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08. MACHIAVELLI:

IL CROLLO DEL MEDIO EVO

" Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza, e non è la fortuna, ma la "forza delle cose", determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione".
"Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane, passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano"

da Francesco De Sanctis : STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA

I tempi di "MACHIAVELLI"
e l'influenza letteraria dei suoi contemporanei

Si narra che Machiavelli fosse in Roma, quando nel 1515 uscì alla luce l'"Orlando furioso". Lui lodò il poema, ma non nascose il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista ch'egli stese nell'ultimo canto di poeti italiani.

Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, per quanto contemporanei e conoscenti, sembrano s'ignorino l'uno all'altro.

Niccolò Machiavelli, nei suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un uomo piacevole, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni.
Poco baciato dalla fortuna di beni, quindi non agiato, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma, o a Firenze, e dello stesso stampo.

Ma caduti i Medici, restaurata la repubblica dai vincitori fu nominato segretario, ebbe parte principale nelle cose pubbliche, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose.
Ma un'altra Firenze pagando la tradizionale fedeltà ai gigli di Francia con l'immediata soggezione alla Spagna e quindi col ritorno della famiglia Medici, Machiavelli fu uno dei tanti sospettati di alto tradimento e perfino di complicità in una congiura architettata assieme a P. Paolo Boscoli. Fu rimosso dagli uffici e venne perfino sottoposto alla tortura. Risultato innocente, fu rimesso in libertà ma confinato nella sua piccola tenuta di San Casciano. Un esilio che durerà 8 anni, nel corso del quale nasceranno le sue opere migliori.

Ma in quegli uffici e in quelle lotte politiche si era forgiata la sua tempra e si era formato il suo spirito, e tutto questo se lo portò dietro. Così nel suo ozioso esilio di San Casciano - alternando una gioviale bevuta, una partita a carte nella vicina osteria dell' "albergaccio" di sant'Andrea in Percussina, presso San Casciano, elabora e scrive fra il luglio e il dicembre del 1513 la sua più celebre opera: "Il Principe".
Racconta che all'osteria ci andava piuttosto trasandato, mischiandosi con gli avventori, ma appena rientrava a casa e prima di mettersi a scrivere indossava suntuosi vestiti e poi si metteva a tavolino e viaggiava nel proprio "universo".

"Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste contadina piena di fango e di loto, e mi metto abiti regali e curiali, e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini; da' quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del cibo che "solum" è mio; e non mi vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro."

Il tema che affronta nella sua opera sono le norme dell'agire politico e il problema della fondazione del principato e dei modi di conservarlo, convinto che a costituire uno Stato fosse necessaria l'azione energica di un solo capo.


Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mantenere la sua indipendenza, se non fosse unita tutta o gran parte sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse riprendere l'impresa. Sperò pure che volessero accettare i suoi servigi, e toglierlo dall'ozio e dalla miseria. All'ultimo, poco e male utilizzato da' Medici, finì la vita tristamente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: "Tanto nomini nullum par elogium".

I suoi "Decennali", arida cronaca delle "fatiche d'Italia di dieci anni", scritta in quindici giorni, i suoi otto capitoli dell'"Asino d'oro", sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini, gli altri suoi capitoli dell'"Occasione", della "Fortuna", dell'"Ingratitudine", dell'"Ambizione", i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa la fisonomia di quel tempo, alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta la prosa; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini.

Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigia di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa: soprabbonda però lo spirito. C' è il critico, non c'è il poeta. Non c'è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C'è invece l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica; il suo poetare è un discorrere:

Io spero, e lo sperar cresce il tormento,
io piango, e 'l pianger ciba il lasso core;
io rido, e il rider mio non passa drento;
io ardo, e l'arsion non par di fuore;
io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento,
ogni cosa mi dà nuovo dolore;
così sperando piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò che io odo o guardo.

Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della "Fortuna". Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come ne' "Decennali":

"...la voce d'un Cappon tra cento Galli "

e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto "De diavoli o de' romiti". Il suo capolavoro è il capitolo dell'"Occasione", massima la chiusura, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensare. Nel poeta si sente lo scrittore del "Principe" e de' "Discorsi".

Anche in prosa Machiavelli ebbe alcune pretese letterarie, secondo le idee che correvano in quel tempo. Talora si diverte e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste, e nei discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava eleganza.

Ma nel "Principe", ne' "Discorsi", nelle "Lettere", nelle "Relazioni", ne' "Dialoghi sulla milizia", nelle "Storie", Machiavelli scrive come gli viene, tutto intento alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre dietro alle parole e ai periodi. Va al sodo!

Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.

È visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E aveva pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro VI, Ludovico il Moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti, presso le quali dimoravano.

C'era l'arte, mancava la scienza. Lorenzo era l'artista. Machiavelli doveva essere il critico.

Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio, e l'immortale resistenza agli eserciti papali imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali fra quella corruzione medicea, rese ancora più acute e vivaci dal contrasto.

Machiavelli per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e magnificando la morale in astratto vi passa sopra nella pratica della vita.
Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. C'è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva nei limiti del possibile.

E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza, e cercò negli stessi Medici lo strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia, che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede.
Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e pietrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e circondata di un'aureola poetica per la forte tempra, e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci.

La sua influenza (vista dai suoi contemporanei) non fu pari al suo merito. Era considerato uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le abitudini plebee e "fuori della regola", come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli creavano una buona reputazione. Ma lui consapevole della sua grandezza, disprezzava quella esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali per farsi strada nel mondo, che sono così familiari e così tanto utilizzati dai mediocri.

Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è andata sempre ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera, intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni nel loro contraddittorio movimento ora indietro, ora avanti.

C'è quel piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue del mondo, il "Principe", che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E così hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina.

Molte difese si sono fatte di questo libro ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così ne è uscita una discussione limitata e un Machiavelli quasi rimpicciolito.
Tutta questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, poi diventata cosa reale.
Noi invece vogliamo costruire tutta intera la sua immagine, e cercare qui i fondamenti della sua grandezza.

Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si stende fino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita.
Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi prende parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società, e interrogarla: - Cosa sei? Dove vai?

In cosa sei si erano cimentati in molti prima di lui, in dove vai nessuno.

L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava e s'impegnava di assimilare. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa.
Grave fu lo sgomento negl'italiani, quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono, e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di insegnamento è vedere tra tant
i, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnuoli l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Perfino nei campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino.
Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo V. L'Italia era osservata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia fu osservata e studiata dai romani.

Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia, dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo decadenza egli disse "corruttela", e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto, la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.

La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza dei costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina un secolo prima, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita.
La licenza accompagnata con l'empietà e l'incredulità aveva il suo principale centro la corte romana, protagonisti Alessandro VI e Leone X.
Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini (è proprio di questi anni la visita di Lutero a Roma, da dove fuggì indignato)

Nondimeno il clero con l'abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola e la parola non era più l'azione, non c'era armonia nella vita.
In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli.

Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva non desiderare una riforma dei costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non c'era il tempo di piegarsi in sè, di considerare la vita seriamente.

Eppure erano sentimenti e desideri che più tardi diedero frutti e agevolarono l'opera del Concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medio evo, e ottenere la riforma dei costumi e delle coscienze con una restaurazione religiosa e morale era stato già il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato dai gesuiti nel Concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano sempre nel passato la medicina per i loro mali.

Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. Ma non pensò minimamente di ricondurre indietro l'Italia e di ristaurare il medio evo, ma semmai concorse alla sua demolizione definitiva.

L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo, dei quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un movimento ironico, quando parla del medio evo, soprattutto allora dimostra maggior serietà.
La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo "Belfegor" è della stessa razza, dalla quale era uscito Astarotte.
Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente.

Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.

Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare, se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con l'una mano distrugge, con l'altra edifica.

Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.

Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale.
Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita, come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo. L'inferno, il "Purgatorio", il "Paradiso", il mondo conforme alla verità e alla giustizia.

Da questo concetto della vita teologico-etico era uscita la "Divina Commedia "e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento.
Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo: l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o negli universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare.

Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della "Maccaronea", ispirata al Folengo dal mondo della Luna ariostesco. In teoria c'era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza.

Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita, e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo superavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra a digiuno, così nelle enunciazioni scolastiche e teologiche. E a ogni modo lui non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più completa.

Niccolò non è filosofo della natura, è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo, e non ha la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo.

Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione, e non è contemplazione. La vita non è teologia, e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.

È negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento.

La contemplazione divina lo soddisfa così poco, come la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione, come il nemico più pericoloso, e quel vedere le cose in immaginazione e non in realtà gli pare proprio essere la malattia che si deve curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicare le cose come sono, e non come debbono essere.

Quel "dover essere", a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all'"essere", o com'egli dice, alla verità "effettuale".
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione, questa è la base del Machiavelli.

Messi da parte tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria.

Nel medio evo non c'era il concetto di patria: c'era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio; l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società.

Intorno a questi due "Soli" stavano gli astri minori, re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione.

Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo. È un tratto questo che illumina tutte le idee di quel tempo.
C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio, il papa, ingrandito di territorio, diminuito di autorità, l'imperatore debole e impacciato a casa.

Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, allo stesso modo della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano alcuni resti in Italia: il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari.

Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Democratico, combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, e le loro reminiscenze feudali. E vede nei mercenari o avventurieri la prima causa della debolezza italiana verso lo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei vecchi gentiluomini, negli avventurieri lui combatte le ultime vestigia del medio evo.

La "patria" del Machiavelli è naturalmente il comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti.

Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico dei grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo comune gli pare cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano "Stati" o "Nazioni".
Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, aveva tentato una grande lega italica, che assicurasse l'"equilibrio" tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo VIII.

Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia, nell'utopia dantesca è il "giardino dell'impero"; nell'utopia del Machiavelli è la "patria", "nazione" autonoma e indipendente.

La "patria" del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica.

"Ragion di Stato" e "salute pubblica" erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la "patria", ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era "suprema lex". Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù.

Libertà era la partecipazione più o meno larga dei cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo, e di fine a se stesso: era lo strumento della patria, o ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di un solo.

Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo, e se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò si diceva "repubblica".
E si diceva "principato", dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.

Queste idee sono enunciate dal Machiavelli, non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse, e fortificate dalla coltura classica. C'è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma anche nello Stato.

La patria assorbe anche la religione. Uno Stato non può vivere senza religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perchè coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.
Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era diventata arte presso i letterati e strumento politico negli statisti.

Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come strumenti, ma come ostacoli, li spezza.
Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma ci senti dentro un po' di retorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice.

Noi che vediamo le cose da lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia, e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e una esagerazione portava l'altra.
Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma.

Nel Machiavelli non c'è alcuna vestigia di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è ""vox populi"", il consenso di tutti. E il fondamento dei principati è la forza, o la conquista legittimata e assicurata dal buon governo.
Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.

Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno "disarmato il cielo e effeminato il mondo" e che rendono l'uomo più atto a "sopportare le ingiurie che a vendicarle". "Agere et pati fortia romanum est".

Il cattolicismo male interpretato rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gli italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria.

La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa "forza", "energia", che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agli italiani manchi il valore; anzi nei singolari incontri riescono spesso vittoriosi: manca invece l'educazione o la disciplina o, come lui dice, "i buoni ordini e le buone armi", che fanno gagliardi e liberi i popoli.

Alla virtù il premio è la gloria. "Patria", "virtù", "gloria", sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo.

Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni. Gli individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, "numerus fruges consumere nati". E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun ricordo di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità, o, come dicevasi allora, nel genere umano, come Assiria, Persia, Grecia e Roma.
Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiaia, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si indebolisce. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e passa ad altre nazioni.


Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza, e non è la fortuna, ma la "forza delle cose", determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione.
Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.

La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle ai suoi fini.
La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.

E a governare, quelli che fanno solo il leone, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe, o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati.
Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, dritti e doveri. E come c'è un dritto privato, così c'è un dritto pubblico, o diritto delle genti, o, come si dice oggi, diritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.

Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane, passa di una nazione in un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto "filosofia della storia".
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c'è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato ai suoi successori.
Il suo campo chiuso è la politica e la storia.

Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi, nè audaci, vedendoci formulato quello che in tutti era un sentimento vago.

L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo, anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare, e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica "miracoli della provvidenza", come preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se qualcosa dà alla fortuna, la dà principalmente alla virtù.

Di lui è questo motto profondo:

"I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese".

Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il misticismo e il ghibellinismo; la corteccia è classica, ma il nocciolo è medievale.
E sotto al classicismo del Machiavelli c'è lo spirito moderno che qui cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove "non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura".

Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze sente le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è il vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale. È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi dei tempi moderni.

Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi, religiosa, morale, politica, intellettuale.

E non è solo negazione vuota. È affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione. Non è la caduta del mondo, è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia, i confini.
Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità, governo che è un presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze.

È tutto un nuovo mondo politico che appare. Vedi fra l'altro, dove il Machiavelli tocca della formazione dei grandi Stati, e soprattutto della Francia.
Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità, e, come Dante, combatte la confusione dei due reggimenti, e fa una descrizione dei principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia. La religione ricondotta nella sua sfera spirituale è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come strumento di grandezza nazionale. È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato, e accomodata ai fini e agli interessi della nazione.

Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza dei costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica.

La sua dea non è Rachele, ma è Lia, non è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione, e in servigio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.

E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e quando la incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia.

Questo è già tutta una rivoluzione. È il famoso "cogito", nel quale s'inizia la scienza moderna. È l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza, e prende possesso del mondo.

E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità "a priori" e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno, come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale, mondi di immaginazione, fuori della realtà.
La verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formulario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritto e naturale. Le proposizioni generali, le "maggiori" del sillogismo, sono capovolte e compaiono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la "serie", cioè a dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio:

"Avendo la città di Firenze ... perduta parte dell'imperio suo, fu necessitata a fare guerra a coloro che lo occupavano, e perchè chi l'occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo; e perchè questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini, ... l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fosse cagione e della guerra e delle spese di essa."

Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltano fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo, non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa o di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione.

Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch'essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si accontenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel "ritirare le cose ai loro princìpi", o quell'ironia dei "profeti disarmati", o "gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono", o "gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli".

Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica dei suoi "Discorsi". Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Nei lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie, ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio; non descrive e non dimostra, narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo.
Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma, e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole, o morale, o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti.

La base della vita, e perciò del sapere, è il "Nosce te ipsum", la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: "Nil admirari". Non si meraviglia e non si appassiona, perchè comprende, come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti, e tutti gli episodi.

Ha l'aria del pretore, che "non curat de minimis", di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo, nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati, ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempire gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono ai cervelli oziosi. La sua semplicità talora è negligenza; la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovano latinismi, slegature, scorrettezze e simili negligenze.

La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione: vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno, salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso.
Il "Galateo" e il "Cortigiano" sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita nei costumi e nei modi. Anche l'intelletto, in quella sua virilità ozioso, poneva la principale importanza della composizione nei costumi e nei modi, ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche, i poeti petrarcheggiavano, i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e rettorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. C'era lo scrittore, non c'era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi "forma letteraria", nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.

Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna.
Qui l'uomo è tutto, e non c'è lo scrittore, o c'è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova, e vi riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato anche lui.

L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro, cose e impressioni spesso condensate in una parola. Perchè è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, attraversata d'ironia, di malinconia, d'indignazione, di dignità, ma principalmente nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua e là venato. È la grande maniera di Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti al medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: "e i Cesari e i Pompei Pietri, Mattei e Giovanni diventarono". Qui non c'è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei, il disprezzo per quei Pietri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono", che accenna a mutamenti non solo di nomi, ma di animi.

Questa prosa asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annuncia l'intelletto già adulto emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce.

Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è, un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi "fato", non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto.
Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare -, dice Dante. - Bisogna intendere -, dice Machiavelli.

L'anima del mondo dantesco è il cuore: l'anima del mondo machiavellico e il cervello.

Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato. Non è sentimento morale, ma è semplicemente forza o energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso, perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi, quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.
Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti.

Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione dei fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono colti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena, nè dietro la scena; ma è nella sua camera, e mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. È l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione ai
moti convulsi e nervosi delle passioni.

Nei "Discorsi" c' è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca dai fatti, e vi torna, per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno, ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che ai volgari sembrano paradossi.
Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori, a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione come avviene talora anche ai più grandi pensatori. È l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza, e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni, tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigore d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile.

Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice, che ti par superficiale.

Il fondamento de' "Discorsi" è questo, che gli uomini "non sanno essere nè in tutto buoni, nè in tutto tristi", e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò "stanno" volentieri "in sull'ambiguo", e scelgono le "vie di mezzo", e "seguono le apparenze". C'è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli, e salgono da un'ambizione a un'altra, e prima si difendono, e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e nei mezzi sono perplessi e incerti.

Quello che degl'individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia, o classe. Nelle società non c'è in fondo che due sole classi, degli "abbienti" e de' "non abbienti", dei ricchi e dei poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi, quando hanno a fondamento l'"equalità". Perciò libertà non può essere, dove sono "gentiluomini" o classi previlegiate.

È chiaro che una scienza o arte politica non è possibile, quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi "Discorsi" sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, dei principi, dei francesi, dei tedeschi, degli spagnuoli, di individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, nei quali vien fuori il "carattere", cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata; e perciò freschissime e vive anche oggi.

Poichè il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù del conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù dei mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo.
Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa, e più osa. Quando la tempra è fiacca, dì pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni: com'è proprio del volgo.

Un'applicazione di questa implacabile logica è il "Principe". Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, la sostanza dei cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo a freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli, "non ingannato da loro, ma ingannando loro".
Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Non temi d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe deve mirare a farsi temere più che amare. Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.

Chi legge il trattato "De regimine principum" di Egidio Colonna vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo "Principe" del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza.

L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni.

Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto non intorbidito da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi strumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano. Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore. Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è ne' mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza.
Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.

Quando Machiavelli scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo straniero, a tutti "puzzava il barbaro dominio"; ma erano velleità. E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella sua radice.

Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche nel male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorchè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma "anima sciocca", che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.

Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere "uomo", iniziando l'età virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo, che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgante, Mandricardo, Fracasso.
C'erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi, ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedeva impegnato a fare per una spada e uno scudo quello aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse, "fu naturale ferita di core" - Lo spirito italiano adunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo principio virile, che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.

Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima, ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo, nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica, e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea, e risoluti a vivere e a morire per quella.

Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza, o, com'egli diceva, "corruttela":

"Qui, - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse ne' capi. Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno."

Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo, che riempisse di sè la coscienza nazionale Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari, nè le fortezze, nè i soldati, ma le forze morali, o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principale causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il commento:

"La ... religione, se ne' princìpi della repubblica cristiana si fosse mantenuta secondo che dal fondatore di essa fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più felici e più unite ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. Chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo o la rovina o il flagello."

Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere, di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:

"Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi."
Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno dei Franchi, il regno dei Turchi, quello del soldano, e le geste della "setta saracina", e le virtù "dei popoli della Magna" al tempo suo.
Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane in tanto fiorire degli Stati europei.

Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare azione di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale:

"Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più chiari del sole, andrei nel parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene, che per la malignità dei tempi e della fortuna non ha potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo."

Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante.
Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi:

"Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi, ... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi."

Degli avventurieri scrive:
"Il fine delle loro virtù è stato che [Italia] è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata da' svizzeri; ... tanto che essi han condotto Italia schiava e vituperata."

Nè è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa sferzante pittura:
"Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono de' proventi delle loro possessioni abbondantemente, senz'avere alcuna cura o di coltivare o di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni provincia: ma più perniciosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorte di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è stato mai alcuno vivere politico, perchè tali generazioni di uomini sono nemici di ogni civiltà."

Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro, e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi, ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola:

"Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito a pigliare Italia; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati."

Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna. Anche dei mali d'Italia davano la colpa alla mala sorte. Machiavelli scrive:
"La fortuna dimostra la sua potenza, dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo."

Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di un solo, a governarlo l'opera di tutti. Nei grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:

"Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo."

Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:
"Nè sia è alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perchè questi che lo lodano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori pèarlassero liberamente di lui. Ma chi vuol conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male. Vegga pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare quello per la sua potenza, e' celebrano il nimico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia, il mondo abbia con Cesare."

Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
"Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di se una sempiterna infamia."

Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, "e ponga fine ... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite".
È l'idea tradizionale del Redentore o del Messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro. Se non che il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero; dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di lei era straniero, barbaro, "oltramontano".

Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica "Monarchia" dell'uno col "Principe" dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante.
Ed oggi è facile assegnarne le cause. "Patria", "libertà", "Italia", "buoni ordini", "buone armi", erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagl'interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza.

E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi per bocca dei loro poeti signori del mondo, e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce n'era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo.
Nello stesso Machiavelli fu un' idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio retorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico.

Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' attraverso i suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, e di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro.
Non è meraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura ci entrava molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a "picca" e a "tric trac":

"E ... nascono molte contese e molti dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte per un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano."

Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel commento appostovi:

"Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento che mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse."

Vedilo tutto solo per il bosco con un Petrarca o con un Dante "libertineggiare" con lo spirito, fantasticare, abbandonato alle onde dell'immaginazione.

"Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste contadina piena di fango e di loto, e mi metto abiti regali e curiali, e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini; da' quali ricevuto amorevolmente, mi pasco del cibo che "solum" è mio; e non mi vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro."

Quel "trasferirsi in loro", quel "libertineggiare" sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. Ci è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della "Divina Commedia", e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la bandiera, grida: - Fuori i barbari! - A modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione:

"Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?"
E finisce coi versi del Petrarca:

"Virtù contra al furore
prenderà l'armi, e fia il combatter corto:
chè l'antico valore
negl'italici cor non è ancor morto.

Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile, e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente nei suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo difforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo, è l'ironia. La sua aria beffarda congiunta con la sagacia dell'osservazione lo chiariscono uomo del Risorgimento De' principi ecclesiastici scrive:

"Costoro soli hanno Stati e non gli difendono, hanno sudditi e non gli governano, e gli Stati per essere indifesi non sono lor tolti, ed i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro. ... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiunge, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo temerario e presuntuoso il discorrerne."

In tanta riverenza di parole non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell'osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive:

"Il francese ruberia con l'alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi ha rubato: natura contraria dello spagnuolo, che di quello che ti ruba, mai ne vedi nulla."

LA MANDRAGOLA


Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la "Mandragola", l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.
Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli.

"Fu pur troppo nuova cosa, - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai Menandro."

Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le "moresche", balli mimici. Le decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della "Calandria" in Urbino vedevi ...
"un tempio, ... tanto ben finito, - dice il Castiglione - che non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre di alabastro, tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino, ... figure intorno tonde finte di marmo, colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la storia delli tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che ferìa con un'asta un nudo, che gli era a' piedi."

L'Italia si vagheggiava là in tutta la pompa delle sue arti, architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una "moresca di Iasón" o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
"La prima fu una moresca di Iasón, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima dall'altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al vero, che alcuni pensàrno che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca. A questi si accostò il buon Iasón, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro, e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzare Iasón; e poi quando furono all'entrare, si ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente, e questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa."
Finita la commedia nacque sul palco all'improvviso un Amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi ...

"si udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore: e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide."
dice sempre il Castiglione, l'autore del "Cortigiano", che vi ebbe non piccola parte ad ordinarla.

Cosa era questa "Calandria", nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un "facsimile" di Calandrino, il marito sciocco, motivo comico del "Decamerone", rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese dei gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similidi figura, che vestiti ora da uomo, ora da donna generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c'è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni.
Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio, il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del "Decamerone". Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo de' Medici. È uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili ai balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette "d'intreccio", sullo stesso stampo delle novelle.

A prima vista pare molto simile la "Mandragola". Anche qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia, come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istrutto e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina di lui, ma più pratica del mondo.
C'è già qui un concetto assai più profondo che non è in Calandro: si sente il gran pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia.

Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi, e torna in Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia.
Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?

Scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare il suo tristo tempo più soave;
perchè altrove non ave
dove voltare il viso;
chè gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altre virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.

Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo VIII correva in Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore, il cardinale da Bibbiena, "assassinato di amore", e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli "Asolani" e l'altro la "Calandria", e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando, e non udito e non curato, fece come gli altri, scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali.
Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che bazzicava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia, il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove.
Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo d'uomo che abbia nel "Principe" concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda.
Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto, ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo. Ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria.
Colui che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè, e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera, e perdi lui di vista.
Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i delirii. Non è amore petrarchesco, e non è cinica volgarità: è vero amor naturale con i colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico.

"... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte m'assalta tanto desio d'essere una volta con costei, ch'io mi sento dalle piante de' piè al capo tutto alterare: le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba dal petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira."

Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in luce. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di saggezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene ci è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno.
Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra. E Machiavelli, non che voglia nascondersi, qui è terribilmente nudo, scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. È una brava donna, ma di poco criterio, e abituata a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni della figliuola risponde: - Io non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu di poi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene -
E non si parte mai di là, è la sua idea fissa, la sua sola idea: - T'ho detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi -. Il confessore sa perfettamente che madre è questa.
"... È ... una bestia,
- dice - e sarammi un grande aiuto a condurre Lucrezia alle mie voglie". -
Il carattere più interessante è fra Timoteo, il precursore di Tartufo, meno artificiato, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega rende poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende coi frati, che non sanno mantenere la riputazione dell'immagine miracolosa della Madonna:

"Io dissi mattutino, lessi una "Vita de' santi padri", andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo a una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si maravigliano poi che la divozione manca. Oh quanto poco cervello e in questi mia frati!"

Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente, pittura di costumi profonda nella sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perchè "in chiesa vale più la sua mercanzia". È di mediocre levatura, buono a uccellar donne:

"... Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello, e come n'e una che sappia dire due parole, e' se ne predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio è signore."

Conosce bene i suoi polli:

"Le più caritative persone che sieno son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è vero che non v'è miele senza le mosche."

Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio che, promettendo larga elemosina, lo richiede che procuri un aborto, risponde: - Sia col nome di Dio, facciasi ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa. ... Datemi ... cotesti danari, da poter cominciare a far qualche bene -. Parla spesso solo, e si fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che glie ne venga utile:

"Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che stia segreta, perché l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento."

Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia:

"Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio ufficio, intratteneva i miei divoti. Capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intignere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dov'io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura."

Questo è l'uomo, a cui la madre conduce la figliuola. Il frate spiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra.

"Io son contenta, - conchiude Lucrezia - ma non credo mai esser viva domattina".
E il frate risponde:

"Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiolo Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, che si fa sera. - Rimanete in pace, padre - dice la madre, e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira:
"Dio m'aiuti e la nostra Donna che non càpiti male".
Quel fatto il frate lo chiama un "misterio", e il mezzano è l'angelo Raffaello!

Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia facevano ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena, e non c'è rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso di Machiavelli c'è invece qualcosa di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura, e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito, non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile nudo e naturale ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.

Appunto perciò la "Mandragola" è una commedia che ha fatto il suo tempo. È troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue: non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico, che apre le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe, o l'avventuriere o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.

La "Mandragola" è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore.
L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi, per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo mUovono. E chi meglio sa calcolarle, vince. Il soprannaturale, il maraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte.

Si distinsero due specie di commedie, "d'intreccio" e "di carattere". "Commedia d'intreccio" fu detta, dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta, dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per il troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione.

Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti, e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il "Don Cuccù", e la "palla di aloè". C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.

Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta, quella per la quale e venuto a triste celebrità. È la sua parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il "machiavellismo".
Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci "figli di Machiavelli". Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo. È una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco.

Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca si è chiamato "petrarchismo" quello che in lui è un incidente ed è il tutto nei suoi imitatori. E si è chiamato "machiavellismo" quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente.

Così è nato un Machiavelli di convenzione,
visto da un lato solo e dal meno interessante.
È tempo di rintegrare l'immagine.

C' è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.
La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama "virtù". Proporti uno scopo, quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa "marciare allo scopo". Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose, come appaiono e non come sono: a quel modo che fa la plebe.
Cacciar via dunque tutte le vane apparenze, e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o uno tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo ciò a cosa mira è rifare le radici alla pianta "uomo" in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione.

Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti, pee i buoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice dei tiranni, e agli altri il codice degli uomini liberi.
Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e dei mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome, se non sia anch'esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi.
Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio, e con mezzi precisi.
Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato nei tratti essenziali.

La serietà della vita terrestre, col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione, col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale, col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente, con la disciplina delle forze, con l'equilibrio degl'interessi, ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la virtù o il carattere, "agere et pati fortia".
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza, come nella vita. Muore la scolastica, nasce la scienza.

Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi
ancora giovane. È il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano.
Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell'antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo (1870 Ndr.) , le campane suonano a distesa, e annunziano l'entrata degl'Italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il "viva" all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli.

Scrittore, non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche scopri sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antimperiale, antifeudale, civile, moderno e democratico. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti:
Guarda che siamo in tempi corrotti;
e se i mezzi son questi, e il mondo è fatto così, la colpa non è mia.


Ciò che è morto del Machiavelli non è il sistema, è la sua esagerazione. La sua "patria" mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo "Stato" non è contento di essere autonomo esso, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i diritti dello Stato: mancano i diritti dell'uomo. La "ragione di Stato" ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la "salute pubblica" le sue mannaie.

Fu stato di guerra e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi, vogliate chiamare anche machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma, e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati dei mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli, che sceglierne altri. Dura lex, sed ita lex.

Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati, e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli, allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode, le sette, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi.
È un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. (qui De Sanctis è molto ottimista; il '900 non sarà l'età dell'oro, ma l'età delle più grandi guerre. Ndr.)

Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche da' nostri tempi. E non è coi criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è.

Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della cultura, alle condizioni morali dei popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria dei mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo, che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini.
È chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo, e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutt'i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.

Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande, e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Qui il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio.

Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico, un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo.

In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. È l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta, poi Galileo Galilei con la sua illustre corte di naturalisti.
Francesco Guicciardini, di pochi anni più giovane di Machiavelli e di Michelangelo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo nei suoi "Ricordi". Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desideri, e non ci metterebbe un dito per realizzarli.

"Tre cose, - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte, ma dubito, ancora che vivessi molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutti i barbari, e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti."

Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato, ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte liberale e civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: "Conoscere non è mettere in atto". Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fa come ti torna. La regola della vita è "l'interesse proprio", "il tuo particolare".

Il Guicciardini biasima "l'ambizione, l'avarizia e la mollezze de' preti" e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, "per vedere ridurre questa caterva di scellerati a' termini debiti, cioè a restare o senza vizi o senza autorità"; ma "per il suo particolare" gli è necessario "amare la grandezza de' pontefici" e servire ai preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, "non combatte con la religione, nè con le cose, che pare che dipendono da Dio; perchè questo obiettivo ha troppa forza nella mente delli sciocchi".
Ama la gloria e desidera di fare "cose grandi ed eccelse", ma a patto che non sia "con suo danno o incomodità". Ama la patria, e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè "così ha a essere", ma per sè, "nato in tempi di tanta infelicità".
È zelante del ben pubblico, ma "non s'ingolfa tanto nello Stato" da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma quandoè a perduta, non è bene fare cambiamenti , perchè "mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo", e quando la vada male, ti tocca "la vita spregiata del fuoruscita".
Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che "governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti". Quelli che altrimenti fanno, sono uomini "leggeri". Molti, è vero, gridano libertà, ma "in quasi tutti prevale il rispetto dell'interesse suo". Essendo il mondo fatto così, hai da pigliare il mondo com'è, e condurti di modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini "savi".

La corruttela italiana era appunto in questo, che la coscienza era vuota, e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili, ma li ammette "sub conditione", a patto che siano conciliabili col tuo "particulare", come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prevale l'interesse proprio, e mette se francamente tra questi più, che sono i savi: gli altri li chiama "pazzi", come furono i fiorentini, che "vollero contro ogni ragione opporsi", quando "i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta", e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio.

Machiavelli combatte la corruttela italiana, e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini compare invece una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perchè non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure, e ne fa la sua saggezza e la sua aureola. I suoi "Ricordi" sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita.

Il dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saggezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita.

Il Guicciardini si crede più saggio del Machiavelli, perchè non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: "Quanto s'ingannano coloro che ad ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata com'era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio: il quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo."

In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso, e non mostra la menoma esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma "per debolezza di cervello", avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello, o, come dice il Guicciardini, "ingegno positivo".
Perchè l'ingegno sia positivo si richiede la "prudenza naturale", la "dottrina" che dà le regole, l'"esperienza" che dà gli esempli, e il "naturale buono", tale cioè che stia al reale, e non abbia illusioni.
E non basta. Si richiede anche la "discrezione" o il discernimento, perchè è "grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e per dire così per regola, perchè quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna lo insegni la discrezione".

Il vero libro della vita è dunque "il libro della discrezione", a leggere il quale si richiede da natura "buono e perspicace occhio". La dottrina sola non basta, e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa "volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti".

L'uomo positivo vede il mondo altro da quello che "a' volgari" pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura, o che non si vedono, "e dicono mille pazzie: perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gl'ingegni che a trovare la verità".

Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo "speculare" o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento.

Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè "gli uomini si riscontrano". Stai con chi vince, perchè "te ne viene parte di lode e di premio". "Abbi appetito della roba", perchè la ti dà riputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, "quando sia il caso di simulare, più facilmente acquisti fede". Sii stretto nello spendere, perchè "più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi". Studia di "parere buono", perchè "il buon nome vale più che molte ricchezze". Non meritarti nome di sospettoso, ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, "credi poco e fidati poco". Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza, e sull'interesse individuale. È il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente e positiva, succeduta ai codici d'amore e alle regole della cavalleria.

Ma il Guicciardini con tutta la sua saggezza trovò un altro più saggio di lui, e volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui strumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, usò gli ozi a scrivere la "Storia d'Italia".

Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizii retorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con un certo dsiprezzo, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commove più di nulla. Non ha simpatie e antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi e preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. È l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate, e che in lui sono egregie, la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.

Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere princìpi, nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro: dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace.
Ha in comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere, e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto, e che non si vede. Hai davanti non la sola descrizione dei fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione, li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti.
Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagazione non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza, fini che escono in mezzo, quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. E così nasce una specie di retorica,"ad usum delphini", voglio dire ad uso de' volgari, che non guardano nel fondo, e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno dentro come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro.

Lo storico aveva intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei "Ricordi", ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza, che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto.
Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento dei fatti umani, aveva dei preconcetti in letteratura, opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la traduzione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.
Molti uomini mediocri, quali il Casa, o il Castiglione, o il Salviati, o lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e retorici. E sono retorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore.

La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1532. Comincia con la calata di Carlo VIII, finisce con la caduta di Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo III, il papa della Inquisizione e del Concilio di Trento.
Questo periodo storico si può chiamare la "tragedia italiana", perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi cedette in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui, gli incendi, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra.
Avvolto fra tanti "atrocissimi accidenti", sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge.
La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo V e Francesco I, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta, questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra i principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così.

L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato dai suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione dei fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia, che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni, o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale.
Perciò chi perde, ha sempre torto, dovendo ricercarne la causa a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette, meravigliose, anzi miracolose alla plebe, a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.

Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gl'individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gl'interessi, le opinioni, le forze che movono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo ad imparare nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira ancora oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine, e come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vista, che manca in quello.

Lui, è un punto di partenza nella storia,
destinato a svilupparsi;
l'altro è un bel quadro, finito e chiuso in sè.

FINE

Ci aspetta ora proprio questo punto di partenza

ETA' MODERNA: GENESI DI UNA NUOVA EPOCA > >

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