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META' '800: NUOVE IDEOLOGIE - NUOVE CONCEZIONI


219. 28)- LA NUOVA MUSICA


I due incontrastati dominatori: Riccardo Wagner e Giuseppe Verdi

La Storia musicale dell'epoca ci mette davanti una poderosa figura che interessa lo storico della civiltà, Riccardo Wagner. Il mondo musicale era fino alla sua comparsa dominato dagli autori italiani, soprattutto da Giuseppe Verdi morto poi nel 1900 a ottantasette anni.
Grande influenza vi avevano il Meyerbeer e il Flotow, dilettevole compositore quest'ultimo di facili pezzi sentimentali.
Un posto eminente aveva occupato Ambrogio Thomas, che nel 1866 finì l'opera Mignon; e prima di lui Carlo Gounod col Faust, rappresentato nel 1859.

Riccardo Wagner portò in questo mondo musicale una ventata che fu allora giudicata rivoluzionaria. Suscitò entusiasmi ma anche critiche vivacissime.-Certo però l'enorme sua forza artistica aveva gli elementi per imporsi: la coerenza di un indisconoscibile stile musicale e una sicura consapevolezza della propria personalità.

Nessuna derivazione nella musica di Wagner e nessun contatto con altre di maestri del tempo, neppure con quella di Ettore Berlioz che pure già aveva affermato una personalità singolare di musicista. Come il Wagner, egli infatti scriveva i propri libretti facendosi poeta di se stesso, però nelle opere di uno e dell'altro, musica e poesia appaiono strettamente e naturalmente così fusi che sorse e si generò la necessità per il musicista di porsi in stretti rapporti spirituali con la poesia onde si manifestò l'idea della musica assoluta, e la musica si congiungeva con la lirica e con la drammatica in una unità nuova, più vasta, eppure più determinata.

Il musicista penetrava con tutta la sua personalità nella sua parte. Sotto un involucro musicale si sviluppava sempre più chiara una coscienza poetica e filosofica. I mezzi organizzativi della nuova musica erano legati con l'evoluzione. Si trattava di dare un'espressione musicale a moti dell'anima determinati e psicologicamente conosciuti.

Nel 1844 il Berlioz scrisse il suo trattato sulla strumentazione. Mediante il nuovo compito era definita l'impossibilità di una formazione simbolica musicale indipendente e senza relazioni tra la musica e le parole. La composizione ebbe sempre più compiti rappresentativi. Ma con tutta la coscienza psicologica rimane l'elemento più essenziale della musica qualcosa di ingenuo, di elementare e d'immediato - qualcosa di «dionisiaco », come ha detto nel 1872 Nietzsche nel suo scritto intorno «La nascita della tragedia dallo spirito della musica ».

Disdegnando attrattive puramente sonore, la nuova musica pretendeva da se stessa una forza di tono lirica individuante, un patrimonio simbolico individuante. Così sorse il nuovo principio compositorio del motivo dominante.
Un caratteristico simbolo musicale, che rendeva evidente la natura fondamentale di un personaggio, di un avvenimento, si congiungeva, continuamente modificato, mediante la variazione di una « melodia infinita », come disse il Wagner - con altri simboli, formando l'intero edificio musicale.
Il fondamento ne era il pensiero poetico principale - compassione, redenzione, perdizione, o altro che fosse.

Il Berlioz inaugurò la pratica della nuova musica; il Wagner ne trovò la teoria e ne scoprì la posizione nella storia della civiltà.
Verdi invece dominava tuttora il campo della musica seguendo la tradizione. Ma egli era soprattutto un autore del secolo XIX e, del suo suolo possedeva tutti i pregi e tutti i difetti, sebbene questi ultimi fossero soffocati dalla grandezza dei primi. Avveniva così che lo stile suo, che era quello del suo secolo, fosse considerato come lo stile italiano, il che veramente o almeno completamente non era.
Verdi non scriveva lui i suoi libretti; gli argomenti li prendeva a prestito, dove li trovava; erano essi che gli offrivano occasione di musicarli; quando li aveva trovati cercava la collaborazione dei poeti, che furono Solera, Cammarano, Boito, Ghislanzoni, Romani e altri; e i poeti sebbene egli cercasse di piegarli al suo sentimento spesso gli si imponevano con la situazione pratica.

Ma a poco a poco la sua personalità artistica s'impose. Prima egli si preoccupò delle grandi linee del dramma; ma a poco a poco scese nei particolari, giungendo a indicare ai suoi librettisti il gesto che voleva e a suggerire la parola che preferiva e finendo per curare la scena e l'effetto teatrale.
Durante una sua permanenza all'estero, egli sentì più fortemente il carattere della musica italiana; e se all'estero molto dovette concedere alla necessità di vincere le speciali esigenze del pubblico, rientrando in Italia si sentì completamente sicuro di se stesso, più vibrante di sentimento e di spirito italiani e tutto invaso dal proposito di risollevare la musica italiana alla sua gloriosa altezza.

Quanto influì la musica di Wagner in questa nuova determinazione di Giuseppe Verdi non è possibile precisare. Certamente essa non vi fu estranea.
Il grande maestro tedesco trionfava in tutto il mondo. In Italia aveva incontrato in principio grandi opposizioni e più grandi diffidenze; il campo dei musicisti e del pubblico in genere si era diviso in due parti: di qua i wagneriani, di là i verdiani.
Ma il genio aveva finito per trionfare e le opere del grande maestro tedesco correvano applaudite da un teatro all'altro per tutta la penisola. Verdi sentì indubbiamente il valore artistico e filosofico della musica del Wagner, ma incoraggiato soprattutto dai saggi consigli di Arrigo Boito, anziché motivo di sgomento ne trasse ragione per rinnovarsi. La trasformazione era già cominciata in lui, sebbene lentamente, quasi inavvertita, fin da quando scendendo dalle linee generali del dramma aveva cominciato a concedere maggiore attenzione ai particolari scenici, alla frase, alla parola, affinando la propria sensibilità verso il soggetto.

E con l'Aida comincia il nuovo Verdi. Nulla egli concede al sinfonismo, al tematismo, e cioè al wagnerismo, ma i rapporti fra l'orchestra e il palcoscenico si fanno ancora più stretti. Egli circonda il poema di Aida con un gioco di timbri che mai aveva usato prima. Il descrittivo strumentale acquista una efficacia nuova e singolare. «L'oboe - dice il Magni Duffiocq - da alla scena del Nilo un carattere di orientalismo finissimo e l'arpa delle sacerdotesse ci trasporta in un mondo di sogno. Ma tutta l'orchestra ha balzi furibondi durante la imprecazione di Amneris e freme di vita propria in tutta la opera come un coro tragico in un dramma dell'antichità; prende un volto, lo atteggia diversamente col mutare dei sentimenti".

Eppure Verdi non é completamente trasformato. È, sì, cominciata la trasformazione, ma altre mete deve raggiungere il suo genio. Dopo una pausa, durante la quale scrive la Messa di Requiem e un quartetto che vanno a completare le opere minime, ecco l' Otello in cui c' è ancora presente il Verdi della Traviata e del Trovatore ma già predomina il nuovo, che è il sublime artista, tutto personalità e anima.

L'apice della gloria la raggiunge peraltro nel Falstaff. In questa opera egli è del tutto nuovo, onde giustamente il Magni Dufflocq si domanda come egli abbia potuto rinunciare alla vena di melodista lirico e sia riuscito a rinnovarsi da capo a fondo. E qui sta il miracolo del genio. Miracolo vero se si pensa all'età che aveva già raggiunto il Verdi. Con il Faustaff egli chiuse la sua gloriosa carriera, lasciando ai posteri un capolavoro che non ha paragone nel mondo musicale.
Così Giuseppe Verdi restò il più grande musicista del suo secolo.

Accanto a lui Riccardo Wagner conserva tutti i suoi titoli di gloria. A lui resta il merito di aver trovato la teoria della nuova musica, di quella musica peraltro che già era entrata nella pratica con l'arte del Berlioz. Spingendo a conseguenze che se non possono trovare e non trovano universale consenso la rivoluzione musicale, egli mise in rapporto stretto l'arte con la politica cercando di giustificare i vari aspetti dei movimenti politico-sociali del suo tempo mediante le leggi della bellezza dell'arte spaziale.
Non v'ha dubbio, le idee politiche in relazione all'arte e quelle artistiche in relazione alla politica del Wagner hanno un carattere di singolarità che fanno di lui un compositore filosofo.

Egli pensava: noi dobbiamo giungere ad un nuovo concetto del popolo, ad una nuova realtà del popolo; di un popolo che escluda egualmente il «lusso», nemico mortale dell'arte, e la rinunzia che non permette ad una stragrande parte della nazione di arrivare neppure ad un sentore di ciò che è artistico. Come può essere creato il nuovo «popolo?» Per mezzo della « necessità ». « Il popolo è il complesso di tutti coloro che sentono un comune bisogno ».
Bisogno - cioè bisogno materiale e bisogno spirituale, che deriva dalla materiale mancanza di libertà, é l'antitesi addirittura del « lusso» materiale e spirituale, che fa gli uomini antiartistici. Poichè ogni vera arte é austera, é suprema elevazione nata dal tormento più profondo. «Non voi intelligenti siete inventori, ma il popolo, perché il bisogno lo trae a inventare: le grandi invenzioni sono le azioni del popolo, mentre i ritrovati dell'intelligenza sono soltanto gli sfruttamenti, le derivazioni, anzi le dispersioni, le mutilazioni delle grandi invenzioni del popolo. Non voi avete trovato la lingua, ma il popolo; non voi siete i creatori dello Stato, ma il popolo; non voi fornite materia da pensare al popolo, ma esso a voi ».

Questi sono pensieri, che prima del Wagner non furono espressi, se non dallo Herder.
La macchina, che creò il proletariato, redimerà il proletario. La macchina porterà la definitiva, grandiosa soluzione nella storia della civiltà della antichissima «questione della schiavitù». Questa concezione è sbalorditiva: é ingenua, come tutto il sistema filosofico culturale del Wagner. La sua democrazia non é nulla di politico nel senso delle lotte politiche odierne: é una geniale divinazione, un ingenuo e geniale comunismo sentimentale.

Già nei primi suoi scritti il Wagner fondò tutta l'opera sua e tutta la sua dottrina su un principio morale, sul principio della compassione e dell'amore, che egli rilevò sempre nell'opera d'arte e nella teoria, soprattutto nel suo « Parsifal ».
L'intera produzione artistica del Wagner - eccettuato il « Parsifal » - è anteriore al 1870; poiché anche i Nibelunghi, che il Wagner finì a Bayreuth, erano stati iniziati fin dal 1848.

Francesco Liszt, il padre della tecnica moderna del pianoforte, amico disinteressato del Wagner, grandeggiò al lume dello spirito della filosofia wagneriana. Egli ebbe non poco merito, se Wagner ancor vivente trovò aperta la via tra il pubblico. I più penetranti compositori di canzoni di quell'età, Roberto Franz e Pietro Cornelius, si compiacquero della sua nobile assistenza. Ogni progresso della musica trovò in lui un divulgatore; poiché il Listz non fondò nel 1859 l'unione generale musicale tedesca per nessun altro scopo se non per emancipare tutta la nuova vita musicale.
Pur nondimeno dal bosco sacro, dove il colpo d'ala del genio frusciava, si passò alla umana realtà del mondo operettistico dell'Offenbach e dello Strauss.

La musica però anche in Italia, come in tutti i paesi, non restava limitata ai due colossi che riempirono del loro nome l'Ottocento, Wagner e Verdi. Tutta una schiera di minori compositori, non soltanto si affermava nella storia della musica con opere nel loro tempo applauditissime e tuttora non dimenticate, ma operavano con la rinascita della strumentazione a dare nuova vita all'orchestra e maggiore rilievo al suo direttore. Fra questi va ricordato Carlo Pedrotti (nato a Verona nel 1817), che può esserne considerato l'iniziatore. Egli, come compositore é ricordato soprattutto per le opere "Tutti in maschera", che fu applauditissima anche a Parigi, e per "Marion Delorme".
Angelo Mariani (nato a Ravenna nel 1822) operando nello stesso senso acquistò qualità eccezionali nello intuire trasmettere e rendere le intenzioni degli autori, e fu il primo a presentare in Italia, cominciando con il Lohengrin, le opere di Wagner.
Luigi Mancinelli, autore di "Ero e Leandro", fu invece il primo a presentare e far gustare al pubblico italiano il Debussy. Ma egli é particolarmente ricordato per avere scorto tra i primi l'avvenire del poema sinfonico figurato che realizzò l'applicazione della sinfonia alla proiezione cinematografica.

Altro indimenticabile direttore d'orchestra fu Franco Faccio. Con lui anche alla Scala di Milano comincia un nuovo periodo nella storia della interpretazione. Il pubblico non ha più dubbi sulla importanza essenziale del direttore d'orchestra. Il Faccio, che aveva tentato la composizione con i "Profughi fiamminghi" su libretto di Emilio Praga e con un "Amleto" su libretto di A. Boito, si dedicò tutto alla interpretazione e fu il primo a presentare in Italia i "Maestri Cantori" di Wagner.
Giovanni Sgambati e Giuseppe Martucci elevarono in Italia i concerti sinfonici ad altezza superba e raggiunsero nella composizione così larga fama che il loro nome corse e divenne noto in tutta Europa. Riccardo Wagner volle che le composizioni dello Sgambati fossero stampate in Germania.

«Dopo Mancinelli, Faccio, Martucci e Sgambati - dice E. Magni Duflocq - tocca ad altri riprendere i loro sforzi e condurli in su, fino a rendere le falangi orchestrali italiane così perfette da far sorgere nelle città dell'estero il desiderio di sentirle, fino alle tournée orchestrali di America dirette da un giovane Arturo Toscanini, in cui si eseguiva musica classica, sì, ma anche « musica moderna ».

Intanto Arrigo Boito col Mefistofele, che resta tuttora in repertorio, dà un vibrato impulso allo stile operistico italiano, senza bisogno di seguire le orme di Rossini o di Verdi. L'opera italiana acquista caratteristiche proprie nuove. Ecco Amilcare Ponchielli che raggiunge l'apice nella "Gioconda". Filippo Marchetti ebbe un successo clamoroso che durò parecchi decenni col "Rúy-Blas"; Carlo Gomez, brasiliano, ma italiano per educazione e studi col "Guarany" raggiunge una popolarità non mai conosciuta. Alfredo Catalani sorprende per uno stile che sebbene qua e là abbia spunti wagneriani, non è affatto wagneriano. Egli a 39 anni ha raggiunto fama mondiale, specialmente con la "Loreley" e con la "Wally", data a Milano nel 1891.

Antonio Smareglia, fecondo ma non fortunato operista, acquistò rinomanza con l'opera sinfonica, portando ad essa un contributo che segna un periodo importante nella storia delle relazioni fra orchestra e scena.
Si giunge così attraverso alle scuole nazionali, cioè a quelle che riflettono in modo esclusivo l'evoluzione musicale in un dato paese, alla scuola verista, che portata dalla Francia in Italia dall'editore Sonzogno con la "Carmen", la "Manon", la "Navarrese", "Frine" e "Sansone e Dalila", trovò nuovo alimento con la "Cavalleria Rusticana", la "Boheme", i "Pagliacci" ecc., e continuò a vivere in Italia, sebbene fosse già sorpassata nel paese di origine, e anche in Italia dove Giuseppe Verdi col "Falstaff" due anni prima della "Bohéme" aveva idealizzato già le scene realistiche.

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Terminiamo qui questa breve panoramica
e torniamo ai fatti politici di un periodo felice per una parte dell'Europa, ma piena di abbattimento da un altra parte, per l'amaro sentimento della sofferta sconfitta, che inizierà a covare tanto rancore e alla fine - nonostante tanti patti - dopo 44 anni in una nuova sciagurata Grande Guerra.

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