HOME PAGE
CRONOLOGIA
DA 20 MILIARDI
ALL' 1 A.C.
DALL'1 D.C. AL 2000
ANNO X ANNO
PERIODI STORICI
E TEMATICI
PERSONAGGI
E PAESI

110 b - LA CONQUISTA DELL'INDIPENDENZA

John Adams, secondo Presidente degli Stati Uniti, visse tanto da raggiungere quella matura vecchiaia, nella quale ci si diletta ad esaminare filosoficamente le attività che ci hanno assorbito nel fiore della vita. In una lettera piena di reminiscenze, scritta nel declinare degli anni, egli afferma che la storia della rivoluzione americana risale al 1620. «La rivoluzione, egli scrive, era in atto prima che la guerra cominciasse. La rivoluzione era nella mente e nei cuori di tutti ». Per rintracciare quei principi e quei sentimenti che indussero gli americani a ribellarsi, egli aggiunge, "bisogna risalire nel corso della storia di almeno due secoli e approfondire la conoscenza degli avvenimenti del paese partendo dalle prime colonie sorte in America ».

Praticamente, la lotta aperta tra l'Inghilterra e l'America ebbe inizio nel 1763. Erano trascorsi allora più di un secolo e mezzo da quando a Jamestown, in Virginia, era stato fondato il primo centro, e le numerose colonie si erano sviluppate sia economicamente che culturalmente: quasi tutti godevano ormai da anni di un autogoverno e la loro popolazione complessiva superava ormai un milione e cinquecentomila abitanti, con un aumento di 250 mila anime dal 1700.
Le ripercussioni di questo sviluppo delle colonie furono assai più vaste e profonde di quanto l'aumento numerico potesse far supporre.

Nel secolo XVIII si era verificato un nuovo rifiorire di espansione coloniale con l'arrivo di emigranti dall'Europa, e dato che le terre migliori lungo la costa erano già state occupate, i nuovi venuti erano stati costretti a spingersi verso l'interno, oltre le sorgenti dei fiumi. I mercanti che avevano esplorato il retroterra narravano, al loro ritorno, lunghe storie di ricche vallate, inducendo così gli agricoltori più coraggiosi, in cerca sempre di terre migliori o meno costose, a trasferire le loro famiglie in luoghi inesplorati ed a creare la loro casa in radure quasi del tutto deserte.
Le traversie erano infinite, ma quando il successo arrideva agli audaci, la ricompensa era generosa e nuovi abitatori continuavano a giungere, fino a che le vallate del retroterra furono completamente popolate di pionieri intraprendenti.

Verso il 1730 i coloni avevano già cominciato ad oltrepassare le frontiere della Pennsylvania con le loro famiglie e ad addentrarsi lungo la vallata dello Shenandoah, seguendo i vari corsi d'acqua che li conducevano a poco a poco in territorio ancora più distante: il famoso, selvaggio West.

Fino al 1763 la Gran Bretagna non aveva formulato una politica imperiale precisa per i suoi possedimenti coloniali. Il principio informatore consisteva in quel punto di vista, commerciale e prettamente mercantilista, che le colonie dovessero fornire alla madre patria le materie prime, senza farle concorrenza nel campo industriale.
Ma questo concetto non trovava un'applicaziore efficace, e le colonie non si erano mai considerate come parte integrante di un tutto inscindibile. Esse si ritenevano piuttosto dei Commonwealth o degli stati sul tipo dell'Inghilterra stessa, collegati da legami assai blandi alle autorità residenti a Londra.
Talvolta, e molto saltuariamente, si ridestavano in Inghilterra, a tal riguardo, le preoccupazioni del Parlamento e della Corona, le quali tentavano allora di assoggettare più efficacemente alla volontà ed agli interessi del Paese le attività economiche e l'amministrazione stessa delle colonie; ma la maggioranza dei colonizzatori era assolutamente contraria a questo vincolo di subordinazione.
Il pensiero che tremila miglia di mare separavano il nuovo mondo dalla madre patria esercitava una tranquillizzante influenza e sopiva qualsiasi timore che le colonie potessero nutrire di eventuali vendette causate dalla loro disobbedienza.

Alla enorme lontananza si aggiungevano le condizioni di vita proprie di un continente ancora incolto: giunti da paesi ove lo spazio era limitato, le città popolose e i campi coltivati ed aperti, i colonizzatori vivevano ora in un continente illimitato, ricco di boschi profondi e di fiumi sconfinati. Tutto concorreva, dunque, a favorire un mutamento radicale di condizioni e consuetudini di vita, nel senso di un progressivo potenziamento dell'individuo e di un più vigoroso anelito alla libera espansione della personalità di ciascuno.

In questo particolare quadro di eventi e di ambiente, il colonizzatore era dunque indotto a dimenticare non solo la potenza, ma anche la necessità di un Governo britannico. Le basi dell'organismo politico rimanevano su per giù quelle che essi avevano conosciuto in Inghilterra, ma innumerevoli leggi, necessarie nell'ambito di quel Paese perché la complessa vita sociale inglese si svolgesse in modi ordinato, diventavano di scarsa importanza, o addirittura inutili, nella foresta scarsamente popolata; contemporaneamente, nuove norme deliberate dagli abitanti stessi si venivano sostituendo a quelle abbandonate.
Consci di aver poco da temere e spesso in grado di fare perfino a meno del governo, gli uomini viventi sui margini della frontiera si difendevano da loro stessi e, inclini sempre più ad odiare ogni costrizione, si sentivano "disposti a fare e a disfare come e quando loro meglio piacesse".

Essi seppero trarre profitto fin dall'inizio da quelle tradizioni che erano retaggio della lunga lotta sostenuta dal popolo inglese per la conquista della libertà politica. I concetti da ciò derivati furono fissati in forma solenne nella prima Carta della Virginia, la quale stabiliva che i colonizzatori inglesi dovessero godere di tutte le libertà, franchigie ed immunità "come se essi vivessero e fossero nati entro i confini di questo nostro Regno d'Inghilterra" .

Ad essi spettava infatti di godere dei benefici stabiliti dalla Magna Charta e dal diritto consuetudinario. Nei primi tempi i colonizzatori poterono attenersi al loro retaggio di diritti, visto che il Re sosteneva arbitrariamente che le colonie non erano soggette al controllo del Parlamento. Per molti anni i Re d'Inghilterra avevano avuto da preoccuparsi troppo della strenua lotta che ferveva nel paese stesso, lotta che culminò nella rivoluzione Puritana, per poter imporre la loro volontà.
Prima che il Parlamento potesse dedicarsi al compito di plasmare le colonie e di assoggettarle ad una politica imperialista, queste avevano rafforzato le loro basi, erano crescite e si erano sviluppate a modo loro.

Fin dal primo momento in cui avevano messo piede sul nuovo continente, i colonizzatori si erano governati secondo le leggi e la costituzione inglese, e cioè a mezzo di assemblee legislative e con un sistema di governo rappresentativo che riconosceva le garanzie offerte dal diritto comune alla libertà personale; ma, con l'andar del tempo, la legislazione divenne sempre più americana come concetto informatore, e le consuetudini e le procedure di origine britannica furono gradatamente trascurate.

L'indipendenza assoluta da un effettivo controllo inglese non fu conquistata senza lotte; difatti la storia delle colonie è ricca di conflitti tra le assemblee elette dal popolo e i governatori, i quali, nominati nella maggior parte dei casi direttamente dal Re, impersonificavano per coloro che risiedevano nelle colonie il pericoloso spirito di privilegio e la minaccia sempre presente sulle loro libertà.
Con tutto ciò, i colonizzatori riuscirono spesso a privare questi Governatori reali di ogni effettivo potere in quanto, come regola generale, i Governatori «non traevano la loro autorità che dall'Assemblea».
Talvolta veniva impartita al Governatore la direttiva di concedere uffici redditizi o anche elargizioni di terre a individui socialmente influenti, onde accaparrarne l'appoggio ai progetti reali; ma altrettanto spesso, questi funzionari coloniali, una volta assicuratosi lo stipendio, sposavano con tutta l'energia la causa della colonia.

Il Conflitto che di tanto in tanto si verificava tra il Governatore della provincia, simbolo del principio monarchico e di un controllo dall'esterno sulla cosa pubblica, e l'Assemblea che impersonificava l'autonomia locale e i principi democratici, contribuì enormemente a risvegliare il senso coloniale nei residenti ed a far sì che essi si rendessero conto della divergenza che esisteva tra interessi americani e interessi inglesi.

Con il passare del tempo, le assemblee avocarono a sé le funzioni dei Governatori e dei loro consigli i quali risultavano composti di abitanti scelti tra coloro che più docilmente si sottoponevano ai loro doveri di sudditi. In tal modo, a poco a poco l'intero centro di gravità dell'amministrazione coloniale si venne spostando da Londra alle capitali delle province americane. Un tentativo per portare un mutamento molto drastico nelle relazioni tra le colonie e la madre patria avvenne verso il 1770.

Uno dei fattori principali dell'avvenimento fu l'espulsione definitiva dei francesi dal continente nord-americano.
I britannici, nella loro politica di colonizzazione, avevano costellato la zona rivierasca dell'Atlantico di piccole fattorie contornate da larghe estensioni di territorio coltivato e di città fiorenti: i francesi invece avevano creato qualcosa di assai differente nella vallata del San Lorenzo e nella parte orientale del Canadà, zone poste sotto il loro dominio. Essi avevano inviato pochi coloni, ma molto più esploratori, missionari e mercanti di pellicce; si erano impadroniti anche del Mississippi, e con molta tenacia, costruendo a poco a poco un'intera linea di forti e di centri per il commercio, avevano creato un impero a forma di mezza luna che si estendeva da Quebec, a nord-est, fino a New Orleans a sud, cercando così di chiudere gli inglesi nella stretta striscia costiera ad oriente dei monti Appalachiani.

Gli inglesi avevano cercato da tempo di resistere a quella che essi ritenevano «una lenta intrusione dei francesi». Fin dal 1613 erano scoppiati dei conflitti tra colonizzatori francesi ed inglesi: vi fu perfino una specie di guerra organizzata, che riproduceva in miniatura le ostilità ben più gravi tra Inghilterra e Francia; così tra il 1689 e il 1697 la guerra di Re Guglielmo, combattuta in America, corrispose alla fase europea della guerra del Palatinato; dal 1701 al 1713 la guerra della Regina Anna alla guerra di successione spagnola e, dal 1744 al 1748, la guerra di Re Giorgio a quella di successione austriaca.
Quantunque l'Inghilterra riuscisse con queste guerre ad assicurarsi qualche vantaggio, il risultato della lotta non fu mai definitivo e la Francia conservò una posizione molto forte sul Continente.

Solo verso il 1750 il conflitto giunse alla fase conclusiva. I francesi, dopo la pace di Aix-la-Chapelle conclusa nel 1748, avevano rafforzato il loro dominio sul bacino del Mississippi; contemporaneamente, il movimento dei colonizzatori inglesi che attraversavano gli Allegheny si era intensificato.
Si iniziò così una corsa per il possesso dello stesso territorio: uno scontro armato contro una banda di soldati regolari francesi ebbe luogo nel 1754, scontro al quale prese parte un contingente della milizia della Virginia al comando dell'allora ventiduenne Giorgio Washington.

La guerra «Franco-indiana» che ne seguì vide gli inglesi e i loro alleati indiani combattere contro i francesi e gli alleati indiani di questi, e fu questa guerra che risolse, una volta per tutte, il vecchio conflitto che si era tante volte riacceso tra francesi e inglesi per la supremazia nell'America Settentrionale.
Mai come allora si era sentita nelle colonie britanniche la necessità di essere uniti e di agire prontamente.

La posizione della Francia non minacciava soltanto l'impero britannico ma gli stessi colonizzatori americani, poiché, detenendo questa potenza il bacino del Mississippi, essa era in grado di arginare l'espansione dei coloni americani verso Ovest e poteva quindi soffocare la sorgente stessa della forza e della prosperità coloniale. I Governatorati francesi del Canadà e della Louisiana non soltanto erano cresciuti in potenza ma avevano anche visto accrescere il loro prestigio presso gli indiani, riuscendo ad attrarre dalla loro parte perfino gli Iroquois, alleati tradizionali dei britannici.

Allo scoppio di una nuova guerra i colonizzatori inglesi esperti in questioni indiane sapevano dunque bene di dover prendere delle misure assai severe, se volevano evitare un disastro.
Proprio in questo periodo il «British Board of Trade», (Il Consiglio del Commercio Britannico) cui erano giunti rapporti sul peggiorare delle relazioni con gli indiani, ordinò al Governatore di New York ed ai Commissari delle altre colonie di indire un convegno dei capi Iroquois, onde preparare insieme un trattato. I rappresentanti di New York, della Pennsylvania, del Maryland e delle colonie della Nuova Inghilterra si incontrarono a questo scopo nel giugno 1754, con gli Iroquois ad Albany; qui gli indiani fecero presenti le loro lagnanze e i delegati buttarono giù un rapporto nel quale queste venivano riconosciute giuste e veniva inoltre raccomandato che si agisse di conseguenza. Ma il convegno andò oltre i suoi scopi, che erano quelli di risolvere i problemi indiani: in esso infatti si riconobbe che un'unione delle numerose colonie americane «era assolutamente necessaria per la loro esistenza stessa» e i rappresentanti coloniali presenti stipularono il cosiddetto Patto di Unione di Albany (Albany Plan of Union) che Beniamino Franklin aveva compilato.

Esso stabiliva di attribuire la massima autorità ad un Presidente di nomina reale, il quale avrebbe esercitato le sue funzioni coadiuvato da un gran consiglio di delegati scelti dai componenti dell'assemblea; e che ogni colonia avrebbe avuto una rappresentanza proporzionale al contributo finanziario da essa dato all'erario comune. Il Governo avrebbe dovuto amministrare tutti gli interessi britannici nella parte occidentale: trattati con gli indiani, commercio, difesa e colonizzazione.

Nessuna delle colonie volle però accettare il progetto di Franklin, dato che esse non intendevano in alcun modo di cedere ad un organismo esterno né la facoltà di imporre tasse, né il controllo sullo sviluppo della zona occidentale.
Quanto alla guerra, le colonie offrivano nel loro-insieme un appoggio scarso e poco entusiastico: nessun progetto riusciva ad ispirare loro «un senso di dovere che le legasse al sovrano», e anche se qualche colonia offriva individualmente degli aiuti, questi venivano praticamente annullati dalla mancanza di entusiasmo.
I colonizzatori consideravano la guerra come una lotta che Inghilterra e Francia conducevano per fini imperialistici. Essi non si commuovevano affatto se il Governo britannico era obbligato ad inviare molte truppe regolari a sostenere battaglie nelle colonie, né si dolevano se le vittorie erano riportate dalle «giubbe rosse
» invece che dai loro soldati. Né tantomeno vedevano alcuna ragione per interrompere un commercio che in realtà costituiva un vero e proprio scambio col nemico.

Nonostante mancasse l'appoggio sincero da parte dell'elemento coloniale, e le sconfitte militari fossero da principio numerose, la posizione strategica assai superiore dell'Inghilterra, nonché la valentia dei suoi capi, fecero sì che la vittoria britannica fosse completa. Dopo otto anni di conflitti, il Canadà e il bacino superiore del Mississippi venivano definitivamente conquistati: il sogno di un impero francese nel Nord America era tramontato.

Sconfitta la Francia in America, in India e in tutto il mondo coloniale, la Gran Bretagna si trovò costretta ad affrontare il problema, fino allora trascurato, dell'impero. Era ormai essenziale organizzare i suoi vasti domini onde facilitarne la difesa, conciliare i contrastanti interessi di popolazioni e zone differenti, e distribuire meglio il grave onere finanziario di un'amministrazione coloniale.
I territori britannici di oltremare erano più che raddoppiati nella sola America Settentrionale; alla stretta striscia lungo la costa dell'Atlantico si erano aggiunte le distese illimitate del Canadà ed il territorio compreso tra il corso del Mississippì e i monti Allegheny, che costituiva da solo un impero.
La popolazione, un tempo composta quasi per intero da inglesi protestanti o continentali anglicizzati, comprendeva ora numerosi francesi cattolici e un vasto numero di indiani in parte evangelizzati. La difesa e la direzione amministrativa di questi nuovi territori, per non parlare dei vecchi, richiedeva larghe somme di denaro ed un numero maggiore di personale.

Il "vecchio sistema coloniale" era, in realtà, la negazione di un qualsiasi sistema; esso si presentava assolutamente inadeguato alle necessità contingenti, tant'é vero che perfino durante il periodo eccezionale della guerra, che aveva messo in pericolo l'esistenza stessa dei coloni, tale sistema si era dimostrato incapace di assicurare una cooperazione od un appoggio da parte della popolazione residente. Cosa ci si poteva dunque aspettare in tempo di pace, quando, nessun pericolo si sarebbe profilato dall'esterno?

Ad una necessità così evidente, sotto il punto di vista britannico, di una nuova organizzazione coloniale, corrispondeva d'altra parte, in America, una situazione niente affatto favorevole a mutamenti. Abituate da lungo tempo a godere in larga misura l'indipendenza, le colonie avevano raggiunto quella fase di sviluppo in cui era loro necessaria maggiore e non minore libertà, soprattutto ora che la minaccia francese era stata eliminata.
Nel tentare di introdurre un nuovo sistema che rafforzasse i controlli, gli statisti inglesi si trovavano a dover combattere con colonizzatori già ricchi di esperienza in materia di autogoverno, e intolleranti quindi di qualsiasi interferenza; con mercanti intraprendenti e abituati a contare su loro stessi, con artigiani che avevano acquistato una coscienza politica, con grandi agricoltori refrattari a qualsiasi disciplina imperiale, con piccoli coltivatori degli altopiani che non conoscevano, né si curavano di conoscere, leggi e regolamenti coloniali; con assemblee locali pronte ad avvertire ogni menomazione anche minima di quelli che essi consideravano i loro diritti di liberi costituenti.

In realtà, molti americani non si curavano minimamente dell'impero britannico in quanto tale, e pur rappresentando soltanto una piccola minoranza, erano aggressivamente decisi a fare a modo loro ed a vivere la loro vita in quell'America di cui avevano saputo trasformare l'aspetto, creando nei territori una volta inospitali una casa ed una patria.

Uno dei primi problemi che gli inglesi dovettero affrontare fu quello di dare un'organizzazione alla parte interna. La conquista del Canadà e della vallata dell'Ohio aveva loro imposto il compito di creare una struttura amministrativa e di sviluppare una politica religiosa e terriera che non alienasse loro gli abitanti francesi e gli indiani. Ma qui sorgeva appunto il conflitto con gli interessi delle colonie costiere, le quali, vedendo aumentare rapidamente la loro popolazione, tendevano a sfruttare per proprio conto i nuovi territori acquistati.
Numerose colonie, infatti, cui erano necessari nuovi territori d'espansione, sostenevano in base ai loro statuti costitutivi di aver diritto ad estendersi verso ovest fino al fiume Mississippi, e nuovi coloni, convinti che la nuova regione conquistata appartenesse soltanto a loro, traversavano ininterrottamente i passi montani.

Il Governo britannico temeva invece che un eccessivo affollamento di pionieri agricoltori nella nuova terra avrebbe potuto provocare una serie di guerre da parte degli indiani; inoltre riteneva che a queste popolazioni insofferenti di controllo si dovesse dare il tempo di radicarsi sul luogo; quanto alle nuove terre, avrebbero potuto essere aperte alla colonizzazione più tardi e con ritmo graduale.

Nel 1763 un proclama reale riservava ad uso esclusivo degli indiani tutto il territorio occidentale compreso tra i monti Allegheny, la Florida e il Mississippi fino a Quebec, tentando così, con un solo colpo, di spazzare via qualsiasi eventuale pretesa delle 13 colonie sui territori occidentali, e di arrestare il movimento di espansione nello stesso modo in cui questo era stato impedito un tempo dall'occupazione francese.

Questo provvedimento, per quanto mai attuato praticamente, costituì per gli indignati coloni un'arbitraria e grave violazione di un loro fondamentale diritto: quello di occupare e utilizzare le terre occidentali a seconda delle loro necessità.
Ancora più gravi nelle loro ripercussioni si dimostrarono le nuove direttive finanziarie della Gran Bretagna. Per fornire il denaro necessario alle crescenti spese dell'impero, le colonie dovevano dare il loro apporto, dal momento che il contribuente inglese non era in grado di coprire interamente il fabbisogno. Questo gettito fiscale delle colonie non poteva però essere realizzato che attraverso un più severo controllo amministrativo, e questo, a sua volta, non poteva essere attuato se non a spese dell'autogoverno delle colonie.

Il primo passo che segnò l'inizio del funzionamento del nuovo sistema fiscale fu l'emanazione della Legge sullo zucchero del 1764; questo provvedimento, emendato poi due anni più tardi, non aveva altro scopo che di aumentare gli introiti governativi. Esso sostituiva un provvedimento più antico, il Molasses Act (Legge sulle melasse) del 1733, il quale stabiliva un'imposta proibitiva sulle melasse importate da zone non inglesi.
La Legge sullo zucchero, nella sua versione emendata, imponeva invece una imposta più lieve sulle melasse provenienti da qualsiasi zona, nonché sui vini, sulle sete, sul caffé e su altri generi di carattere voluttuario.

Le direttive di applicazione della Legge furono molto severe, tant'è vero che alle navi da guerra britanniche incrocianti nelle acque americane venne ordinato di catturare i contrabbandieri, mentre «mandati di perquisizione» permisero agli ufficiali di S. M. di perquisire luoghi e case sospetti. Analoghe istruzioni furono date ai funzionari di dogana.

Ciò che suscitò enorme costernazione tra i mercanti della Nuova Inghilterra non fu tanto l'imposizione delle nuove tasse, quanto il fatto che per applicarle fossero state prese misure per loro tanto inconsuete. Da più di una generazione gli abitanti della Nuova Inghilterra importavano dalle Indie Occidentali francesi e olandesi la maggior parte delle melasse loro necessarie, senza corrispondere dazio alcuno; essi sostenevano infatti che il pagamento di una tassa, anche minima, sarebbe stato per loro rovinoso.
La Legge sullo zucchero si prestava poi, nella forma in cui era stato stilato il suo preambolo, ad una interpretazione che permetteva ai coloni di sostenere le loro proteste con argomenti di carattere costituzionale. Che il Parlamento avesse diritto di tassare le merci coloniali onde regolare il commercio imperiale era questione da tempo accettata almeno in teoria - anche se non sempre in pratica -; ma che esso avesse facoltà, di levar tasse «per aumentare i redditi di questo reame», come suonava la Legge sul reddito (Revenue Act) del 1764, era cosa del tutto nuova, e quindi discutibile.

La questione costituzionale divenne quindi il principale incentivo a quella grande lotta che doveva in definitiva spezzare l'impero in due parti.
«Una sola Legge dei Parlamento ha fatto meditare in sei mesi tutta la popolazione, più di quanto essa avesse finora meditato in tutta la vita»,
scriveva James Otis, un fervente patriota del tempo. Mercanti, assemblee legislative, riunioni cittadine protestavano contro la capziosità della Legge e giuristi coloniali, come Samuel Adams, trovavano in quel preambolo il primo segno annunciatore di quel principio di «tassazione senza rappresentazione» che avrebbe poi suscitato la ribellione di innumerevoli patrioti delle colonie contro la patria d'origine.

Poco tempo dopo, e sempre nello stesso anno, il Parlamento approvava una Legge sulla valuta «onde impedire che le note di credito che verranno d'ora innanzi rimesse in una qualsiasi delle colonie di S.M. abbiano corso come valuta ufficiale»; si trattava di un altro grave onere posto sull'economia coloniale, perché i territori coloniali rappresentavano una zona commercialmente deficitaria ed erano sempre a corto di «valuta pregiata».


Anche il Billeting Act (Legge sull'alloggiamento) approvata all'inizio del 1765, si dimostrò quanto mai invisa all'opinione coloniale, in quanto obbligava le colonie a provvedere alloggio ed alcuni generi di rifornimento alle truppe reali che fossero eventualmente di stanza nel loro territorio.
Per quanto violenta fosse l'opposizione suscitata da queste leggi, il provvedimento che fece sorgere una resistenza organizzata fu un altro, e precisamente l'ultimo di quelli che miravano a creare il «nuovo sistema coloniale».
Si trattò della famosa Legge sul bollo, in base alla quale veniva ordinato che Marche sull'entrata dovessero essere applicate a tutti i giornali, fogli volanti, opuscoli, licenze, contratti di affitto ed altri documenti legali: il gettito delle marche sarebbe stato speso al solo scopo di «difendere, proteggere e rafforzare la sicurezza» delle colonie. A riscuotere le tasse avrebbero dovuto essere nominati
soltanto cittadini americani; il peso di questo nuovo onere appariva così lieve e ben distribuito, che il Parlamento approvò il provvedimento stesso senza altre discussioni né attenzioni.

Invece la violenza con la quale questo fu accolto dalle 13 colonie meravigliò dovunque gli uomini moderati; esso si attirò l'ostilità dei gruppi più potenti e più dialettici: giornalisti, avvocati, ministri della Chiesa, mercanti e uomini d'affari, e ciò in tutte le regioni del Paese, sia a nord che a sud, ad est e a ovest. Ben presto i mercanti più ragguardevoli, le cui bollette di carico sarebbero state tutte indistintamente tassate, si organizzarono per resistere al nuovo provvedimento e formarono delle associazioni di «non importazione».

Tutti gli affari subirono una stasi temporanea ed il commercio con la madre Patria registrò, nell'estate del 1765 una discesa formidabile. Gli individui socialmente più importanti si organizzarono nei cosiddetti " figli della libertà" e l'opposizione politica assunse ben presto forme di violenza: folle eccitate sfilavano in corteo nelle strade tortuose di Boston; dal Massachusetts alla Carolina del Sud, la nuova legge venne praticamente annullata, mentre la folla tumultuante costringeva gli sfortunati esattori a rinunziare alla loro carica e distruggeva le odiate marche.

Il significato più importante della Legge sul bollo non consisteva soltanto nell'avere affrettato la resistenza rivoluzionaria, ma soprattutto nell'aver costretto gli americani a formulare una teoria sulle relazioni con l'Impero la quale potesse collimare con le condizioni del Paese. L'assemblea della Virginia, ad esempio, approvò su proposta di Patrick Henry un gruppo di mozioni nelle quali la «tassazione senza rappresentazione» veniva denunciata come una innovazione pericolosa e senza precedenti di sorta; vera minaccia incombente sulle libertà delle colonie.
Pochi giorni più tardi, la Camera del Massachusetts invitava tutte le colonie a designare delegati ad un Congresso da riunire a New York, allo scopo di esaminare la minaccia costituita dalla Legge sul bollo.

Questo Congresso ebbe luogo nell'ottobre del 1765 e fu il primo convegno intercoloniale indetto per iniziativa americana: ventisette uomini, audaci ed abili, appartenenti a nove colonie diverse, colsero quest'occasione per mobilitare l'opinione coloniale contro l'interferenza del Parlamento negli affari americani. Dopo una lunga serie di dibattiti, il Congresso approvò una serie di mozioni nelle quali si affermava che «nessuna tassa era mai stata o poteva essere loro imposta costituzionalmente se non dai rispettivi corpi legislativi» e che la Legge sul bollo «tendeva in modo manifesto a sovvertire i diritti e le libertà dei colonizzatori».

La questione costituzionale, così formulata, colpiva direttamente il problema della rappresentanza. Secondo il punto di vista delle colonie, queste non potevano ritenersi rappresentate in Parlamento a meno che non avessero realmente eletto membri alla Camera dei Comuni. Questo concetto però urtava contro l'ortodosso principio inglese della «rappresentanza virtuale» cioè a dire della rappresentanza per classi e interessi invece che per collegi. La maggior parte dei funzionari britannici sosteneva che il Parlamento era un organismo imperiale rappresentante ed esercitante sulle colonie la stessa autorità che gli era conferita in Patria: esso poteva approvare leggi per il Massachusetts così come legalmente poteva farlo per il Berkshire, in Inghilterra.

Gli esponenti della politica americana controbattevano che non esisteva alcun Parlamento «di natura imperiale» e che le loro relazioni legittime erano soltanto con la Corona. Era il Re che aveva concesso che colonie fossero fondate di là del mare ed era il Re che aveva loro dato una forma di governo. Riconoscevano che il Re era al tempo stesso Sovrano in Inghilterra come nel Massachusetts, ma sostenevano con molta energia che il Parlamento inglese non aveva alcun diritto di legiferare per il Massachusetts, come il corpo legislativo del Massachusetts non lo aveva nei riguardi dell'Inghilterra.
Se il Re aveva bisogno che la colonia gli fornisse del
denaro poteva chiedere un donativo, ma un suddito britannico, fosse egli residente in Inghilterra o in America, doveva essere gravato di tasse soltanto da, e per mezzo dei suoi propri rappresentanti.

I parlamentari inglesi, naturalmente, non erano disposti ad accettare quanto sostenevano le colonie, ma i mercanti britannici esercitavano pressioni assai efficaci: il boicottaggio americano faceva già sentire i suoi effetti. Essi si schierarono quindi con tutta la loro forza dalla parte del movimento tendente all'abrogazione della legge e nel 1766 il Parlamento cedette, ritirando la Legge sul bollo e modificando profondamente quella sullo zucchero.
La notizia provocò nelle colonie enorme soddisfazione: i mercanti annullarono gli accordi di non importazione, i Figli della Libertà cessarono la loro attività ed il commercio riprese fiorente il suo corso, mentre la pace sembrava ristabilita.

Non si trattava, però, che di una breve tregua: nel 1767 un'altra serie di provvedimenti fece riaffiorare di nuovo tutti gli elementi di discordia. Charles Townshend, Cancelliere dello Scacchiere, fu sollecitato ad elaborare un nuovo programma finanziario per il Governo. Desideroso di ridurre i gravami fiscali britannici e di rendere più efficiente la riscossione dei diritti gravanti sul commercio americano, egli riorganizzò, rafforzandola, l'amministrazione doganale e propose al tempo stesso nuove imposte sulla carta, sul vetro, sul piombo e sul thè che la Gran Bretagna esportava nelle colonie.

Questi provvedimenti mirarono a raccogliere un gettito fiscale che in parte era destinato a finanziare le spese riguardanti il mantenimento in America di Governatori, Magistrati, funzionari doganali e truppe. Un'altra legge proposta da Townshend autorizzava i tribunali superiori delle colonie a spiccare «mandati di perquisizione», dando così una specifica base legale agli ordini di perquisizione tanto invisi ai colonizzatori.

Le agitazioni provocate dai provvedimenti fiscali di Townshend furono meno violente di quelle suscitate dalla Legge sul bollo, ma pur sempre molto vivaci; i mercanti ricorsero di nuovo agli accordi di non importazione, gli uomini indossarono abiti tessuti in casa, le donne adoperarono surrogati invece di thè, gli studenti si servirono di carta fabbricata nelle colonie e le case non furono più verniciate.
A Boston, dove gli interessi commerciali mal sopportavano qualsiasi interferenza, l'applicazione delle nuove norme provocò atti di violenza quando i funzionari della dogana cercarono di riscuotere le imposte, essi furono travolti dalla folla eccitata e malmenati, tanto, che due reggimenti furono inviati d'urgenza a proteggere i Commissari delle Dogane.
La presenza delle truppe britanniche nella vecchia città puritana costituiva un continuo incentivo al disordine e infatti il 5 marzo 1770, dopo diciotto mesi di trattenuto risentimento, esplose finalmente l'ostilità latente tra la popolazione cittadina e le truppe. Un innocuo lancio di palle di neve contro le giubbe rosse - come venivano chiamati i soldati britannici - degenerò ben presto in un attacco da parte della folla:
qualcuno diede all'improvviso l'ordine di sparare, e tre cittadini caddero colpiti a morte sulla neve.

L'incidente offrì agli agitatori coloniali un'arma di indiscutibile valore nella loro campagna mirante a suscitare ovunque ostilità contro l'Inghilterra. Presentato come il «Massacro di Boston», esso venne descritto in toni drammatici come una prova evidente della durezza e della tirannia britannica.

Dinnanzi a tale opposizione, nel 1770, il Parlamento decise di operare una ritirata strategica ed annullò tutte le imposte suggerite da Townshend, ad eccezione di quella sul thé. Questa fu mantenuta, perché come affermava Giorgio III, deve sempre esserci almeno una tassa per affermare concretamente il diritto.
Siccome la maggior parte dei colonizzatori era propensa a vedere nel gesto del Parlamento una «riparazione dei torti inflitti», la campagna contro l'Inghilterra diminuì enormemente d'intensità. Continuò ad esistere un embargo sul « thè inglese.», ma l'agitazione si svolgeva su scala modesta e l'embargo stesso non era osservato troppo scrupolosamente.

La situazione appariva, in generale, non molto chiara per quanto si riferiva alle relazioni con l'impero. La prosperità cresceva e la maggior parte di coloro che rivestivano in colonia posizioni influenti era incline ad aspettare che gli eventi maturassero da soli: la resistenza passiva e la trascuratezza sembravano aver successo, mentre direttive più audaci erano completamente fallite. Gli elementi moderati, poi, in preponderanza in tutte le colonie, salutavano con gioia questo pacifico interludio.

Anche durante il periodo di calma, che durò tre anni, vi fu tuttavia un gruppo relativamente esiguo di «patrioti» o «radicali», che cercò energicamente di mantenere viva la divergenza, sostenendo che la vittoria sull'Inghilterra era illusoria fin tanto che rimaneva in vigore la legge istitutiva della tassa sul thé, in quanto tale legge presupponeva la validità del principio che il Parlamento avesse dei diritti sulle colonie.
Di conseguenza, in qualsiasi momento avvenire detto principio avrebbe potuto essere applicato in pieno, con effetti disastrosi per la libertà delle colonie.

Uno di questi parioti era Samuel Adams del Massachusetts, che era anche il membro più infiente ed attivo del gruppo; questi si adoperava instancabilmente per raggingere un solo scopo: l'indipendenza. Laureatosi allo Harward College, era entrato subito nella pubblica amministrazione quale ispettore dei camini esattore delle tasse e presidente delle riunioni cittadine. Poco fortunato negli affari, si era invece affermato come uomo politico abile e astuto: le riunioni civiche nella Nuova Inghilterra rappresentavano il suo teatro di azione; i suoi strumenti erano gli uomini, che egli conosceva profondamente e di cui riusciva ad accattivarsi la fiducia, sia che fossero rozzi lavoratori dei cantieri navali o eruditi ministri del culto.

Il risultato più importante che egli conseguiva era quello di liberare tali individui semplici dal timore reverenziale che loro ispirava chi fosse loro superiore per posizione sociale o politica e di renderli al tempo stesso consci del loro personale valore. La seconda fase del suo compito consisteva nello spronarli all'azione. Scriveva nei giornali, e nelle riunioni civiche e nelle assemblee provinciali stimolava mozioni e discorsi destinati a ravvivare gli impulsi democratici.

Nel 1772 Adams persuase la riunione civica di Boston a scegliere un «Comitato di Corrispondenza» incaricato di stabilire i diritti proclamati e i torti subiti dai colonizzatori, di collaborare con le altre città in questo campo e di chiedere loro di stilare delle risposte. L'idea si propagò rapidamente comitati vennero fondati in quasi tutte le colonie e ad essi risale l'organizzazione dei movimenti rivoluzionari.
La Gran Bretagna, nel 1773, offri ad Adams ed ai suoi collaboratori lo spunto desiderato. La potente compagnia delle Indie Orientali, trovandosi finanziariamente in acque assai critiche, si rivolse per aiuto al governo britannico ed ottenne la concessione del monopolio su tutto il thè esportato nelle colonie. Data la tassa imposta su tale prodotto da Townshend, i coloni avevano boicottato il thè fornito dalla compagnia e dal 1770 in poi si era stabilito un commercio illegale così fiorente, che forse i nove decimi del thé consumato in America veniva importato dall'estero senza pagare dogane.
La compagnia decise di vendere il suo thè per mezzo dei suoi stessi agenti ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello normale, raggiungendo così lo scopo di rendere il contrabbando non più redditizio e di eliminare i mercanti coloniali indipendenti.

Questo passo avventato suscitò le ire dei commercianti delle colonie e fece sì che essi si alleassero di nuovo con i patrioti. Ciò che li muoveva non era tanto la perdita del commercio del thè, quanto il principio del monopolio. Praticamente in tutte le colonie si cercò in ogni modo di impedire che la compagnia delle Indie Occidentali potesse attuare il suo progetto: ad eccezione di Boston, in tutti i porti gli agenti della compagnia furono «persuasi» a dare le dimissioni e i carichi di thé in arrivo o vennero rispediti in Inghilterra o immagazzinati.

A Boston invece gli agenti, forti dell'appoggio del Governatore regio, si rifiutarono di obbedire all'imposizione e iniziarono i preparativi per sbarcare la merce in arrivo, senza curarsi affatto della forte opposizione sorta nella città.

I patrioti, guidati da Samuel Adams, risposero con la violenza: nella notte del 16 dicembre un gruppo di uomini camuffati da indiani Mohawk salì sulle tre navi e rovesciò nell'acqua le casse contenenti il prodotto.

Una crisi fatale minacciava la Gran Bretagna. La compagnia delle Indie Orientali aveva applicato una legge del Parlamento: se la distruzione dei carichi di thè fosse rimasta impunita, ciò avrebbe dimostrato al mondo che l'autorità del Parlamento sulle colonie era inesistente. L'opinione ufficiale in Gran Bretagna deplorava d'altra parte quasi unanimemente quanto era avvenuto a Boston e il «Tea Party» veniva definito un atto di vandalismo; logicamente venne dunque dato pieno appoggio alle misure proposte per ridurre all'obbedienza le ribelli colonie.

Queste misure presero forma concreta in una serie di leggi che i coloni definirono «Leggi coercitive».
La prima di esse, il «Boston Port Bill», chiudeva il porto di Boston fino a che il thé distrutto non fosse stato pagato: questo provvedimento metteva in pericolo la vita stessa della città, poichè chiuderle lo sbocco sul mare significava provocare un disastro.
Poco dopo, altre leggi conferivano al Re il diritto di nominare i consiglieri del Massachusetts, fino allora eletti dalla popolazione; anche i giurati, scelti dalle assemblee cittadine, dovevano da allora in poi essere designati dagli sceriffi, agenti del Governatore. Anche le assemblee cittadine d'ora in avanti avrebbero potuto essere convocate solo con il permesso del Governatore, cui spettava inoltre la nomina e l'allontanamento dal posto dei giudici e degli sceriffi.

Successivamente venne approvata una legge sugli alloggiamenti, in base alla quale le autorità locali dovevano trovare accantonamenti convenienti per le truppe britanniche: qualora essi avessero trascurato tale dovere, il Governatore aveva facoltà di ordinare che fossero adibiti a tale scopo alberghi, birrerie o altri edifici.
Quasi contemporaneamente veniva approvata la legge Quebec, accolta anch'essa con molta ostilità in quanto ampliava i confini della provincia di Quebec e garantiva ai residenti di origine francese il diritto di libertà religiosa e quello di applicare le loro consuetudini in materia legale.
I colonizzatori erano contrari a questa legge soprattutto perché, non tenendo in alcun conto il diritto, sanzionato nelle antiche carte costitutive, al possesso delle terre occidentali, essa minacciava di ostacolare l'emigrazione, in quanto la tendenza naturale dei colonizzatori a spostarsi verso l'ovest veniva a trovarsi arginata da una provincia cattolica e intransigente. Per quanto la Legge Quebec non fosse stata emanata come una misura punitiva, essa fu classificata dagli americani come una delle leggi coercitive e tutte insieme vennero definite le «Cinque leggi intollerabili».

Questi provvedimenti non ottennero lo scopo di ridurre a più miti consigli il Massachusetts, ma indussero invece le altre colonie ad unirsi onde venirgli in aiuto. Il 5 settembre 1774, su invito dei delegati della Camera dei Borghesi della Virginia, i rappresentanti delle colonie furono convocati a Filadelfia «onde consultarsi sul presente infelice stato delle colonie».

Questa riunione rappresentò il primo Congresso continentale, organismo non contemplato dalla legge e scelto dai congressi provinciali o popolari da cui direttamente discendeva. Ciò significava che il partito dei patrioti, sempre pronto ad agire fuori dai limiti consentiti dalla legge, controllava la situazione, e che i conservatori più ostinati, che non intendevano opporre resistenza alcuna alle leggi britanniche, non vi erano rappresentati. Il Congresso rappresentava comunque nei suoi membri un'ampia e variata raccolta dell'opinione americana, dagli estremisti ai moderati. Tutte le colonie, ad eccezione della Georgia, avevano inviato almeno un delegato e il numero complessivo dei partecipanti (55) era abbastanza vasto perché vi fosse un'ampia gamma di opinioni, ma troppo esiguo per un esauriente dibattito ed un'azione efficace.

Data la divergenza di opinioni delle colonie, il Congresso si trovava ad affrontare un grave dilemma costretto a simulare un'apparenza di ferma unanimità onde ottenere concessioni dal Governo britannico, doveva, al tempo stesso, evitare dimostrazioni troppo palesi di radicalismo o «spirito di indipendenza» onde non allarmare gli americani di tendenza moderata.
Un discorso d'apertura, cauto nelle direttive, venne seguito da una mozione nella quale si dichiarava che nessuna obbedienza era dovuta alle Leggi Coercitive. Una dichiarazione di diritti e proteste, indirizzata al popolo della Gran Bretagna e delle colonie, era accompagnata da una petizione al Re in cui venivano rielencati gli argomenti tradizionali di protesta da parte degli americani, ma, al tempo stesso, vi si riconosceva al Parlamento il diritto di regolare il commercio estero e le questioni a carattere strettamente imperiale.

I risultati più importanti conseguiti dal Congresso consistettero nella costituzione di una «Associazione» con la quale veniva ripristinato il boicottaggio al commercio e si istituiva un sistema di comitati ispettivi in ogni città e distretto onde controllare che non venissero effettuate esportazioni ed importazioni e che non si procedesse al consumo delle merci da boicottare. I Comitati erano incaricati di ispezionare i documenti doganali, di pubblicare liste dei nomi di quei mercanti che violassero gli accordi, di confiscarne le importazioni e perfino di «incrementare la frugalità, l'economia e l'industriosità».

L'«Associazione» portò nella controversia un elemento rivoluzionario organizzato; costruendo sulle fondamenta gettate dai «Comitati di Corrispondenza», le nuove organizzazioni locali avocarono a poco a poco a sé la direzione di tutti gli affari, rafforzarono le campagne miranti ad annullare quel poco che ancora rimaneva della autorità regia, intimidirono coloro che esitavano ancora ad entrare nel movimento popolare e punirono senza pietà gli elementi ad esse ostili. Cominciarono anche a raccogliere forniture militari ed a mobilitare truppe, mantenendo nel contempo accesa la pubblica opinione.

Le attività dei Comitati di Associazione contribuirono ad ampliare quella scissione che si era venuta lentamente manifestando tra la popolazione, portandola ad una fase in cui la conciliazione non era più possibile. Molti americani erano stati per un certo tempo favorevoli ad un movimento di resistenza condotto con maggiore circospezione: essi erano per la massima parte contrari all'interferenza britannica nei diritti americani, ma opinavano che la discussione e il compromesso fossero migliori di un'aperta rottura.
Questo gruppo era assai eterogeneo come composizione: appartenevano ad esso la maggior parte di coloro che rivestivano cariche ufficiali, cioè funzionari di nomina reale, quacqueri di ogni ceto e membri di altre sette religiose contrarie per principio all'uso della violenza; inoltre molti mercanti, specie nelle colonie del centro, ed alcuni modesti agricoltori e coloni di frontiera viventi nella parte interna delle colonie più meridionali.

I patrioti invece erano appoggiati non solo dalle classi meno abbienti, ma anche dal ceto dei professionisti ed in particolar modo dagli avvocati; a questi si aggiungevano i grandi agrari del sud e un rilevante numero di mercanti.
Il susseguirsi degli avvenimenti dopo l'approvazione delle Leggi Coercitive scoraggiò ed atterrì non poco coloro che erano fedeli alla Corona.
Dato questo stato di cose il Re avrebbe potuto allearsi con loro, e con concessioni tempestive rafforzarne tanto la posizione, da rendere difficile ai patrioti di proseguire nelle ostilità. Ma Giorgio III non intendeva affatto fare delle concessioni.

Nel settembre del 1774, a proposito di una petizione indirizzatagli dai quacqueri di Filadelfia, egli scriveva: «Il dado é ormai tratto, le colonie devono o sottomettersi o trionfare». Questo atteggiamento del Sovrano chiuse ogni possibilità ai «lealisti» o «Tories», come si cominciava a chiamarli: non avevano più nulla da offrire ai loro seguaci se non una sottomissione assoluta ed avvilente alle pretese più estreme del Parlamento.
Ai moderati non restava quindi altra scelta che appoggiare i patrioti, denominati ora «Whigs» (i liberali) visto che qualsiasi altro atteggiamento avrebbe avuto come conseguenza la perdita di tutte le loro libertà.

Cominciò quindi a diffondersi un'accanita persecuzione nei confronti dei lealisti i mugnai si rifiutarono di macinare il loro granturco, la mano d'opera di servirli ed essi non potevano né vendere né comperare. Denunciati come traditori, i loro nomi venivano inclusi nelle liste pubblicate dai Comitati «onde i posteri potessero ricordarli con l'infamia che meritavano».

A Boston - dove l'attività politica aveva sostituito quasi del tutto quella commerciale - comandava la guarnigione il generale Thomas Gage, un cortese gentiluomo inglese che aveva sposato un'americana. Uno dei patrioti più in vista della città, il Dott. Joseph Warren, scriveva ad un amico inglese il 20 febbraio 1775:
«Non è ancora troppo tardi per accomodare le cose in forma amichevole, ma ritengo che se il Generale Gage dovesse spostare le truppe verso l'interno, nell'intento di fare applicare le ultime leggi approvate dal Parlamento, la Gran Bretagna dovrebbe dire addio almeno alle colonie della Nuova Inghilterra e, se non mi sbaglio, forse anche a tutta l'America. Se nella Nazione esiste ancora traccia di saggezza, che Iddio le conceda di farvi ricorso immediatamente !».

Il Generale Gage sapeva però che era suo dovere fare applicare le Leggi Coercitive. Avuta notizia che i patrioti del Massachusetts stavano raccogliendo polveri e forniture militari nella città di Concord, distante 32 chilometri da Boston, nella notte del 18 aprile 1775 spedì là un forte nucleo della sua guarnigione, con l'ordine di confiscare le munizioni e di arrestare Samuel Adams e John Hancock, per i quali vi era l'ordine di estradizione in Inghilterra, dove avrebbero dovuto essere processati e forse sarebbero stati condannati a morte.

Tutto il paese però era in fermento, e quando, dopo una notte di marcia, le truppe britanniche giunsero alle prime case del villaggio di Lexington, videro nella luce incerta dell'alba, schierata una banda di 50 «minute men», come venivano allora chiamati i coloni, armati e decisi a far uso delle armi. Vi fu un momento di esitazione, urla ed ordini s'incrociarono e nel pieno fragore si udì uno sparo, fu aperto il fuoco da ambo le parti, gli americani si dispersero lasciando sul terreno otto morti. Era stato versato il primo sangue per la causa dell'indipendenza americana !

Le truppe britanniche si spinsero allora fino a Concord, dove gli agricoltori schierati sul ponte in ordine di battaglia, spararono «colpi che ebbero un'eco mondiale». Raggiunto in parte lo scopo, i reggimenti britannici iniziarono lamarcia di ritorno, ma lungo tutta la via la milizia che giungeva da villaggi efattorie si andava ammassando dietro le mura di pietra, le case, le gibbosità delterreno e bersagliava le ben visibili giubbe rosse. La reazione degli abitanti erastata così rapida e diffusa, che in questa prima battaglia della rivoluzione, quandole stremate forze della colonna britannica raggiunsero Boston, i suoi effettivi di2500 uomini avevano subìto perdite quasi triple di quelle inflitte ai colonizzatori.

La notizia degli avvenimenti di Lexington e di Concord colpì le altre colonie come una folgore. Era evidente che la guerra, quella vera, era alle porte. Il segnale si propagò rapidissimamente da un Comitato cittadino all'altro in tutte e 13 le colonie, le quali non attendevano che un avvenimento così memorabile come quello di Lexington per fondersi in un'entità sola a scopo difensivo. Bastarono venti giorni perche la notizia, narrata nelle versioni più differenti, suscitasse, dal Maine alla Georgia, un comune spirito di solidarietà patriottica.

Il 10 maggio 1775, mentre gli echi dei fatti di Lexington e di Concord erano ancora vivi, si adunava a Filadelfia il secondo Congresso Continentale, sotto la presidenza di John Hancock, un ricco mercante di Boston. Erano presenti anche Thomas Jefferson e il venerando Beniamino Franklin, di ritorno da Londra dove, in qualità di « agente » di diverse colonie, aveva invano tentato di ottenere una conciliazione.
Il Congresso aveva appena superato la fase organizzativa quando si trovò costretto ad affrontare la questione della guerra. Quantunque in seno ad esso si manifestasse una certa opposizione, il suo carattere si rivelò nella infiammata dichiarazione sulle «Necessità e Cause» di prendere le armi, stilata in collaborazione da John Dickinson e Jefferson:
«La nostra causa é giusta. La nostra unione é perfetta. Le nostre risorse ampie e, qualora necessario, si potrà indubbiamente ottenere aiuto dall'esterno quelle armi che i nostri nemici ci hanno costretto ad imbracciare noi le useremo per conservare le nostre libertà, decisi, con volontà unica, a morire da uomini liberi piuttosto che vivere da schiavi ».

Mentre i dibattiti sulla Dichiarazione fervevano ancora, il Congresso decise che la milizia operasse per servizio continentale e nominò il colonnello George Washington comandante in capo delle forze americane.
"Forte e valoroso, dalle maniere tranquille e piene di dignità, le sue virtù civili lo indicavano come un dominatore: passionale e paziente al tempo stesso, egli era un esempio di coraggio morale e fisico. Le sue capacità direttive erano fuori del comune e la profondità dei suoi giudizi, unita alla sicurezza delle sue conoscenze, lo rendeva veramente grande: il suo buon senso « lo faceva classificare come un genio»; fermamente convinto di un principio o di una direttiva, egli li perseguiva con decisione, giustizia e fermezza.

«La sconfitta non è che una ragione per un nuovo sforzo» egli scriveva. «Faremo meglio la prossima volta».

Questo nobile spirito e il suo intuito militare furono le principali caratteristiche che lo guidarono alla vittoria negli anni che dovevano seguire.
Ma, nonostante i preparativi militari e la nomina di un comandante in capo, l'idea di una separazione completa e definitiva dell'Inghilterra, ripugnava ancora a molti membri del Congresso e ad una vasta parte del popolo americano. L'opinione pubblica non era ancora matura per azioni così drastiche: era ovvio, d'altra parte, che le colonie non potevano rimanere nei riguardi dell'Impero in questo incerto stato di dipendenza e indipendenza insieme.
I moderati cercavano intanto di persuadersi che non stavano combattendo contro il Re ma contro i suoi Ministri, tant'è vero che nel gennaio del 1766, in una mensa di ufficiali presieduta dal Generale Washington, si brindava ancora ogni sera alla salute di Sua Maestà.

Col passare dei mesi divenivano intanto più evidenti le difficoltà di proseguire la guerra mentre si faceva ancora parte dell'Impero. Che l'Inghilterra non intendesse scendere a compromessi lo dimostrò il proclama emanato il 23 agosto 1775 da Re Giorgio, nel quale si dichiarava che "le colonie erano in stato di ribellione".
Cinque mesi più tardi veniva pubblicato l'opuscolo di Thomas Paine intitolato Common Sense (Buon senso). Lungo 50 pagine, esso rendeva familiare al lettore, con il suo stile vigoroso e fiammeggiante, la necessità dell'indipendenza.
Con pungente dialettica e acuta percezione dell'ostacolo maggiore, Paine attaccava la sacra persona del Re, mettendo in ridicolo il concetto di monarchia ereditaria e proclamando che un uomo onesto era assai più utile alla società «di tutti i ruffiani coronati che fossero mai esistiti».

Con suadente parola egli metteva il lettore dinanzi alle due alternative: o continuare a restare sottomessi ad un Re tiranno e ad un governo esaurito e decrepito, o conquistare la libertà e la prosperità in un governo repubblicano indipendente e autosufficiente. L'influenza di questa prosa sull'animo dei colonizzatori fu veramente straordinaria: nello spazio di pochi mesi, migliaia di copie dell'opuscolo erano state distribuite in tutte le colonie, avevano consolidato le opinioni e riunito indecisi ed incerti.

Restava però da attuare ancora un compito: quello di ottenere l'approvazione singola di ogni colonia ad una dichiarazione ufficiale di separazione dall'Inghilterra; ed era un compito arduo, nonostante il fatto che la popolazione cominciasse a considerare con tranquillità l'idea dell'indipendenza. Paine aveva sottolineato come le colonie fossero «giunte al culmine dell'incoerenza»: esse erano in piena ribellione, possedevano un esercito, una marina e dei governi che ignoravano l'autorità del Parlamento e del Re; ciò nonostante, non sapevano ancora decidersi al passo finale.

Era accordo comune che il Congresso Continentale non dovesse prendere decisioni così definitive come quella dell'indipendenza, senza aver prima ricevuto istruzioni esplicite in proposito dalle colonie. Ogni giorno però, si può dire, il Congresso aveva notizia dell'istituzione extra legale di nuovi governi coloniali e della nomina di delegati autorizzati a votare per l'indipendenza; contemporaneamente, la preponderanza dei radicali in seno al Congresso aumentava di pari passo con la loro attività nell'aumentare i loro corrispondenti, nell'irrobustire comitati fiacchi e nell'infiammare le menti dei patrioti con mozioni rivoluzionarie.

Finalmente, il 10 maggio 1776, venne approvata la risoluzione di «tagliare il nodo gordiano» : occorreva ora soltanto la dichiarazione ufficiale.
Il 7 giugno, Richard Henry Lee, rappresentante della Virginia, su direttive impartitegli dal suo Stato, presentava una mozione in favore dell'indipendenza, di alleanze con stati esteri e di una federazione degli Stati Americani.
Un comitato venne nominato seduta stante con il compito di preparare una dichiarazione ufficiale «per denunciare le cause che ci hanno costretto a questa importantissima risoluzione». Tale comitato, composto di 5 membri era presieduto da Thomas Jefferson.

Jefferson, che aveva allora solo trentatré anni e sedeva nella Camera dei Borghesi della Virginia, era giunto a Filadelfia con una fama già consolidata. Benché nato ai margini dell'ambiente aristocratico della Virginia, gli anni della gioventù trascorsi in ambiente democratico lo avevano reso nemico di ogni diritto patrizio. Amava calvalcare, andare a caccia e suonare il violino, ma ciò non gli impediva di soddisfare con incredibile zelo la sua avidità di sapere.
E' indiscutibile che nessuno era più degno ed adatto di lui per compilare il grande annuncio. Jefferson sapeva che ciò avrebbe portato l'America ad un duro conflitto, ma egli riteneva che «l'albero della libertà deve di tanto in tanto attingere linfa nuova dal sangue dei patrioti e dei tiranni!».

Per quanto nessun valido sistema di governo fosse stato ancora escogitato per sostituire quello che si intendeva distruggere, Jefferson non era favorevole ad una forma di governo troppo drastica, ritenendo che il popolo stesso fosse l'unico sicuro depositario del diritto di governare. Egli sosteneva che un dominio esercitato da pochi prescelti non fosse che «una forma corrotta di confederazione contro la prosperità della massa del popolo».

Per quanto riguarda tutti i grandi principi formulati nella Dichiarazione, Jefferson nutriva gli stessi sentimenti di quel popolo per cui egli doveva scriverla. Egli si servì dei loro linguaggio ed espresse le loro idee trasfondendo, come disse un contemporaneo, «l'anima stessa del continente nel monumentale documento dell'indipendenza».

Jefferson buttò giù una bozza il 1° luglio 1786 (vedi il documento originale > >

Il 4 luglio 1786 la Dichiarazione era pronta (vedi qui documento originale > >
---
Questa scena, riprodotta da un dipinto di John Trumbull, che militava nelle file dei rivoluzionari come Aiutante Generale, raffigura la resa di Burgoyne al
Generale Gates, che avvenne nel 1777 e costituì la svolta decisiva per il trionfo della rivoluzione.

La Dichiarazione non annunciava soltanto la nascita di una nuova nazione, ma stabiliva una filosofia della libertà umana che avrebbe da allora in poi costituito una forza dinamica per l'intero mondo occidentale.
(anzi la incitò nel momento più critico, e questo poi partorì la Rivoluzione Francese. Non solo essa mise in ridicolo il concetto di monarchia ereditaria, ma tagliò loro la testa. Ma la Francia non era l'America e ben presto tornarono al potere "tutti i ruffiani coronati esistenti».

La Dichiarazione d'Indipendenza si basava non già su particolari rivendicazioni ma su fondamenta assai vaste: quelle della libertà individuale, destinate a riscuotere l'appoggio generale in tutto il suolo americano. La sua filosofia politica era chiara:
«Noi riteniamo queste verità essere per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che ad essi vengano concessi dal Creatore alcuni diritti inalienabili, che tra questi sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità. Che a rendere sicuri questi diritti vengono istituiti fra gli uomini dei governi i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso stesso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo divenga distruttiva nei riguardi di tali fini, é diritto del popolo di modificarla o abolirla e di istituire in sua vece un nuovo governo le cui basi poggino su tali principi ed i cui poteri siano organizzati in quella forma che al popolo sembrerà più adatta per realizzare la sua sicurezza ed il suo benessere ».

«Queste verità» non erano nate nella mente di Jefferson: esse formavano una teoria politica evidente di per se stessa sia ai suoi contemporanei, come pure, più tardi, alla maggior parte degli uomini. Il particolare modo di pensare e la fraseologia traevano ispirazione dall'opera di filosofi inglesi della politica e più particolarmente da Oceana di James Harrington, e in misura anche maggiore dal Secondo Trattato sul Governo di John Locke.

Ma lo spirito informatore del documento scaturiva dalla consapevolezza, ormai ridestata in quegli uomini, che «i governi debbano esistere per i popoli, e non i popoli per i governi ».
Per Jefferson, scopo e funzione del governo è quello di aiutare gli uomini, proteggerne la vita, la libertà e l'aspirazione al benessere, non opprimerli o sfruttarli.
La Dichiarazione superava come portata una semplice notificazione pubblica di separazione. I concetti in essa formulati ispirarono un fervore generale per la causa americana, poiché essi istallavano nella gente più semplice il senso della sua importanza incitandola a lottare per la libertà personale, per l'autogoverno e per la conquista di un posto dignitoso nella società.
Chiamando direttamente in causa Giorgio III, Re d'Inghilterra (con i famosi e ripetuti "Egli"...) la Dichiarazione faceva del conflitto generale una questione personale, una lotta contro un nemico vivo in carne ed ossa e non una protesta contro un corpo di leggi senza vita o contro un astratto concetto di Parlamento.
Offrendo all'uomo comune una causa ed un nemico personale, i concetti della Dichiarazione rendevano la rivoluzione più accessibile al sentimento popolare e la rafforzavano con il contributo dell'impulso generale.

La guerra rivoluzionaria si trascinò per più di sei anni attraverso una dozzina di battaglie importanti e numerosissimi episodi minori avvenuti in tutte le colonie. Anche prima della Dichiarazione di Indipendenza vi erano state operazioni militari che avevano fatto sentire la loro influenza sul corso della guerra la distruzione dei lealisti nella Carolina del Nord, avvenuta nel febbraio del 1776 ad esempio, e nel marzo successivo l'evacuazione forzata delle forze britanniche da Boston.

Nei mesi che seguirono la Dichiarazione di Indipendenza, gli americani subirono una serie di dolorose disfatte, una delle quali fu quella di New York. Washington aveva giustamente predetto che New York, centro vitale per i rifornimenti di materiali e di rinforzi di tutta la Nuova Inghilterra, avrebbe rappresentato uno dei primi obiettivi militari per i britannici.
Il comandante di questi, Generale Sir William Howe, non cominciò subito a premere sulla città. Animato da sentimenti amichevoli verso l'America egli avanzava armato di spada e di ramoscello d'olivo, ed offrì ai ribelli la clemenza del Re se questi avessero cessato di combattere; non poteva però garantire la libertà nell'ambito dell'Impero. La sua offerta, naturalmente, venne respinta e 30 mila soldati
britannici rafforzati dalla marina da guerra si trovarono a combattere contro una forza di terra di solo 18 mila uomini al comando di Washington.

La difesa di New York era senza speranza, ma Washington sentiva che egli non poteva abbandonare la città con onore senza avere sostenuto la lotta. Nella battaglia che ne seguì, il piano di Washington era sbagliato, i suoi generali non eseguirono i compiti loro assegnati e il numero delle truppe britanniche superavano quello dei difensori in modo schiacciante. La posizione divenne insostenibile e Washington eseguì una ritirata magistrale servendosi di piccole barche che da Brooklyn trasportarono le truppe al lido di Manhattan; cosa provvidenziale per loro, soffiava vento di settentrione e le navi da guerra britanniche non potevano risalire l'East River.

Il generale Howe era evidentemente all'oscuro di quanto accadeva e perse così la migliore occasione per inferire un colpo mortale alla causa americana, ciò che sarebbe valso forse a metter fine alla guerra. Se l'esercito di Washington infatti fosse stato catturato, ben difficilmente il Congresso sarebbe stato in condizione di approntarne un altro.

Washington, per quanto costretto ininterrottamente a ritirarsi sempre più indietro, riuscì a mantenere le sue forze intatte, o quasi, fino agli ultimi mesi dell'anno. Le importanti vittorie riportate a Trenton e Princeton fecero rifiorire le speranze delle colonie. Tempi calamitosi dovevano però succedersi ancora: nel settembre del 1777 Howe conquistò Filadelfia, costringendo il Congresso alla fuga e Washington a trascorrere con i suoi uomini un inverno disperato a Valley Forge. I patrioti, costretti a sopportare un freddo intenso nei loro accampamenti, dove orme sanguinose indicavano i loro passi sulla neve, sembravano sul punto della sconfitta definitiva.

Nel frattempo però, e proprio nell'autunno del 1777, veniva conquistata la più grande vittoria americana in guerra, quella che costituì, sotto gli aspetti militari, la svolta decisiva della rivoluzione: il generale britannico Burgoyne si era mosso dal Canadà con le sue truppe, con l'obiettivo di porre sotto controllo la linea Lago Champlain - fiume Hudson e isolare così completamente dalle altre colonie la Nuova Inghilterra. Raggiunto il corso superiore dello Hudson, egli fu costretto ad attendere i rifornimenti fino alla metà di settembre prima di poter avanzare verso sud; completamente all'oscuro della geografia americana, egli ritenne che fosse cosa facile per delle pattuglie attraversare il Vermont, lungo il corso del Connecticut, e ritornare indietro raccogliendo almeno 1300 cavalli destinati alla cavalleria, nonché buoi, bestiame da tiro e carri per l'esercito, il tutto in un paio di settimane. Scelse per questa impresa 375 dragoni appiedati dell'Assia e circa 300 coloni del partito a lui fedele; ma essi non raggiunsero neppure la linea del Vermont. La milizia locale li affrontò e ben pochi furono i dragoni che ritornarono indietro. Contemporaneamente gli americani della vallata Mohawk impedirono che forze britanniche provenienti dal lago Erie si riunissero con le truppe di Burgoyne.

La battaglia del Vermont aveva radunato la maggior parte della popolazione combattente della Nuova Inghilterra settentrionale, ed il forzato ritardo di Burgoyne permise a Washington di fare affluire truppe regolari provenienti dal basso Hudson. Quando finalmente Burgoyne riuscì a mettere in moto le sue truppe poco manovrabili, egli si trovò contro la milizia americana incoraggiata dai successi dei commilitoni, rafforzata da truppe regolari e ammirevolmente comandata da un generale dell'esercito regolare. Gli scontri ebbero inizio ai primi freddi : due attacchi di Burgoyne vennero respinti e i britannici dovettero ripiegare sul Saratoga. Si era in piena stagione delle piogge, molti soldati dell'Assia disertavano e gli americani erano in numero assai superiore nei fronti antistanti, retrostanti e di fianco.

 

Il 17 ottobre 1777, Burgoyne si arrendeva al generale americano Gates con tutto il suo esercito, che superava ancora i 5 mila uomini. Ciò rappresentò un colpo decisivo per le sorti della guerra, poiché, a parte l'enorme importanza strategica, esso portava la Francia, nemica ereditaria dell'Inghilterra, a fianco dell'America.
Questa potenza, fin dalla sua disfatta, avvenuta nel 1763, era rimasta in attenta attesa di una rivincita, e il suo entusiasmo per la causa americana era grande. Il mondo intellettuale francese, per quanto ancora lontano dal concetto e dall'ideale repubblicano, era in piena rivolta contro il feudalismo e i suoi privilegi, e Beniamino Franklin, dopo la Dichiarazione d'Indipendenza, aveva ricevuto alla corte francese accoglienze calorose.

Fin dall'inizio il governo francese non si era mantenuto neutrale ed aveva dato agli Stati Uniti aiuti sotto forma di munizioni e rifornimenti; il rischio di un intervento diretto e di una guerra aperta con l'Inghilterra lo aveva però trovato riluttante. Dopo la resa di Burgoyne, peraltro, Franklin riuscì a stringere trattati di commercio e di alleanza con varie nazioni, le quali promettevano di far causa comune con le colonie fino a che l'indipendenza americana non venisse riconosciuta.
Ancor prima di ciò, molti volontari francesi erano affluiti in America: fra questi una delle personalità più in vista era il Marchese de Lafayette, un giovane ufficiale dell'esercito desideroso soltanto di cooperare alla causa della libertà americana, esaltare la Francia, umiliare l'Inghilterra e dimostrare le sue virtù militari.

Lafayette arruolatosi nell'esercito di Washington, vi prestò servizio, senza stipendio, con il grado di generale, e si comportò così mirabilmente da guadagnarsi il rispetto e la stima di quel grande che egli, a sua volta, venerava come un eroe.
Nell'inverno tra il 1779 ed il 1780, Lafayette ritornò in Francia e persuase il suo governo ad adoperarsi realmente perché la guerra avesse fine: poco dopo Luigi XVI mandava un magnifico gruppo di 6 mila uomini al comando del Generale Rochambeau; oltre a ciò, la flotta francese creava enormi difficoltà ai britannici per tutto quanto riguardava il rifornimento e il rafforzamento delle truppe, mentre il commercio britannico veniva sistematicamente ostacolato dai cosiddetti «privateers» francesi ed americani, i quali esercitavano con i loro battelli un blocco severo, nonché dell'opera coraggiosa di un capitano di mare, John Paul Jones.
Anche l'entrata in guerra della Spagna e dell'Olanda ebbe gravi ripercussioni per la Gran Bretagna.

Le truppe britanniche continuarono tuttavia a lottare ostinatamente senza voler rinunciare agli scopi prefissi. Nel 1778 esse furono costrette, sotto la minaccia di un'azione da parte della flotta francese, ad evacuare Filadelfia; nello stesso anno subirono una serie di sconfitte nella vallata dell'Ohio, in base alle quali gli americani si assicurarono il dominio della parte nord-occidentale. Costrette a ritirarsi in quella zona, esse continuavano però a premere a sud. Al principio del 1780 catturarono Charleston, il porto più importante della zona meridionale, e si impadronirono temporaneamente delle Caroline; l'anno seguente tentarono di conquistare la Virginia, ma nell'estate stessa la flotta francese riuscì ad assicurarsi il controllo del fiume Chesapeake e delle acque costiere. Le truppe di Washington e di Rochambeau vennero trasportate lungo la baia dalle navi della marina e le loro forze riunite, ammontanti a 15 mila uomini, accerchiarono il piccolo esercito di 8 mila uomini agli ordini di Lord Cornwallis, a Yorktown sulle coste della Virginia. La resa di Cornwallis, avvenuta il 19 ottobre 1781, pose fine allo sforzo militare mirante ad arrestare la rivoluzione.

Quando la notizia della vittoria americana a Yorktown giunse in Europa, la Camera dei Comuni decise di porre fine alla guerra. Subito dopo il Primo Ministro, Lord North, dava le dimissioni, ed il Re nominava un nuovo Gabinetto che avrebbe dovuto concludere la pace sulle basi della indipendenza americana. I negoziati definitivi cominciarono nell'aprile del 1782 e continuarono fino al novembre, epoca in cui vennero firmati trattati preliminari i quali non dovevano andare in vigore fino a quando la Francia non avesse concluso anch'essa la pace con la Gran Bretagna.

 

Nel 1783 ebbe luogo la firma definitiva. Il trattato di pace riconosceva l'indipendenza, la libertà e la sovranità dei 13 Stati ai quali esso concedeva inoltre il tanto agognato territorio ad ovest del Mississippi, le cui frontiere settentrionali seguivano su per giù il tracciato odierno. Il Congresso doveva a sua volta fare opera presso gli Stati perché si restituissero ai lealisti le proprietà confiscate; al popolo degli Stati Uniti veniva concesso inoltre il privilegio di pescare al largo di Terranova, e di essiccare i prodotti della pesca nei porti e nei luoghi non ancora colonizzati della Nuova Scozia e del Labrador.

La conquistata indipendenza rendeva gli americani liberi non soltanto dal dominio straniero, ma anche di creare una forma di società foggiata sui concetti politici nati nel loro nuovo ambiente. Nonostante che durante la loro rivolta le colonie avessero richiesto con ostentazione che i loro diritti venissero riconosciuti dalla Costituzione inglese, in realtà esse avevano lottato per dare forma concreta ad una nuova e personale concezione politica, quella dell'autogoverno esercitato dal popolo, principio fondamentale della democrazia americana.

Esse professavano inoltre un'altra dottrina, la dottrina democratica dell'autogoverno locale, e cioè il principio di non dover essere governate da leggi promulgate a molte centinaia di miglia di lontananza. Il nuovo spirito americano era pienamente favorevole a che venissero abolite le distinzioni giuridiche tra uomo e uomo: il diritto di voto, così limitato alla vigilia della rivoluzione, aveva progredito di decennio in decennio, fino a diventare suffragio universale.
Il concetto dei «diritti dell'uomo» era stato proclamato e diffuso in tutto il mondo, tant'é vero che dopo quarant'anni anche tutte le colonie della Spagna e quelle situate in America continentale avevano seguito l'esempio delle colonie inglesi.

Se una rivoluzione falliva in Europa, l'emigrazione offriva nel nuovo mondo a coloro che l'avevano patrocinata la tanto desiderata libertà politica; terminata infatti la rivoluzione, cominciarono a giungere in America, dai più vari luoghi del vecchio mondo, coloro che amavano la libertà. Franklin, che durante la guerra si era trovato in Francia, aveva predetto questa emigrazione:
«La tirannia é così diffusa nel resto del mondo, che la prospettiva di un possibile rifugio in America, per coloro che amano la libertà, é fonte di gioia universale ».

Il norvegese Henrich Steffens, scrivendo alcuni anni dopo le memorie della sua fanciullezza, così ricordava le impressioni del giorno in cui la vittoria delle colonie fu annunciata in Danimarca
« Ricordo ancora con molta vivezza il giorno in cui fu celebrata la conclusione della pace e la vittoria della libertà conquistata dopo la lotta. Fu un bellissimo giorno. Nel porto tutti i vascelli erano in tenuta di gala e dalle alberature pendevano lunghi pennoni; i più splendenti erano fissati sull'albero maestro, altri erano disseminati qua e là e sui cordami tirati tra un albero e l'altro. Soffiava un venticello che faceva garrire allegramente bandiere e pennoni .... Papà aveva invitato alcuni amici e, contrariamente alle consuetudini, anche noi ragazzi avemmo il permesso di sedere a tavola. Mio padre ci spiegò il significato di questa celebrazione; i nostri bicchieri furono riempiti di punch e mentre brindavamo alla prosperità della nuova repubblica, una bandiera danese ed una nordamericana venivano issate nel nostro giardino .... Coloro che si rallegravano prevedevano già nelle loro menti quali sarebbero stati i grandi avvenimenti di cui questa vittoria era foriera. Era la piacevole luce dell'alba in un giorno sanguinoso della storia ».

Famiglia e nazione in quest'alba, erano ormai una cosa sola
ma dopo il successo,
ora bisognava dare forma ed espressione giuridica
agli ideali politici espressi nella Dichiarazione d'Indipendenza

LA FORMAZIONE DI UN GOVERNO NAZIONALE > >

PAGINA INIZIO - PAGINA INDICE