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IL NUOVO PREDOMINIO - LA NASCITA DEI RANCORI


223. 32) - IL PERIODO 1870-1880 IN EUROPA
* IN ITALIA

Come spesso accade, dopo periodi turbolenti, dopo papi intransigenti e di grande personalit� (e Pio IX - pur con tante valutazioni storiche discordi - fu indubbiamente uno di questi) nell'elezione del successore, gli elettori nel concistoro nominano un papa di transizione, spesso anziano e con temperamento mite, per dar modo di scegliere con calma - in seguito - l'uomo di carattere.
Gli elettori calcolarono male due volte. Il 20 febbraio 1878 elessero pontefice il cardinale Gioacchino Pecci, all'et� di 68 anni, che prese il nome Papa Leone XIII e il suo pontificato fu addirittura uno dei pi� lunghi dell'et� contemporanea (morir� nel 1903 a 93 anni). E in quanto a mitezza, se non fu il pi� rivoluzionario dei pontefici, � senza dubbio quello che ha inciso pi� profondamente nell'animo dei cattolici - e l'Italia era fondamentalmente tutta cattolica - di conseguenza la sua opera incise moltissimo sulla societ� italiana moderna di quel tempo.
13 anni dopo la sua elezione, il 15 maggio 1891, quando c'era ancora il dilemma dei cattolici (e di quasi tutti gli italiani): se "essere buoni fedeli o buoni cittadini del "nuovo" Stato", Lui 81 enne rispose con la memorabile "Rerum Novarum" La "magna charta" dell'ordine sociale.
(vedi la sua biografia, con la famosa enciclica
QUI > > > )

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Il Regno d'Italia era stato formato soltanto durante le grandi guerre dell'Europa centrale; nel 1866 aveva acquistato il Veneto, nel 1870 lo Stato Pontificio con Roma, la sua capitale naturale.
La costituzione dello Stato sardo dell'anno 1848, che conferì alla Camera dei deputati una posizione preminente nella vita statale e congiunse al censo e al saper leggere e scrivere il diritto elettorale, era stata estesa a tutta Italia, e a tutta prima dava insieme con la formazione rivoluzionaria del Regno, alla monarchia una posizione quasi subordinata; oltre a ciò preesisteva, segnatamente nel sud, una forte corrente repubblicana.

I vantaggi materiali, che la nazione ricavò dalla sua unificazione, consistettero soprattutto nella creazione di una amministrazione regolare e nella restaurazione di un grande territorio economico nazionale. Le linee doganali fra le varie regioni furono abolite; la rete ferroviaria fu, un po' alla volta, acquistata dallo Stato, sistematicamente perfezionata ed estesa anche nel Reame napoletano, che fin allora - pur essendo stato un pioniere con la Napoli-Portici) era quasi del tutto privo di questo moderno strumento del traffico.

Se a queste riforme non tenne dietro subito lo sperato rinnovamento, la cosa dipese in parte dall'insufficiente addestramento della popolazione nella moderna attività industriale, ma in parte anche dalla scarsità di carbone fossile e di metalli. Tutti e due questi importantissimi materiali per l'industria moderna dovevano essere importati dall'estero; ciò che naturalmente rincarava le spese di produzione delle merci e ovviamente pregiudicava la capacità di concorrenza sul mercato europeo e neanche parlarne in quello mondiale.

Oltre a ciò il giovane Regno era fin dal principio gravato da un forte debito, che in parte ereditato dagli antichi Stati, era in parte cresciuto per le guerre d'indipendenza. L'entrata dell'Italia nel gruppo delle grandi Potenze rese necessarie grandi spese per l'esercito e la marina, di cui la maggior parte degli Stati italiani (salvo quello Sabaudo) fino allora si erano poco curati.
In una situazione specialmente difficilissima si trovava l'Italia di fronte alla questione della Chiesa; l'intera popolazione era cattolica, ma il capo supremo della Chiesa cattolica, anche se Italiano e residente nella capitale italiana, era il più accanito nemico dello Stato nazionale.

Poiché il movimento unitario aveva distrutto il suo dominio temporale, il Papa lo colpì con i suoi anatemi e stigmatizzò il Governo come una banda di ladroni e di malfattori.
Già il Cavour aveva invano tentato la pace con la Curia. La parola d'ordine, data da lui, di «libera Chiesa in libero Stato» avrebbe dovuto emancipare il Papa e la Chiesa da tutti i diritti di vigilanza e da tutte le ingerenze, purché essi volessero riconoscere lo Stato come sovrano sul terreno temporale e lasciargli esclusivamente il regolamento delle questioni temporali.

Il Regno d'Italia aveva orientato la sua legislazione secondo queste concezioni, rinunziato al placet e a ogni influenza sulla educazione degli ecclesiastici e sul conferimento dei benefici, ma aveva soppresso anche i conventi, in quanto non si occupassero della cura delle anime o dei malati, incamerato i loro beni, assoggettato per principio le scuole alla vigilanza statale e dichiarato la conclusione del matrimonio un atto civile; in seguito anche gli ecclesiastici vennero sottoposti al servizio militare obbligatorio.

Tutto ciò era stato dal Papa dichiarato essere "non cristiano"; tuttavia fino al 1870 i rapporti fra la Curia e il Governo residente in Firenze erano stati sempre piuttosto tollerabili; solo con l'occupazione di Roma e col trasferimento della residenza reale nel Quirinale il conflitto toccò il colmo.

Il Governo italiano volle regolare le relazioni col Papa con la legge delle guarentigie del 2 maggio 1871; in essa venne dichiarata sacra e inviolabile la persona del Papa, ogni luogo, in cui dimorasse, extraterritoriale. Libertà dell'elezione pontificia, libertà delle comunicazioni epistolari e telegrafiche della Curia con il mondo esterno ed un'entrata annua di 3 %4 milioni di lire come risarcimento della perdita dei suoi proventi sovrani dovevano offrire al Papa tutte le guarentigie desiderabili.
Pio IX rifiutò tuttavia la legge delle guarentigie, rinunziò alle entrate promessegli e si dichiarò non libero, finché Roma sarebbe rimasta in possesso di una qualunque Potenza temporale. Proibì a tutti i cattolici credenti di partecipare alle elezioni, che "questo ladresco Stato avrebbe ordinato".

Mentre l'Italia, in pratica, eseguiva la legge delle guarentigie e in nessun modo toccava la libertà della persona del pontefice, Pio si rifiutava di abbandonare i quartieri del Vaticano e faceva davanti al mondo cattolico la parte di un prigioniero maltrattato.
Fu in tutte le parrocchie molta diffusa una toccante immagine con il Santo Padre pregante dietro le sbarre di una prigione con alla porta un lucchetto con le insegne sabaude.

Il clero rappresentava ovunque, al popolo il vegliardo rinchiuso nel Vaticano come un martire, che doveva soffrire la vita; volentieri le anime pie pagavano l'obolo di San Pietro, e una corrente di contributi giungevano da tutti i paesi alla volta di Roma.
Minor successo ebbe il clero con il tentativo di indurre gli altri Governi degli Stati cattolici a restaurare lo Stato pontificio, cioè alla guerra contro l'Italia.
Se l'ordine di astenersi dalle elezioni fosse stato eseguito rigidamente, questo conflitto avrebbe benissimo potuto portare la vita politica ad arrestarsi o a una dittatura del Governo.
Ma, siccome per la costituzione quasi il 98 % della popolazione era escluso dal diritto elettorale, e le influenze clericali per lo più si restringevano alle classi inferiori, il divieto pontificio ebbe poco successo.

Fra le persone colte la tendenza nazionale superava gli scrupoli ecclesiastici. Poiché i clericali non votavano, le prime nuove elezioni dopo l'occupazione di Roma, nell'autunno 1874, dettero una maggioranza del tutto sfavorevole alle pretese chiesastiche.

85 ex principi, marchesi, conti, duchi, subito trasformisti riciclatisi rinnegando anche la precedente ostentata formula di "unti del Signore" uscirono dal loro "santo" feudo dalla finestra e vi rientrarono dalla porta principale spalancata loro dai sabaudi.

Queste elezioni fecero risaltare anche, per la prima volta, più acutamente il contrasto politico fra il nord e il sud d'Italia. Nel Mezzogiorno dominavano in conseguenza del mal governo del già Regno napoletano, della scarsa educazione popolare e della vivacità meridionale, una popolazione con tendenze radicali e variopintamente repubblicane.

Le società segrete possedevano qui fin ab antico una grande influenza politica; la maffia e la camorra avevano i loro soci in ogni città e in ogni villaggio, e non indietreggiavano dinanzi a nessuna violenza contro quelli di opinioni diverse dalle proprie; da ciò derivava il prevalere di una consorteria personale di fronte a punti di vista obiettivi; il che così spesso rovina il parlamentarismo fra popoli politicamente immaturi.

Nel nord più calmo e operoso prevalevano tendenze politiche più moderate e indubbiamente anche più opportuniste. Nelle elezioni furono eletti nel nord d'Italia quasi esclusivamente dei moderati, nel sud dei radicali.
In Roma stessa si elesse il vecchio eroe della libertà Garibaldi, le cui convinzioni repubblicane tutti conoscevano.
I moderati avevano certo la maggioranza; ma come questa fosse misera lo dimostrò il primo serio esperimento nella discussione di una legge eccezionale per la Sicilia: dove il brigantaggio era in pieno fioritura; tribunali e autorità amministrative tremavano davanti alla mafia e stavano in parte sotto la sua influenza.
Il ministero Minghetti chiese quasi illimitati pieni poteri per l'estirpazione di questa illegalità; i deputati meridionali cercarono di frastornare la legge proposta, chiedendo prima una profonda inchiesta delle condizioni della Sicilia. Il Governo vinse nella votazione con solo una maggioranza di 17 voti.

L'opposizione cresceva ed ebbe il sopravvento, quando le riuscì di attrarre a sé i deputati toscani indignati contro il ministero per ragioni locali. In una votazione su una questione d'imposte (18 marzo 1876) il ministero Minghetti rimase in minoranza e dovette dimettersi.
Allora il capo della sinistra, Agostino Depretis, un vecchio compagno di Garibaldi, ebbe l'incarico di formare il gabinetto e fino al 1891 la sinistra rimase al potere. Egli prese nel ministero quasi esclusivamente napoletani e siciliani; le sue prime azioni furono l'allontanamento degli impiegati ed ufficiali d'opinioni politiche diverse da quelle del Governo e la nomina al loro posto di fidati partigiani.

Appena dispose dell'amministrazione, il Depretis sciolse la Camera e usò nelle nuove elezioni tutto il peso dell'apparato governativo a favore del suo partito. Il risultato fu splendido; vennero eletti quasi 400 deputati della sinistra, ai quali si contrapponevano poco più di 100 moderati.
Dopo che anche il senato mediante una serie di nuove nomine fu trasformato in maniera favorevole al partito dominante, Depretis poté con sicurezza contare su una più lunga durata della sua egemonia.
Ma addirittura la grandezza del partito ministeriale nascondeva in sé il pericolo di nuove divisioni; presto fu rivolto al presidente del ministero il rimprovero che ormai egli, mentre aveva il potere di farlo, non attuava il suo programma, annunziato prima con tanta pompa .

In verità il ministero aggravò ancora di più la lotta contro la Chiesa; attuò l'obbligo scolastico per tutti; abrogò l'insegnamento ufficiale religioso nelle scuole elementari, e dichiarò anche prescritti i 3 milioni assegnati al Papa nella legge delle guarentigie; all'incontro non poté eseguire la modifica, spesso promessa, del sistema elettorale, e la diminuzione delle imposte, attesa ancor più ansiosamente dall'intera popolazione.

Alla testa dell'opposizione, che si formò nelle file del suo partito, stava il Cairoli. A lui riuscì nella primavera del 1878 di abbattere il Depretis e di subentrargli; ma anche lui e il suo ministro delle finanze Zanardelli vennero meno al compito di abbassare le imposte, senza attenuare le necessarie risorse dello Stato.
Più volte si alternarono il Depretis e il Cairoli nella direzione del gabinetto, finché l'ultimo si decise di includere il rivale come ministro dell'interno nel proprio gabinetto.

I radicali convinti e i rappresentanti degli interessi meridionali si schierarono attorno al Crispi, al Nicotera e allo Zanardelli, ma il Cairoli e il Depretis conservarono per il momento il loro posto, finché quegli non fu di nuovo abbattuto dalle conseguenze dell'occupazione francese di Tunisi.
La riforma elettorale da loro proposta, giunse in porto solo nel 1882. Essa abbassò della metà il censo, ma mantenne il minimo necessario d'istruzione; e così il numero degli elettori passò da 600.000 a circa 2 milioni e mezzo.

La prevalenza del Mezzogiorno nella vita pubblica italiana fece per lungo tempo del parlamento e dell'amministrazione un teatro di rivalità personali.
La fusione spirituale tra il Mezzogiorno e il Settentrione non era ancora avvenuta, troppa esistevano tra le due parti la differenza di costumi e di aspirazioni. Nel mezzogiorno l'influenza dei passati governi specie dei peggiori, era tuttora viva e si rivelava soprattutto nell'analfabetismo, che era appunto causa di incomprensione fra le due parti. E questa mancanza di comprensione diede in quegli anni l'impronta di sé la politica interna dell'Italia.

Unico punto di congiunzione era la monarchia. Vittorio Emanuele II, godeva in tutta Italia di una grande popolarità, dovuta non soltanto al fatto che il suo nome era strettamente legato all'unificazione italiana, ma anche alla sua bonarietà. Quando egli morì, il 9 gennaio 1878, suo figlio Umberto I senza alcun perturbamento nel Paese salì al trono.
Il Papa permise che al Re moribondo fosse amministrato l'olio santo, ma proibì la partecipazione degli ecclesiastici e il suono delle campane, durante i grandiosi funerali. Poche settimane dopo le campane a morto suonarono per lo stesso papa: Pio IX il 7 febbraio 1878 lo raggiunse nel regno dei morti.

Il suo successore, cardinal Pecci, prese il nome di Leone XIII; anch'egli si rifiutò di uscire dal Vaticano e conservò la finzione della prigionia, come pure la posizione ostile al Regno d'Italia, sebbene nella pratica si formasse un modus vivendi.

Leone XIII era il papa forse pi� incline a ricercare una soluzione tra i due poteri contrapposti - Chiesa e Stato - destinati per altro a dover "convivere". Nessuno poteva pensare di poter cancellare nella coscienza collettiva del popolo italiano, una istituzione così radicata com'era il pluri secolare cattolicesimo, soprattutto tenendo presente il grado di ignoranza e di isolamento in cui erano vissuti le oltre undicimila città, paesi e frazioni a economia rurale, che avevano come autorità morale e unico punto di riferimento, il curato del villaggio.
Gli anticlericali, dimenticarono spesso
che il problema più grosso da risolvere in una società in fermento - come non era mai stata in passato - era quello del "convivere", e non il "dividere".

I tempi erano dunque maturi anche in Italia per un organico chiarificatore intervento della Chiesa su tutto il problema sociale, e l'intervento ci fu.
Occorreva una personalit� nuova, capace di immedesimarsi nella mentalit� contemporanea e di capirne le necessit� ed esigenze pi� vitali, di prendere un'iniziativa vasta e ardita. Leone era questa personalit� (alla bella et� di 80 anni!) e raccolse la grande ansia non solo dei cattolici in lunga attesa da trent'anni, ma l'angoscia dei figli pi� umili, cattolici o no; raccolse le ardenti posizioni innovatrici di tanti sacerdoti e vescovi, ed intervenne, con una chiarezza inusitata per quei tempi (con lui ripetiamo ottantenne).

Prendendo coscienza della condizione di crisi e di disagio morale, oltre che materiale ed economico, in cui le masse di lavoratori erano venute a trovarsi a seguito del vertiginoso sviluppo industriale, poneva dei punti ben fermi: 

da una parte richiamava gli imprenditori e i capitalisti alle loro responsabilità, rimproverando loro egoismo e il tenace attaccamento al mito denaro (*), dall'altra esortava le classi operaie a non lasciarsi suggestionare da facili ideologie rivoluzionarie e a non irrigidirsi in una sterile lotta di classe. Faceva appello ad uno spirito di collaborazione tra le varie classi che dovevano insieme puntare a raggiungere uno stato di benessere, che fosse il benessere di tutti e non di pochi a svantaggio di molti: l'obiettivo indicato era quello di realizzare la solidarietà di capitale e lavoro, proprio perchè Leone XIII riteneva assurdo l'antagonismo tra le due forze, che soltanto unite e concordi possono progredire.
(*) A costoro, ai capitalisti, ancora nell'89, parlando a diecimila operai francesi giunti a Roma in pellegrinaggio disse a questi ultimi, ma è implicito che i destinatari del messaggio erano i primi "A chi tiene il potere spetta soprattutto persuadersi di questa verità: che per rimuovere il pericolo da quella minaccia che potrebbe venire dal basso, nè le repressioni, nè le armi dei soldati saranno sufficienti" .

La Rerum  novarum, fu una sfida alle armi con la penna.
Tutta l'Italia era ormai animata da numerosi congressi, fondazioni di partiti, movimenti; di anarchici, del Partito dei lavoratori, dei clericomoderati della corrente cattolica transigente, della lega socialista milanese di Turati, di Ferri, di Labriola, di repubblicani e radicali.
Nel frattempo le questioni economiche e sociali nel paese stavano esplodendo non solo dai banchi del Parlamento (questo da tempo non più a contatto con la realtà) ma implodendo fino all'ultimo villaggio della penisola. Ma soprattutto nelle grandi città.
Già nel febbraio del '91 erano iniziate dimostrazioni di protesta, legate alla forte disoccupazione, ai bassi salari, agli aumenti del costo della vita e soprattutto si contestarono gli alti costi della imperialistica scellerata guerra coloniale. I primi incidenti iniziano a Bologna, proseguono a Roma, per poi estendersi nei successivi due mesi in altre città; poi a maggio ancora a Roma con scontri fra operai e forza pubblica, con centinaia di arresti. L'ordine del governo é "repressione" e ancora "repressione". Crispi capo del governo, non perdona, perseguita, fa le liste di prescrizione, toglie il diritto di voto agli avversari, ecc. ecc.

In questo clima uscì il 15 maggio 1891 la Rerum  novarum di Papa Leone XIII. !!!

Di Leone XIII parliamo ampiamente nei "Riassunti Storia d'Italia", e in "Biografie dei Papi", con la integrale "Rerum novarum", su questo stesso sito di Cronologia. QUI > > > )

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Proseguiamo nella panoramica dei vari Stati.

segue:

224. 33) - IL PERIODO 1870-1880 IN EUROPA
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