare di rafforzare i legami fra i due paesi.
Nella primavera del 1938, un gruppo di piloti tedeschi giunse sull’isola per propagandare lo sviluppo dell’aviazione sportiva. L’ambasciatore Bowering non mancò di notare nel rapporto datato 15 luglio 1938 come l’iniziativa tedesca potesse benissimo celare una attività di ricognizione del suolo islandese, per individuare quali potessero essere le zone migliori per manovre di atterraggio e decollo. Il caso del suicidio di uno dei tedeschi suscitò poi molta inquietudine, poiché dalle indagini emerse l’appartenenza del pilota al corpo delle SS.

Nel 1939 il presidente dell’associazione islandese di volo e deltaplano ricevette la visita di un funzionario degli esteri britannico. Berlino si era mostrata oltremodo generosa, offrendo personale per lezioni di volo gratuite, e Londra si era giustamente insospettita. Sebbene i vertici dell’aeroclub negavano qualunque implicazione politica nelle loro attività, era chiaro che i tedeschi avevano instaurato un rapporto di amicizia e collaborazione (tra l’altro il club riceveva regolarmente le riviste tedesche “Luftwelt” e “Luftreise”).
Lo sport fu un altro campo in cui i tedeschi portarono avanti quest’opera di amicizia interessata. Il 20 Ottobre 1938 il quotidiano Morgunblaðid (il principale giornale, filo-conservatore) riportò un’intervista a Gisli Sigurbiornson, leader del partito nazista islandese ed intermediario fra l’associazione sportiva giovanile islandese e l’omologa tedesca. Gisli annunciò con soddisfazione che l’unione dei clubs di calcio tedeschi aveva invitato due squadre islandesi ad una tournée in Germania e suggeriva di ripetere l’esperienza l’anno successivo a ruoli invertiti. Un allenatore tedesco ed il suo staff tecnico veniva quindi mandato in Islanda per l’estate successiva a mettere a disposizione delle squadre locali competenza e prestigio.

Le visite fra i due paesi vennero poi facilitate e reclamizzate. Già nel 1936 almeno 200 islandesi visitarono la Germania per le olimpiadi, mentre nel 1938 il console tedesco in Danimarca, Herr Cecil von Renter-Fink venne in visita ufficiale, non solo nella capitale, unico centro politico ed economico dell’isola, ma anche in altre zone periferiche pressoché prive di importanza.
Il rapporto di fine anno del 1938 del consolato britannico è però ancora fermo su posizioni rilassate. Bowering sosteneva che tutti i tentativi tedeschi di simpatizzare con l’opinione pubblica islandese erano sostanzialmente falliti: troppo chiaro infatti sembrava essere il doppio fine, e questo alimentava insormontabili sospetti.
Quando a partire dal marzo 1939 si sparsero le voci di un interesse tedesco per avviare un negoziato concernente diritti di transito aereo della Lufthansa, i comunisti islandesi iniziarono dalle pagine del loro giornale Þjòðviljinn una massiccia campagna antitedesca. Per l’estate era anche prevista la visita nella capitale dell’incrociatore Emden e la concomitanza degli eventi sembrava voluta.

La risposta del mondo politico fu però ferma e niente affatto intimorita. In quel periodo il parlamento era riuscito a formare un governo ad amplissima maggioranza composto da Partito Popolare, che deteneva la leadership, Conservatori e Socialdemocratici, per un totale di 44 seggi, mentre all’opposizione solo tre deputati comunisti e 2 del “partito degli allevatori”. Nel discorso all’Alþing del 17 Marzo 1939, il primo ministro Hermann Jònasson confermò la visita della delegazione tedesca, ma considerò tutta la questione con toni pacati. La Germania era una nazione amica, e quindi non doveva suscitare alcun timore che un incrociatore scortasse i loro pescherecci; il governo però considerava inopportuno concedere diritti aerei alla Lufthansa. In quella sede Jònasson si disse deciso anche a porre sotto controllo statale le spedizioni scientifiche che andavano susseguendosi con sempre maggior frequenza.
La proposta Lufthansa venne quindi rifiutata ufficialmente sulla base di semplici argomentazioni: vista la situazione internazionale il governo non aveva intenzione di concedere alcun diritto aereo a compagnie straniere, dal momento che, tra l’altro, era in programma il varo di una compagnia di bandiera nel giro di pochi anni.
La stampa filo-governativa appoggiò le mosse del parlamento, ed anche la visita dell’incrociatore Emden non ebbe alcun effetto sui rapporti fra i due paesi; i comunisti, che avevano portato avanti una campagna denigratoria nei confronti dei tedeschi attraverso le pagine del loro giornale Þjòðviljinn, vennero accusati di aver sollevato inutili allarmismi.

E’ indubbio però che il paese andò scivolando verso un clima di attesa: in Europa la situazione era precaria ma gli elementi governativi sapevano che l’Inghilterra (che aveva esercitato qualche pressione già durante l’affare Lufthansa) si sarebbe opposta ad una ingerenza tedesca nell’isola. Eppure gli islandesi non volevano inimicarsi una grande nazione europea sulla base di campagne giornalistiche. I comunisti d’altro canto si ritagliarono il ruolo di “cani da guardia” in difesa degli interessi nazionali contro gli stranieri (ruolo questo che avrebbero mantenuto a lungo anche dopo la guerra), il che gli valse anche molte simpatie di non comunisti
La Germania sembrava comportarsi in modo sempre più spregiudicato (i marinai dell’Emden marciarono braccio a braccio con simpatizzanti islandesi per le vie della città, cantando marce naziste), mentre Londra osservava ancora senza intervenire. La posizione del console Bowering era chiara: i tedeschi non facevano proseliti in Islanda, e da Reykjavik la prospettiva di un coinvolgimento in una guerra europea appariva come sempre remota. Ciò che rendeva però delicata la questione era l’assenza di qualunque difesa dell’isola: un gruppo sovversivo organizzato in poche mosse avrebbe potuto rovesciare il governo, quindi il problema non si risolveva vigilando sul Partito Nazista Islandese.

Abbiamo accennato che nell’ultimo anno di pace le attività tedesche assunsero forma di spedizioni scientifiche. L’incremento vertiginoso e sospetto di queste ricerche, ora meteorologiche, geologiche o anche antropologiche, spinse il governo islandese a varare la già citata legge secondo cui ogni attività scientifica doveva ottenere una approvazione statale, nonché la supervisione di un apposito organo scientifico islandese. Oltre al desiderio di mantenere un certo controllo su queste ricerche, a spingere il governo su posizioni più guardinghe erano stati diversi segnali inquietanti: il quotidiano danese “Politiken” ad esempio nel febbraio 1939, riportava un articolo secondo cui Himmler, leader storico delle SS, aveva incaricato una équipe di antropologi di investigare i legami fra i popoli vichinghi e germanici; si apprese con lo stesso scetticismo che nell’esposizione culturale di Libniz dell’ottobre del 1939, organizzata dalla “Deusche Kulturpolitische Gesellschaft und Insitut fur Auslandkunde” era stato allestito un padiglione sulla vita e cultura islandese, e sulle relazioni fra Germania ed Islanda; una credenza pseudoscientifica infatti mirava a dimostrare la presunta purezza del popolo islandese, e ciò riscuoteva un certo interesse in ambienti nazisti.
Nel marzo del 1939 l’Ammiragliato Britannico ricevette un dossier del professor William Tennant del “Queen’s College” di Cambridge; di ritorno dall’Islanda si disse molto disorientato da quanto aveva visto della spedizione voluta da Himmler. Innanzitutto il capo ricerca e la sua équipe sembravano scarsamente qualificati per il progetto assegnatogli. In secondo luogo, la spedizione si era diretta nelle regioni nord occidentali, ricca di profondissimi fiordi e porti naturali, quando era noto a tutti che il centro delle attività storiche e culturali del popolo islandese era sempre stata nel sud e nel sud ovest. Riporto’ inoltre alcune esperienze personali: mentre viaggiava nel nord e nell’est del paese spesso la popolazione locale gli chiedeva se fosse un cartografo tedesco.

Il consolato germanico era ovviamente un osservato speciale. Il collega di Bowering al tempo del suo insediamento era il professor Timmerman; dottore in ornitologia, si era pienamente inserito nel tranquillo ambiente di Reykjavik e non era mai sembrata persona particolarmente pericolosa. Nel Maggio del 1939 venne però sostituito da una figura ben più incisiva ed intraprendente, Werner Gerlach, arrivato con il prestigioso titolo di console generale. L’intelligence militare e l’ambasciata inglese a Berlino redassero presto le loro schede: Gerlach aveva insegnato patologia all’università di Basilea fino a che il governo del cantone svizzero non lo aveva rimosso dal proprio ruolo per le sue attività sovversive di stampo nazista. Il processo si chiuse però con l’assoluzione, ed egli partì per Berlino. Londra era certa che Gerlach fosse stato già in Svizzera un agente del consolato tedesco a Zurigo, anche per le informazioni fornite da colleghi inglesi che avevano lavorato presso le medesime università.
Bowering aveva un ambizioso e zelante collega nella solitamente placida e calma vita diplomatica di Reykjavik. Nel 1939, un funzionario del “Northern Department”, F. Gage, ufficialmente in vacanza sull’isola, ebbe un giro d’incontri con personalità islandesi; ministri e docenti universitari parlavano di Gerlach come di una persona piacevole e particolarmente attiva nel suo lavoro, che si intratteneva spesso con l’ambiente accademico, che era riuscito a unificare la comunità tedesca presso il consolato e che aveva a lungo viaggiato nel paese.

Durante il periodo pre-bellico anche leve commerciali vennero abilmente mosse da Berlino. Gli inglesi sembravano non poter fronte alla crescente dipendenza delle merci islandesi dai mercati tedeschi per una condizione oggettiva: le esportazioni islandesi, pesca ed ovini, erano spesso in competizione con i prodotti inglesi, e quindi l’Inghilterra non poteva assorbire oltre una certa soglia. La cronica debolezza del commercio islandese venne ulteriormente inasprita dalla guerra civile spagnola, sottraendo un altro mercato importante; la Germania era quindi nella condizione di sfruttare al meglio la situazione. Il commercio dell’Islanda e della Danimarca con la Germania era ormai una crescente necessità, e tra il 1935 ed il 1938 la spesa tedesca in merci islandesi era quasi raddoppiata.
Anche se l’Inghilterra rimase per tutti gli anni trenta il primo partner economico, il commercio con la Germania era meglio diversificato e si orientava su beni d’uso comune: mentre i prodotti inglesi erano principalmente attrezzature navali, la Germania forniva materiale da costruzione, medicinali e attrezzature elettriche.
Con estrema accortezza Berlino riuscì a chiudere una serie di tre accordi, nel 1937, ’38 e ’39, per l’acquisto di pesce islandese. Il primo accordo era piuttosto favorevole, proponendo dei prezzi di acquisto generosi e con lo scopo di far nascere un legame. L’anno successivo le quote di commercio vennero ritoccate al ribasso, ed infine nel 1939 non solo vennero sollevate le limitazioni del ’38, ma entrarono a far parte degli scambi anche quei prodotti che prima ne erano rimasti fuori (pesce surgelato ed il pesce in scatola). Questa sorta di elastico commerciale venne posto in essere proprio quando l’Inghilterra non aveva la possibilità di incrementare le sue importazioni.
Ogni islandese di buon senso capiva che dietro la “generosità” tedesca si nascondevano malcelati interessi, e il primo ministro Hermann Jònasson, nelle conversazioni con il già citato Gage, considerava offensiva la spregiudicatezza tedesca; eppure cominciava a prendere consistenza il timore che l’Inghilterra in realtà non era più in grado di contrapporsi efficacemente ai tedeschi.
Londra adottava una rigorosa politica liberista, ed era poco incline a concedere agli islandesi un trattamento privilegiato, tuttavia seguire l’esempio tedesco avrebbe forse portato qualche vantaggio. Ad una prima analisi poteva sembrare necessario un console generale attivo ed energico, nonché stretti legami con l’università, per dare modo ai servizi di piazzare un loro uomo come lettore d’inglese. Attività dispendiose, come l’istituzione di un servizio aereo fra le due nazioni, o un programma di realizzazione di infrastrutture della capitale, sarebbero state certamente utili.
L’Inghilterra tuttavia, con la freddezza che spesso la contraddistinse, scelse un’altra strada. La Germania poteva anche aumentare la propria influenza economica in Islanda, ma per capitalizzare militarmente i propri investimenti, i tedeschi avrebbero dovuto passare sopra la Royal Navy, che sembrava ancora la migliore flotta in Europa.

Tra lo scoppio della guerra nel settembre del 1939 e l’arrivo delle prime truppe inglesi nel maggio del 1940, la situazione resto’ quasi immutata. Gerlack non si mosse da Reykjavik, mentre le visite militari cessarono in virtù della neutralità islandese.
Quando la situazione in Europa venne modificata dalle vittorie tedesche, l’Ammiragliato britannico si mosse verso posizioni molto più allarmate. L’ago degli equilibri europei cominciava a pendere pericolosamente verso Hitler, ed a questo punto Londra era decisa a imporre a Reykjavik una collaborazione forzata con alcuni punti assolutamente intrattabili: gli inglesi avrebbero negato alla Germania qualunque accesso all’isola; anche le missioni scientifiche vennero interrotte, ed il blocco navale imposto dalla Royal Navy chiuse il commercio. Reykjavik, consapevole della gravità della situazione, poneva solo due condizioni: che il nuovo assetto non fosse lesivo dei propri interessi commerciali, e che ogni accordo fra le parti fosse “unofficial”, per non coinvolgere il governo direttamente. Ciò che gli inglesi non riuscirono ad ottenere (se non con la successiva occupazione), fu la rottura diplomatica e l’espulsione di tutti i tedeschi dall’isola. Reykjavik infatti riteneva questo passo in netto contrasto con la politica di neutralità.

Nel giugno del 1939 la questione islandese venne discussa dal Comitato di Difesa Imperiale inglese; il tentativo di penetrazione in Islanda da parte dei tedeschi era un serio pericolo, in quanto poteva creare l’accerchiamento delle isole britanniche ed eludere il blocco navale.
Era ovvio però che bisognava ripensare completamente il rapporto fra Inghilterra ed Islanda: se quest’ultima avesse interrotto i rapporti commerciali con la Germania, la sua già debole economia ne sarebbe stata seriamente danneggiata. Tra l’Ottobre ed il Dicembre del 1939 si aprirono quindi una serie di incontri “informali” tra le delegazioni dei due paesi. Gli islandesi avrebbero voluto mantenere il commercio con la Germania ad indici fissi, ed incrementare quello con gli stati scandinavi. I britannici furono fermi e decisi nel rifiutare il primo punto, accettarono il secondo e concessero anche il commercio (di beni non strategici) con Belgio, Olanda, Svizzera ed Italia, nonché la possibilità di avviare accordi commerciali con USA, repubbliche centro e sud americane, Spagna, Portogallo ed altre nazioni, da determinare in seno ad una commissione congiunta (29 Dicembre 1939).
La Gran Bretagna accettò inoltre di aprire i propri mercati alle importazioni di carne e pesce, fornì quei beni precedentemente importati dalla Germania (il 46% di ferro ed acciaio, carta ed affini, 52% delle importazioni di materiale chimico) e dovette assorbire le esportazioni.
Questi accordi vennero negoziati mentre l’Inghilterra poneva in essere un tradizionale blocco navale ai danni della Germania.
Nonostante i termini degli accordi appena pattuiti, il 6 Gennaio 1940 l’Islanda protestò ufficialmente; il motivo di irritazione stava nel fatto che la natura “unofficial” degli accordi non metteva al sicuro il paese, ormai un potenziale oggetto di rappresaglia. Gli Inglesi si aspettavano questa reazione, ed appena tre giorni prima, la questione era stata anticipata dal “War Cabinet”. Lord Halifax, da politico sottile e accorto, sostenne la necessità di presentare al governo islandese una nota confidenziale in cui Sua Maestà dava tutte le garanzie per la protezione delle navi islandesi e un intervento forte e diretto in caso di invasione tedesca. Tale nota, consegnata il 17 Gennaio, lasciò spiazzati gli islandesi che non avevano mai richiesto ne sottinteso un intervento militare sul territorio.

Dai primi giorni di Gennaio fino al Maggio, data dell’effettiva occupazione, tutte le branche dei servizi segreti esprimono pareri concordi: l’Islanda e le Faroer si trovano in una posizione strategica che non può cadere in mano nemica, ma soprattutto, in caso di attacco tedesco alla Scandinavia, stabilire delle basi in Islanda diventava necessario. E’ noto che un simile evento non tardò a verificarsi, e durante l’Aprile 1940 truppe tedesche entrarono in Danimarca e Norvegia. Con la Germania vittoriosa in Nord Europa, si imponeva lo slittamento della linea del blocco navale più a nord-ovest.

Quando Hitler ordinò l’invasione di Norvegia e Danimarca, il trauma fu notevole; l’Islanda era ancora formalmente una colonia e la possibilità di soffrire la stessa sorte dei fratelli scandinavi non era più solo teoria. In un editoriale dell’edizione speciale proprio del 10 Aprile, “l’ora fatale”, il giornale conservatore Morgunblaðid consta con delusione che la politica di neutralità era fallimentare in quanto non rendeva alcuna protezione di fronte alle grandi potenze. Il Þjòðviljinn, comunista, denunciò invece l’ingresso dei britannici alle Faroer; in un’ottica ai limiti della xenofobia, questi ultimi, più che i tedeschi, erano i veri nemici, e polemicamente si interrogava su quanto sarebbe passato prima di scorgere navi britanniche all’orizzonte.

10 Maggio 1940, una strana invasione

Alle prime ore dell’alba navi da trasporto truppe entrarono nel porto di Reykjavik; sebbene una decisione di questo tipo era prevedibile, la popolazione locale per ore non seppe con chiarezza se si trattasse di soldati britannici o tedeschi.
Comandante delle operazioni venne nominato il colonnello Sturges, alla guida di un contingente di 40 ufficiali e 775 uomini di truppa distaccati dalla Royal Navy “brigata 101” con artiglieria di supporto, oltre un gruppo dei servizi segreti. Sturges aveva ricevuto l’ordine di occupare e difendere la capitale e l’insenatura naturale di Hvalfjordur (poco a nord di Reykjavik e considerata fruibile come base navale), oltre che di prendere possesso dei campi aerei dell’isola.
La decisione di dar vita a quella che fu, a tutti gli effetti, una occupazione aveva chiare implicazioni strategiche. Le isole Faroer non potevano assicurare, stando alle considerazioni del Segretario dell’Ammiragliato Britannico Mr. Phillips, una sufficiente base logistica per mancanza di condizioni ambientali favorevoli. Inoltre, qualora l’Islanda fosse stata invasa da truppe tedesche, i britannici avrebbero necessariamente dovuto contrattaccare, trasformando l’isola in un nuovo campo di battaglia. L’ammiragliato considerava indispensabile una base aerea e di rifornimento navale nella regione; le isole Faroer seppure anch’esse di una certa importanza, a causa delle ridottissime risorse, non avrebbero potuto far fronte alle esigenze di un contingente militare che poteva assumere dimensioni notevoli.

Acquisita la consapevolezza della necessità di installare in Islanda infrastrutture militari e di entrare in possesso di un nodo vitale per l’intera regione, i vertici britannici erano di fronte ad un bivio; avrebbero potuto negoziare una alleanza con gli islandesi, procedendo quindi secondo i canali politici e diplomatici, come già era stato fatto per esautorare l’influenza economica tedesca nell’isola; oppure avrebbero potuto procedere militarmente e senza preavviso. Entrambe le posizioni avevano dei pro e dei contro: il negoziato rischiava di allungare i tempi, visto che gli islandesi erano fermi su posizioni di una neutralità quasi esasperata. Una invasione invece avrebbe fatto perdere prestigio agli inglesi, che rischiavano di essere accusati di aver agito esattamente come le truppe di Hitler in Danimarca e Norvegia.

La decisione venne presa ai primi di Maggio quando Winston Churchill informò il “Gabinetto di Guerra” che l’invasione era la strada da preferire; il governo islandese non avrebbe volontariamente permesso alcun dispiegamento di truppe e, qualora gli inglesi si fossero attardati in discussioni di questo tipo, rischiavano di essere disturbati o addirittura anticipati dai tedeschi. In questi primi mesi di guerra, visti gli spettacolari successi, l’apparato militare germanico sembrava davvero in grado di portare a termine con successo qualunque iniziativa; questo “atteggiamento psicologico” degli inglesi fece pendere la decisione per una invasione. Insieme al contingente militare però sarebbe partito anche un nuovo staff diplomatico, presieduto dal nuovo console Smith, con il delicato compito di evitare la spaccatura con il governo islandese e far capire che l’intervento britannico, lungi dall’essere un atto di guerra contro una nazione indipendente, mirava alla salvaguardia della libertà dell’Islanda contro una Germania il cui arrivo sembrava imminente.

La mattina del 10 Maggio truppe e civili vissero una situazione paradossale. Quasi nessuno fra i soldati aveva visitato l’isola in precedenza, e pochi comunque ne avevano una idea chiara; i locali invece non sapevano chi fossero i nuovi venuti. Pochi giorni prima, il tenente Douglas Haig Thomas aveva preparato una scheda informativa sul paese: un deserto di lava coperto di muschi e licheni la cui popolazione, al contrario delle credenze abituali, non era costituita da eschimesi ma era di chiara origine europea. In allegato alla scheda solo due mappe piuttosto approssimative, una dell’isola tutta e l’altra della città. Reykjavik al tempo era la cupa capitale di uno stato povero, fatta di tante casette singole rivestite di bandoni di metallo ondulato; non vi era nulla di architettonicamente interessante se non la nuova università. La natura intorno alla capitale era sterile, priva di alberi, un paesaggio spesso definito “lunare”.
Molti di coloro che servirono in Islanda ci hanno lasciato traccia delle loro prime impressioni nei diari di guerra. Il Colonnello Wilson, nel giorno dello sbarco, scrisse:

«…Il tempo passava e alle 4:00 del mattino ci dirigemmo verso la baia di Reykjavik. Il paese sembrava collinoso e selvaggio, in lontananza solo montagne coperte di neve (…). L’aria era fredda e chiara, e si poteva vedere ad una grande distanza».

Un ufficiale della RAF invece descrisse le prime impressioni in questi termini:

«Ci fermammo sulla banchina per studiare la parte di Reykjavik che si vedeva, e la trovammo brutta, sassosa, spoglia, inospitale. Polvere di lava ovunque… si prega per un po’ di pioggia e la polvere diventa fango».

Col tempo i diari dei soldati riportano impressioni più clementi: nonostante tutti i limiti che la città potesse avere, nonostante tutti i disagi che l’estrema instabilità del clima potesse causare, mentre Londra e le altre città europee vivevano tempi drammatici scanditi dalle sirene dei bombardamenti, black-out e razionamenti alimentari, Reykjavik rappresentava per i propri ospiti una condizione ben più agevole dei loro commilitoni nel resto d’Europa.
I soldati distribuirono subito alla popolazione dei volantini per dirimere qualunque dubbio; le truppe di sua maestà si dicevano rammaricate di dover causare disturbo alla popolazione civile e si sarebbero comportati all’insegna del massimo rispetto, col solo intento di difendere e proteggere gli islandesi contro la Germania.
Uomini del console Bowering ricevettero le truppe e le guidarono subito per la città. Non vi furono incidenti. Gli inglesi requisirono alcuni autobus e battelli, dietro promessa di compensazione (garantita da un deposito di 2.000 sterline presso la Banca Nazionale Islandese), e si diressero verso il consolato tedesco. Trovarono Gerlach intento a distruggere documenti. Nonostante le proteste per la violazione dell’ambasciata, Gerlach ed i suoi uomini vennero presi in custodia. Anche altri edifici importanti della capitale vennero occupati, ad esclusione del parlamento.

Nel corso della giornata, seguendo i piani riceviti, il colonnello Sturges piazzò una compagnia a Reykjavik, un altro distaccamento partì per Hvalfjordur, prendendo posizione sui due lati dell’entrata dell’insenatura; altri distaccamenti vennero mandati a prendere possesso del campo aereo di Kaldadharnes (70 Km a Est di Reykjavik), Sandseikhjd e Katnagharda (sudovest). Altri uomini rimasero per servizi ausiliari. Le forze di cui Sturges disponeva erano in realtà troppo ridotte per assicurare una presenza forte nell’isola, ed erano per lo più una testa di ponte in attesa di rinforzi. L’artiglieria era ridotta e con poche munizioni, mentre solo un vecchio idrovolante Supermarine Walrus costituiva la copertura aerea. Quando le navi trasporto completarono lo sbarco e lasciarono l’isola, il senso di isolamento doveva essere pesante per i soldati rimasti.
La sera stessa Sturges venne ricevuto dal governo islandese. Il primo ministro Hermann Jònasson avanzò delle proteste formali ai vertici diplomatici e militari, accusando la chiara infrazione della neutralità islandese; eppure, secondo larga parte della storiografia islandese, ci fu un vero senso di “liberazione” tutti si resero conto che non si trattava dei nazisti. Nel discorso alla nazione, radiodiffuso nel tardo pomeriggio, il primo ministro invitò la popolazione a collaborare con gli “ospiti”, che avevano dato solenne garanzia di limitare al massimo il disturbo e che ogni danno sarebbe stato ampiamente rimborsato.
Il 14 maggio la “Forza Sturges” completò il dispiegamento dell’artiglieria, ed un altro piccolo distaccamento venne inviato ad Akureyri, la seconda città islandese circa 250 Km a Nord Est; pochi uomini che certo non avrebbero potuto rispondere ad una invasione tedesca, ma almeno avrebbero potuto avvertire la capitale. Il pericolo era che in questa primissima fase, dato che solo una parte dell’isola era sotto controllo, i tedeschi avrebbero potuto sbarcare indisturbati ed inosservati lungo tutta la costa orientale; ma il colonnello Sturges non disponeva di abbastanza uomini per spingersi oltre.

L’indomani dello sbarco i giornali del paese trassero le loro analisi ed i loro spunti di riflessione.
I commenti del Timinn, quotidiano del partito progressista (che liderava il parlamento) erano sostanzialmente in linea con il primo ministro; la politica della neutralità non sembrava più percorribile visti gli esempi danesi e norvegesi, e si doveva riconoscere che la Gran Bretagna doveva prevenire un ulteriore rafforzamento della Germania.
Il quotidiano Morgunblaðid, non appartenente ad alcun partito ma storicamente filo conservatore, ammetteva che sebbene gli islandesi avrebbero voluto vivere in pace con tutti, ciò non sembrava più possibile, e non ci si poteva lamentare dell’arrivo degli inglesi, da sempre amici, rispetto a quanto stava accadendo nel resto della Scandinavia.
Analogamente, l’Alþidublaðid, quotidiano legato ai socialdemocratici anch’essi al governo, parlò di “male necessario”, ed invitò la popolazione alla pazienza.

Di tutt’altro avviso i comunisti: il Þjòðviljinn, in un editoriale intitolato “Noi tutti protestiamo” attacca violentemente gli inglesi, il cui arrivo non sollecitato ne gradito offendeva la nazione. Chiunque appoggiava l’invasione o avrebbe lavorato per gli inglesi doveva essere considerato un traditore della patria.
In generale la popolazione fu accogliente e benevola verso gli inglesi che, va riconosciuto, ebbero l’accortezza di rispettare alcuni simboli quali i palazzi parlamentari. Non si registrarono incidenti che andarono oltre le provocazioni verbali dei giovani della capitale che simpatizzavano per i tedeschi. Anche il governo si comportò pragmaticamente, cercando il dialogo e la cooperazione senza arroccarsi sullo sdegno e l’offesa. Nell’incontro col delegato britannico, in cui il governo presentò le sue proteste formali, si passò subito ad analizzare la situazione. Smith assicurava che l’intervento inglese era di natura difensiva, e promise che la permanenza si sarebbe protratta solo per il periodo di guerra; il nuovo console aveva avuto piena autorità a negoziare con gli islandesi accordi di natura economica, e dava piena assicurazione che ogni danno sarebbe stato risarcito e che non ci sarebbe stata alcuna interferenza nella politica islandese.

Dall’altro lato dell’oceano intanto, l’ambasciatore inglese Lord Lothian informò il governo degli Stati Uniti su quanto stava accadendo (Lord Lothian venne ricevuto dal governo USA il 10 Maggio, quindi in realtà ne Reykjavik ne Washington ebbero comunicazioni preventive). Gli americani erano ancora chiusi su posizioni isolazionistiche, eppure è lecito pensare che se le forze tedesche si fossero avvicinate troppo (in Groenlandia, nelle colonie olandesi e probabilmente anche in Islanda), ci sarebbe stata una reazione. In questo clima gli americani accettarono di buon grado l’intervento inglese, che doveva mettere al sicuro l’isola da una invasione tedesca; il Segretario di Stato Cordell Hull in sostanza accettava le giustificazioni britanniche.
Un problema che ha interessato da vicino la storiografia islandese ed anche britannica è quello della effettiva concretezza di un piano di invasione germanico. Gli inglesi ritenevano di aver preceduto una iniziativa tedesca, e alcuni indizi sembrano sostenere questa tesi.
Abbiamo già visto che nel periodo prebellico alcune attività tedesche venivano sospettosamente seguite dai servizi come “operazioni preliminari”, ed era ben chiaro ad entrambe le parte che la posizione strategica dell’Islanda sarebbe stata oltremodo utile a tutti, ma non risultano prove di piani in fase operativa prima del 10 maggio 1940.

Circa trenta anni dopo gli eventi, il già citato Donald Bittner ebbe modo di intervistare il generale Arthur Williams. Egli rivelò che lo spionaggio aveva avvertito della possibilità di un lancio di paracadutisti in Islanda, cui sarebbe seguito un forte contingente di 50.000 uomini già in preallarme sull’Elba. L’invasione britannica doveva necessariamente prevenire questa eventualità. Anche alcune pubblicazioni dell’US Marine Corp, che è possibile consultare presso l’archivio della base aerea di Keflavik, riportano aneddoti di questo tipo: un impiegato islandese del consolato tedesco, quando riportò a Gerlach la notizia dello sbarco inglese, il console rispose che doveva essersi sbagliato, che erano truppe tedesche anche se in anticipo di 10 giorni.
Dopo l’invasione inglese, l’Ober Kommando der Wehrmacht lavorò ad un piano di contrattacco, denominato “Ikarus”. Hitler avrebbe voluto la conquista dell’Islanda per accerchiare l’Inghilterra ma gli analisti militari diedero parere fortemente negativo. Non era il contingente inglese in loco a preoccupare, quanto piuttosto gli squilibri della regione: gli inglesi avevano basi importanti alle isole Orcadi e nelle Shetland, e si erano assicurati il controllo delle Faroer. La reazione americana era ancora imprevedibile. L’Islanda sarebbe stata una sorta di enclave tedesca troppo lontana: poteva essere conquistata con un blitz improvviso, ma non poteva essere mantenuta. Il Grand Ammiraglio Eirich Raeder, dopo un incontro con il Führer nel Giugno 1940 trasse le sue conclusioni: per attuare il piano sarebbe stato necessario trasferire una grande quantità di uomini e mezzi, forzando il blocco navale inglese, e instaurarsi in un’area controllata dal nemico.

Come rivelarono molti ufficiali tedeschi dopo la guerra, l’idea che i vertici militari si erano fatta era che l’Islanda poteva anche essere conquistata con un blitz, ma la linea di approvvigionamento passava attraverso il blocco navale inglese, quindi senza il controllo di un canale sicuro le perdite rischiavano di essere eccessive, e le postazioni così conquistate, sottoposte ad un assedio continuo, sarebbero state troppo fragili. Anche gli impedimenti tecnici vennero discussi, ma in generale il progetto “Ikarus” passò in secondo piano quando due questioni molto più coinvolgenti cominciarono ad essere analizzate: il piano “Leone Marino”, per l’invasione dell’Inghilterra, ed il piano “Barbarossa” per un offensiva sul fronte orientale.
Intanto i marines del colonnello Sturges, dopo aver installato le batterie contraeree nella capitale, vennero rilevati il 17 Maggio dalla 147° brigata di fanteria, dalla 49° divisione dello Scottish Command, un contingente di 4.000 uomini, ed il generale Lammie assunse il comando delle operazioni. Anche l’esercito, sebbene in numero maggiore, non aveva a disposizione artiglieria pesante ne copertura aerea, e a causa della penuria di alloggi nella capitale parte della truppa venne sistemata in tende provvisorie.
Effettivamente gli inglesi non fornivano una immagine rassicurante alla popolazione che avrebbero dovuto difendere, ed anche le radiotrasmissioni della propaganda tedesca tentavano di far salire la tensione. Tuttavia gli inglesi godevano del vantaggio di aver fatto la prima mossa: l’originario british defence plan considerava altamente improbabile uno sbarco tedesco che non fosse dal sud ovest, in quanto in altre località i porti erano generalmente piccoli, le strade inadatte al transito pesante e facilmente sabotabili. Avere quindi gli inglesi già posizionati sullo sbarco obbligato era per il comando tedesco fonte di ulteriore titubanza.
L’operazione “Fork”, come venne chiamata l’occupazione, procedeva comunque con pochi incidenti. In generale la popolazione e la polizia collaboravano con i militari, e solo il quotidiano comunista Þjòðviljinn si mostrava insofferente allo straniero.

La Seconda Guerra Mondiale in Islanda

E’ possibile dividere il periodo bellico in Islanda in due parti distinte: la prima va dal 10 maggio 1940 e si conclude con l’arrivo dell’esercito degli Stati Uniti (7 luglio 1941), che prendono progressivamente il posto dei soldati britannici; la seconda parte invece si protrae per tutto il corso del conflitto. Chiamare la prima parte come “fase britannica” e la seconda “fase americana” ci porterebbe però fuori strada, in quanto l’avvicendamento dell’estate del 1941 fu un processo lungo e scaglionato, e riguardò il solo esercito. La RAF e Royal Navy continuarono ad operare, svolgendo anzi un ruolo assai più importante rispetto al primo anno, man mano che la minaccia diretta alla madrepatria andava affievolendosi.
Nei due periodi l’occupazione britannica ebbe modi e obbiettivi diversi: nel primo essi furono logistici e difensivi, principalmente affidati all’esercito che ebbe il compito di rendere l’Islanda una postazione sicura (a prova cioè di infiltrazioni nemiche) e di creare e gestire infrastrutture militari; l’impiego delle altre armi fu piuttosto marginale. Nella seconda parte invece marina ed aviazione svolsero un ruolo offensivo e strategico sempre più deciso via via che la guerra nel Nord Atlantico si inaspriva; il grosso dell’esercito inglese venne al contrario svincolato a seguito di accordi trilaterali con l’Islanda e gli Stati Uniti d’America che, ancor prima di entrare ufficialmente in guerra, accettarono di sostituirsi alle truppe britanniche con un contingente che raggiunse le 44.000 unità.

The British Army – il primo anno in Islanda

Subito dopo il suo arrivo il comandante di brigata Lammie divise le sue truppe tra i vari obbiettivi sensibili, ma la dispersione era tale che da subito si richiesero rinforzi.
Vennero designate quattro zone principali: Reykjavik nel sud ovest, Akureyri nel nord, Seydhisfjordur nell’est e Hunafloi nel nord ovest. Circa due terzi delle forze vennero impiegate nella capitale, Akureyri ricevette buona parte del rimanente e le altre zone solo piccoli distaccamenti.
La minaccia di un possibile sbarco tedesco fu la preoccupazione principale dell’esercito, ed il nuovo console Smith fu molto sentitamente al fianco di Lammie per avallare queste richieste: era inaccettabile rendere l’Islanda oggetto di potenziali rappresaglie senza fornirle adeguata protezione, tanto più che un solo raid aereo avrebbe completamente raso al suolo Reykjavik; una simile evenienza avrebbe distrutto quel clima di collaborazione che la diplomazia stava costruendo per il buon lavoro dei militari.
Mentre il War Cabinet faceva sapere che al tempo non vi erano rinforzi disponibili (addirittura si preparavano i piani di una evacuazione dell’Islanda in caso di disperata difesa dell’Inghilterra stessa), un imbarazzante incidente minò la fiducia della popolazione nei militari: ai primi di giugno si sparse la voce che un contingente tedesco fosse sbarcato nella parte orientale del paese. La notizia era ovviamente infondata, ma scherzo, falso allarme o strategia della tensione che fosse, i britannici non furono in grado né di smentire né di confermare la notizia per giorni; in realtà solo la zona di Reykjavik era davvero sotto controllo.

Intanto già il 18 maggio, appena una settimana dopo lo sbarco, il governo inglese si era rivolto al Canada per farlo partecipe dello sforzo; Il primo ministro canadese King espresse l’intenzione presso il Cabinet War Committee del suo paese di assistere il più possibile l’Inghilterra nel suo sforzo bellico. Eppure questa disponibilità non valse a risolvere tutti i problemi. Specificatamente, il War Cabinet britannico avrebbe voluto che i canadesi accettassero di accollarsi l’intera difesa dell’Islanda, per reimmettere la loro 147° brigata di Lammie all’interno della 49° divisione. Ma Ottawa, che aveva già inviato la propria seconda divisione in Gran Bretagna, rimase piuttosto delusa dalla richiesta: il governo voleva che le proprie truppe rimanessero in patria oppure che servissero in Inghilterra, mentre l’Islanda non faceva nemmeno parte del Commonwelth. L’opinione pubblica canadese cominciava a preoccuparsi non solo della propria costa orientale, ma anche di quella orientale: il Giappone di lì a poco avrebbe siglato il patto tripartito con la Germania e l’Italia, e la British Columbia ospitava una forte comunità nipponica.
Inoltre, una invasione tedesca del Canada era praticamente impossibile, e gli Usa avrebbero necessariamente reagito, ma la straordinaria efficacia della Wermacht riuscì a infondere negli avversari quella che alcuni storici chiamano “the Germans-can-do-anything mentality”.

Alla fine il governo canadese decise di inviare il Royal Regiment of Canada rafforzato da una brigata di fanteria. Il contingente, chiamato “Z Force”, giunse sull’isola il 16 giugno del 1940, agli ordini del generale Lionel Page. La “Z Force” però sarebbe stata impiegata a rinforzo, e non in sostituzione, dei soldati britannici. A questo nucleo iniziale si aggiunsero nella prima metà di luglio Les Fusiliers Mont-Royal, The Cameron Highlanders of Ottawa e l’Essex Scottish ma il governo canadese non era soddisfatto di questa soluzione e fece capire fin da subito che questi dislocamenti dovevano essere intesi come temporanei. Fu lo stesso Winston Churchill, primo ministro e presidente del War Cabinet, ad intervenire nella questione: il 16 ottobre la 70° brigata inglese giunse in Islanda per sostituire i canadesi (a parte i Cameron Highlanders, che vennero sostituiti nell’aprile del 1941 per motivi tecnici). La scelta di Churchill si basava su diverse considerazioni: le truppe canadesi erano scarsamente addestrate, e nell’economia generale di guerra il Canada forniva un contributo non vitale, quindi tanto valeva accettare le obbiezioni; probabilmente, dopo il “battesimo del sangue” delle proprie truppe, i canadesi sarebbero stati più fermamente al fianco degli inglesi. Churchill sapeva che non dal Canada sarebbe giunta la svolta del conflitto.

Comunque le continue richieste di rinforzi sortirono effetto e Londra venne incontro ai propri ufficiali: il 27 Giugno del 1940 giunse sull’isola la 146° brigata del Generale Harry Curtis, che assunse il comando delle operazioni; al seguito unità del genio e di supporto.
A questo punto il presidio militare era ormai sufficiente a svolgere il compito di “prima fase”: dall’estate del ’40 in poi non vi furono significativi cambiamenti se non, come accennato, l’arrivo della 70° brigata, lasciando invariata la situazione. In realtà l’esercito non smise mai di considerare uno sbarco nemico come una minaccia reale, e ulteriori rinforzi, quantomeno in termini di artiglieria o di coinvolgimento maggiore della altre armi, vennero sempre avanzate. Ma il dilemma era sempre lo stesso: dare all’Islanda significava togliere ad altri scenari, e le richieste di Curtis vennero spesso ignorate.
L’esercito, come abbiamo accennato, ebbe anche il compito logistico di creare quasi dal nulla tutte le infrastrutture necessarie alle manovre operative. Purtroppo l’Islanda non disponeva della possibilità di fornire molta manodopera (circa 2.500 lavoratori, ma discontinuamente), ed altri 250 vennero importati dalle Faroer. Londra quindi affidò all’esercito il grosso delle operazioni nonostante che Curtis, giustamente, ritenesse che trasformare i soldati in operai ne avrebbe minato lo spirito. Comunque non vi erano alternative, ed i lavori si concentrarono per rendere operativi il prima possibile i campi aerei di Kaldadharnes (30 km a sud est della capitale) e Reykjavik; essi furono dichiarati agibili seppure ad un profilo minimo di efficienza, rispettivamente il 31 maggio ed il 31 luglio 1940.

Royal Navy, Royal Air Force – Il primo anno in Islanda

L’ammiragliato britannico era su posizioni diverse rispetto all’esercito; la marina non aveva intenzione di coinvolgere in Islanda molti mezzi, in quanto ne ridimensionava il valore. La diversità di vedute risiedeva nel fatto che la marina privilegiava di gran lunga la base di Scapa Flow (isole Orcadi) e le Shetland; sottrarre al nemico tanto l’Islanda quanto le Faroer creava un vantaggio chiaro nella regione, garanzia di oggettiva improbabilità di un blitz tedesco. Sicuramente raggiungere i piccoli stati “neutrali” per le armate di Hitler sarebbe stata una mossa risolutiva, ma era certo impossibile mantenere le postazioni così guadagnate senza prima sbarazzarsi della Royal Navy; in pratica l’operazione “Ikarus”, che avrebbe molto agevolato l’operazione “Leone Marino”, era quasi impossibile senza quest’ultima; la questione non era però così semplice: l’intelligence riteneva che un piano dettagliato d’invasione dell’Islanda fosse stato redatto, nei minimi particolari, nel quartier generale prussiano di Wolfschanze; quando le attività tedesche nelle acque islandesi raggiunsero il momento di massima intensità (prima metà del ’41), i rapporti dello spionaggio in Norvegia furono più d’una volta allarmanti.E’ curioso osservare come esercito e marina leggessero in modo opposto anche considerazioni minori: per Curtis l’inverno rappresentava un momento a rischio perché il nemico poteva sfruttare la notte artica, al contrario la marina riteneva che proprio l’instabilità del clima invernale rendeva tale scelta piuttosto remota.

Fin da subito uno staff di ufficiali della Royal Navy accompagnò il generale Lammie, in attesa che l’ammiraglio Scott instaurasse il suo quartier generale completo l’l1 luglio del 1940. La prima opzione fu quella di non operare nel porto di Reykjavik, ma si scelse Hvalfjordur, 15 miglia a nord della capitale: un fiordo profondo, poco esposto alle correnti e ben difendibile.
In questo momento la flotta stabilmente assegnata all’Islanda era composta appena da 14 battelli antisommergibile, sei dragamine e una dozzina di ricognitori sparsi in vari porti, ma la battaglia dell’atlantico non era ancora entrata nel vivo e le unità impiegate erano ancora “non combattenti”. Intanto Hvalfjordur veniva allestita: si fece largo uso delle difese passive disponibili per l’epoca come passaggi minati, reti antisommergibili etc, venne dotata di artiglieria costiera e destinata a ospitare un deposito munizioni, sistemi di approvvigionamento idrico e una stazione di carburante (realizzata con i soldi delle leggi di “affitti e prestiti” americana), oltre a varie infrastrutture di supporto.
Anche l’aviazione in questo primo periodo si trovava su posizioni simili a quelle già espresse dalla marina. L’esercito avrebbe voluto che anche la RAF contribuisse alla difesa dell’isola, con missioni miranti alla sorveglianza della costa ed intercettamenti aerei ravvicinati (difesa aerea tattica); l’aviazione invece, considerando improbabili i timori dell’esercito, era più favorevole a dedicarsi a operazioni di scorta e sorveglianza a lungo raggio (difesa aerea strategica), nonché ad operazioni antisommergibile. Militarmente parlando questi due ruoli sono molto diversi fra loro: innanzitutto coinvolgono apparecchi differenti, in secondo luogo mentre la difesa tattica viene esercitata in cooperazione con l’esercito, la difesa strategica richiedeva un comando unificato con la marina.

L’Air Ministry risolse la questione pragmaticamente: una buona copertura della zona avrebbe richiesto una forza aerea versatile e polivalente, ma al momento non era possibile una diversione di mezzi, soprattutto caccia, dalla madrepatria. Non appena il campo aereo di Kaldadharnes fosse stato pronto, l’Air Ministry era disposto ad inviare il 98 RAF Squadron, 18 bombardieri leggeri “Fairey Battle”, per venire incontro alle esigenze dell’esercito. I mezzi non erano in realtà adatti allo scopo, ma a partire dal settembre 1940 Curtis ebbe la sua copertura aerea.
Per quanto riguarda il centro di comando, venne deciso che l’esercito stabilisse un quartier generale ad Àrtun (al tempo poco fuori Reykjavik, oggi è un quartiere inglobato nella città) con rappresentanti della marina e dell’aviazione, che mantenevano i loro centri nella capitale, ma solo in caso di attacco tedesco il comando sarebbe stato unificato e sotto il controllo di Curtis.
Abbiamo accennato però che la politica di difesa tattica del 1940 era una situazione temporanea e non una priorità, e l’Islanda sarebbe presto divenuta una base per operazioni a lungo raggio. Il cambiamento dei ruoli avvenne a partire dalla prima metà del 1941, quando cominciarono ad arrivare in Islanda nuovi mezzi destinati alla difesa strategica. Finalmente il 19 marzo il Capitano Primrose della RAF, personalità forte e spesso i contrasto con il generale Curtis, poteva prendere il comando di un quartier generale distaccato ed autonomo dall’esercito, organizzando le operazioni di squadriglie inglesi, della Royal Canadian e dell’aviazione norvegese. Il passaggio alla fase di difesa strategica e alla fase offensiva vera e propria per la distruzione delle forze tedesche nel nord atlantico dall’estate del 1941 era ormai in via di attuazione.

Le relazioni anglo-islandesi: Reykjavik e Londra amici per forza

L’aspetto diplomatico dell’occupazione inglese venne sempre gestito con la massima attenzione: non si trattava solo di una questione di prestigio, si voleva assolutamente evitare la rottura con i locali, la loro resistenza passiva ed i ritardi che ne potevano scaturire.
Il generale Harry Curtis riconobbe immediatamente questo delicato equilibrio. In una breve lettera al generale Robert Haining del 3 luglio 1940 scrisse:

«Le questioni politiche sono numerose e complicate. Il governo non vuole nessuno qui, incluso la Danimarca. Sono decisi a non compromettere in alcun modo la loro neutralità (…) La popolazione può essere di grande aiuto – ma se contro di noi, la situazione diverrebbe intollerabile e forse pericolosa».

Il governo islandese non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla propria neutralità, anche se ormai ridotta ad una questione di forma, e l’ambasciatore Smith si trovò quindi ad essere il fulcro di una situazione difficile ma non impossibile. In generale la politica del governo islandese mirava ad evitare la collaborazione attiva: ad esempio, gli inglesi erano costretti a pagare i servizi telefonici con i loro distaccamenti come dei semplici privati, oppure il governo non ostacolava ne favoriva accordi tra i soldati ed i propri cittadini, sempre nell’ottica di non essere “ufficialmente coinvolto”.
Come già avevano fatto i suoi predecessori, Smith doveva ammettere che gli islandesi, ostinati per natura, non capivano le ragioni profonde della guerra ed erano ancora convinti che se non fossero sbarcati gli inglesi, con tutta probabilità sarebbero rimasti fuori dal conflitto. L’ambasciatore inglese era però ottimista: una buona politica commerciale poteva superare le resistenze, ed il carattere pragmatico degli islandesi non si sarebbe fatto sfuggire alcuna occasione.
Nel 1940 il Regno Unito importò automaticamente la totale produzione di aringhe e carne ovina dell’Islanda, a prezzi fino a quattro volte superiori nel periodo prebellico; accordi simili, ma a prezzi inferiori, vennero siglati anche l’anno successivo. Le esportazioni islandesi passarono così da 2.200.000 sterline del 1938 a 7.250.000 del 1941.
In realtà questa espansione abnorme ebbe i suoi lati negativi: una forte inflazione, eccesso di moneta, l’aumento dei salari senza disponibilità di beni sul mercato; in una economia tanto precaria in generale gli effetti furono positivi ed il governo poteva dichiarare la piena occupazione dei suoi cittadini.
Gli inglesi non erano ovviamente dei “benefattori disinteressati” (tra l’altro avevano imposto la fine del commercio con altri stati europei, non permettevano la conversione delle riserve di sterline in dollari e non erano in grado di soddisfare la richiesta di importazioni) ma il loro intervento creò quel paradosso insperato in base al quale l’economia di guerra, da sempre sinonimo di restrizioni e razionamenti, sarà una componente fondamentale del successo islandese. Le resistenze dei locali potrebbero sembrare presuntuose o ingiustificate, ma per chi vive nei grandi stati europei, da sempre al centro di intensi scambi a tutti i livelli e di mille rivoluzioni, è difficile calarsi nella mentalità di un popolo così diverso. Un acuto osservatore, l’ammiraglio Darymple-Hamilton, riassunse la situazione in un rapporto all’ammiragliato nel 1942:
«All’osservatore sembra che gli islandesi stiano rapidamente cadendo in confusione riguardo una situazione che sfugge al loro controllo. Per mille anni hanno vissuto una vita dura in pieno isolamento. I loro bisogni erano ridotti, ma occupavano tutto il loro tempo. Agricoltura e pesca erano le loro industrie, e la loro cultura basata sulla musica e sulla pittura, insieme ad una ammirazione particolare per la loro storia passata. Sono un popolo ostinato, dalle ferme convinzioni, infastidite dalle interferenze altrui; sono dei veri isolani. (…) Fino alla guerra erano un popolo semplice che viveva per conto loro. Ora tutto e’ cambiato: grazie all’occupazione, che ha fornito un impiego a tutti ed un buon salario, e mercati ultraricettivi per i prodotti ittici islandesi, i soldi non mancano. Ogni tipo di genere di lusso, dalle auto di prima classe ai vestiti alla moda, prima quasi sconosciuti in Islanda, vengono oggi importati. C’è una forte migrazione interna dalla campagna a Reykjavik, la manodopera nelle fattorie scarseggia e c’è una tendenza generale ad una vita più comoda ed ad un apprezzamento dei lussi.»

Sotto la guida di Howard Smith comunque l’ambasciata inglese a Reykjavik creò da subito un clima il più possibile di collaborazione, coinvolgendo gli islandesi stessi nella risoluzione dei problemi: venne creata una rete di “commissioni congiunte” fra i due paesi per evitare che spiacevoli incidenti potessero degenerare in proteste formali. Si istituì ad esempio un comitato per la liquidazione rapida dei danni causati dalla truppa, un comitato per gli incidenti e la manutenzione stradale, nonché un comitato per la demolizione e ricostruzione in altra sede delle case vicino l’aeroporto di Reykjavik. Queste commissioni, che avevano di solito un uguale numero di rappresentanti (se non a maggioranza islandese) ed un budget adeguato, furono l’ulteriore prova che anziché reagire sdegnosamente e chiudersi come feriti nell’orgoglio, gli islandesi collaborarono con gli occupanti.
Mentre Smith tesseva la sua strategia diplomatica, anche i militari, in virtù di una disciplina esemplare riuscirono a convivere con la popolazione. La promessa di non interferire sulla vita dei locali non poteva essere presa alla lettera, e la popolazione dovette sopportare qualche inconveniente minore: le radio delle imbarcazioni vennero sigillate, vennero istituite aree off-limit, divieti di pesca nelle zone adiacenti attracchi militari e poco altro.

La presenza di 28.000 soldati in un paese che all’epoca ne contava 120.000 non poteva non causare qualche attrito, eppure di incidenti gravi quasi non se ne registrano. Insulti verbali o risse fra i giovani non destarono eccessive preoccupazioni: approssimativamente all’epoca vi erano circa 30.000 ragazze, mentre con la presenza dei soldati il numero di giovani maschi era raddoppiato; il generale Curtis prestò sempre molta attenzione a questo aspetto, imponendo ai propri uomini un codice comportamentale rigoroso.
Accanto a questi episodi meno piacevoli però vi erano anche momenti di apertura ed amicizia: il “Royal Regiment of Canada” eseguiva settimanalmente concerti radiofonici che si concludevano tutti con l’esecuzione dell’inno nazionale islandese, oppure vennero organizzati rinfreschi natalizi per i bimbi con tanto di Babbo Natale e regali, o parate militari dei pittoreschi reggimenti scozzesi. La 146° brigata, di istanza ad Akureiry, fece in dono alla locale cattedrale un prezioso candelabro in ottone, ancora oggi orgogliosamente esposto.
Un aspetto che invece turbò gli animi fu la deportazione di alcuni islandesi in Inghilterra perché coinvolti in “azioni sovversive”. Nel settembre del 1940 due giovani a Reykjavik ed Akureyri vennero trovati in possesso di apparecchi radio con cui comunicavano regolarmente con la Germania. I due giovani non contravvenivano ad alcuna legge islandese e le autorità temporeggiarono; ma il rischio di una invasione tedesca era ancora alto e Curtis non perse tempo in considerazioni giuridiche: i due giovani vennero presi in custodia e spediti in Inghilterra.
Ovviamente sulla stampa le reazioni furono vivaci: il quotidiano conservatore Morgunblaðid nell’editoriale del 4 Settembre 1940 scrisse: “gli inglesi hanno interferito nella nostra vita e nelle nostre vicende in modo del tutto contrario alle assicurazioni presentate al governo nel giorno del loro arrivo”. Anche il Timinn (il giornale dei progressisti, al governo) all’inizio fu molto critico, ma dalle sue pagine fu lo stesso ministro degli esteri Stefàn Stefànsson a sedare gli animi: il comportamento di quei giovani che sognavano anche per l’Islanda la barbarie della dittatura era deplorevole e vergognoso (6 Settembre). Il giornale socialdemocratico Alþydublaðid, nell’editoriale del 5 settembre, fu invece molto attento a non farsi trascinare dall’indignazione. L’analisi del giornale era semplice ma coerente: ogni atto mirante a facilitare una invasione del paese era contrario agli interessi della nazione, di conseguenza ogni atto contro gli inglesi era in pratica un atto contro l’Islanda stessa. Se il governo fosse intervenuto tempestivamente, o avesse dato prova di rigidità e fermezza, non avrebbe costretto i militari ad agire e nessun “caso diplomatico” sarebbe mai emerso.

Un discorso a parte va invece fatto per il quotidiano comunista Þjoðviljinn. A differenza delle altre testate, fu sempre motivo di grande irritazione per gli inglesi in quanto fermo sulle posizioni ultranazionaliste ed anticapitaliste già espresse nel periodo prebellico. Dalle sue pagine si levavano costantemente attacchi ideologici ma anche basse insinuazioni. Da un articolo del 17 Settembre:
«Anche se molti di loro sono persone accettabili, sappiamo bene che presso di essi vi è la spazzatura della miserabile civiltà degli stati capitalistici, ovvero uomini che una educazione perversa ed una società malata hanno reso come bestie. Questi sono gli uomini che seducono le nostre donne, fin anche i nostri bambini, che infettano con malattie veneree».
Ma il Þjoðviljinn non si limitò solo a pubblicare articoli. In occasione di uno sciopero di lavoratori per l’incremento dei salari distribuì volantini in cui si chiedeva ai militari di non “rubare il lavoro ai lavoratori islandesi” (gennaio 1941). Smith, sempre conciliante, non poteva questa volta tollerare una sorta di appello all’ammutinamento, ed il generale Curtis era pronto ad agire; tuttavia i due decisero di mettere alla prova il parlamento, lasciando ad esso l’iniziativa. Dal processo che seguì scaturirono delle condanne, seppur lievi, anche per gli editori del giornale; uno dei quali però era Einar Òlgeirson, già deputato comunista, il che complicava molto la faccenda: essendo soggetto all’immunità per il periodo in carica, avrebbe scontato i tre mesi di custodia solo a fine legislatura. Verrebbe da chiedersi se Smith, da astuto diplomatico, non decise di “mettere alla prova” l’Alþing proprio perché consapevole dei problemi legali che potevano scaturire.

Einar (gli islandesi sono soliti usare il nome proprio quale identificativo della persona, in quanto la maggior parte dei cognomi sono patronimici), niente affatto intimorito e libero per tutta la durata della legislatura, decise di ripetere la provocazione: il 7 aprile lanciò una campagna per uno sciopero nel cantiere dell’aerostazione di Reykjavik, ancora una volta invitando i militari inglesi ad aderirvi. Il generale Curtis, alle prese con le ristrettezze dei tempi, non tollerò un tale comportamento: il 27 aprile 1941 il giornale venne chiuso e i suoi editori, tra cui anche Einar, trasferiti in Inghilterra. Smith tentò di spiegare che quanto era stato fatto andava incontro alle esigenze di sicurezza non solo dei britannici, ma di tutta la nazione, ma ovviamente il caso politico era scoppiato: al di là del fatto che il Þjòðviljinn era un giornale che tirava appena 1500 copie, un membro del parlamento era stato deportato, ed una protesta formale fu inevitabile.
Ancora una volta la stampa si divise: il giornale conservatore Morgunblaðid, che forse mai avrebbe pensato di dover spendere un articolo in favore dei comunisti, scrisse chiaramente che la libertà dell’Islanda non esisteva più. Anche il Visir parlava della protesta del governo come del più serio incidente diplomatico fra i due paesi.
L’Alþydublaðid fu ancora una volta più equilibrato: se da un lato gli inglesi avevano agito in modo odioso, dall’altro andava riconosciuta sia la responsabilità del governo, passivo e poco attento come sempre, sia del Þjoðviljinn stesso che incitava all’ammutinamento e interferiva su progetti militari.
Dopo circa tre mesi Einar fu lasciato libero di tornare in patria, ma il generale Curtis non diede mai la licenza di riaprire il giornale; nel frattempo però qualcosa era cambiato. Un nuovo quotidiano comunista era stato fondato, il Nyatt Dagblad, ma con l’attacco nazista all’Unione Sovietica ora gli inglesi non erano più gli insopportabili aggressori, anzi erano salutati come alleati: si biasimavano casomai per il ritardo nell’aprire il “secondo fronte”, con buona pace degli slogan ideologi di qualche tempo prima.

Un passo fondamentale nelle relazioni anglo-islandesi venne compiuto dallo stesso Winston Churchill il 16 agosto 1941. Di ritorno dall’incontro con il presidente americano Roosevelt in Canada, nel quale firmarono una dichiarazione d’intenti ricordata come la “Carta Atlantica”, il premier inglese decise di fare tappa a Reykjavik. Churchill venne ricevuto con tutti gli onori dalle autorità islandesi e dalla popolazione, passò in rassegna le proprie truppe e tenne toccanti discorsi nel palazzo del parlamento (Alþinghus). Egli ribadì la stima e la riconoscenza verso gli islandesi, rinnovò la garanzia che i suoi soldati avrebbero causato i minori disagi possibili e, cosa più importante, affermò che a guerra finita “noi e gli americani ci assicureremo che l’Islanda riceva assoluta libertà”. Gli islandesi lessero queste parole come la promessa che i soldati si sarebbero ritirati e che l’Inghilterra avrebbe appoggiato la dichiarazione d’indipendenza del paese.
La visita di Churchill fu un vero successo diplomatico, una sorta di bomba spirituale: la sua autorità ed il suo prestigio erano indiscutibili, e finalmente anche il mondo politico si sentì “preso sul serio”, non più trattato da colonia semisconosciuta ma interlocutore vero.
La stampa non mancò di sottolineare questo evento, con i toni accesi del più vivo coinvolgimento. Il Timinn parlò di “un giorno memorabile per la storia d’Islanda (…), il più influente personaggio dell’impero britannico ha ripetuto che Inghilterra e Stati Uniti, quando la guerra sarà finalmente finita, garantiranno la piena indipendenza del nostro paese”.
Anche il Morgunblaðid fu altrettanto entusiasta: “E’ vero che l’Islanda è un paese occupato, ma dobbiamo ricordare il motivo dell’occupazione: la lotta per la libertà dei piccoli stati”.

Gli Stati Uniti mandano i loro primi Marines

In Islanda gli inglesi stavano investendo uomini e mezzi in grande quantità, ma via via che i mesi passavano l’esito del conflitto sembrava sempre più incerto; la “rotta di Dunkerque”, la capitolazione della Francia, l’entrata in guerra dell’Italia, i successi militari in nord Africa e nei Balcani ponevano Londra in una situazione inquietante.
Nel 1940 gli Usa erano ancora formalmente fuori dal conflitto, ma la loro politica andava modificandosi; ancora nel biennio ’35-’37 era stato varato un “pacchetto legislativo di neutralità” che proibiva d’intrattenere rapporti commerciali con qualsiasi potenza belligerante. L’invasione della Polonia suscitò ampi dibattiti nelle aule del parlamento e sui giornali, e lo stesso presidente Roosevelt intervenne energicamente per l’abrogazione del “pacchetto di neutralità”, anzi giunse a strappare al congresso la cosiddetta legge “Cash and Carry”, per mettere ampie risorse americane a disposizione delle democrazie in guerra. Nell’estate del 1940 il popolo americano era chiamato a eleggere un presidente che l’avrebbe guidato nei difficili anni a venire e il partito democratico, abbandonando la tradizione contraria alla terza rielezione, confermò Roosevelt quale proprio candidato ed ottenne la fiducia della popolazione.

Poco dopo l’occupazione tedesca della Danimarca, il presidente affermò che la colonia groenlandese apparteneva all’emisfero occidentale e che quindi ricadeva sotto la cosiddetta “dottrina Monroe”, in base alla quale gli Stati Uniti non avrebbero permesso una ingerenza lesiva della propria sicurezza da parte degli europei in quella parte del pianeta. Nessun riferimento diretto veniva ancora fatto per quanto riguarda l’Islanda, ma è chiaro che da un punto di vista strategico la regione andava considerata nella sua interezza.
Il problema della partecipazione al conflitto da parte degli Stati Uniti è stato ampiamente dibattuto, e sappiamo che da un punto di vista formale essi “entrarono in guerra” solo a seguito dell’attacco giapponese di Pearl Harbour. Tuttavia la politica di Roosevelt prima di quel tragico evento fu segnata da decisioni che quantomeno vanno classificate come “antineutrali”: la legge di “affitti e prestiti” diede alla Gran Bretagna, ormai sola contro Hitler, la possibilità di ricevere rifornimenti continui; l’estensione di questa legge anche all’Unione Sovietica; sequestro di navi e congelamento di fondi dell’Asse; fornitura di 50 cacciatorpediniere alla Royal Navy in cambio dell’affitto di basi navali a Terranova e Guyana Britannica.
Anche il Nord Atlantico fu teatro di questa “antineutralità” prebellica.

Il governo inglese abbiamo visto che aveva delle difficoltà a mantenere a lungo le sue posizioni, e l’espediente canadese si era dimostrato tutt’altro che risolutivo. Winston Churchill avrebbe voluto coinvolgere gli americani nella difesa dell’Islanda, e la questione sembrava di primaria importanza:
«L’unica cosa che importa è che gli americani giungano in Islanda, quanto prima ed in modo più massiccio possibile. Se noi dobbiamo rimanere o andar via, in tutto od in parte, è una questione secondaria; io penso comunque che sia preferibile che, per un certo tempo, entrambi rimaniamo in Islanda».

Fu lo stesso presidente americano, in una cena di lavoro il giorno 28 maggio 1941, a comunicare a Lord Halifax, ambasciatore di sua maestà re Giorgio VI a Washington, la possibilità di studiare un piano di intervento americano in Islanda. Gli Stati Uniti tenevano pronta la prima brigata dei marines all’invasione delle Azzorre, qualora la Germania avesse occupato il Portogallo. Proprio questa forza avrebbe potuto essere reindirizzata nel giro di pochi giorni. La decisione del presidente Roosevelt maturava in un momento opportuno: i vertici militari dei due paesi, incontratisi ad inizio anno, avevano già tracciato le linee guida dell’operazione; il 25 marzo Berlino aveva dichiarato zona di guerra anche le acque islandesi nel tentativo di irrigidire il blocco navale alla Gran Bretagna; l’occupazione inglese procedeva bene, senza problemi con i locali, ed ormai le infrastrutture create potevano permettere un ingresso rapido e sicuro nel paese; colloqui informali con la diplomazia islandese condotti nel dicembre del 1940 sembravano incoraggianti; solo tre settimane più tardi Hitler si sarebbe rivolto ad Est contro l’Unione Sovietica.

Nei contatti che seguirono, gli Stati Uniti fecero apertamente capire che non avevano intenzione di “invadere”, come avevano fatto gli inglesi, ma pretendevano un invito formale del governo islandese. Londra avrebbe voluto che Roosevelt imitasse la politica del “prima invadiamo e poi trattiamo”, ma il presidente fu irremovibile: non vi era solo un problema di opinione pubblica, ma anche il desiderio di non fornire all’Asse alcun argomento per la propria propaganda. Il 24 giugno 1941 al console Smith venne richiesto di esercitare tutta la sua abilità diplomatica per ottenere dagli islandesi questo invito, ma la strada sembrava in salita: paradossalmente i rapporti con i soldati britannici erano tanto buoni che l’Islanda riteneva un rischio cambiare occupante; inoltre, dopo che gli inglesi avevano così spesso ripetuto l’importanza strategica del paese, sembrava improbabile che se ne andassero se l’accordo con gli Usa non si fosse concluso.
Le trattative si svolsero segretamente tra il console ed il primo ministro Jònasson ed i suoi consiglieri; Londra considerava vitale il buon esito dell’operazione e Smith riuscì ancora una volta a trovare il bandolo della matassa: gli islandesi redassero un memoriale in quindici punti da far sottoscrivere agli Usa. Esso prevedeva il ritiro immediato dopo la guerra, nessuna interferenza negli affari interni, riconoscimento della sovranità islandese, negoziati commerciali favorevoli ed altro ancora. Ai britannici invece imponevano il rinnovo degli accordi commerciali, il ritorno di tutti i deportati e, ancora una volta, il riconoscimento della sovranità islandese.

L’esplicita disponibilità ad avallare il perfezionamento dell’indipendenza islandese fu, come l’insistenza lascia intuire, un passaggio fondamentale: molti esponenti di spicco del parlamento avevano investito gran parte del loro prestigio politico nell’accelerare il dissolvimento dell’Unione; gli inesperti parlamentari islandesi cominciavano ad accostare alla “strategia della pagnotta” anche le arti della politica.
Per il primo luglio 1941 l’accordo era stato trovato fra i rappresentanti dei due paesi, ma, a norma di legge, doveva necessariamente essere ratificato dal parlamento. In realtà i primi marines sbarcarono a Reykjavik il 7 luglio, mentre l’Alþing tenne una sessione speciale per discutere la questione solo tra il 10 e l’11 dello stesso mese.
Gisli Sveinsson, portavoce dell’ala destra dei conservatori si diceva molto scettico dell’analisi secondo cui la situazione internazionale era tanto grave da costringere l’Islanda a rivolgersi alle grandi potenze. Anche il progressista Palmi Hannesson aveva molte riserve ad abbandonare la politica di neutralità. I parlamentari comunisti invece sollevarono un altro tipo di obbiezioni: se veramente l’Islanda era così in pericolo da dover chiedere l’aiuto internazionale, anche l’Unione Sovietica, insieme a Regno Unito e Stati Uniti doveva far parte di questa “forza multinazionale ante litteram”.
I fautori del piano del 1 luglio basarono le loro risposte su questi argomenti: la sicurezza del paese sarebbe stata assicurata dalla maggiore potenza navale del pianeta; era garantito al settore commerciale ampio sviluppo; sia Usa che Inghilterra si erano dette favorevoli ad appoggiare la causa dell’indipendenza nazionale; la neutralità islandese non veniva infranta in quanto gli Usa non erano uno stato in guerra.
Le votazioni si chiusero con 39 voti favorevoli, 6 astenuti e 3 contrari. Il voto negativo venne espresso dai comunisti, la cui petizione per l’Urss era stata ampiamente battuta.
La stampa accettò la linea espressa dalla maggioranza del parlamento, concordando sul fatto che nonostante nessuno fosse entusiasta della situazione, quantomeno i negoziati venivano incontro alle condizioni intrattabili poste dal paese. Lo stesso premier Jònasson, dal giornale di partito, difese strenuamente la linea di governo, che, in ogni momento della trattativa aveva agito a protezione degli interessi nazionali.

Il governo islandese acconsentì quindi a passare agli Stati Uniti il ruolo di difensori dell’isola, in virtù di un vero e proprio negoziato e non di un atto unilaterale. Tecnicamente però questo accordo fu un’opera di equilibrismo politico: l’Islanda sarebbe stata sotto occupazione di due stati, l’uno neutrale, l’altro in guerra contro un quarto stato con cui tanto gli Usa quanto l’Islanda erano formalmente in pace.
Comunque ciò non significò l’entrata in guerra degli Usa in quanto il loro ruolo era, seppur ambiguamente, difensivo. L’esercito degli Stati Uniti avrebbe preso possesso delle basi, mantenendole operative, mentre la marina e l’aviazione britannica, in collaborazione con i commilitoni statunitensi avrebbero continuato a stazionarvi per le operazioni militari.
Le trattative fra le parti si svolsero in maniera soddisfacente per tutti: gli inglesi erano riusciti a svincolare le loro truppe di terra senza perdere incisività nella regione ma, cosa più importante, avevano avvicinato gli Stati Uniti ad un conflitto dal quale erano ancora fuori. Non a caso Winston Churchill ebbe a commentare l’evento come “…una delle cose più importanti capitate fin dallo scoppio del conflitto”.
Gli islandesi, che non potevano opporsi alla militarizzazione dell’isola, avevano comunque costretto gli americani ad accettare una lunga serie di condizioni, prime fra tutte il riconoscere e garantire la loro sovranità ed a impegnarsi a spingere altri stati a fare altrettanto; Ancora una volta il loro carattere pragmatico gli aveva permesso di trarre il massimo profitto dalla situazione, avendo a disposizione per le loro esportazioni sia i mercati inglesi (sempre più stressati) sia quelli nordamericani.

Gli statunitensi dal canto loro, ben sette mesi prima dell’attacco di Pearl Harbour, entravano in Islanda su esplicito invito del governo (evitando qualunque problema d’immagine) e si ritagliavano una zona di sicurezza fondamentale, avendo già assunto le difese della Groenlandia il mese precedente.
I tedeschi invece erano furiosi ma impotenti: in un telegramma al governo giapponese, il ministro degli esteri Ribbentrop commentò l’interferenza americana in una zona considerata teatro di operazioni militari (a causa del blocco navale all’Inghilterra) come un atto di guerra, ma Hitler non si spinse oltre la constatazione dell’ennesima “provocazione americana”; Churchill non attendeva altro che qualche incidente tra la marina americana e la flotta tedesca non agevolasse il processo di entrata in guerra degli Usa, di cui era riuscito a chiudere un altro importante tassello.

Mentre le potenze alleate incassavano questo successo, anche sul fronte interno ci fu un cambiamento costituzionale che poteva in qualche modo facilitare il dialogo. Il leader progressista Hermann Jònasson stava coprendo la carica di primo ministro già dal 1934, ma i suoi tradizionali oppositori, i conservatori del “Partito dell’Indipendenza” decisero di tentare una manovra politica insieme ai socialdemocratici (già al governo con i progressisti) per aumentare il numero di seggi in parlamento e modificare i collegi elettorali, incrementando il peso relativo delle città. Il partito progressista aveva infatti la sua base elettorale nelle campagne, che in virtù di un complicato computo, erano rappresentate in modo più che tradizionale nell’Alþing. Seguirono due tornate elettorali ed alla fine i conservatori riuscirono ad ottenere la leadership politica scalzando i progressisti che divennero il secondo partito (con una perdita di seggi del 25% dal luglio all’ottobre del ’42, quando le nuove leggi elettorali entrarono in vigore). Anche il Partito di Unità Socialista (SUP – comunisti) però giovò grandemente della manovra passando dai 3 seggi del ‘37, ai 6 del luglio ’42, ad un sorprendente risultato nell’ottobre: 10 seggi e 18.5% dei voti. Anche se la base elettorale del SUP era costituita da socialisti e sindacalisti, i vecchi vertici del partito erano di fede schiettamente comunista, e ciò contribuì a rendere il dibattito politico più acceso che nel resto della Scandinavia, dove invece erano più forti i socialdemocratici. I comunisti furono anche abili a sfruttare una insanabile divergenza fra i leaders degli altri partiti: Òlafur Thors, leader carismatico del partito conservatore, non fu in grado di trovare accordi con Hermann Jònsson, leader del PP. I due partiti, detenendo rispettivamente il 38% ed il 27% delle preferenze, dal 1942 non furono in grado di formare coalizioni di governo, e il SUP si trovò spesso a giocare il ruolo di ago della bilancia.

Al di la delle divergenze comunque, la politica dei concitati anni di guerra per gli islandesi non rappresentò una grande difficoltà rispetto a quanto ebbe a seguire; innanzitutto perché l’unione sovietica era alleata di inglesi ed americani, e questo non imponeva “barriere ideologiche” insormontabili e disinnescava la polemica con il SUP, ormai il terza forza politica del paese; inoltre essendo la presenza militare straniera indiscutibile almeno per tutta la durata del conflitto, la politica islandese si limitava a massimizzare i benefici economici della situazione.

L’avvicendamento delle truppe

Tra l’esercito degli Stati Uniti e gli inglesi vi furono diverse incomprensioni su come portare avanti l’avvicendamento delle truppe (i cosiddetti piani “Indigo” prima ed “Operation Galloper” poi), ed il processo fu graduale. I primi Marines americani sbarcarono a Reykjavik il 7 luglio del 1941; il giorno seguente il generale Curtis pronunciò un solenne discorso di benvenuto:
«For strategic reasons England wishes to concentrate her forces. Iceland is therefore inviting the USA to protect the island during the war (…) Today we are deeply honoured by the arrival of a token reinforcement of the famous US marines to cooperate mutually with us in safeguarding Icelandic democracy (…) This is a historic moment on the road to victory in the antinazi campaign when once again the troops of the United States of America and Britain stand shoulder to shoulder in common cause».
Essi vennero prima rilevati da truppe dell’esercito americano al comando del generale Bonesteel e poi cominciò l’avvicendamento vero e proprio; per i due anni successivi man mano che nuove truppe americane arrivavano, soldati britannici partivano e solo nell’estate del 1943 l’ultimo personale inglese sull’isola venne rimpatriato.
Sul campo invece, la cooperazione fra Curtis e Bonesteel fu eccellente: gli americani non erano tecnicamente sotto comando inglese, ma tutte le operazioni vennero svolte in pieno accordo.
Il 22 aprile del 1942 il generale Curtis, prima di partire anch’egli, affidò il comando delle proprie truppe rimanenti a Bonesteel che, per ordine del presidente Roosevelt, insignì il generale inglese della “Distinguished Service Medal” per meriti eccezionali resi al governo degli Stati Uniti.

La perdite militari sul suolo islandese

Nonostante i profondi dibattiti strategici che impegnavano i quartier generali dei belligeranti, “Iceland was perhaps one of the safest countries in the world during the WWII”, il che indubbiamente favorì il clima di generale collaborazione cui si faceva ora riferimento. Tra il 1940 ed il 1946 l’esercito inglese conta solo una perdita dovuta ad un singolo raid di un aereo tedesco in ricognizione nel febbraio del 1941. Non per questo la vita doveva essere piacevole per la truppa, anche perché le interazioni fra militari e civili dovevano essere tenute al minimo per non turbare gli islandesi. Problemi seri si ebbero a causa della difficoltà di adattamento alle condizioni ambientali: tre soldati si uccisero tra il 1940 ed il 42, ed altrettanti vennero rimandati a casa in precario stato mentale. Addirittura un Cameron Highlander, durante una crisi di nervi, tentò di nuotare fino a casa (ripescato dai commilitoni, si salvò). Decine di morti furono poi causate dall’alcool, da incidenti stradali e da condizioni atmosferiche. Anche incidenti da arma da fuoco per imperizia danneggiarono il contingente. Il 29 giugno del 1940 due soldati del Royal Regiment rimasero feriti mentre pulivano il loro fucile. Ciò causò un commento seccato del Generale di Brigata Page:
«Due uomini, uno della compagnia A ed uno della compagnia C sono in ospedale per ferita d’arma da fuoco, subita mentre pulivano il loro fucile. In entrambi i casi si tratta di reclute che in condizioni normali non avrebbero avuto munizioni. Questo è il risultato di una condizione anomala, come da ordini superiori, che prevede la distribuzione di munizioni a tutta la truppa»

La seconda parte del conflitto

L’intervento americano diede la possibilità di spiegare tutto il potenziale strategico dell’Islanda nella battaglia del Nord Atlantico. Anche se in un primo momento gli Usa erano formalmente neutrali, gli incidenti fra marina statunitense e tedesca si intensificarono a tal punto di poter parlare di “guerra non dichiarata”: il 21 maggio 1941 la nave americana Robin Moore venne affondata da un sottomarino tedesco. Il 4 settembre 1941 un U-Boot attaccò due cacciatorpediniere americane al largo dell’Islanda, prima di essere individuato e contrattaccato dalla USS Greer. Ancora il 17 ed il 31 ottobre i tedeschi affondarono la USS Kearney e la USS Reuben James. A seguito di questi incidenti, il presidente Roosevelt diede l’ordine di sparare a vista sui sottomarini tedeschi. Tutto come Churchill aveva previsto.
L’Atlantico settentrionale divenne uno dei teatri maggiormente importanti a partire dal 22 giugno 1941, giorno in cui scattò l’Operazione Barbarossa con le quali le truppe di Hitler rompevano l’accordo Molotov-Ribbentropp ed attaccavano l’Unione Sovietica. La Germania questa volta non fu in grado di ripetere i fulminei successi già ottenuti in Europa, e cominciò una guerra di logoramento. L’Inghilterra non era più sola a combattere contro Hitler, ed un avvicinamento tra Stalin e Churchill fu più che naturale. Sebbene il dittatore sovietico chiese con insistenza più e più volte ai neo alleati angloamericani di aprire un fronte in Europa Occidentale per alleggerire la pressione tedesca lungo i propri territori, per molto tempo questi non poterono fare altro che assistere in rifornimenti l’Unione Sovietica.

Avendo l’Islanda come centro di raccolta, gli alleati operarono secondo il sistema dei convogli protetti, coinvolgendo cioè le risorse aeree e navali in grande quantità; in questo modo riuscirono a mantenere aperto il flusso di rinforzi tra gli Usa e la Gran Bretagna, e tra questi e l’alleata URSS. I convogli vennero identificati dalla sigla PQ più un numero progressivo nel tragitto tra Islanda ed il porto sovietico di Archangel (penisola di Kola), e QP nel tragitto di ritorno. Le 17 navi dei primi due convogli, denominati “Dervish” e PQ1 salparono da Hvalfjordur il 21 agosto e 29 settembre 1941, ed arrivarono nel porto di Archangel senza incidenti il 31 agosto e 11 ottobre seguenti.

I convogli artici

Nonostante questo primo successo le rotte atlantiche erano tutt’altro che sicure: nel periodo 1941-42 i sottomarini tedeschi affondavano nell’Atlantico più navi di quante gli inglesi erano in grado di costruire. Gli U-Boot tedeschi sembravano essere dei branchi di lupi a caccia di facili prede, e dalle loro basi in Norvegia potevano agire con relativa semplicità.
Gli U-Boot non erano comunque l’unica forza navale su cui i tedeschi potevano contare: agli inizi del 1942, per massimizzare i benefici delle postazioni ottenute, i tedeschi cominciarono ad allestire una importante flotta per i porti norvegesi. Particolarmente temute dall’Ammiragliato Britannico erano una mezza dozzina di unità pesanti fra cui la “corazzata tascabile” Lutzow, la formidabile Scharnhorst che montava cannoni da 11,1” e circa 2.000 uomini di equipaggio, e la nave gemella della Bismark, ovvero la Tirpiz, una fortezza da 35.000 tonnellate armata con cannoni da 16”.
Il 1942 fu decisamente l’anno peggiore per gli alleati: in quell’anno vennero affondati gli incrociatori Edinburgh e Trinidad, più cinque cacciatorpediniere, quattro dragamine, un sottomarino ed un vascello armato. Anche le perdite mercantili furono ingentissime, con circa ottanta battelli affondati appartenenti ad una dozzina di convogli diversi. Particolarmente tragico fu l’episodio del PQ 17. Salpato da Reykjavik il 27 giugno del 1942, il convoglio venne ben presto avvistato dagli U-boot tedeschi che cominciarono un micidiale attacco. Nella speranza di limitare le perdite l’Ammiragliato britannico diede ordine di disperdere il convoglio, e si consumò un massacro. Ben 22 navi alleate, su un totale di 35, tra il 5 ed il 10 luglio vennero affondate. Questa fu indubbiamente la più grande vittoria riportata dalla Germania, che costò agli alleati 430 carri armati, 210 aerei, 3.350 fra jeeps ed altri mezzi ed altre 100.000 tonnellate in materiali di vario genere.
Anche gli islandesi vennero loro malgrado coinvolti dalla precarietà delle acque che abitualmente solcavano: negli anni di guerra 32 pescherecci vennero attaccati, di cui 18 affondati, e 138 marinai uccisi. I battelli islandesi inoltre trassero in salvo 1.655 naufraghi di diverse nazionalità.
Gli alleati cercarono di costringere sempre più la marina tedesca ad operare nelle acque costiere di Francia, Norvegia e Germania stessa, mentre la RAF bombardava sempre più massicciamente le basi navali si Saint-Nazaire, Brest, Brema ed altri porti.

I tedeschi nel Nord Atlantico mancavano di postazioni sicure lungo tutto l’arco che va dal continente americano fino alla Gran Bretagna, quindi non potevano avvalersi della forza aerea per le operazioni di pattugliamento. La strategia di blocco navale aveva dato i suoi frutti tentando di spezzare le linee di passaggio degli alleati, ma potendosi affidare solo sui loro U-Boot i tedeschi erano in una posizione che alla lunga mostrò i suoi limiti: i loro nemici potevano infatti avvalersi di un sistema integrato (aviazione, marina, sorveglianza radar e sorveglianza sonar, nonché difesa di queste postazioni grazie alle truppe di terra) all’interno di una fitta rete di basi in tutta la regione.
A poco a poco gli alleati riuscirono ad avere il sopravvento in questa disperata lotta tra navi di superficie e navi sottomarine: il successo del 1942 non venne ripetuto ed anzi cominciò una inesorabile inversione di tendenza, non solo in questo ma anche in altri scenari, che avrebbe aperto la strada ad una massiccia offensiva sul continente europeo.

La partenza delle truppe di Sua Maestà Britannica

Come abbiamo visto, se l’esercito inglese si ritirò ufficialmente durante l’aprile del ’42, Royal Navy e Royal Air Force continuarono ad operare per tutto il corso del conflitto. Anche se gli islandesi preferirono non intervenire direttamente nei piani di guerra fra inglesi ed americani, la questione del ritiro a fine conflitto fu sempre la loro grande preoccupazione: in più d’una occasione il governo islandese chiese chiarificazioni alle due potenze sulla situazione delle forze armate e Londra fu sempre disposta a rinnovare le promesse date al suo arrivo.
Il governo inglese non aveva intenzione di incorporare l’Islanda nell’impero britannico, ed i piani per mantenere postazioni permanenti nel paese vennero discussi ma subito scartati.
I piani per il ritiro della marina e dell’aviazione furono piuttosto complessi. Il campo aereo di Reykjavik, principale, ed i secondari a Kaldadharnes, Sandgerdi, Melgerdi, Oddi e Hofn, e la base navale di Hvalfjordur avevano accumulato un gran numero di materiali e mezzi di tutti i generi, che andavano in qualche modo smaltiti.

Il console Smith frattanto era prematuramente scomparso (24 luglio del 1942), ma ancora una volta l’ambasciata britannica, guidata ora da Edward Shepherd, lavorò in sintonia con gli islandesi: parte del materiale mobile venne riportato in patria, altro venne venduto a prezzi forfettari o regalato ai locali ed altro ancora venne distrutto o gettato in mare; tra il 1944 ed il 1945 la marina chiuse tutti suoi centri di osservazione e le postazioni radar. Il 6 Agosto 1945 il vessillo di guerra della Royal Navy venne ammainato, e l’ammiraglio in capo Watson fece ritorno in patria. Gli ultimi marinai salparono il mese successivo.

Anche per l’aviazione il discorso fu simile, ma il personale ultimo venne rimpatriato solo nel marzo del 1947. In virtù di accordi con il governo infatti, gli inglesi si impegnarono ad addestrare personale islandese per impiegare tutte quelle strutture inesistenti prima della guerra.
Cerimonie ufficiali celebrarono il passaggio dell’aeroporto di Reykjavik il 20 luglio del 1946, ed in un solenne discorso alla nazione il primo ministro Òlafur Thors ricordò l’onorevole comportamento della Gran Bretagna che:
«…Ha mantenuto le promesse date ad una piccola nazione nel momento in cui le fondamenta della terra erano scosse e il destino della civiltà si dibatteva nell’incertezza. La promessa del governo britannico è stata mantenuta non appena le circostanze lo hanno permesso (…) Il console Sir Edward Shepherd voglia ricevere il ringraziamento del popolo islandese per la condotta dei britannici nei confronti della nostra nazione, dall’inizio del conflitto fino a questo stesso giorno».

Autore: Edoardo Cicchinelli


 

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