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105. GLI SLAVI MERIDIONALI (BALCANI - BULGARIA)


I territori balcanici e bizantini nel XII secolo (periodo crociate)
(a fondo pagina gli stessi alla fine del XIV secolo)

Nella tripartizione delle popolazioni slave accennata nel primo capitolo, dopo quella nord Occidentali già trattata qui nei due precedenti lavori, arriviamo agli slavi Meridionali, cioè, bulgari, macedoni, serbo-croati, sloveni.

L'estrema avanguardia degli Slavi verso ovest, la prima che dovette cedere all'urto dell'occidente, era costituita dagli Sloveni, i quali al pari di altri rami della stirpe slava (Slovacchi, Slovinzi della Pomerania, Sloveni di Nowgorod) portavano un nome di cui i Greci ed i Romani fecero un nome comune.
Già nel VI secolo li vediamo in lotta con i Bavaresi degli Aginolfingi e coi Longobardi nel Friuli e nell'Istria e persino più dentro in Italia, dove si spinsero con le loro scorrerie.
Essi condivisero le sorti dei Serbi della Saale e dell'Elba; priva come era di qualsiasi organizzazione unificatrice la popolazione della Steiermark, della Carinzia e della Carniola si sottomise alle armi tedesche ed alla cristianizzazione. In queste contrade ed anche più ad est in Pannonia sino alla Raab, al Danubio o alla Drava si sparsero i missionari tedeschi e vi gettarono le basi di quella terminologia ecclesiastica che penetrò poi anche in Moravia ed in Boemia e non venne ripudiata neppure da Cirillo e Metodio.

L'essersi sottomessi fin dal IX secolo ai Tedeschi e l'avere accolto senza contrasto il cristianesimo salvò gli Sloveni dallo sterminio, e benché l'immigrazione bavarese abbia considerevolmente ridotta l'estensione dei territori da loro abitati, essi sono sopravvissuti sino ai giorni nostri, e ne esiste qualche isola anche nel Veneto (i Resiani): se essi poi prima del IX secolo non raggiunsero una organizzazione superiore a quella cantonale poco compatta, probabilmente la colpa fu dei loro primi oppressori, gli Avari.

Gli Avari si erano presentati nel 558 ai confini dell'impero d'oriente; nel 567 insieme con i Longobardi (i quali tuttavia poco dopo passarono in Italia) sterminarono i Lepidi ed occuparono la Pannonia. Dopo gli Avari assoggettarono tutte le popolazioni slave circostanti, dai Dulebi dimoranti ad oriente (nell'odierna Galizia) agli Slavi della Boemia, della Carinzia e giù ancora lungo la Sava fino al basso Danubio; le loro incursioni si spinsero sino in Italia, ma la regione da essi particolarmente funestata fu la penisola balcanica; l'ultima e più rovinosa loro invasione (626) doveva portare alla caduta di Costantinopoli.
Gli Avari facevano combattere in prima linea gli Slavi da loro sottomessi, mentre essi si tenevano in seconda linea; nell'inverno poi abbandonavano la Pannonia e si andavano ad annidare fra gli Slavi soggetti, vivendo alle loro spalle ed abusando delle loro donne.

L'anno 626 segnò l'apogeo della loro potenza ma anche l'inizio della loro decadenza. In occidente (forse nella Boemia) gli Slavi ed i meticci (degli Avari) scesero in campo contro di loro sotto la guida di un mercante franco, di nome Samo, e con una campagna fortunata eliminò il giogo dei barbari; gli Slavi meridionali, Croati e Serbi, se li tolsero pure d'attorno ed i Bulgari del basso Danubio li sconfissero e posero in fuga.
Dopo tutto questo la dominazione degli Avari sugli Slavi si ridusse alle popolazioni più immediatamente vicine e principalmente agli Sloveni; ma in seguito essi, alleandosi con la Baviera, vale a dire con Tassilo, contro Carlo Magno, furono coinvolti nella guerra contro la monarchia franca, una serie di continue sconfitte segnò la loro distruzione.

Diverse da quelle degli Sloveni furono le sorti degli altri Slavi meridionali, dei balcanici. Anche nella penisola balcanica comuqnue due cause impedirono di regola la formazione di organismi statali di una certa estensione. In primo luogo la configurazione geografica della penisola. A differenza della penisola iberica e della penisola appenninica che prima o poi poterono riunirsi in uno Stato solo, la penisola balcanica é stata sempre il vero e proprio vivaio del particolarismo, perché in nessun altro luogo le catene di montagne separano così nettamente una regione dall'altra, impedendo i contatti.
È perciò che non vi è mai sorto uno stato balcanico, ma si sono avuti sempre soltanto dei piccoli stati, che per di più si sono dissanguati in continue guerre fra loro. Si aggiunga che questi piccoli stati dei Bulgari, Serbi, ecc. ebbero la smania di espandersi verso mezzogiorno e consumarono le loro energie in sterili lotte con i Greci; lotte che non potevano avere alcun risultato perché le risorse dei Greci a quel tempo erano inesauribili, la loro tattica era di gran lunga superiore e la loro diplomazia maestra nel mettere un avversario contro l'altro in modo da sterminarsi da soli.

È per questo che i Greci, per quanto disperata potesse sembrare spesso la loro situazione, per quanto potessero apparire sul punto di dover capitolare e cedere Costantinopoli, si riebbero sempre. Né poco vantaggio essi traevano pure dal dominio del mare che serviva a mantenere le comunicazioni tra le varie parti del territorio anche quando per terra erano impossibili; se anche l'entroterra era in potere degli Slavi, le coste, le città litoranee e le isole rimasero sempre fino all'ultimo in mano dei Bizantini, i quali da queste basi riuscirono continuamente a riconquistare il terreno perduto; la quasi totale mancanza di una flotta non permise mai agli Slavi un vero e proprio assedio di Costantinopoli o di Salonicco.

Tuttavia nonostante i pochi mezzi gli Slavi riuscirono ad inondare tutta la penisola, e ad arrivare sino a Creta ed alle Cicladi, ma alla fine vennero ricacciati indietro su tutta la linea, il Peloponneso e la Grecia centrale ritornarono ad essere terre nuovamente greche e l'elemento albanese poté espandersi a spese del territorio precedentemente serbo; nella sola Macedonia gli Slavi poterono mantenersi come avanguardia estrema, o meglio retroguardia della loro stirpe che nel resto era stata decisamente respinta sul Danubio.

La seconda causa di disunione della penisola balcanica sta nella sua composizione etnografica. Vi dimoravano gli uni accanto agli altri Greci, Albanesi, Slavi ed anche un popolo romanizzato, i Valacchi, che erano stanziati nella parte orientale della regione. I progenitori di questo popolo, cedendo dinanzi alle invasioni barbariche, si erano rifugiati sui monti, ed erano andati errando, dediti alla pastorizia, per i Balcani e per tutta la catena dei Carpazi, ovvero erano discesi dai monti nelle pianure della Valacchia e dell'Ungheria orientale (Maramaros) non appena questi paesi furono mezzo sgombri dai popoli discesi dalle steppe dell'est.

Nella Valacchia la presenza di questi Rumeni (come essi chiamarono sé stessi; Valacchi é il nome dato loro dagli Slavi) si hanno dall'XI secolo. Dall'Ungheria orientale essi poi passarono nella Moldavia (sulla Moldava) verso la metà del XIV secolo. Sui loro due « voivodati » esercitarono una certa autorità politica gli Ungheresi, sinché questa fu loro contesa nel XV secolo dalla Polonia, che ridusse a propri vassalli i gospodar della Moldavia.
Il tipo di civiltà di questi Valacchi e Moldavi era completamente analogo a quello degli Slavi meridionali, la loro chiesa era la chiesa greca, la loro lingua letteraria è rimasta sino al XVII secolo la slava, e di questo predominio della lingua slava ne é prova la grande quantità di termini slavi che ancora oggi si riscontrano nella lingua rumena.
Alla dominazione ungherese e polacca si sostituì poi più tardi nel XVI secolo la dominazione turca, e i due ducati divennero stati vassalli e tributari della Turchia.

Il dissiparsi della tempesta provocata dall'invasione degli Unni non doveva fruttare all'impero greco, che teneva tuttora la linea del Danubio, una pace duratura; all'urto degli Unni seguirono gli assalti di popoli germanici e turchi, Bulgari ed Avari, Slavi operanti per conto proprio ovvero al servizio dei Turchi; ed a nulla giovò che Giustiniano avesse fatto costruire dietro la linea del Danubio tutto un sistema organico di fortificazioni. Proprio il suo regno fu funestato da invasioni di Slavi. E queste invasioni ebbero conseguenze ben più gravi che non le incursioni degli Avari (e dei Bulgari), perché questi ultimi dopo aver fatto bottino se ne tornavano sempre al di là del Danubio, mentre gli Slavi fin dalla seconda metà del VI secolo cominciarono a insediarsi in modo permanente nei Balcani, abbandonando ai nomadi le terre da loro sgombrate; i Greci, impegnati in disastrose guerra in Oriente, li lasciarono fare ad espandersi fino al punto che già nel VII secolo quasi tutto il continente balcanico era divenuto slavo.

I Greci conservarono soltanto la costa a la pianura da Adrianopoli fino alla lunga muraglia dietro la quale Costantinopoli si credeva al sicuro; per fortuna dei Greci questi Slavi (come del resto abbiamo visto nelle zone nord occidentali) erano completamente disgregati, per lo scarso sentimento di solidarietà nazionale, per la mancanza di una autorità superiore coordinatrice, per gli scoppi di continue inimicizie e contese fra di loro.

Il primo popolo slavo che arrivò a costituire il primo stato balcanico fu quello dei Bulgari. Essi spuntano sulla scena nelle regioni dall'alto Danubio subito dopo la sparizione dagli Unni, e molto verosimilmente questi si fusero con loro o loro con questi; in seguito si stanziarono nell'angolo compreso tra il Dniester ed il Danubio. L'imperatore greco volle cacciarli da questi territori che appartenevano un tempo ai Bizantini, ma rimase sconfitto a nella fuga si trascinò alle calcagna l'orda di Asparuch, la quale nel 679 passò il Danubio ed assoggettò sette tribù slava tra il Danubio, i Balcani e la Moravia.
Come la maggior parte delle altre orde asiatiche turco-tartare, anche questi bulgari sarebbero alla fine spariti senza lasciar traccia di sé qualora non si fossero fusi con gli Slavi autoctoni, o gli slavi-bulgari con gli asiatici.

Invece queste fusioni, questi insiemi, questi "nuovi bulgari", servirono a cementare la formazione di uno stato nel quale l'elemento turco-tartaro si slavizzò così bene che nei tempi posteriori è molto se un paio di parole e di nomi propri conservarono la memoria della loro origine non slava; tuttavia questo nuovo popolo conservò per lungo tempo ancora l'innata ferocia turca.

Nelle guerra che ben presto scoppiarono i Greci ebbero per lo più la peggio ; nel corso di queste lotte lo zar bulgaro Bogoris (di qui il noma Boris prediletto ancora oggi tra i Bulgari ed i Russi) si convertì nell'864 al cristianesimo accettando la confessione greca, e fu soprannominato Michele dal suo padrino di battesimo, l'imperatore greco di quel periodo.
La chiesa bulgara accolse poi la liturgia slava. Nei primi decenni dal X secolo anzi la gran parte della letteratura ecclesiastica slava fiorì in Bulgaria. Lo zar Simeone medesimo, figlio secondogenito di Boris, stabilì con il suo scrittore preferito, Giovanni Crisostomo, quali omelie dovevano essere tradotte in bulgaro; e attorno al bibliofilo slavo «Tolemao» si radunò una schiera di traduttori ed imitatori.

Lo zar Simeone era già un perfetto slavo, come se non avesse mai avuto un'altra nazionalità, e in quanto a cultura era stato in gioventù educato dai bizantini di Costantinopoli.
L'imperatore Leone Grammatico per sconfiggerlo non avendo risorse sufficienti ricorse contro i Bulgari all'alleanza con gli Ungari. Costoro non erano, come tutte le altre orde, dei turco-tartara, ma erano di stirpe finnaco-uralica, probabilmente del ramo più meridionale di questi popoli che, dimorando a contatto con popolazioni turche, ne avevano subito le influenze (che si manifestano anche nella lingua) ed aveva finito per diventare come i primi Turchi cioè nomade, contrariamente al carattere generale della razza finnica.

Verso l'890 gli Ungari erano ancora stanziati tra il Don ed il Dnaester, dove erano immigrati in sette tribù (una delle quali era quella dei Magiari) sotto la guida dei rispettivi «voivoda» (uno di questi era Arpade), avendo alle spalle i Pecenegha. All'inizio essi riportarono dei successi sui Bulgari, ma in seguito lo zar Simeone si alleò con i Peceneghi, e i due alleati ridussero così a mal partito gli Ungari da costringerli a spostarsi più ad ovest; essi passarono infatti in Transilvania e di qui nelle steppe della Pannonia, dove, o spontaneamente o per merito di Arnolfo, cominciarono a taglieggiare i Moravi e ben presto tutti i popoli adiacenti; a causa di questa invasione ungarica la Bulgaria perdette per sempre i suoi territori a nord del Danubio.

Zar Simeone dopo questi successi si impegnò con tutte le sue forze verso mezzogiorno; della Serbia, che i Greci (come erano soliti fare) gli aizzarono contro. Ma egli ne fece un deserto spopolandolo e conquistando tutto il paese a sud e a sud-ovest, impossessandosi di Adrianopoli ed investendo Costantinopoli.
Chiaramente con questi successi questo re già nutriva il progetto di unificare tutta la penisola balcanica, tanto vero che (come un vero imperatore) assunse il titolo di zar dei Bulgari, autocrate dei Greci e (facendo anche il cesaro-papista) elevò perfino al grado di patriarca l'arcivescovo del suo paese; ma purtroppo durante questa guerra con i Greci morì nel 927.

La potenza degli stati balcanici é sempre rimasta legata alle qualità personali dei sovrani ed al sovrano energico ha normalmente fatto seguito un sovrano debole; così anche in questo caso a Simeone successe il figlio Pietro, di carattere pacifico e devoto, e le cose mutarono quasi improvvisamente. Egli fece pace coi Greci in compenso del riconoscimento della sua sovranità e si sposò anche una principessa greca.
Poi invece di rivolgere le loro forze contro nemici esterni i Bulgari le consumarono in lotte intestine; ed uno dei «bolari» (nobili) malcontenti, Schischman, riuscì alla fine a fondare uno stato bulgaro separato in Macedonia (Ochrida) ed in Albania.

Quanto ai Serbi, essi si resero indipendenti dall'ingerenza bulgara e per odio contro i loro quasi connazionali, si allearono con l'impero greco. A tutti questi mali si aggiunse anche uno scisma confessionale di natura tutta particolare che ha fatto assumere alla Bulgaria una parte caratteristica nella storia religiosa dei popoli europei. Forse perchè erano convinti che il papato romano oltre alla grande autorità spirituale avesse anche dei forti eserciti o almeno dei forti alleati in occidente.

Alle due confessioni che fieramente lottavano nella penisola balcanica (perché i papi non rinunziarono mai al tentativo di introdurvi il cattolicesimo con l'aiuto soprattutto degli Ungheresi) venne infatti ad aggiungersi l'eresia dei così detti «bogomili». Gli imperatori greci nell'VIII secolo avevano trapiantato dall'Asia Minore nei Balcani, mettendoli a guardia dei confini, un certo numero di Pauliciani, cioé di eretici manichei. Fra costoro germogliò e lentamente si andò propagando (principalmente
nel X secolo) la dottrina ora accennata che aveva preso nome da un prete bulgaro Bogomil.
Era un cristianesimo più puro, innestato su un'antica concezione dualistica orientale; al principio del bene, creatore del mondo spirituale, si contrapponeva il principio del male, istigatore di tutti gli istinti materiali; quindi questa dottrina era avversa alla carne, al mondo ed alle sue opere, non tollerava esteriorità di sorta, gerarchia, chiesa, immagini, croce, messe.

Politicamente essa - ovviamente - aveva effetti dissolventi, perché non ammetteva la guerra, condannava il giuramento (e la procedura giudiziaria), era contrario al lavoro per un padrone. Essa non pretendeva modificare tutte le abitudini della gran massa, ma reclamava dagli «eletti» castità (celibato), vegetarianismo, rinunzia ad ogni ricchezza; questi eletti vivevano di elemosina e andavano in giro insegnando la vera e pura dottrina e conciliando controversie e litigi. Non fa meraviglia che questi pellegrini denutriti, dimessamente vestiti, con gli occhi fissi a terra e mormoranti preghiere, che non si adiravano mai, non imprecavano mai e tentavano di attuare la giustizia, abbiano fatto una profonda impressione nell'ambiente democratico degli Slavi balcanici; anche dei Greci si convertirono alle loro teorie e le importarono nella bassa Italia, donde si propagarono in Lombardia e trasmigrarono poi nella Francia meridionale (ad Alby, donde il nome tipico degli Albigesi); i loro affiliati furono pure conosciuti sotto gli appellativi di «cristiani» (essi soli pretendevano di meritare tale nome), «buoni uomini» (boni homines), «puri» (katharoi in greco, donde il tedesco «ketzer»), «patareni» (da un sobborgo di Milano dove essi vivevano).

Con i nomi mutarono anche i vani tentativi di costoro di transigere con la confessione dominante; le loro designazioni più comuni furono peraltro quelle di manichei o di «bulgari» (Bulgarorum haeresis, Bulgri, donde il dispregiativo francese, tutt'ora usato, di « bougre »).
L'eresia fu oggetto di fiere persecuzioni in Bulgaria ed in Serbia; esse però la estirparono soltanto in apparenza, perché i bogomili abbracciarono esteriormente l'ortodossia, ma nel loro intimo si conservarono fedeli alle proprie idee.

La disgregazione politica e gli scismi interni della Bulgaria non potevano fare a meno di incitare i Greci di tentare la riconquista di quanto avevano perduto; siccome però l'imperatore Niceforo era obbligato a guerreggiare in Siria, così propose nel 968 mediante un ricco compenso all'impetuoso principe russo Swiatoslaw di assumersi lui il compito di domare i Bulgari.

Swiatoslaw conquistò al primo assalto la Bulgaria sino ai Balcani e trovò così straordinariamente amena la residenza di Preslav sul Danubio in confronto della sua sbiadita e meschina Kiew che vi si installò convinto di non tornare più indietro. Ben presto apparveanche in Tracia e minacciò la stessa Costantinopoli; solo dopo molte fatiche l'imperatore Tzimiscete riuscì a sconfiggerlo, ad assediarlo in Silistria ed a costringerlo alla ritirata nei suoi paesi.

Dopo ciò la Bulgaria orientale rimase in mano dei Greci, e dopo lunghe lotte Basilio II, lo sterminatore dei Bulgari, riuscì a
sottomettere completamente la Bulgaria occidentale, il regno di Schischman, cui era succeduto Samuele.
La guerra aveva avuto degli alti e bassi; anzi all'inizio Samuele era stato così bene assistito dalla fortuna che aveva potuto riunire quasi tutto l'antico territorio bulgaro che alla fine era ormai tutto suo, quando nel 1014 i Bulgari ricevettero il colpo decisivo; l'imperatore vittorioso in una battaglia, dopo averli fatti prigiornieri, fece accecare 10.000 Bulgari , lasciandone uno su cento con un occhio solo come guida ai suoi compagni. E così conciati li rimandò allo zar, il quale a tal vista morì di crepacuore; nel 1018 si sottomise anche l'ultimo «bolar» bulgaro di Berat (Albania).

La dominazione greca con le estorsioni degli strateghi che si davano il cambio ogni anno e con le vessazioni degli esattori delle imposte dissanguò spaventosamente la Bulgaria, ed a questi mali si aggiunsero invasioni, prima dei Peceneghi, e poi (dal 1065) dei Polowzi, le quali devastarono ed insanguinarono principalmente la Bulgaria danubiana.

Scoppiarono varie insurrezioni, ma i Greci, sopratutto gli energici Comneni, le domarono sempre. Se non che col tempo la confusione aumentò. Da mezzogiorno si fecero avanti i Normanni guidati da Boemondo, figlio di Roberto Guiscardo, e fondarono un regno d'Epiro che si estese sino al Vardar; gli Ungari cominciarono ad infiltrarsi da nord, e la Serbia pure prese ad espandersi.
La morte dell'imperatore Manuele (1180) e le lotte di successione che ne seguirono dettero il segnale ad una nuova insurrezione, che finì nel 1185 con la cacciata dei Greci e con la fondazione di un secondo regno bulgaro.

L'anima di quest'ultima rivolta furono i Valacchi; infatti i due fratelli Pietro e Giovanni Asen, di nobile famiglia, i quali, offesi dalla corte greca, incitarono nella chiesa di Tirnovo il popolo ad insorgere erano appunto valacchi, benché si spacciassero per discendenti dell'antica dinastia nazionale (dei primi Bogoris).
La seconda monarchia bulgara però non raggiunse l'importanza della prima né dal punto di vista politico né da quello del progresso civile. Le dinastie andarono soggette a frequenti e rapidi mutamenti. Tutta la storia di questo Stato non ci offre che lotte tra pretendenti al trono, vani tentativi di espansione verso mezzogiorno e spartizioni del territorio.
A Viddin sul Danubio sorse un principato autonomo che seppe difendersi e reggersi di fronte allo zar di Tirnovo; indipendente divenne pure il principe Dobrotic in quel tratto di territorio tra il Danubio ed il mare che da lui ha preso il nome di Dobrugia.
La stessa Bulgaria cadde per qualche tempo in soggezione alla Serbia. I nuovi nemici, i Turchi, trovarono degli avversari completamente disgregati, in lotta fra loro, ed invano l'imperatore Cantacuzeno li ammoni di unirsi contro il comune pericolo, fin che erano ancora in tempo.

E così non passò molto che le sorti della Bulgaria furono decise per sempre; nessun altro stato balcanico cadde così ingloriosamente sotto la dominazione dei Turchi. Murad I nel 1363 gli strappò Filippopoli ed i Bulgari della regione gli si sottomisero impegnandosi a prestargli servizio militare in compenso della esenzione da imposte e dell'autonomia religiosa ed ecclesiastica; poco dopo lo stesso zar si riconobbe vassallo del sultano e mandò perfino le proprie sorelle ad arricchire il suo harem.

I Bulgari tentarono tuttavia vent'anni dopo, nel 1388, di scuotere il giogo ancora una volta, ma ben presto Tirnovo dovette capitolare; lo zar fu costretto a consegnare ai Turchi le piazzeforti ed a pagare anche un tributo. Ma neanche questo bastò ai Turchi, i quali sospettavano alleanze dello zar con Sigismondo e con gli Ungheresi, e nel 1393 essi decretarono la fine dello stato bulgaro, distrussero Tirnovo, relegarono in Oriente gli elementi più autorevoli della popolazione e bruciarono il patriarca.
Molta gente del popolo fuggì in Valacchia; la nobiltà ritenne più opportuno abbracciare l'islamismo, e così fecero anche non pochi popolani (gli odierni «Pomak», bulgari mussulmani). I Bulgari non osarono più ribellarsi ai Turchi, vissero asserviti, degenerati, disprezzati, privi di qualsiasi tradizione gloriosa come quelle che gli Albanesi vantano nel loro Scanderbeg, i Greci nei loro Clefti, i Montenegrini nei loro Vladichi.

Mentre, come abbiamo visto, nel VI secolo la parte orientale della penisola balcanica, al di là del Vardar e della Morava, veniva occupata da quegli «Sloveni» (Slavi) che poi dal nome dei loro conquistatori vennero chiamati Bulgari, contemporaneamente altre stirpi slave passavano il Danubio, e, siccome la Pannonia era occupata da nomadi di razza turca (gli Avari) si stanziavano nella parte occidentale della regione balcanica.
Anche questi slavi illirici vivevano disgregati in una quantità di tribù e cantoni sotto due denominazioni principali: Croati e Serbi.
Accanto a loro continuarono a sussistere residui delle antiche popolazioni provinciali romane, in particolare a Ragusa, cui poi arrise lo splendido avvenire di una grande repubblica marinara e mercantile; a Spalato, vale a dire il luogo ove era un tempo il palazzo di Diocleziano, dove si erano riparati i fuggitivi da Salona, la capitale della provincia di Dalmazia, edificandovi le proprie dimore; a Zara ed altrove, nonché in alcune isole.

Questi Slavi: i Croati che abitavano nel nord-ovest della penisola, nell'antica Dalmazia, ed attorno ad essi, distesi su un ampio arco da Antivari e dalla Narenta sulla costa adriatica fino al Danubio ed alla Morava, i Serbi, erano del tutto o quasi indipendenti dai bizantini.
Il cristianesimo penetrò fra loro dalla costa e vi si diffuse principalmente nella forma del rito cattolico; le loro relazioni con l'altra sponda dell'Adriatico, con Venezia, i cui dogi cercarono in tutti i modi di metter piede in Dalmazia, erano già antiche.
L'impulso alla formazione di un'organizzazione politica più vasta e complessa, che per il momento si ridusse alla subordinazione dei molti «zupani » (capi di cantoni) all'autorità di uno di essi, venne dalla costa e dal mezzogiorno.
Il centro di gravità dell'antica Serbia non era a Belgrado o sul Danubio, ma piuttosto nel sud-ovest, in territorio che oggi é già in parte albanese (Kossovo).

Da ultimo Stefano Nemanja, in parte con l'aiuto dei Greci, alla cui alta sovranità gli zupani talora si piegarono, talora si ribellarono, riuscì ad affermare la propria supremazia su tutto il paese, anche contro i propri fratelli. Per farsi un'idea delle condizioni del paese in materia confessionale é poi significativo il fatto che i suoi genitori che sulla costa, ove era nato, lo avevano fatto battezzare nella religione cattolica, lo fecero ribattezzare nell'interno nella religione ortodossa. La dinastia dei Nemanidi si distinse per la sua profonda religiosità, ma questi re furono proprio i più devoti servitori dell'ortodossia.
Il fratello del primo re, Stefano, completò l'organizzazione politica del nuovo regno con l'organizzazione ecclesiastica; questo Rastco, che da monaco aveva preso il nome di Sava (il santo), divenne il primo arcivescovo della Serbia, impegnandosi solennemente a procurare il trionfo dell'ortodossia nel suo paese; il che non gli impedì di implorare insieme con suo fratello da papa Onorio III il conferimento della corona reale a Stefano; i papi acconsentirono e rimasero gabbati.

I primi re della dinastia dei Nemanidi cercarono prima di tutto di consolidare la propria autorità all'interno e non dispersero troppo le loro forze in imprese esterne come gli Asenidi bulgari. Soltanto sotto Stefano Milutin Urosch II (tutti i re di Serbia presero il prenome di Stefano), che regnò dal 1281, la Serbia si incamminò sulla via delle conquiste. Ma nonostante queste conquiste, seppe mantenere le migliori relazioni di amicizia con i Greci, forse accarezzando l'idea di una riunione dei due popoli; e quanto ai pericoli che minacciavano da nord per parte degli Ungari egli seppe pure eliminarli con abili concessioni, tanto che la crociata bandita dal papa contro questo «re sleale, eretico e nemico della fede cristiana» andò a monte.

Allorché dopo un lunghissimo regno Stefano mori (1320), il suo piccolo stato, in grazia della sua energia e della sua accortezza era divenuto lo stato più potente dei Balcani. Per la sua buona organizzazione militare esso sostenne la prova del fuoco, resistendo così alla calamità delle lotte interne che anche nella dinastia dei Nemanidi infierirono regolarmente tra fratelli o tra padre e figlio, come ad una pericolosa coalizione diretta contro la Serbia; nel 1330 i Bulgari furono sconfitti e sterminati a Velbusch (Kostendil), il loro zar venne ucciso e la Bulgaria ridotta ad una specie di vassallaggio dalla Serbia.

Con Stefano Duschan salì poi nel 1331 sul trono serbo l'ultima grande figura di sovrano cristiano balcanico. Egli - spinto da una forte ambizione - si volse con tutte le sue forze contro i bizantini proponendosi di spodestare l'imperatore Andronico: conquistò ben presto tutta la Macedonia occidentale, prese Seres
e nel 1346 si fece incoronare a Scopje zar dei Serbi e dei Greci, dopo aver fatto poco prima innalzare alla dignità di patriarca l'arcivescovo serbo.
Ma mentre faceva i preparativi per la conquista di Costantinopoli e dell'Impero, radunando un poderoso esercito, venne a morte improvvisamente nel 1355 nel fiore degli anni.

Se si eccettua la Bosnia e la Dalmazia il suo regno abbracciava quasi tutta la penisola balcanica, la Serbia e le sue dipendenze, la Macedonia (salvo l'invincibile Salonicco, il più saldo baluardo dei bizantini, che ha resistito per quasi sette secoli ai vari assalti degli Slavi) la Valacchia o Tessalia, l'Albania, l'Epiro e l'Etolia. Solo con gli Ungari il defunto re era stato meno fortunato ed aveva dovuto garantirsi contro di essi le spalle facendo delle promesse al papa, le quali però in quanto a serietà erano pari a quelle dei suoi predecessori. Tuttavia nei territori conquistati non turbò la situazione presistente né i diritti acquisiti.

Nella sua Serbia fu pure il primo legislatore ed il suo Zakonnik (codice) fu emanato contemporaneamente alla Maiestas Carolina (del re di Boemia) ed alla Vislicia del re di Polonia Casimiro. Però con lo straordinario ampliamento del regno non procedette parallela la fusione ed unificazione delle varie sue parti; il re, ad imitazione delle istituzioni feudali franche, le quali erano penetrate dal XIII secolo anche nei Balcani, si accontentò di conferire i nuovi territori ai suoi funzionari e nobili in qualità di vassalli-governatori muniti di poteri quasi illimitati.
Egli aveva fatto incoronare re suo figlio e gli aveva affidato il governo della Serbia vera e propria; il resto era governato dai suoi cesari, despoti, sevastocratori (secondo lo schematismo bizantino); lo zar esercitava l'alta sovranità su tutti. Ma al figlio e successore di Stefano Duschan mancava l'autorità del padre conquistatore; sotto di lui (Stefano Urosch IV) si impegnò un movimento di generale ribellione; defezionò il suo ambizioso zio Simeone che si fece incoronare re a Tricala e dominò indipendentemente sulla Tessalia, l'Epiro e l'Etolia, e defezionò pure una intera serie di principi in Macedonia, ecc.

Alla stessa corte di Stefano Urosch il potere effettivo era nelle mani dei tre fratelli, dei despoti Bucaschin, Giovanni Uglescha e Goico; costoro deposero alla fine lo zar e nel 1370 Buchaschin salì sul trono intitolandosi re dei Serbi, dei Greci e dei paesi occidentali (litoranei).
I tre fratelli insieme allestirono un poderoso esercito per cacciare i Turchi dall'Europa, cogliendo l'occasione che il sultano era impegnato nelle guerre d'Asia; il superbo esercito, sicuro della vittoria, si avanzò fin sotto Adrianopoli, ma qui un assalto notturno di sorpresa da parte di un manipolo di turchi ne fece strage, i tre fratelli caddero sul campo che ancora porta nel suo nome il ricordo della sconfitta dei Serbi.

Senza altri indugi i Turchi invasero la Macedonia, la devastarono e costrinsero i suoi principi a riconoscersi vassalli ed a prestare milizie ausiliarie.
L'ultimo Nemanide era morto senza discendenti; del governo si impadronì ora il knes Lazaro che già aveva occupato una posizione importante alla corte di Stefano; ma i suoi dominii si limitarono alla Serbia in senso stretto, sul Danubio e sulla Morava, come di rango inferiore fu il titolo che portò (né zar, né re); a mezzogiorno, nella «piana dei merli» dominò suo genero Brankovic.

La preoccupazione più cocente fu naturalmente il sempre più minaccioso pericolo dei Turchi; costoro infatti si avanzavano da due parti, dalla Bulgaria, dove Sofia era caduta nel 1382 nelle loro mani, e dall'Albania, dove erano stati chiamati da uno dei despoti locali. Lazaro si alleò col re di Bosnia e nel 1386, mentre il sultano Murad combatteva in Caramania, i due alleati credettero di poter osare un'offensiva, ma Murad li prevenne, conquistò Nisch e costrinse Lazaro a pagar tributo ed a prestare milizie ausiliarie. In seguito però gli alleati colsero l'occasione delle continue guerre in cui era impegnato Murad in Asia e nel 1387 riuscirono a battere e sterminare un esercito turco.

Dopo questo successo si formò un'alleanza: lo zar Schischman di Bulgaria ed Ivanco, despota della Dobrugia, che avevano rifiutato obbedienza ai Turchi. Il sultano attese un anno a prepararsi alla lotta e nel 1388 Ali pascià domò la resistenza dei Bulgari e li costrinse a sottomettersi.

Nel 1389 il sultano, in persona scese in campo contro la Serbia, avanzando da mezzogiorno; il 15 giugno 1389, il giorno di S. Vito, si ingaggiò quella battaglia che decise per sempre le sorti della penisola balcanica. A fianco di Lazaro combatterono pure i bosniaci sotto la guida del loro voivoda Cranic, ed alcuni contingenti croati, bulgari, rumeni ed albanesi; a fianco di Murad, oltre agli Osmani ed ai contingenti dei despoti dell'Asia Minore, anche alcuni contingenti macedoni.
Sullo svolgimento reale di questa battaglia mancano notizie autentiche; il re bosniaco la annunziò all'Europa come una vittoria dei cristiani e nella chiesa di Notre-Dame di Parigi fu cantato un solenne Te-deum di ringraziamento.
Narra la leggenda che il serbo Milosch Obilic si introdusse di soppiatto al primo albeggiare nel campo turco ed uccise il sultano Murad nella sua tenda, votandosi ad una morte orribile per dimostrare l'infondatezza dell'accusa di traditore della causa cristiana mossagli da Brancovic (il genero di Lazaro).
Il figlio del sultano, Bajazet, tenne nascosta la morte del padre ed assunse il comando supremo dell'esercito dopo aver fatto affogare il proprio fratello e rivale Jacub.

Già la vittoria pendeva dalla parte dei Serbi, quando Brancovic tradì a sua volta veramente la causa cristiana e si diede alla fuga; i Serbi furono sconfitti, Lazaro fu preso prigioniero e decapitato insieme con una quantità di nobili al cospetto del cadavere di Murad. Ma i Turchi si ritirarono immediatamente ad Adrianopoli, ciò che deve aver fatto nascere l'accennata voce di una vittoria dei cristiani.

I successivi 70 anni di storia serba assomigliano piuttosto ad un'agonia. Al pio Lazaro, che il popolo serbo venera come un santo, successe il figlio Stefano, despota di Serbia (con residenza a Belgrado), il quale si impegnò a pagare tributo ai Turchi ed a prestare milizie ausiliarie, arricchì con la propria sorella l'harem del sultano e dovette ogni anno presentarsi a fare atto di omaggio alla Sublime Porta. Egli combatté pure a fianco dei Turchi in tutte le battaglie da costoro combattute contro i cristiani, nel 1394 a Rovine, dove il voivoda valacco Mirca sterminò i Turchi, e nel 1396 a Nicopoli, dove a loro volta i Turchi sconfissero il superbo esercito mandato loro contro da Sigismondo; col massimo valore si impegnò poi nella battaglia di Angora, dove Bajazet fu battuto da Tamerlano. In seguito a quest'ultima disfatta dei Turchi ed alle guerre successive che essi furono costretti a sostenere, la penisola balcanica avrebbe potuto forse essere liberata dal giogo turco; ma né l'occidente si mosse per recare un aiuto efficace (aiuto che del resto non si sarebbe potuto avere se non in compenso di una (impossibile) unione delle due chiese), né gli stessi popoli balcanici si coalizzarono allo scopo. Anzi é proprio con il loro aiuto che Suleiman prima, e poi Maometto II riuscirono a tener testa ai loro nemici; principalmente i serbi di Stefano tennero una splendida condotta nel 1413 alla battaglia decisiva di Ciamorlu.

Il bellicoso figlio di Maometto, Murad II, sospettoso per il ravvicinamento che si tentava tra Stefano e il re d'Ungheria (ravvicinamento che peraltro fallì a causa della diffidenza di Stefano verso Sigismondo che si proponeva di far valere i suoi diritti sulla Serbia), si presentò nel 1425 dinanzi a Kruschevaz e costrinse Stefano a pagar tributo ed a prestare milizie ausiliarie.

Nel 1427 Stefano morì senza discendenti; durante il suo governo, salvo alcune lotte col fratello che incitò contro di lui i Turchi, la Serbia aveva goduto di una relativa tranquillità. Sotto il suo nipote e successore Giorgio Brancovic i Turchi strariparono nel paese e ben presto al sovrano serbo non rimase che Belgrado, per il cui acquisto infuriarono le più accanite battaglie fra gli Ungheresi dell'Uniade ed i Turchi; nonostante ciò Giorgio Brancovic non degnò neppure di rispondere all'esortazione di inviare dei delegati al concilio di Ferrara.
Dopo la caduta di Costantinopoli egli si schierò completamente dalla parte dei Turchi. Suo figlio Lazaro sul suo letto di morte, nel 1458, offrì al papa la sovranità feudale sulla Serbia, ma quando la vedova si accinse a far venire i legati del papa, il popolo e la nobiltà ortodossa preferirono chiamare i Turchi, i quali nel 1459 occuparono definitivamente la Serbia.

Anche la Bosnia assurse per un momento ad una posizione egemonica nella penisola balcanica. Questo paese (che prese nome dal fiume Bosna che lo bagna) cadde in breve tempo sotto la dipendenza dell'Ungheria; il re d'Ungheria portava pure il titolo di re di Rama (fiume e territorio nel sud-ovest della Bosnia). La minaccia che rappresentavano per i Bosniaci e per gli Ungheresi i bellicosi Comneni, i quali non potevano loro perdonare l'occupazione della Dalmazia e della Sirmia, costrinse i due popoli a tutelarsi mediante alleanze politiche e dinastiche, ed i «bani» di Bosnia assunsero il carattere di dignitari ungheresi. Ma la dipendenza dei bani bosniaci dall'Ungheria fu spesso semplicemente nominale; ed essa poi venne completamente infranta dalla più spiccata personalità della storia della Bosnia, da Stefano Tvrtco, pronipote dell'ungherese Cotroman, che era stato creato bano di Bosnia da re Bela IV.

Il timore per la crescente potenza della Serbia aveva indotto i bani a cercare appoggio nell'Ungheria; ora invece Tvrtco approfittò della decadenza della Serbia dopo la morte di Duschan e dell'indebolimento dell'Ungheria a causa delle perturbazioni interne succedute alla morte di re Luigi (1382) non solo per rendere indipendente il banato che gli era stato conferito da re Luigi, ma per ampliarne il territorio con regioni serbe che conquistò dopo l'estinzione della dinastia dei Nemanidi elevandovi titolo come parente di questi re.
Nel 1376 egli si fece incoronare sulla tomba del santo Sava re di Serbia, di Bosnia e dei paesi adriatici; ma la sconfitta del «
piano dei merli» in Kossovo dove il contingente bosniaco, appena si sparse la voce di tradimento, era stato il primo a prender la fuga, troncò ogni speranza di ulteriori conquiste verso oriente.

Se non che l'ambizione di Tvrtco era proprio rivolta verso ovest, dove si impadronì infatti di tutta la costa dalmata (salvo la sola Zara che rimase fedele al re ungherese Sigismondo) e della Croazia, aggiungendo al suo titolo quello di re di queste due regioni. Il suo fine ultimo era l'indebolimento dell'Ungheria a qualunque costo, ed a tale scopo riuscì (unico esempio nella storia degli Slavi meridionali) ad alleare Serbi e Croati; ma poco dopo, nel 1391, egli morì, ed i suoi deboli e inetti successori furono immediatamente costretti a restituire a re Sigismondo la Croazia e la Dalmazia, strinsero rapporti d'amicizia con i Turchi e sciuparono le loro forze in continue lotte contro pretendenti e contro potentati del regno ribelli, sempre più insubordinati.

L'ultimo re Stefano Tomaschewitsch (anche qui il nome di Stefano era obbligatorio per i re) rifiutò di continuare a pagare ai Turchi il tributo, fondandosi sulla semplice speranza di aiuti veneziani ed ungheresi; nel 1463 penetrarono in Bosnia 150.000 Turchi, presero prigioniero il re, ed il sultano ad onta delle assicurazioni date in contrario, lo fece giustiziare (1463) perché aveva deciso di non lasciare in vita nessun principe cristiano. La Bosnia divenne così una provincia turca.

L'inutilità degli sforzi fatti dalla Bosnia e le perturbazioni interne del paese ebbero la loro causa nella confessione che vi era dominante; la Bosnia é l'unica regione in cui l'odiata setta dei patareni (bogomili) riuscì a mettere profonde e vaste radici; dai bani al popolo minuto erano tutti patareni o, come dicevano, della «fede di S. Paolo». Di modo che i bani o vollero stare col popolo, ed allora si tirarono addosso le inimicizie dei cattolici d'Ungheria o di Venezia, nonché del papa che fece predicare la crociata contro di loro; oppure si trovarono costretti ad infierire contro il proprio popolo, correndo il pericolo che questo si alleasse con gli ortodossi e più tardi coi Turchi per abbatterli.
Spesso essi ricorsero all'espediente di abbracciare esteriormente il cattolicesimo e di rimanere in segreto patareni. Ma è da ritenere che dopo il 1463 la maggior parte dei patareni si siano convertiti all'islamismo, perché li vediamo sparire dalla Bosnia senza che se ne conservi alcuna traccia; mentre i cristiani diventati una sparuta minoranza abbandonarono il paese in tal numero che il sultano per impedire che si spopolasse completamente garantì libertà di culto ai monaci francescani.

Così scomparvero l'uno dopo l'altro gli stati balcanici; più a lungo degli altri conservò la sua indipendenza il piccolo Montenegro (l'antico Dioclea o Zeta), il paese d'origine dei Nemanidi; così indipendenti che usarono assegnarlo in appannaggio ai propri cadetti; ma nel 1514 cessò anche l'indipendenza del Montenegro che venne incorporato al «pascialik» di Scutari; tuttavia questa sudditanza fu spesso solamente nominale, dato che la configurazione del paese, nelle cui montagne già gli eserciti greci erano andati incontro ai peggiori disastri, permise agli abitanti di togliersi il giogo quando vollero senza che i Turchi potessero fare gran che.

A differenza dei Serbi, rigidamente ortodossi, i loro fratelli di razza, i Croati, dopo qualche esitazione si decisero nel IX secolo ad abbracciare la confessione cattolica. L'originario territorio abitato dai Croati non coincide affatto con il successivo regno di Croazia. Essi in origine risiedevano più a sud, al di là della Drava e della Sava, fra l'Istria e il Wrbas, sino alla Zetina; il paese era diviso in undici cantoni («zupanie») con la capitale una "Belgrado" marina.

Nelle guerre dei Franchi, Veneziani, Bulgari e Greci, svoltesi a datare dal IX secolo, si ha memoria di alcuni «principi» croati, ma una dinastia nazionale non riuscì a stabilirsi se non dall'XI secolo; all'estinzione di questa ottenne il trono Swinimir (Demetrio, secondo il suo nome di battesimo). Il papa conferì la corona a questo re «di Croazia e di Dalmazia», che in compenso si obbligò all'obbedienza verso la S. Sede ed al pagamento di un donativo annuo di 200 bisanti d'oro; egli era stato bano sotto i principi precedenti. Ma ben presto il trono rimase nuovamente vacante; in mezzo all'anarchia che ne seguì devono essere stati gli stessi Croati a chiamare in paese il re d'Ungheria Vladislao che sin dal 1091 aveva avanzato pretese sulla Croazia.

Ma soltanto il suo successore Coloman approntò un esercito per realizzare questo progetto; quasi inutilmente però, dato che i Croati lo riconobbero sì loro signore senza opporre resistenza, ma a patto che egli garantisse loro l'integrità dei propri diritti, una specie di indipendenza di fatto; Coloman accettò e si fece incoronare a Belgrado (marina) (1102) e da quell'epoca la Croazia governata dai propri bani, rimase formalmente sempre una dipendenza della corona ungherese. La storia successiva di questo paese non ci offre che guerre con i Veneziani per la difesa delle coste e delle città litoranee, e lotte con la nobiltà croata che si riteneva lesa nei propri diritti; i Turchi poi ne portarono via una parte ad oriente (Croazia turca).

La costituzione e la vita sociale di tutti gli stati balcanici era sotto molti riguardi analoga. Il re o zar era autocrata, limitato nel suo arbitrio soltanto dal rispetto delle tradizioni ed assistito dal parere di un consiglio ecclesiastico e di un consiglio laico che però convocava quando voleva; egli era il più grande proprietario terriero del paese; sebbene questo patrimonio sia andato poi in parte sciupato in donazioni a chiese ed a monasteri ed in ricompense per buoni servizi ricevuti da questa o quella persona.
Anche i censi che la corona ricavava dai suoi beni furono spesso concessi a chiese e conventi, vale a dire furono pagati a questi istituti invece che al tesoro regio. Alle entrate patrimoniali della corona vanno poi aggiunti i redditi delle numerose tasse giudiziarie, delle multe, delle confische, delle regalie, come la zecca e delle dogane e dei dazi. Inoltre lo zar godeva di entrate straordinarie.

Capo spirituale del popolo era il suo arcivescovo o patriarca. Il patriarcato serbo di Ipek nonché i vescovadi serbi sopravvissero alla soppressione politica della Serbia; in essi il sentimento nazionale del popolo trovò quel sostegno che mancò ai Bulgari; il patriarca avviò l'emigrazione del suo popolo oppresso verso l'Austria. Ciò destò le ire del governo turco; ne approfittarono astutamente i Greci, passo dopo passo molto più avanti ottennero proprio dai turchi la subordinazione dell'arcivescovado di Ipek al patriarca di Costantinopoli (verso il 1766), di modo che da allora in poi nulla più si oppose all'ellenizzazione della popolazione cristiana della penisola balcanica.

Il clero era l'unico rappresentante della cultura di questi paesi e naturalmente si mantenne alieno dall'entrare nel campo della letteratura profana; i Serbi ed i Bulgari non arrivarono neppure ad avere una vera e propria storiografia. Nel resto la Balcania slava non ebbe che la letteratura tradizionale del suo popolo, alcuni componimenti lirici che si cantavano per accompagnare la danza nazionale (kolo) oppure in occasione di festività nuziali, i canti epici o eroici. Tutto qui.

Accanto allo zar ed al clero il ceto più importante era costituito dalla nobiltà di sangue, dai «blasteli»; in questa nobiltà il re sceglieva i suoi funzionari (giudici); era essa che costituiva l'esercito pronto in qualsiasi momento all'azione, mentre alle leve delle masse popolari non si ricorreva che per aumentare l'esercito e solo in caso di imprese di maggiore entità. Nella classe nobiliare si distingueva un'alta nobiltà ed una piccola nobiltà, i cui componenti erano addirittura chiamati «vojnik» (milites). La nobiltà aveva i propri possedimenti ereditari; lo zar poteva emancipare dei servi e dotarli di possedimenti ereditari, cosicchè divenivano pure questi nobili.

La popolazione rustica presentava una varietà di condizioni sociali. Vi erano schiavi (acquistati o derivanti da prigionieri presi in guerra) che erano nella piena potestà del signore fondiario e sottostavano alla sua giurisdizione (salvo il caso di gravi reati); tutto ciò che essi producevano col loro lavoro apparteneva al padrone, né potevano mai riscattarsi (salvo per liberalità del padrone).
La massa principale della popolazione rustica era però costituita dai «meropchi», che erano anch'essi vincolati alla gleba, ma personalmente liberi. Costoro erano obbligati soltanto a determinate prestazioni di denaro o di servigi; se uno di essi abbandonava arbitrariamente la terra poteva essere raggiunto dovunque e ripreso dal padrone che aveva facoltà di marchiarlo.
Ma la trasformazione dei contadini in servi anche personali, che si andava effettuando in tutta Europa, non poté verificarsi in Serbia, perché era stato loro espressamente assicurato il diritto di citare in giudizio anche il padrone e lo stesso zar; il giudice era poi garante al contadino se questi vinceva il processo, che il padrone condannato lo avrebbe indennizzato entro un termine stabilito; i padroni quindi non si potevano permettere di fare torto ed arrecare ingiuria ai propri vassalli.

Oltre le due classi ora accennate vi erano in ultimo i salariati, tra i quali i pastori valacchi che vivevano a parte e custodivano le greggi proprie e dei padroni dietro un determinato compenso.
I contadini erano raggruppati in famiglie separate oppure in comunità di famiglie (in serbo «zadrughe»), costituite da un capo, il più anziano e saggio, poi figli e nipoti che rimanevano organizzati in un unico consorzio; questi consorzi familiari nei tempi più recenti, e sopra tutto sotto la dominazione turca, arrivarono a contare persino ottanta o cento persone. L'«anziano» (spesso elettivo o anche designato dal predecessore) rappresentava in giudizio e di fronte alle autorità dello stato la famiglia e governava l'amministrazione del patrimonio familiare i cui redditi erano comuni. Se i membri del consorzio lo volevano, la comunità di famiglia poteva sciogliersi e allora i beni comuni venivano divisi (non per capi ma per stirpi).
E' improbabile che questa zadruga rappresenti un residuo di comunismo che si sarebbe praticato nell'àntichità slava; lo esclude il fatto che il Montenegro, il quale anche se presenta le organizzazioni familiari più primitive, aventi culto proprio (un proprio santo patrono) e pascoli comuni, non ne conserva traccia. Una borghesia non esisteva ancora, benché nelle città, o meglio villaggi "zupe" , vi fosse una classe dedicata alle industrie ed ai commerci. L'industria mineraria era esercitata da tedeschi, dai «Sassoni», e altri paesi slavi ed ungheresi.

Il paese era suddiviso in cantoni, «zupe»; i singoli villaggi di questi cantoni erano governati dall' «anziano», il «knes», il quale esercitava pure la bassa giurisdizione. La riscossione delle imposte era affidata ad altri funzionari inferiori. A capo dell'amministrazione fiscale stava il cancelliere, il «logofet» con i suoi scribi o «diachi» (presi dal ceto ecclesiastico, l'unico che sapesse scrivere); vi erano inoltre numerosi funzionari di corte, in parte onorari. La giustizia era amministrata nei capoluoghi dei vari cantoni da giudici istituiti dal re, i quali dovevano anche girare per il rispettivo distretto per mettersi a disposizione dei poveri che non potevano recarsi al capoluogo; accanto al re si trovava poi uno speciale giudice di corte. Il giudice era assistito da un ufficiale giudiziario, il «pristav». Le citazioni e le sentenze potevano essere redatte in iscritto, ma per le citazioni della gente del popolo bastava la presentazione del sigillo del giudice.

Come presso gli altri slavi vigeva il principio della responsabilità solidale dei gruppi; la famiglia che non consegnava uno dei suoi membri che aveva commesso un delitto era tenuta a pagare per lui la composizione e la multa; non solo, ma anche l'intera «ocolina» (contrada) era chiamata a rispondere di ogni reato (omicidio, furto, rapina, ecc.) commesso nel suo territorio se non era in grado di indicare il colpevole o la famiglia cui egli apparteneva.
L'esercizio arbitrario delle proprie ragioni era punito; chi partecipava ad una razzia fatta a scopo di vendetta era punito come un omicida e persino i cavalli di questi razziatori andavano metà allo zar e metà alla parte lesa.
Chi non poteva pagare i danni provocati era giudicato dal danneggiato che poteva tenerlo in carcere; tuttavia egli riacquistava la libertà se pagava oppur
e se riusciva a fuggire ed a riparare alla corte del re o presso l'arcivescovo.
Il principale mezzo di difesa giudiziaria era il giuramento purgatorio che veniva prestato con l'assistenza di giurati tratti dallo stesso ceto (in numero variabile a seconda dell'importanza della lite).

Quanto alla vita di questi popoli, essa era la più semplice che si possa immaginare, persino alla corte regia: alcuni principi greci che all'inizio del XIV secolo dovettero soggiornare alla corte di Stefano Milutin, si affrettarono a lasciarla perché non poterono abituarsi alla sua povertà. Le maggiori spese vennero fatte per la costruzione di chiese e di monasteri, tutte opere di artisti ed architetti greci, gli slavi erano del tutto carenti in qualsiasi tipo di arte.

Era non di meno una vita sana, capace di laborioso sviluppo e di progresso; ma l'invasione turca vi passò sopra come uno sciame di cavallette distruttrici. Il turco tuttavia non si ingerì nella vita domestica ed intellettuale degli Slavi, ma proprio per questo mancando una guida culturale istituzionale, tutto cadde in una totale immobilità.
Come ad Ercolano e Pompei si fossilizzò sotto la lava del Vesuvio l'antica vita sociale romana, così sotto la dominazione turca si perpetuò il Medio-Evo slavo con le sue consuetudini e le sue idee. Anzi nel XVI e XVII secolo si ebbe il singolare anacronismo di un nuovo periodo epico, ma ignorando i rinnovamenti sociali dell'epoca moderna che avvenivano nel resto d'Europa; si conservarono così tenacemente fin oltre il XIX secolo costumi e istituzioni di altri tempi.
La predilezione per i canti intesi a glorificare le gesta degli eroi che ebbero vasta diffusione e servirono a tener desto e molto vivo il sentimento nazionale, l'organizzazione patriarcale senza distinzioni di classi, e così pure il ratto, la vendetta, l'analfabetismo e in genere la scarsezza di cultura, infine il difetto di ogni tradizione ed organizzazione politica, non operarono certo per trasformarlo in un paese moderno.
Si può quasi dire che il solo cristianesimo (anch'esso del resto inquinato da una forte dose di superstizione) differenziò questi Slavi dai loro antenati pagani senza stato e senza cultura. Ma sotto questa scorza antiquata covavano energie latenti che aspettavano soltanto di essere risvegliate. Nei primi anni del '900, con le tempeste in arrivo, qualcuno scrisse che i serbi sentono odore di guerra prima di tutti gli altri; e che nel farla, loro non hanno bisogno di un capo, ognuno è capo di se stesso, sa come agire, operare nei suoi disseminati anfratti, vere e proprie tane di "lupi" pronti in ogni istante ad azzannare nei luoghi più imprevisti e che sconvolgono ogni tipo di strategia moderna della guerra. Anche nella successiva seconda guerra mondiale, furono gli Slavi con la loro resistenza a "mandare in bestia" Hitler. E qualcuno afferma che quel grave ritardo sconvolse tutti i piani di attacco dei nazisti accuratamente preparati per invadere la Russia.

Se queste erano le condizioni sociali dei Serbi ed in parte anche dei Bulgari e Bosniaci, un carattere notevolmente diverso presentavano le città litoranee cattoliche e la Croazia cattolica. Le prime (se si prescinde dalla lingua, l'antica romanica, che solamente più tardi cedette il posto all'italiano) vivevano sul tipo delle città italiane. La vita intellettuale vi si era modellata su quella italiana, e come il boemo imitò i poeti tedeschi, così lo spalatino ed il ragusano imitò nella sua lingua slava i lirici e gli epici italiani, e nei suoi scritti latini gli stilisti della rinascenza umanistica; per le sue relazioni con l'Oriente Ragusa aveva una cancelleria a parte. Le istituzioni comunali e tutto il resto fino all'architettura delle case, al carnevale ed alla moda, spirava aria italiana; già la terminologia italiana dimostrava manifestamente quali erano i modelli che si copiavano.

Nella Croazia invece, il cui nome si estese all'antica Slovenia (Slavonia) tra la Sava e la Drava, si infiltrarono influenze ungheresi nonostante che la nobiltà nazionale vi si opponesse con tutte le sue forze, come si oppose ad ogni tentativo di centralizzazione.
Questa la storia più antica degli Slavi occidentali e meridionali. Costoro, indeboliti da gravissime perdite di territorio e di popolazione, letteralmente decimati, privati, anche così ridotti, dell'indipendenza e minacciati persino della distruzione della propria nazionalità, sembravano avviarsi verso un avvenire irrimediabilmente disastroso e sconfortante, ma le perdite subite dallo slavismo ai suoi estremi confini occidentali e meridionali furono compensate dallo sviluppo assunto nel cuore della nazione da due potenti stati, uno dei quali, il regno di Polonia, si affacciò all'alba del XVI secolo sotto i più splendidi auspici, tanto da sembrare per un momento che la sua bianca aquila avrebbe cacciato dall'Europa la mezzaluna. L'altra la Russia .

Nel prossimo capitolo tratteremo la prima...
poi seguiranno i capitoli dei Popoli Nordici e della Russia

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Gli stati balcanici, bizantini e bulgari alla fine del XIV secolo

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