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174. L'IMPERO- SVILUPPO DELLA FRANCIA ALL'INTERNO

Dall'epoca imperiale romana in poi non si era raccolta in Europa nella stessa mano una quantità di potere simile a quella di Napoleone. Il suo volere era obbedito molto lontano dai confini del suo Stato, che si appoggiava sopra un governo autoritario energico e consapevole della sua forza. La Francia era per l'imperatore soltanto un mezzo di soddisfare la sua brama di conquiste?.

Brama? Scriverà in seguito un grande filosofo: "E perchè precisamente l'uomo che sortì gli effetti più rovinosi non potrebbe essere il vertice dell'intero genere umano, così alto, così superiore che tutto rovina per invidia nei suoi confronti?" (Nietzsche: La volontà di potenza, af.877)


Il momento più atteso da ogni soldato napoleonico: la consegna delle "Aquile" ai reparti.
David lo raffigura in un famoso quadro come un "invincibile" Alessandro.

 

Sostegno principale di Napoleone era l'esercito, a cui egli perciò rivolgeva una speciale attenzione e assegnava a questo la parte del leone quando vi erano i frutti della vittoria. Ai soldati, ai sottufficiali ed agli ufficiali pagava somme enormi; i marescialli ottennero titoli, dignità e maggioraschi.
L'esercito era di gran lunga preferito nella distribuzione di onorificenze cavalleresche; in suo onore s'innalzavano colonne, archi trionfali e superbi edifici. Lo stesso imperatore indossava per lo più l'uniforme, il suo aspetto e il suo portamento erano militari, anzi da "Cesarei", quanto lo attorniava e tutto l'ordinamento dello Stato avevano una impronta militaresca.

A fianco dell'esercito agiva una burocrazia accentrata e subordinata, insieme con la Chiesa obbediente, ed eccelsa soprattutto troneggiava inaccessibile la maestà dell'imperatore, al cui servizio era tutto legato come da una consorteria, alla cui grandezza ogni cosa era destinata e adattata. Nulla vi era a fianco dell'imperatore, ma sotto di lui soltanto una grande moltitudine di sudditi. Con fascino geniale incatenava a sè lo sguardo della nazione, come fa il domatore con le belve.

A qualcuno l'oppressione sembrava più pesante della stessa monarchia di Luigi XVI; poteva anche essere vero ma lui era animato da buone intenzioni.
Le relazioni ampliate richiedevano pure un'opera ampliata e Napoleone era uomo da compierla con il suo lavoro di genio. Tuttavia egli ha raggiunto i suoi scopi solo in modo approssimativo. Quello che egli creava da un lato era distrutto dall'altro dalla sua politica di espansione, che si faceva sempre più violenta, e dall' inasprimento crescente del blocco continentale. La fortuna della Francia e l'ambizione del suo reggitore erano elementi opposti, che di continuo si trovavano in contrasto.

La Francia aveva bisogno di pace, mentre l'unica aria respirabile per l'imperatore era la guerra. Già lo scoppiare di una nuova guerra aveva prodotto disaccordi profondi; questi aumentarono nel 1805, ma furono limitati, trattenuti, dalle splendide vittorie e dallo sfruttamento dei vinti.
Nel 1806 erano giunti già al punto che anche le vittorie di Jena e di Auerstadt fecero poca impressione, finchè il successo senza esempio della pace di Tilsit operò di nuovo un rivolgimento, soltanto però perchè fu considerato come pegno di una pace durevole. Napoleone fece di tutto per mantenere e dare alla nazione questa convinzione.

Una dei problemi più difficili ed importanti era la questione finanziaria, per la cui soluzione si avevano due fonti principali: la forza contributiva all'interno e la guerra all'estero. Già nel 1804 si superò una grande crisi monetaria, nella quale la «Società dei mercanti uniti» fornì anticipazioni al tesoro dello Stato e la Banca di Francia emise biglietti, che finirono col salire ad una somma di 141 milioni. Per fortuna la guerra con l'Austria procurò del denaro contante; l'imperatore intervenne risolutamente, risanò le condizioni della banca e la rese nuovamente solvibile.
Per impedire altri simili casi, questa fu posta il 22 aprile 1806 sotto la sorveglianza dello Stato, fu aumentato il suo capitale e finalmente le fu consentito d'istituire succursali nelle province.
A vigilare sull'amministrazione dello Stato serviva la Corte dei conti. Le imposte dirette rimasero in sostanza quali erano prima, ma un aumento più forte le subirono quelle indirette.
L'amministrazione finanziaria agiva senza riguardi, perchè lo Stato aveva bisogno di denaro e sempre di nuovo denaro. Quando divenne intollerabile la sproporzione tra le entrate e le uscite, l'imperatore nel 1813 aumentò le imposte con un semplice editto.

Le entrate subirono un forte aumento per le riscossioni fatte all'estero, consistenti in contribuzioni di guerra ed acquisti che l'imperatore esigeva per sè nei paesi vinti. Tutti questi proventi formarono un fondo proprio, che fu chiamato «Demanio straordinario».
Come i 25 milioni di franchi di lista civile e dei beni della Corona anche quel tesoro separato del fondo poteva disporne soltanto l'imperatore. Con esso faceva fronte al fondo militare di riserva, al mantenimento dell'esercito in campagna, alle ricompense e alle pensioni per i soldati, alle nuove concessioni di nobiltà, alle contribuzioni per i lavori pubblici, al pareggio
del bilancio e via dicendo. Così a lato del bilancio pubblico se ne ebbe uno segreto, strettamente collegato con l'altro, per cui questo divenne di pura apparenza, e un suo disavanzo si poteva giustificarlo solo nelle guerre sfortunate. Nel 1813 il disavanzo fu purtroppo di 175 milioni. Ma tuttavia utilizzato bene.

Questa situazione finanziaria del primo decennio così favorevole rese possibili grandi lavori pubblici, principalmente strade ordinarie e militari. Nell'anno 1811 vi erano 229 strade principali, 30 delle quali da Parigi conducevano alle più lontane regioni dell'impero, anche attraverso il Moncenisio e il Sempione. Furono costruiti ponti e canali, prosciugate delle paludi, scavati fossi, ingranditi e fortificati dei porti di mare, specialmente Cherbourg e Anversa, mentre invece deperivano la maggior parte delle fortezze interne, oltre alcune sull'antica frontiera del regno.

Una speciale sollecitudine rivolse l'imperatore alla capitale. Parigi non doveva apparire come il centro solamente della Francia, ma come quello del mondo. Fu elevata a dipartimento proprio e in essa e vicino ad essa furono restaurati i palazzi del sovrano, principalmente la dimora propria dell'imperatore, le Tuileries, e il vicino palazzo del Louvre. Di questo fu terminata la costruzione, e vi fu posto un museo grandioso, ma a farlo diventare tale contribuirono tutte quelle nazioni d'Europa che avevano subito dai francesi le invasioni.

Anche negli altri palazzi e in altri luoghi vi erano grandi raccolte, così che Parigi divenne la capitale dell'arte in Europa e attirò una folla di forestieri. Furono poi aperte o prolungate delle strade, migliorati i lungoSenna, costruiti ponti ed eretti monumenti; in breve si fece tutto il possibile per innalzare alla magnificenza quella città. In circostanze simili il numero degli abitanti aumentò fino a 700.000. A dieci anni dal consolato, 100 milioni di franchi si erano spesi soltanto per Parigi.

L'imperatore considerava come uno dei suoi primi doveri quello di promuovere il benessere materiale dei cittadini, e a occuparsene doveva essere il suo governo, che per lui era il sole, intorno al quale doveva girare tutto il mondo .
Anche nella vita economica voleva quell'unità che vi era nell'amministrazione. In questo teneva presente esclusivamente il bene della Francia, essendo a lui indifferente quello dei regni vicini. Si fece dare dei suggerimenti sul modo di utilizzare per il commercio francese l'Italia e la Confederazione renana, pubblicò un nuovo codice commerciale e s'ingerì in ogni cosa con degli adempimenti o delle prescrizioni; tutto questo andò così oltre che alla fine dell'impero il commercio in Parigi era nuovamente diventato corporativo.

Mentre invece nella sua ubiquità non volle sapere di un ordinamento (tipo sindacato) delle maestranze dei vari mestieri; ma con la sorveglianza della polizia fece dipendere chi accettava lavoro e chi lo dava.
Una legge del 28 marzo 1803 introdusse la valuta monetaria del franco e fissò il rapporto tra l'oro e l'argento. Rimase il sistema decimale delle misure, invece col 1° gennaio 1806 al posto del calendario repubblicano fu rimesso il precedente calendario gregoriano.

A dire il vero, lo sviluppo economico della Francia dipendeva meno dalle sue condizioni interne che dalla sua politica estera. Quelle fino dal tempo del consolato avevano preso un andamento favorevole. Per quanto riguarda la politica, la guerra con l'Inghilterra era stata decisiva. Essa aveva per conseguenza l'esclusione delle merci britanniche dal Continente e costringeva questo a provvedere da sé ai suoi bisogni, toccando però alla Francia la parte del leone; mutava infine interamente il modo e la direzione degli affari, quali erano stati per in precedenza.

La macchina a vapore cominciò allora il suo corso vittorioso; si stabilirono allora i metodi capitalistici di produzione. Le macchine, i grandi mezzi finanziari e il gran numero degli operai soppiantarono l'industria artigianale quasi casalinga del passato. Questo fu compreso abilmente dal governo napoleonico, adoperandosi a migliorare e ad ottenere a buon mercato le materie prime e allargare il mercato dei prodotti finiti per il loro smercio; per questo il grande impero e la sua potenza offrivano appigli eccellenti.
Il sistema imperiale prese quindi la forma di uno sfruttamento finanziario dei paesi stranieri. Inoltre somme inaudite, provenienti da contribuzioni di guerra, da confische, da tasse poste sulle merci inglesi, da diritti e proventi di affitto di beni confiscati, affluirono verso la Francia, specialmente verso Parigi, ed aumentarono la capacità commerciale della popolazione.

Mentre si chiudevano così le vie marittime, si sviluppò un'immensa rete di strade per unire il Continente con Parigi. L'imperatore era un convinto sostenitore dei dazi di protezione. Nei fatti sostanziali si riuscì a conseguire fino all'anno 1810 uno sviluppo industriale certo irregolare, ma tuttavia in forte crescita.
L'industria fece dei grandi progressi, soprattutto, quella della lana, della seta, del ferro e degli oggetti di lusso; lo stesso dicasi della chimica; si scoprì l'illuminazione a gas, la fabbricazione della soda ed altri importanti processi industriali. Fabbricanti e scienziati lavoravano di comune accordo, e l'imperatore li aiutava facendo del suo meglio con l'istituzione di scuole tecniche, sussidi, esposizioni, fiere di vari settori ecc. Anche l'agricoltura si sollevò, pur soffrendo per la diminuzione della mano d'opera. Mancando le braccia i campi furono coltivati razionalmente, si stabilirono prati irrigati, si aumentarono la coltivazione delle patate e si migliorò l'allevamento delle pecore. A causa della mutata situazione degli affari si dovette procacciarsi nuovi prodotti del suolo, cioè nuove piante industriali. La connessione fra agricoltura e industria rimaneva ancora più intima che non ai nostri giorni, e perciò si estesero le industrie di trasformazione nelle stesse campagne.

Prima della rivoluzione il commercio era stato in massima parte transmarino; tali erano quelli con l'Inghilterra, col Levante, con le colonie francesi e specialmente con le Antille. Questo ramo importante di profitti cessò, i porti di mare divennero poveri e deserti. In compenso si cercarono e si trovarono nuovi mercati di smercio negli Stati indipendenti e alleati, in Germania, in Olanda, nella Svizzera, nell'Italia, nella Spagna.
Con l'introduzione delle macchine inglesi la Francia ottenne un vantaggio di fronte a questi paesi e poté non solo bastare al proprio bisogno, ma anche al loro. Il traffico si mise in movimento di nuovo per le vie di terra e alcune città interne, specialmente Strasburgo, ebbero una grande incremento. L'Alsazia perdette allora molto del suo carattere tedesco, e gli abitanti delle sue città cercarono in Francia il loro punto d'appoggio.

Ma il traffico per le vie di terra si dimostrò tuttavia lungo e dispendioso; gli avvenimenti politici, le intromissioni dell'imperatore, l'oppressione cagionata dal blocco continentale e la continua guerra marittima scalzavano le basi dei profitti regolari, davano vita a una selvaggia speculazione e a un contrabbando di straordinaria estensione. Aggirando in mille modi il blocco le merci inglesi entravano comunque e ovunque senza dazi e quindi a basso costo rispetto a quelle locali.
Tutto riposava sulla violenza e sopra una situazione innaturale, sulla preda dei paesi stranieri e sul predominio della Francia. Quando la forza contributiva finanziaria dell'impero fu posta ad una prova interminabile dalla guerra di Spagna, quando anche la Russia cominciò a volgere altrove il suo sguardo e si fecero sentire anche altre circostanze sfavorevoli, l'impero fu colpito nel 1810 da una terribile crisi economica. I fallimenti si succedevano l'uno all'altro, alcune aziende che poco prima disponevano di milioni non trovavano più credito; molte fabbriche dovettero esser chiuse. Nei magazzini e nei depositi si accumulavano le merci invendute perché non si trovavano compratori.

Ognuno ritirava i suoi capitali, che affluivano nella Banca, mentre era spenta ogni voglia di nuove imprese. Dopo i successi e dopo vittorie strepitose, pur sembrando di essere al sommo della potenza, si era infatti sull'orlo di un abisso. Poiché tutto il bene era venuto dall'imperatore, a questi si addossava ogni responsabilità del male; avveniva un rivolgimento della pubblica opinione a suo svantaggio.
La catastrofe economica precorreva lo sfacelo politico, perché scalzava la fede nel valore dell'impero. Con energia anche maggiore il governo cercò di rendersi utile con sussidi, prestiti e commissioni, ma illudeva più che non giovasse; non gli era possibile di estirpare il male vero; era appunto la politica economica in se stessa, che dopo gli ottimi successi iniziali faceva allora naufragio.
Nell'anno 1806 il commercio francese saliva a 933 milioni e aumentò ancora, finché nel 1814 cadde a 585 milioni. Siccome poi la Francia in sostanza esportava dei prodotti, ma ne importava molto pochi, fino al 1814 ricevette dagli Stati stranieri 838 milioni in denaro contante, e ne restituì soltanto 21.

Negli anni del decennio gli operai avevano tutti lavoro in abbondanza; durante la crisi del 1810-11 dovettero esser licenziati in quantità Per dare loro un'occupazione, l'imperatore ordinò lavori d'urgenza d'ogni genere: costruzione di canali, di ponti, di strade; concedette ancora dei sussidi immediati in denaro.
Temeva la più piccola turbolenza fra gli operai più che una battaglia perduta, perché erano quelli che gli davano la maggior parte dei suoi soldati, e il loro benessere era un indice della necessità e della capacità del suo modo di governare.
La povertà non si accordava col sistema napoleonico. L'imperatore cercava perciò di estirparla e vi riuscì tanto che si riuscì a proibire la pubblica mendicità. Procedette rigorosamente anche contro gli ebrei, che in folla erano immigrati dal Reno e dissanguavano la popolazione delle campagne bisognose di denaro. Convocò rabbini e notabili israeliti e poi in una grande loro assemblea, dichiarò punibile e peccaminosa l'usura. Fece inoltre fare una legge eccezionale contro gli ebrei con dure prescrizioni.

Napoleone dedicò una cura minuziosa all'andamento dell'istruzione. Dopo varie misure particolari giunse all'idea di uno struttura centrale, dove al modo delle antiche scuole dei gesuiti s'insegnasse con uno spirito determinato, con quello naturalmente dell'impero napoleonico.
Un unico spirito doveva dominarvi. Il 10 maggio 1806 le Camere approvarono l'istituzione di una «Università imperiale» per tutta la Francia. A capo di essa vi era un gran maestro, nominato dal capo dello Stato e assistito da un consiglio universitario. Questi assegnava ai funzionari il loro incarico, ed esercitava una sorveglianza, che si estendeva di fatto a tutta la classe degli insegnanti, poiché nessuno poteva aprire una scuola o insegnare pubblicamente, se non era stato promosso da una delle Facoltà universitarie.

Per maggior ordine l'università, cioè l'intero esercizio dell'insegnamento, era suddivisa in province scolastiche o nelle cosìddette accademie, ciascuna con un rettore ed un consiglio accademico, che dirigevano e vigilavano le scuole nella loro giurisdizione. Il governo teneva nelle sue mani tutto questo complesso così saldo che perfino le decisioni del gran maestro erano sottoposte al giudizio del consiglio di Stato.

Nel catechismo, che ogni fanciullo doveva imparare a memoria, l'imperatore era rappresentato come l'immagine di Dio sulla terra, a cui si doveva amore, obbedienza, servizio militare e pagamento d'imposte. Naturalmente le scuole private male si accordavano con tutto questo ordinamento, e perciò Napoleone fin dal 1811 cercava di sopprimerle. Ma il suo successo fu così piccolo che 36 licei governativi con 9000 scolari e non meno di 368 scuole primarie comunali con 28.000 alunni stavano di fronte a 1255 scuole private con 40.000 alunni.

L'«Istituto», fondato ancora nel 1795, stava al vertice di tutto e riassumeva in sé quanto vi era di elevato nell'ordine intellettuale. Comprendeva una classe fisico-matematica, una filosofico-politica ed una letterario-artistica, la seconda delle quali nel 1803 fu però soppressa perchè troppo liberale, così che le classi corrisposero a quelle dell'antica Accademia, fisica e matematica, lingua francese, storia antica, letteratura e belle arti.

Nell'insieme, per quello che concerneva l'educazione, si ammetteva che le classi inferiori e le donne fossero per quanto era possibile mantenute nell'ignoranza e che alle classi medie e superiori si desse una cultura più elevata, limitandola tuttavia rigorosamente a una pura accumulazione di cognizioni, principalmente nelle scienze esatte, senza destare un modo di pensare proprio e forse incomodo. Per vigilare poi sulle manifestazioni più rilevanti dell'opinione, nel 1800, appena sorto il consolato, furono istituiti due uffici di censura, uno al ministero dell'interno per i teatri ed uno al ministero di polizia per la stampa.
Queste due autorità agivano senza interruzione ed esercitavano una tutela molto estesa. Ogni dramma o commedia prima di essere rappresentata doveva essere sottoposta alla censura. Per i drammi storici Napoleone concedeva solo il tempo fino ad Enrico IV, anche le opere di Corneille e di Racine furono ritoccate o accorciate. Ad una vigilanza anche più rigorosa era sottoposto il commercio dei libri ed ad una rigorosissima la stampa quotidiana.

A Parigi fino dal 1811 poterono essere pubblicati soltanto quattro giornali e in ogni altro dipartimento uno soltanto. Il «Monitore», giornale ufficiale, riceveva i suoi articoli politici dal ministero degli esteri; gli altri giornali dovevano copiarli o riportarne degli estratti. Non potevano riferire alcun giudizio sfavorevole sopra l'imperatore e i suoi atti, ma soltanto lodi e adulazioni. Siccome nonostante tutto ciò la stampa quotidiana non andava come si desiderava, nel 1811 fu in genere interdetta.
Con rigore ferreo si esercitò una vera tutela su ogni attività intellettuale e le s'imposero delle limitazioni. Alcune eccessive libertà erano cosa ripugnanti a Napoleone, che le classificava tutte fatte da teste pericolose. Perciò anche il Tribunato, l'ultimo rifugio di un'opinione personale, fu disciolto e tutti i suoi membri furono accolti nel Corpo legislativo. Ma questo in realtà non doveva più fare leggi, mentre anche il Senato cadeva in un servilismo sconfinato. Si pose in questione anche l'indipendenza e l'inamovibilità dei giudici. Per i delinquenti politici vi furono apposite prigioni di Stato.

La nuova aristocrazia, l'università, il sistema continentale, la Chiesa avvilita alla condizione di serva dello Stato e il bavaglio posto all'opinione pubblica furono le colonne, che sostenevano il trono del despota corso.
Né vi é da meravigliarsi che contro questa tutela si ribellassero intimamente gli spiriti più elevati e, quando osavano tanto, appartenessero all'opposizione. I nomi più rilevanti di questo gruppo sono Chateaubriand e Madame de Stael. Chateaubriand, un tempo emigrato, pubblicò nel 1802 un libro, «Il genio del Cristianesimo», che uscì appunto nel momento, in cui fu proclamato il concordato, e fece gran rumore. Vi si tratta della bellezza poetica e della potenza estetica della religione cattolica. Più tardi l'autore viaggiò in Terra Santa e nel 1809 scrisse «I martiri», dove si ritrae romanticamente il contrasto tra il cristianesimo e il paganesimo.

Due anni più tardi tenne pubblicò "Itinerario da Parigi a Gerusalemme". Da partigiano di Napoleone, Chateaubriand divenne per gradi suo avversario, e per questo l'onnipotente sovrano lo privò del suo patrimonio, sopprimendo il suo giornale, il «Mercure de France». Sempre suggestivo Chateaubriand seppe rappresentare pittorescamente le sue opinioni e le sue sensazioni e divenne il fondatore del romanticismo francese.

A lui affine sotto molto aspetti appare la figlia di Necker, Madame di Staël, la cui vivacità e l'influenza sociale riuscivano molto più scomode a Napoleone che non l'opera tranquilla di Chateaubriand. Già da console la fece esiliare da Parigi, per cui ella mise residenza sul lago di Ginevra, fece lunghi viaggi e nel 1810 ritornò in Francia, dove ben presto divenne di nuovo il centro di un grande circolo sociale. Ma dovette stabilirsi di nuovo sul lago di Ginevra, dove fu rigorosamente sorvegliata, finché riuscì a fuggire in Inghilterra. Nel 1802 pubblicò «La letteratura nei suoi rapporti con le istituzioni sociali» e la novella «Delphine», nel 1807 la novella «Corinne» e nel 1813 l'opera sulla Germania, che già da anni era pronta per la stampa.

Madame de-Stael é una delle più splendide figure della letteratura femminile; sensibile, piena d'idee proprie e di modi di vedere attraenti, dotata di una estesa coltura e di una notevole energia nel lavoro. Introdusse il romanticismo dei Nord nel gusto classico delle razze latine e riconobbe che ogni popolo possiede un proprio carattere.

Poiché la vera poesia può diffondersi soltanto dove c è libertà, la letteratura dell'impero rimase terribilmente insignificante. I migliori ingegni si tennero ad argomenti innocenti, che trattarono in forma completa il più possibile, gl'ingegni minori invece si dedicarono alla glorificazione del sovrano. Si formò allora una lirica non pericolosa; si fecero traduzioni o scritti vari. Chi divenne scomodo, ebbe la sorte della Staël, così Madama Recamier e Madama di Chevreuse.

Naturalmente anche una parte della scienza ebbe a soffrire da questa oppressione dello spirito, principalmente la storia che si volse a soggetti da noi lontani. Meglio poté prosperare la filosofia; quella con tendenze illuminatrici, che tutto voleva spiegare con percezioni sensitive, come quella più reazionaria con dottrine spiritualistiche o sociali ebbero i loro rappresentanti.

Nella letteratura e nella filosofia si ebbero delle iniziative, i cui effetti però si fecero sentire soltanto nel tempo, molto dopo quello di Napoleone. Non così per le scienze esatte, dalla matematica e dalla fisica fino alla chimica. Qui ebbero pieno svolgimento la ricchezza del pensiero francese, la distruzione dei pregiudizi operata dalla Rivoluzione e la forza di assimilazione dell'Impero. Nomi come quelli di Lalande, di Lagrange, di Laplace, di Legendre, di Carnot, di Arago, ecc. sono degni di appartenere alle epoche tra le migliori. Nelle scienze naturali splendeva Cuvier, nell'anatomia comparata Geoffroy Saint-Hilaire con Lacepéde, nella zoologia Lamarck, nella medicina Bichat.

Né meno importante fu l'opera delle arti belle, sebbene anche qui vi fosse una forte depressione della libertà d'ispirazione e del carattere personale. Teoricamente si procedeva secondo due tendenze diverse, una classica ed una naturalistica o liberale. Quella fu rappresentata nel modo più manifesto dal Quatremère de Quincy nel suo «Saggio sull'ideale», comparso nel 1805, questa trovò il suo capo in Emerico David, le cui ricerche sulla scultura furono pure pubblicate nel 1805. Nessuno dei due procedeva dalla natura, dalla cognizione di sé stesso, ma ognuno di essi poneva il classicismo in prima linea, l'uno compiutamente, l'altro con delle limitazioni.

Come nella politica, anche nell'arte é accentuata la condizione di cose esistente, quella di fatto.
Dal contrasto delle due tendenze e dalle necessità del gusto ebbe origine uno stile particolare, lo «stile impero», che ha dato a quell'epoca un carattere proprio, quale non avrebbe potuto dargli una letteratura intimidita. L'impero in conformità alla propria indole ebbe uno stile artistico rigido, solenne, fastoso, povero di sentimento ed arido. Adottò antichi modelli, adattandoli ai suoi fini. Regnava dovunque: in un quadro di David, in una sinfonia di Mehul, nelle rappresentazioni eroiche dell'attore tragico Talma, in una dissertazione di Fontanes, fino ai piatti e alle tazze di porcellana, ai candelabri di bronzo, alle sedie, alle cassapanche, agli stipi e alle fogge di vestire.

Napoleone aveva un'indole del tutto antiartistica, ma si serviva dell'arte per raggiungere lo sfarzo e la pompa. Come tutto l'impero era veramente soltanto una resurrezione dell'impero romano, così lo «stile impero» ne costituiva un elemento naturale, ma con questa differenza caratteristica che l'epoca di Traiano e di Adriano giunse al suo apogeo nelle opere di architettura e di scultura, quella di Napoleone nella pittura e nell'industria artistica.

L'architettura aumentò sempre di più l'imitazione di monumenti antichi, senza originalità ma con l'impronta del colossale e della conformità allo scopo. Un tempio antico divenne la «Borsa», una colonna simile alla traiana e un arco trionfale glorificarono l'esercito. Singolarmente debole si dimostrò la scultura, questa collaboratrice dell'architetto. Invece l'arte decorativa compì opere eccellenti, specialmente nei sontuosi palazzi, nelle cui sale riboccanti di oro e di colori si muovevano uomini e donne sfarzosamente adornate. Qui tutto armonizzava in una azione efficacissima, qui tutto era « impero », anche il volto dell'imperatore coi suoi lineamenti classici.

L'arte più eccellente di quel tempo fu la pittura. Dimostra essa solo nei suoi più
antichi rappresentanti una tendenza moderatamente idealistica, in quelli più recenti una tendenza del tutto classica. A capo della prima sta senza rivale Luigi David (1748-1825), uomo di notevole potenza, di larghe idee e di egregia coltura, artista assolutamente di grande stile, il Corneille della pittura. Ma ad onta del movimento e della passione, con la quale cercava di dipingere, le sue figure hanno qualche cosa di freddo, di esteriormente patetico.
Fra i giovani pittori della scuola classicista dobbiamo far menzione di Isabey, di Girodet, di Guerin, di Gerard. Passava per pittore preferito dell'imperatore il Gros (nato nel 1771), realista e colorista. Più giovani ancora erano Ingres (1780) e Orazio Vernet (1789). Rappresentava il romanticismo un artista giovanissimo, il Gericault (1790). Così la tendenza classica ha raggiunto allora il suo apogeo nella pittura; tuttavia il romanticismo cominciava a dominare nella letteratura e ad insinuarsi nella pittura.

Anche la musica conduceva a maturità delle notevoli energie. Sebbene l'imperatore preferisse la musica italiana di uno Spontini e di un Cherubini, i Francesi non rimasero indietro con Mehul, con Lesueur, con Berton. La serenità geniale della vita, che é propria di questo popolo, si rifugiava nell'opera comica, politicamente non suggestiva, dove era rappresentata da Boieldieu, da Delayrac, da Gaveau e da Nicolo, e nella «chanson» schiettamente francese, in cui più tardi sono divenuti maestri Béranger e Desangiers, infinitamente grazioso.

Napoleone stesso fin dalla battaglia di Austerlitz si trovava al sommo della sua potenza. Dopo il suo ritorno creò le due più importanti istituzioni interne dell'impero, la nuova aristocrazia e l'università. Fu poi richiamato verso oriente dalla guerra di Prussia, dopo la quale concluse la pace di Tilsit. Tutti sognavano allora quiete e pace. Il 15 agosto, giorno natale dell'imperatore, divenne una festa nazionale. Ma già al principio dell'inverno si recava in Italia e nell'estate a Baiona per regolare gli affari di Spagna. Durante questa sua assenza un vecchio giacobino, chiamato Eve Demaillot, fece in senato la proposta di dichiarare deposto Napoleone e di ristabilire la repubblica. Quanto si estendesse il partito dei congiurati non si può assodare ; ad ogni modo la cosa fu scoperta, ma ritenuta come non pericolosa.

Ben presto si fecero sentire le conseguenze degli avvenimenti di Spagna, che fecero un'impressione tanto più profonda, in quanto nessuno ci aveva pensato. Per l'esercito si dovette anticipare la leva di due anni. Fu in certo modo per salvare la situazione che l'imperatore si affrettò a recarsi ad Erfurt, ostentando la sua dignità di alto sovrano del continente europeo. Ma nei fatti aveva già superato il culmine delle sua fortuna; nella Spagna si era risvegliata quella potenza, che doveva portarlo alla rovina, cioè il sentimento nazionale. Un sentimento dormiente che proprio lui aveva risvegliato in tutta Europa.

Fu allora come se questo uomo nuovo presentisse quel risveglio. Lo aveva colto un'inquietudine e un desiderio di febbrile attività. A Wagram egli fu animato da ostinazione piuttosto che da arte di grande capitano. Frattanto Fouché si rendeva benemerito, mandando a male tutte le macchinazioni dei realisti e arruolando guardie nazionali contro possibili sospette imprese dell'Inghilterra, e con questo divenne il primo personaggio dopo l'imperatore. Chi sa che cosa sarebbe avvenuto se a Schónbrunn fosse riuscito il tentativo del giovane Stap di uccidere l'imperatore ?

Quando Napoleone nel 1809 ritornò a Fontainebleau, erano decise la sorte di Fouché e il destino dell'imperatrice Giuseppina. L'imperatore voleva avere un successore e Giuseppina nel suo secondo matrimonio rimaneva senza figli. Doveva quindi cedere il suo posto. Sapeva quello che l'aspettava, mentre si celebravano grandiose feste per solennizzare la pace di Vienna. Quando il marito le palesò la decisione del divorzio, richiesta per il bene dello Stato, si accasciò rassegnata. In compenso conservò il titolo e il grado d'imperatrice con tre milioni di entrata annua e il palazzo della Malmaison.

Dunque, n el suo secondo matrimonio Napoleone sposò Maria Luisa, figlia dell'imperatore di Austria. Le feste per quel matrimonio furono il più splendido avvenimento di corte dell'epoca imperiale. Quell'uomo superbo guardava pieno di speranza all'avvenire.

Ma anche Vienna! Di fronte a questa potenza della natura e alla fortuna di questo uomo che stava conquistando, dominando o intimorendo l'intera Europa  non c'erano alternative. Unire il "Vecchio al Nuovo!", un maquillage della monarchia in decadenza; una occasione per molti nobili decaduti per ritagliarsi una porzione di benefici dal nuovo "potente". ("quando aprii a loro il mio palazzo, si precipitarono dentro in mille a fare la questua" Napoleone, Memorie).
Napoleone di elemosina ne fece fin troppa: creò 31 nuovi duchi, 451 conti, 1500 baroni. Solo sull'impero tedesco c'erano 112 staterelli e 350 signorie entrarono in sofferenza appena Napoleone si era affacciato in Italia, ed era divenuta angoscia quando superò le Alpi.
Già alla pace di Presburgo del 6 agosto 1806 era costato a Francesco la corona dell'Impero Romano-Germanico, dovette accontentarsi di essere Imperatore d'Austria col nome di Francesco I.

Ma torniamo al 14 ottobre 1809: quando dopo la disfatta austriaca del 6 luglio a Wagram, a Vienna era stata firmata la pace; il 19 dicembre Napoleone aveva divorziato da Giuseppina, e l'11 aprile il piccolo nobiluccio corso e soldato della rivoluzione sposava Maria Luigia D'Asburgo. Sposava una nobile ripudiando la donna che gli era stata data dalla rivoluzione.
(vedi la intrigante biografia di Maria Luisa "LA SPOSA DEL NEMICO" > > )
Regista di questa operazione l'abile ministro degli Esteri, il principe METTERNICH.
Succeduto a STADION, questo singolare uomo politico ha una visione molto diversa del conflitto militare, che sembra non avere altri sbocchi se non il suicidio della monarchia; preferisce dunque dare un diverso orientamento alla politica austriaca, pena la sua scomparsa totale.
Per salvare quello che é salvabile del Vecchio regime, cerca l'alleanza con il Nuovo e si fa propugnatore dei principi di nazionalità e di indipendenza che sono nati dalla rivoluzione: l'assurdità é che nella persona di Napoleone si combatte la rivoluzione, con le parole e le armi della rivoluzione stessa.
(Ma non dimentichiamo la stessa volontà di Napoleone, nel cercare di fare l'alleanza del Nuovo e del Vecchio, voleva salvare la sua creatura rivoluzionaria. Lo confesserà lui stesso, più tardi a pochi giorni della sua caduta: "Sposando un'arciduchessa, ho voluto unire il presente al passato, i pregiudizi gotici alle istituzioni del mio secolo....Mi sono ingannato e oggi capisco il mio errore; mi costerà il trono".

Dov'era l'errore? Una volta preda dei pregiudizi gotici monarchici e dinastici Napoleone, una volta entrato nei salotti, perse tutta la forza espansiva della rivoluzione, senza peraltro acquistare la forza delle monarchie. Mentre alle monarchie era possibile compiere la manovra inversa (con la loro purezza di stirpe, diritto divino, legittimità secolare, populismo, elargizione di elemosina, feste retoriche, ecc) mettersi cioè alla testa dei movimenti nazionali e dirigere contro Napoleone queste forze, cioè usando il popolo come "carne da macello".
Con grande abilità Metternich riesce ad accostarsi a Napoleone con un trattato in cui l'Austria si inserisce nel sistema difensivo napoleonico; e convince perfino la Prussia con chissà quali promesse. - Forse questa: "intanto facciamo alleanze, poi al primo traballamento gli daremo la spallata". Abbiamo detto "forse"; ma questo poi effettivamente accadde nella realtà.
Realista, con un Paese stremato dalle ripetute sconfitte, Metternich con molta spregiudicatezza preferisce accostarsi a Napoleone non usando le armi ma con la diplomazia (machiavellica), che via via perfezionò progettando il matrimonio con la figlia dell'imperatore.
Poi fu pronto con la stessa infida diplomazia - ai primi insuccessi di Napoleone (fra breve) - ad allearsi perfino con la Russia e la Prussia per la guerra che portò alla sconfitta totale Napoleone.


Il senato - quando solo tre mesi dopo l'unione con Maria Luisa, apprese che aspettava un figlio - annunciò che il principe ereditario nascituro avrebbe ricevuto il titolo e gli onori di «Re di Roma»; era questo lo stesso titolo, che un tempo avevano portato gl'imperatori di Germania prima di essere incoronati dal papa.

Già prima della caduta di Giuseppina, Talleyrand aveva dovuto lasciare il ministero degli affari esteri; allora anche il Fouché fu allontanato. Erano così tolte di mezzo le tre figure più rilevanti della corte. L'imperatore desiderava di essere circondato da uomini meno importanti e sopportava soltanto un'illimitata sommissione. L'aria ancora alquanto repubblicana della corte doveva mutarsi in senso aristocratico e monarchico. Questo corrispondeva al gigantesco aumento esterno dell'impero, che comprendeva Genova, Parma, Piacenza, la Toscana, lo Stato della Chiesa, l'Olanda e la Germania del Nord fino a Lubecca.
Nel 1812 si calcolava la popolazione dell'impero a 43 milioni di abitanti, dei quali solo 29 appartenevano all'antica Francia. Tutto era tenuto insieme dall'onnipotenza imperiale, che sfacciatamente non si dava alcun pensiero dei diritti di cittadini e di stranieri. Chi era investito di quella dignità non vedeva nello Stato che un proprio patrimonio e nella sua arroganza perdeva quel sentimento della realtà, che prima lo aveva tanto caratterizzato. Fin dalla nascita del Re di Roma fu quasi preso da un delirio di grandezza e quale signore del mondo si segregò da tutti, anche dalla propria famiglia.

Eppure le cose in realtà andavano male. La guerra di Spagna inghiottiva tesori e costava infinite vittime umane; il blocco continentale impediva ogni movimento; il commercio, l'industria ed ogni sorta di benessere languivano, Napoleone perciò istituì uno special ministero per il commercio e per l'industria e prese svariati provvedimenti per promuoverli entrambi. Ordinò prudentemente grandi provviste di granaglie, eppure i cereali e specialmente il frumento nell'anno 1812, anno di carestia, raggiunsero un prezzo vertiginoso. Invano intervenne l'uomo onnipotente, perfino con lo stabilire un prezzo massimo. Nella capitale oltre 20.000 operai erano senza lavoro e lo stesso accadeva in altri centri industriali.

Di queste circostanze, dipendenti dall'assenza di Napoleone, allora in Russia, cercò di valersi per una congiura Malet, il generale revocato già dal suo grado. Con audacia inaudita gli riuscì di tirar dalla sua una parte dei soldati di Parigi e d'impadronirsi di Savary, ministro di polizia, e di Clarke, ministro della guerra. Quando il comandante di Parigi gli oppose resistenza, Malet lo uccise con una pistolettata, ma fu alla sua volta sopraffatto da due ufficiali. Con questo l'impresa era fallita.

La sventura colpì la grande armata. L'imperatore temeva con ragione il suo contraccolpo sulla Francia ; specialmente per questa ragione abbandonò le sue truppe e in slitta si affrettò per Dresda a recarsi a Parigi, dove giunse il 18 dicembre. Presto si accorse come fossero deboli le basi del suo dominio. Si dimostrò quindi mite e conciliante e stabilì per la sua assenza ulteriore una luogotenenza, costituita dall'imperatrice con Cambacères per consigliere privato e da un consiglio di reggenza, cui appartenevano i principi del sangue, i grandi dignitari ed altri uomini di fiducia.

Il 14 aprile Napoleone lasciò Parigi; nell'ottobre fu battuto a Lipsia. La Francia intanto era visibilmente esausta a causa delle leve, delle spese di guerra, del blocco continentale e del continuo regresso delle industrie. Quando il 9 novembre ritornò l'imperatore, fece notificare che il Senato e il consiglio di Stato prenderebbero parte nel Corpo legislativo alla discussione del pubblici affari. Così questi tre corpi con l'imperatore dovevano formare una specie di rappresentanza nazionale.

Questo significava un abbandono dell'assolutismo, che fu integrato da cambiamenti ministeriali, in seguito ai quali Caulaincourt assunse il ministero degli esteri. Il 19 dicembre ebbe luogo la grande seduta. Napoleone richiese nuovi sacrifici ed offrì di presentare al Senato per esame le sue ultime trattative politiche, per confermarlo nell'idea che la guerra era necessaria. Come si vede, l'imperatore cercava di associare sempre più ai suoi interessi la Francia, quella stessa Francia, che gli aveva servito soltanto come gradino per ascendere ad un dominio universale.

Ma era troppo tardi. Il sentimento d'indipendenza del popolo cominciava già a dar segno di vita. Un membro della commissione incaricata di quell'esame tenne un linguaggio fin allora inaudito, e nel render conto dell'esame fatto si supplicò l'imperatore addirittura di continuare la guerra solo per l'indipendenza e per l'integrità della Francia, e di restaurare i diritti politici e personali della nazione. Si era ancora fedeli all'imperatore, ma si voleva pace e libertà.

Napoleone avrebbe dovuto acconsentire a queste richieste, ma dimostrò di non essere più in grado di soddisfarle. Come di fronte agli altri Stati, così anche nell'interno aveva cessato di posare il piede sul terreno sicuro della realtà, anzi aveva perduto il sentimento della sua abituale accortezza. Quindi aggiornò il Corpo legislativo e nel ricevimento di Capo d'Anno ne apostrofò oltraggiosamente i membri, affermando che "la nazione aveva maggior bisogno di lui che egli non avesse della nazione". Questo discorso significava la rottura con l'opinione pubblica.

Mentre nel 1814 il nemico varcava i confini della Francia, gli animi nel suo interno si alienavano da colui che difendeva la patria. Non più la nazione. Ma soltanto l'esercito sosteneva ancora l'imperatore.
Ma questo lo vedremo più avanti....

noi qui col prossimo capitolo
dobbiamo tornare agli inizi della terza coalizione


GUERRA CON L'INGHILTERRA - LA 3a COALIZIONE. 1803-1805 > >

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