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227. 36) - LA LOTTA EUROPEA PER I BALCANI E L'AFRICA


Il primo "mercato dei Popoli" al Congresso di Berlino del 1878

Fino al XVII secolo l'Europa aveva sempre tremato dinanzi ai Turchi. Dopo di allora stavano però retrocedendo e ridimensionandosi, e il centro di gravità dell'Impero turco si era da qualche tempo spostato verso l'Asia.
Certo la cattiva amministrazione turca, il dispotismo, il peso delle imposte, l'incomprensione economica della classe dominante avevano lasciato del tutto deperire i territori un tempo così floridi della Mesopotamia e della Siria; ma il vero sostegno del turchismo era nell'Asia minore: dove vivevano numerosi contadini turchi, che si erano col tempo mischiati con la popolazione più antica, e dove stava anche la riserva militare del governo turco.

Nella TURCHIA europea i Turchi avevano sempre costituito solamente una piccola percentuale della popolazione; vi era solo una superficiale sovranità della casta militare turca, la quale non si sarebbe potuta mantenere attraverso i secoli, se i Turchi non avessero accolto nelle loro file chiunque si professasse islamita.
Con allettamenti, con minacce, e in certi casi con la violenza, grosse schiere di raja un tempo cristiani si persuasero a convertirsi all'islamismo. Una delle più solide stirpi balcaniche, gli Albanesi, divennero così quasi tutti maomettani, e dettero all'Impero turco un gran numero dei suoi più capaci statisti e generali.

Se un musulmano voleva passare al cristianesimo, era punito con la morte. Ma a parte questi estremismi religiosi, il carattere fondamentale, rigidamente confessionale, del loro Stato rendeva i Turchi refrattari all'educazione dell'Europa occidentale, indi compreso il cristianesimo.
Essi guardavano bene che tutti i diritti politici fossero riservati a loro soli. Nessun "giaurro" era ammesso al servizio militare o ad un ufficio governativo o poteva acquistare un possesso fondiario; anche il porto delle armi era vietato alla popolazione cristiana.

La misura delle imposte dipendeva interamente dall'arbitrio del Sultano, e le riscossione avveniva per mezzo di appaltatori nella maniera più disinvolta.
La condizione dei popoli cristiani nella penisola balcanica si era notevolmente modificata dall'inizio del XIX secolo. Il principio di nazionalità era penetrato nell'Europa anche in Turchia, ed aveva suscitato pure in questi popoli la tendenza all'indipendenza politica e nazionale, ed aveva pure
portato alla formazione del Regno indipendente della Grecia e di Stati vassalli della Turchia sotto prìncipi cristiani in Romania, Serbia, e Montenegro.

Ma questa formazione di comunità nazionali ebbe anche i suoi svantaggi. Prima i cristiani della penisola balcanica formavano un'unica grande comunità sotto l'aspetto ecclesiastico, il cui capo era il patriarca greco di Costantinopoli, e la cui aristocrazia era costituita dalle ricche famiglie greche di mercanti della capitale, le quali, poiché abitavano nel così detto quartiere del Fanar di Costantinopoli, furono detti fanarioti.

La potenza di questi fanarioti era stata favorita dal Governo turco. I prìncipi vassalli dei territori cristiani furono scelti in quest'ambiente; anche il clero superiore nelle regioni non greche, come la Serbia e la Macedonia, era composto esclusivamente di fanarioti.
Oltre a ciò essi servivano il Sultano come banchieri e lo soccorrevano con prestiti nelle sue necessità finanziarie.

Questa potenza del patriarca e dei fanarioti, che giovava a tutti i cristiani, fu scossa principalmente, quando il Regno di Grecia, dopo la sua liberazione politica si rese anche ecclesiasticamente indipendente.
Serbia e Romania seguirono più tardi questo esempio, e nell'anno 1870 anche i Bulgari riceverono un loro esarca. Da allora le varie nazionalità della penisola balcanica si fronteggiarono come comunità separate anche ecclesiasticamente, le quali si combattevano ferocemente l'una l'altra, e i cui litigi potevano con opportunismo essere con buon successo sfruttati dalla Turchia.

Soprattutto i cristiani, rimasti sotto l'immediata sovranità del Sultano, soffrivono per la deficienza di un organismo unitario. Mentre i singoli Stati vassalli, Romania, Serbia e Montenegro erano invece quasi indipendenti e possedevano proprie dinastie.
In Romania governava, dal 1867 la casa di Hohenzollern-Sigmaringen; in Serbia la dinastia indigena degli Obrenovic. Ma siccome da soli erano troppo deboli per potersi difendere contro un attacco dei Turchi, cercarono un sostegno nelle grandi Potenze limitrofe. Di queste l'Austria-Ungheria era poco favorevole ad accontentare le loro richieste, poiché temeva l'inclinazione delle sue regioni meridionali, abitate da Slavi, verso gli Stati balcanici; cosicchè quelli si accostarono alla Russia.

Lo Zar, che al tempo stesso era il più potente Sovrano ortodosso, apparve loro come il naturale protettore dei cristiani balcanici. Ma quanto più cresceva il pericolo che la Russia, un po' alla volta, potesse estendere il suo influsso sull'intera penisola balcanica, tanto più con gran impegno le altre grandi Potenze cercavano d'impedirglielo.
Dalla guerra di Crimea in poi i diritti degli Stati balcanici stavano sotto la guarentigia complessiva di tutte le grandi Potenze europee.
Il fine particolare della politica russa era il possesso di Costantinopoli; perchè con il graduale ingrandimento degli Stati cristiani balcanici, che avrebbero dovuto convergere sotto il protettorato russo, si sperava di poter cacciare un po' per volta i Turchi e dominare completamente la penisola balcanica.

Dopo l'avventura in Crimea, con la pace di Parigi del 1856 tuttavia la Russia era stata respinta indietro per un buon tratto di territorio. Essa doveva tenere nel Mar Nero solo un numero limitato di piccole navi e così le era impedito di crearsi una reale superiorità marittima.
Appena terminò la guerra franco-tedesca (del '70-71) lo Zar denunziò quell'articolo della pace di Parigi, e ottenne, nonostante l'opposizione vivace dell'Inghilterra, che una conferenza delle grandi Potenze, riunita in Londra, lo dichiarasse abrogato (31 marzo 1871).

In contrasto con la Russia l'Inghilterra desiderava di conservare la Turchia abbastanza vitale, e di impedirne lo sfacelo, poiché essa in un forte Impero turco scorgeva la migliore garanzia che i Russi non sarebbero divenuti padroni dei Balcani e del Bosforo.
Gli statisti turchi non ignoravano questo contrasto fra Russia e Inghilterra. Anche fra costoro si formò gradualmente un partito, che desiderava di elevare con vere riforme la vitalità dell'Impero turco. Questi così detti "Giovani Turchi" volevano certo salvaguardare in realtà il carattere fondamentale islamico dell'Impero, ma intendevano tenere formalmente conto delle esigenze degli Europei, per quanto era possibile con queste riserve.
Confidavano che anche in un Parlamento eletto insieme con i Cristiani, i Turchi avrebbero avuto la maggioranza e, nonostante la formale uguaglianza con i Cristiani, essi avrebbero sempre esercitato la loro volontà.

Ai "Vecchi Turchi" ortodossi, all'incontro, sembrava inconcepibile concedere agli eterodossi specialmente dei diritti nella vita pubblica; e allo stesso Sultano ripugnavano queste riforme, perché avrebbero ristretto il suo assolutismo. Già le isolate piccole riforme a cui Fuad pascià (uno dei capi più capaci dei Giovani Turchi) seppe determinare il Sultano Abdul Aziz, portarono alle esplosioni del fanatismo turco, ma dopo la morte di Fuad (1869) tutto ristagnò.
I giovani Turchi inclinavano naturalmente verso l'Inghilterra; mentre i vecchi Turchi cercarono di mettersi d'accordo con la Russia.

La situazione divenne specialmente complicata per le sempre più spaventose necessità finanziarie del Sultano. La prodigalità della Corte, il sistema improduttivo delle imposte, in generale la mancanza di una razionale amministrazione delle finanze erano la cause del male. Ma a ciò si aggiungeva qui, come in Egitto, lo sfruttamento scellerato finanziario degli Orientali per opera di gente d'affari senza scrupoli dell'Europa occidentale.
Soprattutto il barone Hirsch compié cose incredibili, e nell'impresa della costruzione della rete ferroviaria fece enormi disonesti guadagni. Egli costruì solo i tronchi più a buon mercato nella pianura e nelle valli fluviali, dove non c'erano difficoltà di terreno da superare, e anche questi lavori furono fatti così male, che per anni e anni nessun treno poteva avventurarsi con l'abituale velocità conosciuta in Occidente.

Nel 1875 il debito statale turco era salito a 3850 milioni di marchi, per i quali in parte dovevano essere pagati gli interessi del 14% l'anno. Nel corso di quest'anno il Sultano dovette dichiarare formale bancarotta, in quanto comunicò ai creditori che era in grado di pagare soltanto la metà degl'interessi. Il crescente bisogno di denaro costrinse però il Governo turco ad un aumento sempre maggiore e ad un'esazione spietata delle imposte; chi non poteva pagare finiva sul lastrico. In Bosnia ed Erzegovina gli abitanti si rifugiarono su i monti e di là incominciarono una vera e propria guerriglia contro i Turchi.

Sembra che all'inizio agenti russi abbiano incitato alla rivolta; ma la vera ragione stava tuttavia indubbiamente nella estrema necessità della popolazione stessa. Le rivolte non avevano bisogno di essere incoraggiate, scoppiavano da sole, qui e là, autonomamente per sdegno e rabbia.
Dalla Serbia e dal Montenegro affluivano volontari in soccorso dei ribelli. Ma i Turchi all'inizio evitarono di prendere energici provvedimenti, perché credevano che le ribellioni, come più volte era già accaduto, si sarebbero estinte da sole.

Quando però tale previsione non si fu verificata, e le tensioni aumentarono, le grandi Potenze limitrofe ne furono impensierite. Soprattutto in Austria-Ungheria si temeva (ed avevano quindi la coscienza sporca) che anche gli Slavi ungheresi si agitassero. Per questo motivo a Vienna si desiderava che il più presto possibile nella Bosnia le cose tornassero normali.
Il conte Andrassy era convinto che senza riforme non si sarebbe avuta la pacificazione, e per ottenerle dalla Turchia riteneva necessario una comune condotta delle grandi Potenze, elencando tali necessarie riforme in una "Nota".
Andrassy si unì presto con la Germania e la Russia; Francia ed Italia non opposero nessuna resistenza ad una simile condotta; la cosa invece andò del tutto diversamente in Inghilterra.

In Inghilterra Disraeli temeva che ogni ingerenza delle Potenze confinanti avrebbe avuto per conseguenza un indebolimento della Turchia e un accrescimento dell'influenza russa sui Balcani.
Disraeli esitò ad acconsentire alla "Nota" proposta dall'Andrassy. E verosimilmente avvenne per suo consiglio che il Sultano verso la fine del 1875, per togliere alle grandi Potenze ogni pretesto d'ingerenza, emanò due importanti decreti di riforme, con i quali promise a tutti i Cristiani del suo Impero notevoli agevolazioni e partecipazione all'amministrazione statale.

Ma i Bosniaci non ne furono contenti, essi esigevano la soddisfazione delle loro lagnanze particolari, soprattutto riforma del sistema delle imposte e della polizia, la possibilità per i cristiani di acquistare possessi fondiari, e avere garanzie pratiche per l'esecuzione di tutte le riforme che il Sultano avrebbe concesso.

La "Nota" dell'Andrassy tenne conto di queste in parte soddisfatte richieste, e quando Disraeli vide che non poteva impedirne la consegna da parte delle altre Potenze, decise alla fine fine di acconsentirvi, quantunque essa, dopo le ultime riforme fatte dal Sultano, fosse superflua.
La "Nota" fu - ugualmente - in nome di tutte le grandi Potenze consegnata a Costantinopoli il 31 gennaio 1876, e dal Sultano furono immediatamente accolte tutte le richieste (non tutte, ma solo in parte già da lui concesse).

I Bosniaci tuttavia rifiutarono di deporre le armi, pretendevano che prima fossero ritirate le truppe turche dal loro paese, che fosse insediata una commissione mista per l'esecuzione delle promesse e che la Turchia si fosse dichiarata pronta a lasciare ai Cristiani un terzo delle terre.
Siccome il Sultano non acconsentì a tali richieste, la rivolta proseguì. Poi anche la vicina Serbia incominciò ufficialmente ad armarsi, e perfino in Bulgaria cominciarono nello stesso 1876 all'inizio di maggio dei disordini.
L'inattività del Governo turco di fronte a queste insurrezioni e alle ingerenze straniere portò a una spaventosa esplosione del fanatismo religioso dei mussulmani.

A Salonicco furono assassinati il console tedesco e quello francese dalla popolazione infuriata. Oltre le truppe regolari furono allora inviate in Bulgaria bande di irregolari bascibozuk, che spensero nel sangue le rivolte e in parte fecero letteralmente strage degli abitanti. Il Sultano stesso dal minaccioso atteggiamento della popolazione di Costantinopoli fu costretto a congedare i suoi vecchi (cattivi e inetti) consiglieri e a chiamare uomini più abili e risoluti.

Poiché gl'insorti erano appoggiati dalla Russia, mentre l'Inghilterra voleva mantenere l'integrità della Turchia, a Costantinopoli salirono al potere i Giovani Turchi, più disponibili verso l'Inghilterra, sotto la direzione di Midhat pascià; solo con la loro politica l'Impero parve potesse esser preservato da nuove gravi perdite.
Le tre Potenze orientali volevano, nel caso di un rifiuto alla loro richiesta, minacciare la Porta con un intervento armato. Ma ad una tale minaccia che implicava la guerra, Disraeli rifiutò nella maniera più energica il suo consenso, anzi incoraggiò addirittura la Turchia alla resistenza, in quanto, apparentemente per la protezione dei sudditi britannici, inviò una squadra navale nella baia di Besika.

Forse proprio per questa dimostrazione inglese i Giovani Turchi furono animati alla rivolta di palazzo, che eseguirono il 30 maggio. Il Sultano Abdul Aziz, che passava per amico dei Russi, fu dichiarato deposto, e durante la notte imprigionato: pochi giorni dopo fu trovato morto in prigione; secondo quel che si disse, egli si sarebbe tagliato le arterie.
Al suo posto fu elevato sul trono l'inetto Murad V; ma anche questi fu, con un eguale colpo di Stato, tolto di mezzo, dopo pochi mesi, e il suo fratello minore Abdul Hamid II fu collocato al suo posto.

Durante questi avvenimenti, Serbia e Montenegro come risposta agli orrori bulgari avevano deciso di dichiarare guerra alla Turchia; un gran numero di volontari russi combatteva nei loro eserciti.
I Serbi erano addirittura comandati da un Russo, il General Scernajeff. Ma indisciplinati e male addestrati furono battuti dai Turchi e respinti di là dalla frontiera del loro paese.
Anche questi soccombenti dovettero finalmente, nella loro grave condizione, invocare il soccorso delle grandi Potenze; ma tutti i tentativi di mediazione furono vani.

Siccome la situazione della penisola balcanica diventava sempre più pericolosa, lo Zar decise apertamente d'intervenire. Alessandro II non si decise facilmente a prendere questa risoluzione; egli era personalmente disponibile alla pace e lo dimostrò in ogni occasione.
Egli cedette solo malvolentieri alla pressione dei panslavisti, e dei ribelli della Balcania. Essi fecero presente allo Zar che l'autorità della Russia nella penisola balcanica sarebbe stata gravemente compromessa se egli avesse lasciato senza protezione i popoli affini per religione e per razza.

Alessandro voleva agire come mandatario dell'Europa; e non si stancava di assicurare pubblicamente di non aver di mira nessun vantaggio separato, tanto meno nessun allargamento territoriale della Russia.

Ma quando cercò, nell'estate del 1876, di accordarsi con l'Austria su i particolari di un atteggiamento comune, trovò a Vienna in ogni sorta di diffidenze, poiché qui come pure a Londra, non si desiderava che la Russia acquistasse in qualche modo un'autorità esclusiva nei Balcani.
Questo contegno dell'Austria dispiacque tanto allo Zar che egli per un certo tempo sembra abbia pensato perfino a una guerra contro l'Austria; per lo meno fece chiedere a Bismarck come la Germania si sarebbe comportata in un simile frangente.

Ma poiché Bismarck non prometteva nessun tipo di appoggio, questo pensiero fu abbandonato. Tuttavia lo Zar tenne fermo alla sua azione contro la Turchia, nonostante la resistenza austriaca.
Innanzi tutto nell'autunno del 1876 chiese ufficialmente al Sultano l'immediata conclusione di una tregua con la Serbia e col Montenegro.
Per consiglio dell'Inghilterra il Sultano cedette; ma incominciò ad armarsi per non trovarsi poi inerme davanti ad ulteriori difficoltà.
Una conferenza, proposta dall'Inghilterra, degli ambasciatori di tutte le grandi Potenze si radunò in Costantinopoli per fare ancora un tentativo d'impedire la guerra.
Nelle discussioni preliminari, a cui non fu ammesso nessun Turco, si accordarono che le riforme precedentemente richieste alla Turchia con la famosa "Nota" dovessero attuarsi immediatamente e che una guardia europea di 6000 uomini dovesse vigilare l'effettiva esecuzione delle riforme.

I Turchi erano convintissimi che la Russia non avrebbe osato nessun attacco di fronte all'opposizione dell'Inghilterra: per ciò osarono rispondere a questi progetti con un'aperta beffa alle grandi Potenze.
Prima ancora che nella prima seduta generale della conferenza, il 23 dicembre, potessero comunicarsi le richieste delle Potenze, si alzò il rappresentante turco e dichiarò che il Sultano aveva deciso di dare all'Impero turco, una costituzione con tutti i requisiti dell'Europa occidentale: due Camere, ministri responsabili, e completa uguaglianza delle varie confessioni.
Quando si venne poi a parlare chiaramente delle richieste delle Potenze, il Turco dichiarò che il Sultano era divenuto ormai un Sovrano costituzionale e che, senza il consenso del Parlamento, non poteva accordare provvedimenti particolari per singole parti del suo Impero.

Era chiaro e lampante che tutta la commedia costituzionale doveva servire soltanto a giustificare il rifiuto delle domande europee. Anche i rappresentanti britannici furono mossi a sdegno dalla condotta della Porta; la flotta britannica ricevette l'ordine di abbandonare la baia di Besika, e la conferenza degli ambasciatori si sciolse senza alcun risultato.

Se la Russia voleva agire, non bisognava ormai più temporeggiare. Finalmente, nel gennaio 1877, riuscì a ottenere un'intesa con l'Austria. Nel caso che il procedimento della Russia, e le modifiche, connesse ad esso, nei Balcani dovessero varcare certi confini, era promesso all'Imperatore Francesco Giuseppe l'acquisto della Bosnia e dell'Erzegovina; per ciò egli prometteva di conservarsi neutrale durante la guerra.
Le grandi Potenze presentarono al Sultano un ultimatum, che cioè egli doveva accordare tutte le riforme prima richieste per la Bosnia e lasciarne sorvegliare l'esecuzione dai rappresentanti delle Potenze.

Nel frattempo si era riunito a Costantinopoli il parlamento turco; i cristiani, che ben vedevano che questo sarebbe stato un nuovo strumento della loro oppressione, non avevano partecipato alle elezioni. Il Parlamento nel dopo elezioni riuscì a formarsi ugualmente ma ovviamente tutto piegato ai desideri del Sultano.
Questi subito dichiarò, dietro domanda dei ministri, che la Turchia non poteva più permettere alcuna ulteriore ingerenza nelle sue faccende interne, e su questa base la Porta rigettò senz'altro il 12 aprile 1877, le richieste delle grandi Potenze.

Lo Zar Alessandro comunicò subito alle Potenze che lui ormai avrebbe agito solo; si assicurò, mediante un trattato con il principe Carlo di Romania, il passaggio attraverso questo paese intermedio così importante, e inviò il 24 aprile 1877 la sua dichiarazione di guerra alla Turchia, mentre contemporaneamente mosse l'esercito russo verso i Balcani.
L'Inghilterra fu l'unico Stato, che subito espresse il suo malcontento, poiché non gli era venuta meno la speranza di giungere a intendersi pacificamente con la Turchia.

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La Russia si era armata per questa guerra fin dall'autunno del 1876: ciononostante l'esercito non era per nulla in splendide condizioni. Già la lentezza della mobilitazione - occorsero sei mesi per la metà dell'esercito - mostra come lavoravano male le autorità russe; così pure sussistenze, vestiario, riserve di munizioni, cannoni e armi lasciavano molto a desiderare.
Nel territorio in cui si voleva penetrare non si avevano quasi per nulla carte della regione. Il materiale umano era scelto; ma in cambio la direzione era piuttosto inetta. Il comandante supremo, il granduca Nicola, fratello dello Zar, si dimostrò del tutto incapace.
Critici militari censurarono soprattutto la mancanza di ogni piano strategico precedentemente studiato; l'indipendenza dei generali in sott'ordine portò spesso a rallentare o a bloccare il movimento in punti importanti.
Quando uomini energici si trovarono alla testa di singoli reparti di truppa, allora si marciò contro il nemico senza ombra di riguardo e senza alcun piano; dal che derivarono situazioni difficili.

Di grande importanza fu pure il fatto che ai Russi dal 1870 in poi non era ancora riuscito di formarsi una notevole flotta militare nel Mar Nero, e che perciò per i necessari complementi di truppe non si poteva scegliere la più comoda via marittima, ma, tutte dovevano passare a piedi attraverso la Romania.

Anche la Turchia poteva pure contare su soldati eccellenti, che erano anche ben armati con armi straniere, ma non sufficientemente istruiti nel maneggio delle medesime. Inoltre anche qui l'approvvigionamento delle munizioni era difettoso, e soprattutto sconnessa la direzione della guerra. I generali turchi si guardavano l'un l'altro con invidia e con diffidenza, e ognuno s'ingelosiva dell'altrui buon successo. Noi ignoriamo, se specialmente esistesse un piano di guerra coerente e unitario.

La campagna cominciò nell'aprile del 1877 con la lenta marcia dei Russi attraverso la Romania; solo alla fine di giugno il passaggio di là dal Danubio presso Sistova poté essere compiuto.
I Russi giunsero così alle fortificazioni bulgare nei passi dei Balcani, che difendevano la via per Costantinopoli. In ambedue i fianchi degli avanzanti Russi rimanevano considerevoli reparti di truppe turche, piuttosto pericolose per una sufficiente sicurezza della retroguardia russa.

L'avanguardia russa sotto il General Gurko arrivò a metà di luglio, ad un sentiero montagnoso poco frequentato e per ciò non vigilato di là dai Balcani, e occupò l'importante passo di Scipka. Fra i Turchi si diffuse un grande terrore. Molti abitanti di Adrianopoli fuggirono nella capitale; e il Sultano stesso ebbe il pensiero di trasferire la sua residenza nell'Asia minore; poiché la via per Costantinopoli sembrava ormai aperta ai Russi.
Ma ben presto apparve che i successi russi erano forse sì brillanti, ma poco veramente risolutivi. In conseguenza della scarsa assicurazione, per parte dei Russi, delle strade conducenti verso il nord, il Generale turco Osman pascià poté occupare il nodo di Plevna e minacciare una eventuale linea di ritirata dei Russi.
Con tutti i loro
sforzi, ai Russi non riuscì di cacciarlo da Plrvna, poiché Osman si era trincerato in una posizione inattaccabile. Se Suleiman pascià, che comandava le truppe nel sud dei Balcani, fosse accorso, conforme all'ordine del comandante in capo, attraverso uno dei passi dei Balcani, dominati dai Turchi, a rinforzare l'esercito che stava presso Plevna, la situazione dei Russi decisamente sarebbe divenuta molto critica.

Invece Suleiman si sforzò invano di espugnare il passo di Scipka, valorosamente difeso dal Generale Gurko, e sacrificò così, senza bisogno, tempo e forze.
Ma anche così la condizione dei Russi era all'inizio di agosto abbastanza compromessa. Il granduca Nicola in un consiglio di guerra, allora tenuto, si espresse addirittura per la ritirata di là dal Danubio. Ma questo piano, che poteva compromettere il buon successo di tutta la campagna, fu rigettato dal sano buon senso dell'Imperatore Alessandro.

Ora apparve chiaro come fosse fatale per i Russi il fatto che essi non dominavano la via marittima attraverso il Mar Nero. Poiché l'avanzata di nuove truppe per via di terra esigeva delle settimane, lo Zar si vide costretto a prendere in considerazione il soccorso del principe Carlo di Romania.
Questi portò il suo esercito, forte di 35.000 uomini, di là dal Danubio solo col patto che egli stesso ricevesse il comando supremo e che gli fosse subordinata anche una parte delle forze russe.
Ma anche i tentativi, intrapresi sotto il suo comando, di prendere d'assalto Plevna fallirono completamente nel settembre e arrecarono ai Russi perdite di oltre 20.000 uomini.

Bisognò assuefarsi al pensiero di un metodico attacco del nodo di Plevna. Il maggiore ingegnere dell'esercito russo, il Generale Totleben, il difensore di Sebastopoli, fu chiamato ad assumere la direzione delle operazioni dell'assedio.
Siccome i tentativi di liberazione dei Turchi andarono male, Plevna verso la fine del 1877 fu ridotta dalla fame nella più tremenda condizione. Osman pascià comprese che egli aveva solo la scelta di arrendersi o di tentare la violenta sortita attraverso le linee degli assedianti.

Egli scelse quest'ultima via; e solo poiché non volle lasciare in Plevna donne e bambini, ma fece il tentativo di portarli attraverso le file nemiche, alla fine soccombette.
Quando si vide completamente circondato dai Russi e non vide nessuna via di scampo, dovette capitolare con tutto il suo esercito (oltre 40.000 uomini) il 10 dicembre, e Plevna fu occupata dai Russi.
La conquista di Plevna fu l'azione risolutiva sul teatro europeo della guerra. Ormai la Bulgaria a nord dei Balcani era completamente nelle mani dei Russi; e la Serbia rincuorata dichiarò di nuovo la guerra alla Turchia.

Una gran quantità di fresche truppe russe valicò in mezzo a gravi ostacoli nel più freddo inverno i Balcani, e scese nella valle della Maritza.
Quantunque la condotta della guerra nel mezzodì dei Balcani fosse molto più ardua per i Russi, poiché essi qui giunsero in un paese nemico, prevalentemente abitato da musulmani, riuscì tuttavia a loro nel gennaio di sbaragliare gli ultimi reparti turchi bloccati e di occupare Adrianopoli; il Sultano allora invocò la mediazione delle grandi Potenze e specialmente dell'Inghilterra.

Si comprende che lord Beaconsfield aveva seguito i progressi delle armi russe con la maggiore apprensione. Proprio al principio della guerra aveva fatto dichiarare ai Russi che l'integrità di Costantinopoli, dell'Egitto e del Canale di Suez erano interessi vitali inglesi ed aveva ricevuto dal ministro russo degli esteri, il principe Gorsciakoff assicurazioni tranquillanti.
Dopo la conquista di Plevna l'Inghilterra fece comprendete al Governo russo che anche un'occupazione temporanea di Costantinopoli o dei Dardanelli per parte di truppe russe era tale da danneggiare le buone relazioni di ambedue le Potenze, e la Russia rispondeva e prometteva di astenersi da tale occupazione, salvo se l'Inghilterra non trasportasse truppe in Gallipoli, o il Sultano, non vi raccogliesse un forte esercito.

Quando pertanto si ebbe la preghiera del Sultano per una mediazione di pace, la Regina Vittoria personalmente chiese telegraficamente allo Zar la conclusione immediata di un armistizio. Ma siccome non ricevette una risposta favorevole, venne dato l'ordine alla flotta britannica del Mediterraneo di recarsi di nuovo nei Dardanelli e di mettere l'àncora nella baia di Besika. Questo provvedimento, senza dubbio, racchiudeva in sé una minaccia contro la Russia e il pericolo di una guerra anglo-russa.

Nel frattempo, anche fra il Sultano e il quartier generale russo erano state intavolate trattative dirette per la conclusione di una tregua; le quali portarono, il 31 gennaio 1878, alla conclusione dell'armistizio di Adrianopoli.
Il Sultano concesse la completa indipendenza e l'ingrandimento della Serbia, della Romania e del Montenegro, la formazione di un principato autonomo di Bulgaria, e un'amministrazione autonoma ai territori rimasti al Sultano, ma abitati da cristiani.
Per i movimenti delle truppe fu combinata una linea di demarcazione, che non doveva, durante la tregua, esser varcata da nessuna delle parti.
Alla notizia di queste condizioni Beaconsfield fece dichiarare a Pietroburgo che ogni mutamento dei rapporti territoriali nella Balcania, senza il consenso delle Potenze firmatarie del trattato parigino del 1856, era inammissibile. Contemporaneamente egli chiese ed ottenne dal Parlamento 600 milioni per rafforzare la difesa del paese.

Ma anche l'AUSTRIA cominciò ad essere inquieta. Il conte Andrassy temeva che la Russia avrebbe fondato la sua signoria sulla penisola balcanica, senza accordare all'Austria i compensi precedentemente pattuiti.
Anche Andrassy ottenne dal parlamento 60 milioni di fiorini e collocò truppe austriache sui Carpazi. Al tempo stesso propose alle altre Potenze di sottoporre le condizioni della pace ad una conferenza delle grandi Potenze.
La Russia si dichiarò disponibile in linea di massima; come luogo della conferenza si pensò a Berlino.

Con tutto ciò la situazione era tuttavia abbastanza pericolosa, poiché i Russi minacciavano di assalire Costantinopoli, appena la flotta inglese sarebbe avanzata. Ma alla fine ci si accordò, che i Russi non avrebbero oltrepassato le loro posizioni attuali, finché gl'Inglesi non avessero sbarcato truppe a terra.

Se un assalto russo a Costantinopoli avesse avuto veramente speranza di buon successo, é cosa molto discutibile, poiché erano pronti 50.000 difensori, e il granduca Nicola disponeva soltanto di 56.000 uomini. Ed essendo attaccanti ne sarebbero occorsi come minimo il quadruplo.
Ma in ogni caso l'intervento dell'Inghilterra o dell'Austria in guerra fecero naufragare tutte le aspettative dei Russi.
Questo é il motivo per cui a Pietroburgo fu deciso piuttosto velocemente di accettare la proposta del Congresso di Berlino.

Ma anche il Sultano non osò da solo proseguire la lotta, e acconsentì, il 3 marzo 1878, ai preliminari di pace di Santo Stefano, con cui dovette accogliere tutte le richieste russe.
Il nuovo principato di Bulgaria doveva, é vero, rimanere sotto la sovranità della Turchia, ma estendersi fino al Mar Egeo, cosicché il piccolo residuo della Turchia europea si sarebbe spezzato in tre pezzi, completamente separati fra loro (Rumelia, Bulgaria e Bosnia).
I Russi si riservarono il diritto di tenere occupata per due anni militarmente la Bulgaria; mentre Bosnia ed Erzegovina avrebbero ricevuto un'amministrazione autonoma.

Gli ingrandimenti della Serbia e del Montenegro erano molto notevoli; la Romania doveva ottenere la Dobrugia, ma cedere in cambio la Bessarabia alla Russia. Infine la Turchia doveva pagare un risarcimento per le spese di guerra di 1400 milioni di rubli. La maggior parte delle concessioni doveva consistere però nella cessione di alcuni territori asiatici di confine: poiché anche in Asia la guerra, nonostante qualche ingarbugliata vicenda, era stata propizia per la Russia.
Ambedue le importanti fortezze di Kars e di Erzerum erano state conquistate. Di queste almeno Kars doveva rimanere nelle mani dei Russi, e così il notevole porto marittimo di Batum.

A questa pace di Santo Stefano non acconsentivano né i popoli balcanici, perché i loro desideri nazionali non erano del tutto soddisfatti, né la Romania, a cui era stata richiesta la cessione della Bessarabia in cambio dell'acquisto della Dobrugia, assolutamente meno importante oltre che paludosa, quantunque lo Zar, prima della guerra, avesse assicurato al Principe, nella maniera più precisa, l'integrità del suo territorio, e quantunque i Romeni avessero portato aiuto all'esercito russo nel più grave pericolo, anzi forse la salvezza.

Il parlamento romeno decise addirittura che bisognava opporsi con le armi alla cessione della Bessarabia. Ancor più scontente però erano Austria e Inghilterra; il pericolo di una grande guerra internazionale pareva ancora vicino. Nel campo di Aldershot furono dall'Inghilterra approntati 70.000 uomini; 7000 uomini di truppe indiane furono da Bombay portati a Malta, donde agevolmente potevano essere riversate sulle coste turche.

In una circolare lord Beaconsfield dichiarò che l'Inghilterra non avrebbe mai riconosciuto la pace di Santo Stefano, perché essa rendeva la penisola balcanica del tutto dipendente dalla Russia: e chiese che solo al congresso dovesse spettare il diritto di modificarne completamente le condizioni.

La Russia all'incontro dichiarò e pretese che lo Zar si doveva riservare quali questioni bisognava trattare. Ma in Inghilterra in una tornata della Camera alta il Beaconsfield tenne un discorso, che suscitava guerra, e i lords espressero in un indirizzo alla Regina la loro prontezza ad ogni sacrificio.
A Pietroburgo non si poteva dubitare più che il persistere nelle condizioni fino allora pretese avrebbe condotto alla guerra: le previsioni della quale non erano per nulla favorevoli; poiché la Turchia aveva nel frattempo accresciuto le sue truppe accampate presso Costantinopoli, fino ad 80.000 uomini, ed eretto salde fortificazioni.

Poiché i Russi non possedevano alcuna flotta , non erano in grado di sbarrare il Bosforo agli Inglesi e di impedire un attacco alle loro coste meridionali. Con la mediazione di Bismarck furono però, ancora una volta, intavolate le trattative.
Il conte Pietro Sciuvaloff giunse in Inghilterra come speciale inviato dello Zar ed ottenne il 30 maggio 1878 la conclusione di un trattato, per cui l'Inghilterra riconosceva in linea di massima le mutazioni territoriali dei Balcani.
Con questa composizione, nella realtà, era già assicurata la pace; e fu esclusivamente un inganno del Sultano, se il Beaconsfield indusse costui, che credeva sempre a un pericolo di guerra, a un trattato segreto, cedente l'isola di Cipro all'amministrazione inglese, purché l'Inghilterra promettesse il suo aiuto contro ogni ulteriore rimpicciolimento della Turchia (4 giugno 1878).


Il congresso si riunì a Berlino sotto la presidenza di Bismarck, il 13 luglio 1878. Il compito fu di eseguire la revisione nei particolari della pace di Santo Stefano;
la cosa era abbastanza difficile, e qualche volta le trattative minacciarono di fallire di fronte all'opposizione dell'una o dell'altra Potenza. Bismarck dovette usare tutta la sua arte diplomatica per portare a buon fine, nella sua qualità di «onesto sensale» le cose. Dopo una discussione di quattro settimane il Congresso arrivò alle seguenti decisioni:
Le cessioni, che la Turchia doveva fare alla Serbia e al Montenegro, furono così ristrette che anche in Europa restava un territorio turco ben connesso.
Lo Stato bulgaro, creato recentemente, fu pure rimpicciolito di molto e spezzato in due diversi territori: la parte, posta fra i Balcani e il Danubio, fu proclamata principato, che doveva rimanere sì con libera subordinazione sotto il Sultano, ma possedere nelle questioni interne completa autonomia.
Il diritto di occupare militarmente questa regione fu ristretto per i Russi a 9 mesi. La parte, a sud dei Balcani, con la capitale Filippopoli doveva, come provincia autonoma della Rumelia orientale, rimanere un territorio dell'Impero turco, ma ottenere un Governatore cristiano, nominato dal Sultano.
Serbia, Romania e Montenegro furono riconosciuti
come del tutto indipendenti dalla Turchia.

Lo Zar insisté assolutamente sulla cessione della Bessarabia per parte della Romania, la quale ricevette come compenso la Dobrugia, come era stato fissato già nella pace di Santo Stefano. In Asia la Russia dovette restituire Erzerum ai Turchi, ma conservò le altre sue conquiste col patto che l'importante porto marittimo di Batum non potesse essere fortificato e dovesse restare aperto al commercio di tutte le nazioni.
Inoltre alla Turchia fu imposta una notevole cessione territoriale, nel mezzodì, al Regno di Grecia. I Greci avevano nell'ultimo stadio della guerra preso le armi, per ricevere la loro parte di preda; erano però stati calmati dalle grandi Potenze con la promessa che sarebbero stati presi in considerazione i loro desideri nel nuovo trattato di pace.

L'Austria-Ungheria ricevé il diritto di occupare militarmente la Bosnia, l'Erzegovina e il Sangiaccato di Novibazar, e di amministrarli provvisoriamente sotto l'alta sovranità del Sultano.
Nel resto dell'Impero turco il Sultano promise di eseguire energiche riforme sulla base dell'uguaglianza di diritti dei Cristiani. Infine i Dardanelli e il Bosforo furono sbarrati alle navi da guerra di tutte le nazioni.

Finalmente la Turchia dovette acconsentire, per calmare i suoi creditori, a concedere l'accumulazione di certi redditi in una speciale cassa d'ammortamento, la cui amministrazione fu affidata alle mani di rappresentanti dei creditori.
La Russia pertanto dovette sacrificare molto delle esigenze soddisfatte alla pace di Santo Stefano, ma tuttavia ricavò sempre qualche guadagno territoriale dalla guerra. Essa dovette acconsentire agli Inglesi la continuazione di un vitale Stato turco e il possesso di Cipro, e agli Austriaci - anche se come protettorato - il possesso della Bosnia.

Gli statisti russi non erano per nulla contenti di questo esito delle trattative; si sentirono trattati ostilmente dall'Austria e non abbastanza appoggiati dalla Germania sul cui aiuto, come alleata, si era molto contato.
È certissimo che questi sentimenti erano ingiustificati. Se la Russia avesse intrapreso la lotta contro l'Inghilterra, questa non avrebbe potuto finire che con la perdita di tutti i vantaggi conseguiti; la mediazione delle Potenze tedesche preservò la Russia da questo pericolo e le assicurò anche notevoli acquisti.

Ma davanti agli occhi dei Russi stava soltanto il divario fra ciò che da principio si era preteso, e ciò che in fine si era ottenuto, e poiché il divario era a carico di quanto si era conseguito, la colpa della propria cattiva politica e condotta della guerra si addossava alle Potenze mediatrici.
Accanto alle trattative ufficiali naturalmente si svolsero a Berlino anche discussioni confidenziali; ma intorno alle loro conseguenze finora abbiamo solamente delle notizie incomplete.

Ma sembra certo che in seguito all'ingrandimento delle tre grandi Potenze anche la Francia pretese un compenso e che tanto l'Inghilterra quanto la Germania dichiararono che non avrebbero obiettato nulla, se la Francia si voleva compensare da sè stessa con l'occupazione di Tunisi, che era soggetta egualmente all'alta sovranità del Sultano, sebbene, popolata in grande parte da italiani, costituisse una ben nota aspirazione del giovane regno a cui la stessa Francia e la stessa Inghilterra l'avevano assegnata.
Di questa concessione la Francia si servì tre anni più tardi (Ne parleremo non prossimo capitolo)

Ora occorreva tracciare i confini nella penisola balcanica e ristabilire la quiete. Qualche difficoltà la Turchia l'ebbe solo riguardo alla Grecia e al Montenegro; ma con l'intervento delle Potenze e una dimostrazione navale fu compiuta in ambedue i paesi la determinazione delle frontiere.
La situazione finanziaria del Sultano fu aggiustata mediante un definitivo accomodamento con i creditori nell'anno 1881. Contemporaneamente venne annullato l'accordo ferroviario con il barone Hirsch e iniziato seriamente l'ulteriore costruzione della rete ferroviaria turca; ma d'altra parte le riforme furono contenute in confini assai modesti.

Abdul Hamid era un maomettano fanatico; il motivo fondamentale della sua politica era, e rimase, la rigenerazione dell'Impero sulla base dell'Asia, poiché riconobbe giustamente che il centro di gravità del mondo turco stava là, e sull'accrescimento del suo influsso sugli altri Stati islamici.
Della giovane turca costituzione non si parlò più; il suo autore, Midhat pascià, fu rovesciato.
Solo la trasformazione dell'esercito secondo il modello europeo fu intrapresa con serietà dal Sultano per rafforzare la Turchia contro nuovi assalti. Abdul Hamid fece venire dall'Europa istruttori, ingegneri e impiegati amministrativi; e poiché volle evitare di rivolgersi a Russi, Austriaci o Inglesi, furono spesso su i Tedeschi, dove cadde la sua scelta. Costoro svilupparono un po' alla volta relazioni più strette fra la Turchia e l'Impero tedesco, le quali più tardi ebbero anche importanti conseguenze economiche.

Per gli Stati cristiani della Balcania il trattato berlinese fu il punto di partenza di una nuova vita indipendente. La Romania si dovette, poichè non c'era da attendere alcun aiuto dall'estero, rassegnare, pur digrignando i denti, alla cessione della Bessarabia; ma fece sotto il saggio governo del Principe Carlo grandi progressi nella prosperità economica, nell'educazione popolare, e nell'amministrazione.

Nella SERBIA si era scontenti della decurtazione del territorio conquistato. Ma anche qui gradatamente si delinearono condizioni più tranquille, quantunque la lotta delle famiglie stabili di conduttori, gelose le une delle altre, e dei grandi parlamentari non si calmasse mai.
Ambedue gli Stati erano sdegnati contro la Russia, che aveva suscitato speranze; e poi non le aveva soddisfatte nessuna; essi cercarono di avvicinarsi da quel momento in poi all'Austria e fu perfino annunziato che la Serbia nel 1880 avrebbe concluso un'alleanza segreta con l'Austria-Ungheria.
In ogni caso, i Sovrani di ambedue gli Stati fecero visita alle coppie imperiali a Berlino e Vienna, e negli anni successivi assunsero con il consenso delle altre Potenze perfino il titolo regio.

La BULGARIA rimase di fatto sotto l'amministrazione russa. Veramente nella primavera del 1879 il principe Alessandro di Battenberg, figlio naturale del principe Assiano Alessandro, fratello della Zarina, fu eletto principe; ma la sua posizione era sostanzialmente quella di un vassallo russo. Nel paese stesso dominava un crescente sdegno contro la Russia, poiché si doveva riconoscere che in pratica lo Zar mirava a tenere permanentemente la Bulgaria in completa dipendenza dalla Russia.

La BOSNIA e NOVIBAZAR furono con violenta lotta occupate dagli Austriaci e assunte in amministrazione; quando poi vi fu introdotto l'obbligo generale del servizio militare, scoppiò fra la popolazione turca una rivolta non senza pericolo, che però fu repressa duramente dalle truppe austriache.
Non era quindi riuscito ai Russi per nulla di sostituire all'influenza turca quella russa. Piuttosto si erano resi nemica la Romania, e così avevano reso assai difficile un nuovo attacco verso i Balcani.
Anche la Serbia e la Bulgaria caddero sempre più sotto l'influsso del partito antirusso. Per questo sì può dire che la Russia non fece con questa guerra un passo avanti sulla via di Costantinopoli.

Ma anche gli Stati cristiani dei Balcani non erano per nulla soddisfatti delle condizioni esistenti. I Bulgari a sud dei Balcani chiedevano l'unione al principato di Bulgaria; Serbi e Greci cominciavano a lottare per conquistare un'influenza prevalente nella Macedonia e ad agognare di spartirsi quel territorio.
Dai paesi soggetti ormai all'amministrazione cristiana i Turchi che vi risiedevano emigrarono in gran folla; il che portava la conseguenza di una più forte concentrazione degli elementi turchi nel resto del territorio della Porta.
Le conseguenze della guerra russo-turca si fecero sentire tuttavia molto al di là della penisola balcanica: esse sono brevemente da seguire tanto nell'Asia quanto nell'Europa centrale e nello sviluppo interno dell'Impero russo.


Nell'Asia anteriore il conflitto anglo-russo ebbe un importante epilogo nella lotta di ambedue le Potenze per la supremazia nell'AFGANISTAN. Nel frattempo
Mentre a causa del problema orientale parve minacciare una guerra più grave fra la Russia e l'Inghilterra, il più abile ed energico dei Generali russi, Skobeleff, abbozzò un piano straordinariamente audace. Egli non pensava ad altro che, nel caso di una guerra, di attaccare per via di terra l'India orientale, il nocciolo della potenza inglese in Asia, e possibilmente di strapparla agl'Inglesi.

Tre reparti di esercito di circa 150.000 uomini dovevano muovere verso il sud, due attraverso l'Afganistan, il terzo però per l'altopiano del Pamir. Lo Skobeleff sapeva che l'esecuzione di questo piano avrebbe incontrato immense difficoltà. Soprattutto il trasporto di rinforzi, di vettovaglie e munizioni attraverso le aride steppe dell'Asia centrale doveva suscitare forti preoccupazioni.
Doveva pure apparire discutibile, se il povero paese montuoso dell'Afganistan, anche se l'emiro si fosse schierato con la Russia, avrebbe potuto nutrire una così grande massa di armati.
Ma tutte queste esitazioni furono messe da parte, quando dopo la conclusione della pace di Santo Stefano gli Inglesi presero quei minacciosi provvedimenti, ricordati sopra.
Poiché la posizione nella penisola balcanica contro di loro non pareva sostenibile, sembrò piuttosto che l'attacco all'India fosse l'unico mezzo efficace di difesa.

Nell'aprile 1878 fu dato da Pietroburgo, conforme il piano dello Skobeleff, l'ordine in avanti contro l'India. Siccome la guerra non era ancora dichiarata, le truppe dovevano arrivare soltanto fino alla frontiera russa. Nella gran mole dei necessari preparativi la marcia in avanti ritardò così tanto che l'esercito toccò la frontiera solo quando il congresso berlinese fu terminato e conclusa la pace. Solo un piccolo reparto era giunto di là dal confine e aveva tentato, attraverso il territorio dei Tekke-Turcomanni, tuttavia indipendenti, di spingersi verso l'Afganistan; ma era stato da queste tribù bellicose ricevuto molto male e costretto a ritirarsi al Mar Caspio.

Ebbe maggior successo un'ambasceria, la quale, condotta dal Generale Stoljetoff, era partita, sotto scorta militare, già prima delle truppe, per accattivarsi l'Emiro alla Russia. Schir Alì che, come sappiamo, diffidava delle intenzioni britanniche, ricevette amichevolmente i Russi e sembra addirittura concludesse con loro un trattato di alleanza. Alla notizia della comparsa dei Russi a Kabul il Viceré dell'India, lord Lytton, chiese subito all'emiro di accogliere nella sua capitale un inviato britannico con un seguito militare.

Schir Ali rifiutò per consiglio dei Russi, e fece alla frontiera respingere la ambasceria inglese, "che si era, nonostante ciò, già incamminata".
In pochi mesi, poiché un ultimatum spedito dal Viceré, rimase senza risposta, il Governo (anglo) indiano decise la guerra.

Sotto il comando del Generale Roberts le truppe anglo-indiane avanzarono nel dicembre 1878 nell'Afganistan; e al loro avvicinarsi Schir Alí si rifugiò nel territorio russo. In poche settimane ambedue le capitali orientali dell'Afganistan, Kabul e Kandahar, erano nelle mani degl'Inglesi.
Nel parlamento lord Beaconsfield dichiarò che l'Inghilterra doveva esigere ormai la «frontiera scientifica» contro l'Afganistan, in altre parole, la cessione degli importanti passi montuosi, che conducevano nella valle dell'Indo.

Siccome Schir Ali poco dopo moriva, suo figlio Iakub fu riconosciuto dall'Inghilterra come emiro. Il quale si accordò, nella pace di Gaudamak (28 maggio 1879), di cedere all'Inghilterra quei passi, di subordinare la regolazione dei suoi rapporti con Potenze straniere alla vigilanza di un residente britannico, di acconsentire alla posa di una linea telegrafica dall'India a Kabul, e di assicurare al traffico britannico notevoli facilitazioni.
Una ricca pensione annua doveva durevolmente legarlo all'Inghilterra. Ma anche Iakub sperava in cuor suo con l'aiuto russo di potere affermare la propria indipendenza contro l'Inghilterra.

Quando nell'estate del 1879 i Russi, sotto il Generale Lomakin, fecero una nuova puntata nel territorio dei Turcomanni e attaccarono la loro capitale Geok-Tepe, contemporaneamente, e difficilmente senza connessione con la mossa russa, scoppiò a Kabul una selvaggia insurrezione popolare, in cui il residente britannico, Maggiore Cavagnari, con l'intero suo seguito fu trucidato, e distrutto il palazzo della legazione (3 settembre).
Pochi giorni dopo i Russi tentarono di prendere d'assalto Geok-Tepe, ma andarono incontro a una completa disfatta, e allora dovettero iniziare la ritirata al Mar Caspio.

Questo insuccesso russo indusse l'emiro a recarsi nell'India per giustificarsi a causa degli avvenimenti di Kabul e per sconfessare ogni complicità. Ma gli Inglesi nonostante ciò mandarono una spedizione punitiva contro l'Afganistan. Il Generale Roberts valicò per la seconda volta le montagne e conquistò ancora una volta Kabul, dove egli sorprese le truppe afgane preparate e armate dalla Russia.
Iakub fu costretto ad abdicare e condotto prigioniero in India. Tutti coloro a cui poteva ascriversi una complicità nell'assassinio dell'inviato britannico, furono severamente puniti.
Nelle continue insurrezioni degl'indigeni, che costringevano addirittura a sgombri provvisori di Kabul, gl'Inglesi provarono dispiacere che non ci fosse nessun Sovrano riconosciuto universalmente. Il più notevole fra i vari pretendenti era un nipote di Schir Ali, Abdurrhaman, che
tempo prima di suo zio era fuggito nel Turchestan, e ora con l'aiuto russo cercava di penetrare nell'Afganistan settentrionale.
Ma, appena ebbe notizia che non c'era da pensare a un' effettiva occupazione in contrasto con gl'Inglesi, decise di accordarsi con loro. Le trattative andarono assai per le lunghe, ma alla fine portarono a questo che gl'Inglesi lo riconobbero come emiro di tutto il paese. E gli era lasciato l'incarico di assicurarsi l'obbedienza di quelle tribù che riconoscevano anche altri membri della casa sovrana.
La lotta più grave egli doveva sostenerla col fratello del cacciato Iakub, Ejub Khan, che teneva occupata Herat. Questi avanzò, durante il 1880, verso l'Oriente e riuscì addirittura a strappare Kandahar agl'Inglesi. Occorse una faticosa campagna, diretta dallo stesso Generale Roberts, per cacciarlo di là.

 

Durante questi eventi guerreschi in Inghilterra era avvenuto un mutamento di ministero, le cui cause e importanza impareremo a conoscere più esattamente in seguito. Al posto del Beaconsfield era subentrato Gladstone che, come sappiamo, nella politica estera era per il mantenimento a ogni costo della pace e contro un ulteriore allargamento dell'Impero britannico.
La sua prima cura fu di porre fine alle complicazioni afgane; richiamò le truppe inglesi dall'Afganistan nel 1881, e riconobbe anche lui Abdurrhaman come sovrano del paese. Ma gl'Inglesi non restituirono i passi di montagna importanti; essi rappresentavano un vero guadagno in questa sanguinosa e lunga guerra.
Nella regolazione delle questioni interne dell'Afganistan l'emiro rimase del tutto indipendente, e anche nelle sue trattative con Potenze straniere gli fu lasciata maggior libertà.
Certo egli doveva ammettere a Kabul un rappresentante inglese, che tuttavia doveva essere sempre maomettano.

Quest'ultima era una concessione oltremodo importante; un efficace controllo della politica afgana non avrebbe potuto esercitarsi se non da un Inglese. Così non si può dire che l'Afganistan allora sia proprio entrato fra gli Stati vassalli della Granbretagna. Gladstone dava maggior peso ad acquistare l'amicizia dell'emiro per l'Inghilterra che a legarlo giuridicamente. Egli gli assicurò un notevole appannaggio e lo appoggiò col denaro e con le armi nella conquista di Herat e nella cacciata di Ejub dal paese.

Ma i risultati degli ultimi anni avevano dimostrato molto chiaro che gli Afgani avevano molto da temere dall'Inghilterra, e dalla Russia poco da attendersi; questa concezione determinò l'ulteriore condotta di Abdurrhaman.
Anche i Russi sapevano benissimo che avrebbero potuto rafforzare il loro influsso nell'Afganistan e creare una base sufficiente per una futura minaccia all'India, soltanto, se si rifacessero della disfatta, sofferta da loro nella lotta con i Turcomanni.

Con questa idea lo Zar mise alla testa delle truppe, destinate a questo scopo, il Generale Skobeleff, che si preoccupava vivamente dell'Impero britannico nell'India. Dopo che questi ebbe preparato con la maggiore cura la campagna e con la costruzione di una strada militare ebbe assicurato i complementi di uomini e di materiale dal mar Caspio, assalì di nuovo i Tekke-Turcomanni nel gennaio 1881 e conquistò, dopo violenta lotta, Geok-Tepe.
Egli seguì qui il vecchio metodo russo: la città conquistata fu completamente bruciata e abbandonata al saccheggio delle truppe. Gli abitanti e tutti i fuggiaschi, che si poterono prendere, furono trucidati.
Allorché questo terrore ebbe prodotto il suo effetto, fu annunziata una amnistia per gli altri abitanti del paese. Questa vittoria della Russia significò un forte aumento del suo prestigio nell'Asia anteriore.
I Turcomanni passavano per la tribù più bellicosa di quei paesi e quasi per invincibili. Soprattutto aveva dovuto soffrire paurosamente in mezzo ai loro saccheggi la Persia; dove tuttavia si era grati ai Russi di aver liberato il paese da questa piaga, e si affrettarono ad annodare buoni rapporti coi loro confinanti.

Da quel momento solo il piccolo territorio dell'importante nodo stradale di Merv separò l'Impero russo dall'Afganistan. Si aspettava che i Russi sarebbero presto avanzati anche fino a quel punto, e dovette sembrare discutibile, se allora, di fronte alla rafforzata pressione del nord, l'Inghilterra avrebbe ancora potuto conservare il suo influsso nell'Afganistan.

 

Come in Oriente, così anche in Occidente la guerra russo-turca ebbe conseguenze di grande importanza. L'esasperazione dei Russi contro la Germania e l'Austria portò a seri conflitti, quando i commissari russi ed austriaci non si poterono accordare nella definitiva delimitazione dei confini di Novibazar.
Lo Zar chiedeva in uno scritto all'Imperatore Guglielmo quasi imperativamente l'appoggio della Germania almeno in questa questione; la lettera finiva perfino con una velata minaccia.
Una bufera della stampa russa contro la Germania, e l'ammassamento di truppe alla frontiera orientale parvero quasi preannunciare il pericolo di un prossimo attacco dalla parte orientale.

Bismarck ben conosceva le disposizioni pacifiche dello Zar; ma sapeva anche che il partito panslavista aveva spinto l'Imperatore, contro la sua volontà, alla guerra turca. Non gli poteva capitare lo stesso di fronte alla Germania? Indotto da tali pensieri, Bismarck si decise a prendere dei provvedimenti di precauzione.

Già fino dal 1866 Bismarck aveva considerato una più stretta unione con l'Austria-Ungheria; ormai gli parve venuto il momento di eseguire il suo disegno. Approfittò di una visita di Andrassy a Gastein, dove si tratteneva per delle cure, per proporgli un'alleanza, che garantisse sicurezza ad ambedue gli Stati contro un eventuale attacco russo.
Andrassy assentì con fervore a questa proposta, e ottenne agevolmente il consenso dell'Imperatore Francesco Giuseppe. Invece l'Imperatore Guglielmo mise avanti inattese difficoltà. Egli era molto affezionato a suo nipote, l'Imperatore Alessandro, e non gli attribuiva nessuna cattiva intenzione. Contro il consiglio del Bismarck, Andrassy di sua iniziativa approfittò della presenza dello Zar in Polonia per incontrarsi con lui in Alexandrowo, e qui si convinse dalle dichiarazioni favorevoli dello Zar che non c'era da temere nessun attacco.

Per questa sua convinzione desiderava che Bismarck rinunciasse del tutto al disegno di un'alleanza austriaca o le desse un valore così generico da poter chiedere alla Russia di aderirvi.
Allorché Bismarck ebbe rifiutato, l'Imperatore chiese che almeno gli si dovesse dare la possibilità alla Russia di partecipare all'alleanza, prima ancora che fosse sottoscritta, poiché scorgeva nella segreta conclusione di un tale trattato una slealtà verso lo Zar.
Ma poiché Andrassy dichiarò che in simile caso l'Austria si sarebbe ritirata da ogni trattativa, Bismarck dovette porre all'Imperatore la questione di gabinetto. Solo allora l'Imperatore cedette e sottoscrisse, molto a malincuore, il trattato.

In seguito ne fu partecipata l'esistenza all'Imperatore Alessandro; il quale accolse molto tranquillamente la notizia. Probabilmente non gli dispiaceva di potersi richiamare al trattato stesso di fronte ai desideri del suo partito della guerra.
L'alleanza austro-tedesca stabiliva che ciascuno Stato doveva soccorrere con tutte le forze l'altro, quando uno di essi fosse assalito dalla Russia. Nel caso di un attacco, per parte di una terza Potenza, l'alleato doveva conservare completa neutralità, ma essere obbligato di partecipare alla guerra, appena che la Russia venisse in aiuto dell'aggressore.

Così l'alleanza presentava un carattere puramente difensivo e si palesò un saldo baluardo della pace nei successivi decenni. Bismarck all'inizio aveva pensato di inquadrare il trattato nelle costituzioni dell'Impero tedesco e di quello austro-ungarico, e quindi di elevarlo ad istituto durevole. Ma una così simile idea era stata respinta da parte austriaca.

Per i Tedeschi dell'Austria gli effetti dell'alleanza non furono per nulla favorevoli. Noi sappiamo che la posizione del partito tedesco liberale nella Cisleitania era molto scossa ancora prima; ma l' atteggiamento nelle questioni della politica estera fu per essi fatale.
Francesco Giuseppe aveva mirato con tutta l'anima all'acquisto della Bosnia, poiché era un suo vivo desiderio, dopo le gravi perdite che lo Stato aveva sofferto nel proteggerla, di aggiungere un nuovo territorio.
I Tedeschi però si opponevano a questo suo desiderio, poiché essi temevano un rafforzamento dell'elemento slavo con l'entrata del nuovo paese nella sfera dell'Impero e suscitavano avversione le enormi spese non indifferenti dell'occupazione; essi cercarono con la loro condotta nella dieta imperiale d'impedire la presa di possesso.
Le somme indispensabili per l'occupazione furono approvate dagli Slavi e dai feudali contro i voti della maggior parte dei Tedeschi. Anche dopo l'occupazione della Bosnia i Tedeschi nel parlamento viennese si adoperarono, affinché la Bosnia fosse sgombrata, appena fosse possibile. Questo atteggiamento dei liberali indusse l'Imperatore a congedare il ministero Auersperg, a sciogliere il parlamento e fissare nuove elezioni.

Le elezioni, svoltesi sotto la pressione della Corona, spezzarono la maggioranza tedesca nella dieta imperiale. I Tedeschi e i federalisti stavano gli uni di fronte agli altri in numero all'incirca pari, cosicché un piccolo gruppetto di deputati senza partito era come l'ago della bilancia, decideva delle votazioni.
Il ministero Taaffe, chiamato al potere nel 1879, riuscì a unire ministero di conciliazione fra le diverse nazionalità. Vi parteciparono personaggi, appartenenti a tutte le maggiori nazioni.
Esso iniziò immediatamente la lotta contro la prevalenza dei Tedeschi; i quali agevolarono l'attuazione dei propositi del ministero, in quanto irritarono ancor più l'Imperatore con la loro opposizione a fissare per un decennio il bilancio militare; ma anche il loro spezzettamento in diversi discordi gruppi ne indeboliva la posizione.

Le prime concessioni furono fatti dal Governo ai Cechi con l'abolizione della lingua tedesca ufficiale per la Boemia, e con l'istituzione di una università ceca accanto a quella tedesca già creata a Praga.
I ministri tedeschi uscirono dal gabinetto, appena ebbero conosciuto a cosa miravano i rapporti del conte Taaffe. Con l'abbassamento del censo furono acquisiti numerosi elettori clericali e slavi, e fu favorita sempre più fortemente la composizioni della Dieta dell'Impero ai danni dei Tedeschi.

Anche la sorveglianza della Chiesa sull'insegnamento fu promossa, in ogni maniera, dal nuovo ministero, poiché esso considerava il clero come un alleato nella lotta contro l'influenza tedesca e liberale.

Nel momento che si iniziava questa politica, così negativa alla posizione del germanesimo locale, veniva conclusa l'alleanza con l'Impero tedesco. Vi era in essa la palese premessa che nessuno degli Stati alleati dovesse cercare di immischiarsi nelle faccende interne dell'altro.
Per questo motivo, era stato assolutamente impossibile all'Impero tedesco di concedere ai Tedeschi dell'Austria anche soltanto un appoggio morale. Questi nella loro lotta contro lo slavismo, alleato della Corona, erano ridotti alle sole loro forze.


Ci rimane ancora da indicare quale influsso la guerra esercitasse sulla Russia vittoriosa. Noi sappiamo che i panslavisti erano molto malcontenti dell'esito della guerra; essi aizzavano contro Germania e Austria e spingevano lo Zar a un avvicinamento più stretto verso la Francia, l'antico avversario della Germania.
Proprio subito dopo la guerra alcuni capi dirigenti panslavisti fecero dei tentativi in tal senso. Ma i Francesi non mostrarono nessuna tendenza ad acconsentire agli incitamenti russi, poiché erano persuasi che la Russia per il momento non sarebbe stata in grado di partecipare a una guerra contro Potenze europee.
L'incapacità della direzione militare, la mancanza di coscienza e la corruzione, venute alla luce nell'approvvigionamento dell'esercito, erano censurate nella maniera più sdegnosa. Un segno del malcontento dominante contro l'alta burocrazia fu che Vera Sassulio, che aveva ucciso il comandante della polizia Trepoff, fu dai giurati assolta, in mezzo al consenso generale.

I nichilisti si giovavano di questa disposizione degli animi e cercavano di atterrire il Governo con una serie di attentati e possibilmente di rovesciare il regime vigente. Tre volte negli anni successivi si tentò invano di uccidere lo Zar stesso.
Alessandro II di fronte a questo atteggiamento del suo popolo non sapeva più come comportarsi, e seguiva in tutto i consigli del generale Loris Melikoff, un prudente e astuto Armeno, che aveva saputo accattivarsi la sua fiducia. A lui Alessandro affidò, nel 1880, la dittatura con quasi illimitati poteri. Tutte le autorità civili e militari furono avvertite dl prestare incondizionata obbedienza ai suoi ordini.
Il sistema del Melikoff era quello di permettere una estrema severità contro i nichilisti, di guadagnare al tempo stesso con riforme gli elementi moderati, ma di romperla del tutto con la tendenza dei vecchi russi e con i panslavisti.

Mentre egli divideva il paese in una serie di distretti militari di sorveglianza, e braccava con molto zelo le azioni dei comitati nichilisti, dispose al tempo stesso il rilascio di tutti quei prigionieri contro i quali non esistevano ragioni veramente serie di sospetti, diminuì la vigilanza sulle università, e seppe infine decidere addirittura lo Zar a dichiarare che era pronto a concedere una specie di costituzione.


Un'assemblea, composta in parte di membri nominati dallo Zar, in parte elettivi doveva assistere il Governo come un Consiglio di Stato allargato con funzioni deliberative e gradatamente trasformarsi in un vero e proprio parlamento.

Che lo Zar considerasse questo disegno con alcuni scrupoli lo dimostra il suo tentennamento nel pubblicare il documento, quantunque l'avesse già sottoscritto. E proprio il giorno che Alessandro ne aveva disposto la diffusione nei giornali governativi, nel ritornare da una parata fu colpito dalla bomba di un nichilista e poco dopo morì. (
13 marzo 1881).

Con lui scomparve un sovrano, che sicuramente aveva sempre voluto il meglio per il suo popolo, ed era anche riuscito, mediante l'abrogazione della servitù della gleba, a dischiudere la via almeno a importanti progressi, sebbene non possedesse l'energia del carattere e della volontà, che sarebbe stata necessaria per una seria trasformazione delle condizioni della Russia.


Suo figlio, 37enne, che gli succedeva sul trono, l'Imperatore Alessandro III (1845-1894), era nel suo esteriore un autentico Romanov, dalle spalle larghe e grosso, un'immagine di forza e di salute, fornito di maggiore energia di volontà del padre, ma spiritualmente piuttosto limitato. Melikoff tentò di convincerlo a concedere la costituzione; ma urtò nell'insuperabile resistenza del precettore dell'Imperatore e procuratore del Santo Sinodo, Pobjedonoseff.

Quest'uomo, 54enne, che per più di due decenni fu il vero dirigente di tutta la politica interna dell'Impero zarista, ed ha in alto grado la grandissima responsabilità del danno che in seguito a questo sistema si abbatté sulla Russia, era un incorrotto fanatico del partito dei vecchi Russi. La letteratura europea occidentale e l'arte non gli erano ignote, ma era fermamente convinto che per la Russia le istituzioni dell'Occidente fossero assolutamente inadatte, che molto meglio corrispondesse alle naturali disposizioni e ai bisogni del popolo russo l'esistente autocrazia dello Zar.

Costantino Petrovic Pobjedonoseff (1827-1907), un uomo dall'apparenza molto modesta, temeva derivasse dalla diffusione della cultura europea la rovina della fede popolare e della Chiesa ortodossa, che lui considerava come il più saldo fondamento della vecchia Russia. Era convinto che i parlamenti in realtà rappresentassero solo gli interessi di pochi, e che le moltitudini si trovavano meglio con l'autocrazia.
Appoggiato caldamente dal partito dei vecchi Russi, seppe indurre il nuovo Zar a mantenere l'autocrazia.
La costituzione non fu più pubblicata e il suo promotore e sostenitore Melikoff fu messo alla porta.

Come primo compito fondamentale ormai apparve la lotta contro il nichilismo. In effetti, nei successivi anni riuscirono a distruggere il comitato nichilista; ma nessuno può dire quanti innocenti siano stati colpiti insieme a loro dal regime terroristico della polizia russa.
Da allora in poi il nuovo Governo mirò a impregnare l'Impero russo solo di puro spirito russo, come lo intendevano, il Pobjedonoseff e i suoi amici. Territori come la Polonia, come le Province baltiche, dominate da Tedeschi, come l'indipendente granducato di Finlandia, congiunto con l'Impero solo mediante l'unione personale, erano, dinanzi agli occhi di Pobjedonoseff e dei vecchi Russi, come delle brutte toppe nel vestito del popolo russo.

Da questo punto di vista si incominciò a russificare tutti questi paesi, ad imporre loro la lingua russa e le istituzioni russe e a distruggere la cultura europea occidentale, che vi era penetrata. La stampa fu del tutto imbavagliata, le università furono sorvegliate nella maniera più rigida; pubblicazioni e gazzette straniere potevano passare il confine solo col permesso della polizia e con la cancellatura di brani eventualmente sgraditi.
Così pure tutti quelli che non seguivano la Chiesa nazionale dovevano essere estirpati o costretti ad assoggettarsi. Ai luterani nelle province baltiche e alle comunità "stundiste" molto affini si crearono i maggiori ostacoli in tutto l'Impero.

Anche i cattolici romani in Polonia ebbero a soffrire. Ma soprattutto si avevano di mira gli Ebrei, che svolgevano una dannosa attività quali usurai nella campagna e nelle piccole città di molte regioni russe. Ad essi fu proibito del tutto il commercio di bevande e l'acquisto della terra, e fu permesso il soggiorno solo in province e città, espressamente indicate; gli Ebrei residenti in altre parti dell'Impero furono in parte trasportati violentemente e dopo essere stati spogliati dei loro beni in questi territori venne perfino resa difficile la loro ammissione nei ginnasi e nelle università.
Ma soprattutto in alcuni luoghi, dove essi vivevano in numero maggiore, con il tacito consenso delle autorità, la plebe aizzata da infiltrati, veniva scagliata contro di loro, venivano saccheggiavano le loro proprietà e con furore demolite le loro case; molti uomini accusati dai più pretestuosi e disparati reati venivano trucidati, o con processi farsa condannati a morte sulla forca.

Il risultato di tali persecuzioni era questo: che molte migliaia di ebrei emigravano dal paese; o tentavano attraverso l'Europa occidentale di raggiungere l'America o inondavano la confinante Romania.

Anche le condizioni economiche e finanziarie della Russia avevano terribilmente sofferto a causa della guerra. In modo speciale bisognava trovare del denaro per porre l'esercito in condizioni migliori e per costruire le ferrovie strategiche che in seguito alla politica d'espansione diventavano indispensabili.
Il Governo si sforzava di conseguire questo scopo, mediante il continuo aumento dei dazi. Dal 1880 in poi la tariffa doganale russa era sempre salita, finché nel 1891 toccò il colmo. Secondo l'opinione dei vecchi Russi questa politica doveva non solo riempire le casse dello Stato, ma al tempo stesso proteggere la giovane ma tecnicamente modesta avviata industria russa contro la superba e superiore concorrenza dell'Europa occidentale.
La cosa avrebbe avuto senso soltanto, se l'industria russa avesse posseduto un certo grado di autonomia e di capacità di sviluppo; invece dipendeva dal capitale straniero e dalle energie lavorative straniere; e anche con la protezione doganale non divenne più forte. Anche perchè gli occidentali non davano di certo ai Russi il meglio delle loro tecnologie, che i vecchi Russi ignoravano del tutto, per non essere mai stati in occidente.

La condizione dei contadini, in mezzo a queste circostanze, si fece del tutto sfavorevole. Siccome allo Stato gli occorreva del denaro, le imposte venivano riscosse immediatamente dopo i raccolti. I contadini per questa imposizione erano costretti a vendere subito i loro cereali per soddisfare lo Stato. Di conseguenza i mercanti pagavano prezzi bassissimi, perché sapevano che il contadino non poteva aspettare oltre. Inoltre le imposte erano così alte che il contadino spesso era costretto a vendere tutto il suo raccolto che così non conservava né abbastanza per sé e la famiglia per vivere nell'inverno, né per la necessaria e occorrente semina del successivo anno.
Per tale situazione la miseria dei contadini cresceva di anno in anno. Le carestie erano fenomeni ordinari in gran parte del paese; l'agricoltura peggiorava di continuo. Sempre più numerosi campi rimanevano incolti, cosicché anche il raccolto dei cereali, in complesso, scemava. Ma questa deplorevole condizione del ceto agricolo russo nuoceva anche alla stessa industria, poiché con una popolazione campagnola non in grado di comprare, le veniva a mancare lo sbocco interno.

Quindi l'industria allora incominciò, per smaltire i suoi prodotti, a esigere un ampliamento sempre maggiore dell'Impero asiatico. Così la Russia tanto politicamente, quanto economicamente era stata spinta dalle conseguenze della guerra su una strada molto pericolosa.
Il grosso problema era questo, se in generale sarebbe stato ancora possibile fermarsi su questa perversa via e con prudenti riforme prevenire la catastrofe, che la minacciava.
Non fu possibile.
Costantino Petrovic Pobjedonoseff morì nel 1907 ! E la Russia zarista era già da alcuni anni sull'orlo del disastro. Gli stessi zar avevano la vita appesa a un filo. Che alla fine si spezzò, e nel modo più tragico.

Ma ne riparleremo più avanti.

Dobbiamo ora portarci sulle coste dell'Africa

segue:

228. 37) - LA SITUAZIONE A TUNISI e in EGITTO > >

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