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META' '800: NUOVE IDEOLOGIE - NUOVE CONCEZIONI


217. 26) - LA LETTERATURA A META' '800

Parigi é sino dal tempo di Francesco I il centro della civiltà occidentale. Anche nel periodo del secondo Impero da Parigi partirono impulsi artistici, che, oltre tutte le barriere politiche, contribuivano in alto grado a determinare la fisionomia spirituale dell'età. Forse il maggior fenomeno letterario del periodo dell'Impero é Gustavo Flaubert (1821-1880), quantunque non abbia scritto molto. Insieme con Madame Bovary sono divenute note ad un pubblico più vasto soltanto Salambo e la Education sentimentale.

Per la pretesa immoralit� di Madame Bovary Flaubert fu processato e poi assolto nel 1857. Questa opera enuncia gi� la teoria dell'impersonalit� nell'opera d'arte, ma conserva un fervido impulso sentimentale che fa collocare Flaubert fra la scuola romantica e quella naturalista.
In Education sentimentale, Flaubert, ha il fine di rappresentare il mondo e partecipa (pur rimanendo sempre distaccato) il suo eroe all'aspirazione della felicit� data dall'impossibilit� di raggiungerla.

Quando nel 1848 assistette a Parigi alla rivoluzione che pose fine al regno di Luigi Filippo, dopo la salita al trono di Napoleone terzo, Flaubert ebbe già l'impressione di un totale fallimento della borghesia e del trionfo della societ� di massa.

Il Flaubert ancora trentenne e già malaticcio (di epilessia) stava nel mezzo tra due mondi artistici; ammirava Victor Hugo e preparava la microscopia naturalistica dello Zola. L'Hugo (gli era più anziano di vent'anni) gli trasmise un acuto sentimento della forma e il lusso della sua fantasia costruttrice: ma il Flaubert era un uomo del tutto diverso: in contrasto con l'Hugo lui disdegnava ogni enfasi soggettiva nella poesia. Il suo fine artistico era addirittura la sommersione dell'artista creatore nell'opera d'arte, la completa oggettività artistica, che non lascia la sua più lieve traccia del lavoro artistico nell'opera d'arte.
Negli scritti del Flaubert non si incontra una sola riflessione, una sola intromissione dell'artista nel contesto dell'opera d'arte. Il romanzo é impersonale e oggettivo; mai un'espressione appassionatamente esagerata, mai il più lieve umorismo rivela la partecipazione personale del poeta.

Per ciò l'opera del Flaubert ha qualcosa di involontariamente misterioso, qualcosa di solenne, qualcosa che quasi sbigottisce, qualcosa di sinistro come un mondo, che ha perduto la fede ardente nel suo creatore. Lo stesso poeta si vieta ogni piacevole simpatia; e per ciò anche noi non possiamo giungere fino a lui - come possiamo fare con Goffredo Keller, i cui fidi occhi ci guardano attraverso l'opera d'arte.
Dietro l'ideale artistico del Flaubert stava una concezione del mondo, che, come quella dello Schopenhauer, s'innalzava dal più profondo pessimismo a una uniforme considerazione «disinteressata», che, come la filosofia del Comte, era grande e coraggiosa abbastanza da sopportare la vita senza metafisica.

Nel Flaubert prorompeva il principio artistico dell'età scientifico-naturalistica. Il Musset, il Lamartine, lo stesso Victor Hugo fiorirono nella prima metà del secolo.

L'Hugo (1802-1885), d'altra parte, non tralasciò d'accogliere gl'impulsi artistici della nuova età; egli fu anche nel senso artistico molto girovago. Il periodo, che va dal 1850 al 1870, vide i migliori lavori di Victor Hugo.
Il quasi volontario esilio gli offrì la materia a quelle novantotto briose satire liriche, i Chatiments, del 1853. Nel 1856 comparve il multiforme diario lirico, Contemplations; nel 1859 l'epopea lirica Légende des siècles, una confessione filosofico-sociale, che in scene, tratte dalla storia mondiale, predica l'odio contro la monarchia e il sacerdozio, l'amore per il popolo. Nel 1862 comparvero i volumi del romanzo sociale « Les Misérables ».

Vittor Hugo fu uno splendido seguace del nuovo principio artistico; se il Flaubert ammirava nell'Hugo il sentimento romantico della forma e la fantasia romantica, lo Hugo come realista fu il discepolo geniale della nuova epoca, non il suo maestro. Anche nei Misérables lo Hugo é rimasto romantico, lirico, simbolista, filosofo sociale, riflesso.
Di fronte all'ammirevole comprensione di sé stesso del Flaubert, i Misérables appaiono un romanzo del tutto personale e nient'affatto sempre fedele alla tendenza. La filosofia sociale di Victor Hugo é troppo patetica, troppo lirica, troppo speculativa per essere oggettiva.
Il contrasto fra il satollo ed egoistico borghese e l'oppresso, ma virtuoso proletario é il risultato di un'enfasi agitatoria e soggettiva, non la realtà.

Non é agevole determinare la posizione di Giorgio Sand nella storia artistica; perché essa rifletteva i movimenti artistici dell'età sua, senz'essere originale sotto nessun rapporto. Ella, a liberarsi con atto spirituale dalla miseria d'un matrimonio infelice, sostenne, in una serie di sentimentali romanzi, l'emancipazione dell'amore. Non meno romantica della sua filosofia morale fu la sua passione socialista.
Senza comprensione dei reali motivi della vita sociale si compiacque solo di un ingenuo socialismo romantico, la cui origine non era se non sentimentale filantropia.

Si trattava di più risoluta vocazione artistica nel caso di Enrico Murger, dei fratelli Goncourt e di Alfonso Daudet. La «Bohème » é uno dei più interessanti documenti della storia della cultura del XIX secolo. Certo, perfino la disinvoltura dell'umorismo parigino non é più così pura come prima; il Maier-Graefe ha ragione, quando dice che la città di Parigi ha troppi innamorati. Poiché Parigi é oggi un'arte, in cui ci si può dilettare così bene come nella pittura o nella poesia.
La Bohéme é diventata consapevole. Ma che é la Bohéme? Una cosa seria con aspetto piacevole. « Gli zingari conoscono tutto e vanno dappertutto, secondo che hanno gli stivali verniciati o rotti. Oggi s'incontrano appoggiati graziosamente a un caminetto in un salotto della società eletta, e domani si trovano seduti alla tavola sotto un pergolato d'una bettola, dove si balla. Essi non possono fare dieci passi sul boulevard senza incontrare un amico, e soprattutto tredici passi in qualsiasi luogo senza imbattersi in un creditore. Il vocabolario della Bohéme é l'inferno della retorica e il paradiso dei neologismi. È una vita di pazienza e di coraggio, in cui si può lottare con buon successo soltanto, se si é armati della corazza dell'indifferenza contro i pazzi e gl'invidiosi, in cui, se non si vuole incespicare, non si deve perdere neppure per un istante la fiducia di sé stesso; una vita attraente, eppure terribile, che ha i suoi trionfatori e i suoi martiri, e a cui si può dare solo chi é prima risoluto ad assoggettarsi all'inesorabile legge del vae victis ».

La «Bohème» non ha alcun mito; é un libro sciolto di abbozzi non una composizione: non ha, malgrado la sua originalità artistica, nessuna pretesa artistica; é una professione disinvolta. Diversamente i Goncourt, i quali stanno sul terreno di un programma estetico, che sembrò tendere perfino più in là del Flaubert.
Essi si considerarono come gli scopritori del naturalismo letterario. Nello sforzo di dare ai loro romanzi la più grande immediatezza possibile della visione, raccoglievano le scene della vita quotidiana con la pazienza e lo zelo di un fotografo di istantanee. I loro romanzi sono cronache giornalistiche serie serie, sono raccolte di notizie; ma queste raccolte sono composte così abilmente che suscitano l'apparenza più insospetata dell'organicità. La tecnica letteraria permetteva naturalmente di lavorare in comune.

I Goncourt avevano quella predilezione per la psicopatia dei malati senza speranza, che appartiene soprattutto all'età loro. Si pensi a Emma Bovary, a Margherita Gauthier, al Basarow. La grandezza della « Renée Mauperin » é la descrizione di un graduale deperimento; la risolutezza della linea principale non era turbata da una singolare esuberanza di particolari episodici.
Per quanto il famoso abate Blampoix, tipo completo, nella storia della cultura, del pretemondano parigino durante l'Impero, appartenga assolutamente alla realtà, ogni capitolo umoristico, in cui lo impariamo a conoscere, sicuramente può essere goduto di per sé. Quanta storia di cultura parigina si trova in generale in questo libro! Quasi ogni tipo storico vi appare rappresentato.

Alfonso Daudet. Nel 1868 comparve « Le petit chose », il Piccolo coso; non é esagerazione porlo sullo stesso gradino con « David Copperfield », col primo volume di «Enrico il Verde » e col «Pastore affamato ».
La posizione letteraria é, nonostante il calore del suo umorismo, dentro la sfera d'azione dello Zola. Anche il Daudet aveva fatta sua la tecnica naturalistica; anche egli portava con sè il suo libro d'appunti letterari, in cui soleva registrare le osservazioni che veniva facendo.

Emilio Zola si fece avanti sulla fine del periodo tra il 1860 e il 1870 con i suoi primi lavori: nel 1864 comparvero i « Contes à Ninon »; nel 1867 venne fuori «Teresa Raquin ». La sua posizione teoretica é nota. Egli sviluppò la dottrina filosofico-artistica di Ippolito Taine, che in investigazioni critiche intorno alla storia letteraria e alla filosofia dell'arte formulò teoricamente il programma del naturalismo letterario.
Come filosofo il Taine stava sotto l'influenza del Comte, dello psicologismo inglese. Dal suo sistema profondamente naturalistico risultarono quelle applicazioni letterarie, che contraddistinguono il romanzo francese da Madame Bovary e ancor più da « Renée Mauperin » in poi; la teoria del romanzo scientifico, che deve costruirsi di «particolari minuti, importanti, significativi, considerati accuratamente in tutta la loro prolissità », deve per il presente attuare ciò che gli storici fanno per il passato. « Così l'opera del Taine «De l'intelligence» determinò 'nel 1870 il compito dell'arte letteraria. Il ciclo romanzesco più importante dello Zola «Rougon-Macquart» si trova strettamente connesso già per la sua materia con la civiltà del secondo impero; ma fu finito solo nel 1873.
Come opera dello Zola, considerata nel complesso, appartiene in generale al recentissimo passato.
L'impulso all'osservazione differenziata era qualcosa di comprensibilissimo in un'età, dominata da ricerche speciali scientifico naturalistiche.

Anche nell'opera di Teofilo Gautier, nell'opera di Carlo Baudelaire - per ricordare almeno i maggiori dei «Parnassiani» - circolava lo spirito naturalistico del tempo, per quanto i due poeti potessero tenersi in un'aristocratica riserva. Teofilo Gautier era una natura preziosa. Egli portò l'odio contro il banale, il borghese, fino all'affettazione, e amò di dimostrare la sua superiorità con toelette incredibili. Queste esteriorità si spiegavano per una notevole incertezza interiore, che lo rendeva incapace di reagire in maniera non artefatta, originale.
Il Gautier non ha mai potuto sentire motivi naturali con immediatezza lirica. Ogni fenomeno, ogni sentimento egli doveva, per una particolare coazione, che su di lui esercitava un gusto personale differenziatissimo, stilizzare in una determinata maschera storico-culturale. Egli non vedeva mai con i proprî occhi; egli vedeva alla Watteau, alla Zurbaran, alla Ribera - ora così, ora così, mai coi propri occhi; sempre attraverso il tramite di volti forestieri. Egli scorgeva immagini, non realtà.
La poesia del Baudelaire viveva del tutto nell'atmosfera della morte; ed era così figlia del tempo, che godeva questa atmosfera con cura scientifica.
Il Baudelaire é certo per la sicurezza delicata della forma nel chiaroscuro così nobile, così limpido, così eccellente, così calmo che non può produrre effetti brutali.

Il teatro francese già con lo Scribe e col Musset, incomparabilmente superiore, si era avviato su quella strada, su cui rimase durante l'Impero. Sono tre, quattro, cinque nomi, che sotto Napoleone III dominarono le scene: Dumas figlio, l'Augier, il Sandeau, il borghesuccio Ponsard, che fu anche poeta, Vittoriano Sardou. Anche i poeti d'operette Meilhac e Halévy il vaudevillista Labiche si fecero molto largo.
Se si sente parlare del teatro del secondo Impero, si pensa involontariamente a due lavori «Demimonde» e «La dame au camélias». Tutti e due crearono tipi morali, modelli morali, se si vuole, che appartenevano al periodo imperiale; e li crearono con una virtuosità di osservazione e di drammatico dialogo, che irresistibilmente affascina.

Perché non doveva essere interessante anche una umanità, che pur nel suo tragico periodo, é profumata fin nei pori?
Dove si trova nella letteratura scenica la piccante prontezza della conversazione, che il Dumas ottenne?
La quale solo in Parigi si può apprendere, perché presuppone quella cultura linguistica differenziata, retorica, quella cultura linguistica dei luoghi comuni eleganti, quella preziosa convenzione stilistica, che si confà al Parigino. Nell'incanto della conversazione consiste l'importanza estetica del lavoro.

La favola é artificiosa: ma questo appunto é il suo stile. Tra i lavori dell'Augier risaltano soprattutto «Les lionnes pauvres» e «Le gendre de monsieur Poirier». Nel «Genero del signor Poirier» la spina dorsale del lavoro é il divertente contrasto fra il feudale marchese Presse - che afferma di non poter servire, se non la vecchia dinastia, e frattanto dissipa con ingenuità da gentiluomo di campagna il denaro della moglie - e il pervenuto Poirier, la cui suprema ambizione, nonostante tutte le tirate borghesi, rimane quella di diventare, mediante il signor genero, pari di Francia. Fra i due é, con amabile simbolica, collocata l'affascinante figliola del vecchio borghese, che nello spirito dell'ancien régime ammira tradizioni ancora veramente nobili e con l'umana delicatezza della sua anima rimuove la tensione sociale.

L'intero lavoro è scritto non senza umorismo storico universale e si leva con il suo realismo al di sopra dell'enfasi sociale di Giorgio Sand.
Con le «povere leonesse» l'Augier seguì le orme del suo tempo, il tipico dramma dell'adulterio. Una signora senza spirito e senza cuore inganna il marito, uno sposo attempato, con un'ebreo amico del marito, ma non per una profonda passione erotica, ma solo per il pavonesco bisogno di belle penne, che l'amante paga.
Vittoriano Sardou é stimato più del suo valore. È un virtuoso, niente più. «Non si rintraccia in lui che un imprenditore, che specula sulla volgarità intellettuale e morale del suo pubblico, senza avere altro scopo che cento o dugento piene». Il giudizio del Lanson é aspro, ma vero.
Il Sudermann supera il Sardou, per quanto possa aver imparato da lui, e lo supera di molto. I librettisti non anonimi sono più simpatici: il Labiche, il Meilhac, lo Halévy coltivarono con franchezza l'incanto dell'irreale. Esercitò la più spiacevole influenza il Falstaff letterario, che si chiamava Ponsard e voleva camuffarsi da Moliére del nuovo roi soleil.

Per quanto la letteratura russa del XIX secolo si sia svolta in forma originale, essa, in ogni caso, non era possibile senza le premesse tecnico-psicologiche della letteratura francese. «Tutta la letteratura sotto lo zar Niccola», scrisse lo Honegger nella sua storia della civiltà russa, «fu opera dell'opposizione, una íninterrotta protesta contro quel regime, che calpestò ogni diritto umano. Sotto tutte le forme, anche ridendo e cantando, essa volle sovvertire e distruggere. Oppressa nel giornale, si levò su dalla cattedra universitaria; perseguitata come poesia, proseguì l'opera sua in un corso di storia naturale; impedita come stampa, venne fuori manoscritta; e finalmente, del tutto oppressa in patria, si rifugiò all'estero e di là ritornò. La tendenza si manifestava perfino nel silenzio; e lo spirito, attraverso le mura e le torri, ne penetrava nei dormitori degl'Istituti femminili, nelle sale militari della scuola dei cadetti, e addirittura nelle aule scolastiche teologiche dei seminaristi; tutti costoro furono corrosi dalle letture proibite; e la generazione cresciuta allora é finita nell'odierno nichilismo ».

L'assolutismo russo aiutò grandemente quel pessimismo specificamente russo, che ha promosso sistematicamente la concezione del mondo, che anche senza questo dominava l'Europa intellettuale. La letteratura russa si restrinse nelle sue opere di vero valore alla lirica e al Romanzo.
Il teatro russo non ebbe molta importanza. L'attitudine drammatica sembra mancare ad un popolo, che non poté liberarsi dalla malinconia lirica, dalla tenebrosa riflessione e dalla prolissità epica.

Verso la metà del secolo proruppero correnti realistiche, le quali portarono logicamente alla dottrina naturalistica dell'arte. Lo Herzen fu nel momento del suo fiore, la fine del periodo tra il 1850 e il 1860, uno dei personaggi d'Europa più nominati, più temuti e più ammirati.
Sullo scorcio del periodo fra il 1850 e il 1860, il «Colocol» quel periodico, che lo Herzen stampò dal 1856 al 1865 nel suo asilo londinese, fu una potenza internazionale. Lo Herzen ebbe le più incredibili relazioni e comunicazioni; quanto nelle condizioni della Russia poteva soggiacere alla critica, spettò immancabilmente alla «Campana». Lo stesso imperatore Alessandro apparteneva ai segreti lettori del «Colocol»; e bisognava congratularsi, poichè egli, diversamente dai più dei monarchi veniva per sua fortuna a conoscere la verità non castrata.

Vissarion Bielinski, uno studente congedato «per incapacità e pigrizia», a 35 anni esercitò nella letteratura russa, una parte, che gli acquistò il nome onorifico di Lessing russo. Anch'egli non riuscì ad acquietarsi nell'esercizio della critica estetica; sostenne con passione l'idea che l'avvenire della letteratura nazionale russa dipendeva dall'abbattimento dell'assolutismo russo e per ciò non doveva liberarsi dalla tendenza politica.
Il Bielinski, per una storia letteraria, che parte dal punto di vista della storia della civiltà, é naturalmente più importante del quasi contemporaneo francese Sainte-Beuve, il quale dal cerchio, delle sue manie estetico-psicologiche non uscì mai all'aria frizzante d'un grande movimento pubblico.

Il Turgenieff dovette, e non in piccola parte, al Biélinski la creazione della sua fama letteraria: esso può designarsi come il più importante artisticamente fra i poeti russi dopo il Puschkin. L'educazione filosofica e storica, che egli si procacciò sulla fine del periodo fra il 1830 e il 1840 in Berlino, lo tenne lontano dalle tendenze degli slavofili, dai promotori conservatori di una romantica specificamente russa. Egli era un figlio fedele della sua nazione, non attendeva perciò la salute della Russia dall'isolamento per quanto si attiene alla civiltà della sua patria, ma da una sistematica accoglienza delle istituzioni e delle idee occidentali.
La natura delle sue opere sembra, forse di fronte al Dostojevski, mite e artisticamente agghindata, più civile, se la parola é lecita. Il Turgenieff non poteva rinnegare Parigi e Baden-Baden. Per il contenuto la sua opera, come tutta la letteratura russa, era rivolta alla varietà dei problemi civili e psicologici, onde la Russia ridondava. Dal lato artistico il Turgenieff é stato ben confrontato con lo Heyse; in realtà, tutti e due hanno un certo tono conciliante, che determina anche la loro natura artistica.

Come il Turgenieff, appartenne al circolo del Biélinski, Feodor Dostojevski, un po' più giovane del primo. La sua storia fu oltre ogni credere singolare. Perfino il mite Turgenieff non aveva potuto passare la vita senza incorrere nella prigionia; il Dostojevski, politicamente molto più radicale, fece vari anni di lavori forzati in Siberia e di servizio militare per castigo come soldato semplice. Le opere più importanti e a buon diritto più note del Dostojevski sono i «Ricordi della casa dei morti», del 1862, creati sulle tracce delle memorie siberiane, e quel poderoso romanzo «Raskolnikof» del 1867: che è il tipo elevato del romanzo russo.
Egli manca di ogni brevità di composizione, di ogni preconcetto estetico; nella sua larghezza psicologica quasi senza riguardi é ad un tempo eccessivo e sbalorditivo.

Anche il conte Vladimiro Sollogueb, un alto impiegato dello Stato, si avvicina al gruppo letterario del Biélinski. Il suo capolavoro, il romanzo «Tarantass», che si occupava di quella nota discrepanza fra il patriarcalismo e l'esagerata istruzione, comparve però fin dal 1845; ma i suoi effetti e i suoi successori novellisti ci rimandano al tempo di Alessandro.
Michele Saltykof, che scrisse col pseudonimo Chtchédrine, trasferito per punizione come impiegato dello Stato nella storica Viatca, pubblicò nel 1857 i suoi famosi «Schizzi della vita provinciale russa».
Il guaio delle province era la corruzione burocratica, che il Saltykof mise in luce inesorabilmente, cosicché fu designato come il padre della così detta «letteratura rivelatrice», singolarità dell'ultimo periodo di Nicola e dell'età di Alessandro.

In Italia tutta la letteratura é influenzata invece da uno spirito patriottico che svela subito il contrasto tra il romanticismo e il neoclassicismo.
Morto Leopardi nel 1837 Nicolò Tommaseo e Alessandro Poerio vi suscitano o meglio allargano le nuove correnti del pensiero.
Le idealità del sentimento religioso e patriottico dal Poerio profondamente sentite e intensamente espresse, soverchiano il romanticismo. Non lo uccidono; ma elevano così la poesia mistica e quella patriottica, che esse ne acquistano nuovi accenti, più vivi, spesso ardenti.

La prima specialmente per opera di Alessandro Manzoni. Siamo nei giorni delle congiure per l'italo riscatto, e i poeti sono come i guizzi di fiamme rivelatrici del fuoco che arde sotto la cenere. Fra i molti eccelle subito Goffredo Mameli, morto ancor prima che il suo ingegno fosse maturo, ma tuttora vivo e vibrante nell'inno «Fratelli d'Italia», in cui tra forme e riminiscenze classiche aleggiano gli impulsi romantici del suo tempo.
La figura del Tommaseo patriottico si delineò più meditativa, ma non meno viva nelle storie di Venezia e d'Italia; tuttora splendono i suoi versi di una luce singolare.
Ippolito Nievo e Giovanni Prati si elevano anch'essi nella schiera dei poeti patriottici del tempo. Collaboratore del Prati nel periodico padovano «Il caffè Pedrocchi», fu Aleardo Aleardi, morto a Verona nel 1878, autore del canto «Il monte Circello» dedicato alla memoria di Carlo Troya. Era già famoso per le «Lettere a Maria».

Il patriottismo animò anche la Satira nella quale acquistarono fama il Guadagnoli ed il Giusti, questi specialmente ebbe lodi e onori. Manzoni già celebre per il suo romanzo «I Promessi Sposi», gli fu amico e ammiratore.
Ed é vero che se non sempre e in tutto, il Giusti fu benefico come un aiuto importante alla nuova letteratura d'Italia che voleva riacquistare vivacità di modi e di lingua.
Fin che l'Italia fu divisa in vari Stati, anche la letteratura e la filosofia furono divise in diverse scuole o tendenze. Ma questa divisione fu più formale che sostanziale. Se ben si guarda, si vede come tra il Manzoni e il Leopardi, tra il classicismo e il romanticismo, tra la letteratura di scuola e quella di battaglia, praticamente poco interceda perché se politicamente l'Italia era divisa, la lingua era praticamente una.

Tutte le scuole risalivano a Dante e da Dante a Virgilio, onde sette secoli di esercizio letterario avevano consolidato nell'elocuzione e in certe forme esterne dello stile la cultura italiana.
A consolidarla ancora di più contribuiva l'amore all'italianità, vivissimo nel conflitto per la rivendicazione nazionale, così in coloro che tendevano gli occhi e l'anima a Roma repubblicana e imperiale come in coloro che li tendevano a Roma cattolica destinata a diventare fulcro e centro dell'Italia ricostituita.

Così avvenne che raggiunta l'unità nazionale, prima ancora che Roma divenisse di fatto capitale dello Stato, cessarono le varie scuole e tendenze e tutti i letterati del tempo si trovarono raccolti e fusi nel bel volume di Gaetano Ghivizzani, pubblicato a Firenze nel 1865: «Dante e il suo secolo».
Victor Hugo, richiesto di collaborarvi con versi suoi, aderì dichiarando che era un buon italiano perché era quella la maniera di essere un buon francese.

Ed é appunto in questo momento che sorge Giosuè Carducci, il poeta civile d'Italia, sicché con il Manzoni si potrebbe concludere che, nel nome augusto di Dante, al cospetto dell'Italia ricostituita a nazione, la bella schiera dei Poeti e degli scrittori italiani volesse far mostra di sè tutta insieme riconoscendo superate le divisioni arbitrarie e le misere competizioni.

Non meno notevole, sebbene di diversa natura per le diverse condizioni politiche dei paesi, fu il movimento letterario nei paesi nordici, sul quale influirono, com'è facile comprendere, i rapporti con i paesi anglosassoni.

Incominciò a sbocciare fra gli Scandinavi una nuova vita letteraria. L'amabile danese Andersen scrisse in questo periodo i suoi romanzi contemporanei, lo spirito dei quali era proprio realistico. Ma l'impulso più potente venne dal nord, dove il Bjórnson scrisse le sue magistrali novelle campagnole, altrettanto lontane da ogni bucolica da salotto quanto i raccolti di Geremia Gotthelf, di Goffredo Keller e del Rosegger.
Lo Ibsen terminò con «La lega dei giovani» del 1869 la prima metà dell'opera sua; otto altri lavori precedettero questo. Non é già che l'Ibsen con questo libro abbia, con immediato trapasso, seguito un nuovo avviamento. La sua evoluzione letteraria si svolse gradatamente; i drammi più vecchi differiscono dai più recenti solo per il concetto storico della scelta della materia e per la forma del verso preferita.

Chi tuttavia in qualche modo guardi dentro ai lavori più antichi troverà, sia in «Catilina», sia nella «Festa di Solhaug», o addirittura nei più recenti, preparato l'orientamento psicologico del dramma ibseniano. Non dal ritmo drammatico della favola, sì invece dal più intimo dei personaggi e dei loro conflitti etico-sociali si svolse anche il più antico teatro dello Ibsen.
E abbastanza interessante: come Ibsen con un simbolico generalizzare, la sua Irene chiuse l' interezza della sua opera artistica, così cominciò con quella furia, che strappa Catilina da uno struggente erotismo per condurlo incontro con demoniaca coazione all'alta meta di una mortale ambizione.
Ma Irene é il gemito d'un osservatore filosofico, che ha perduto la preziosa immediatezza del sentimento della vita.

L'Inghilterra anche nel campo letterario non rinnegò del tutto il suo carattere insulare. La teoria naturalistica non ha dominato gl'Inglesi così a lungo come i Francesi, i Russi, e gli Scandinavi. Ma fra di loro si trova ciò che infine é umanamente più prezioso delle più serie elaborazioni letterarie naturalistiche, l'umorismo, che ai Tedeschi permette la comprensione della letteratura inglese.
Quell'umorismo, che nella più amabile espressione si ritrova in Carlo Dickens, non é solo la relazione umanamente più alta, ma anche artisticamente più consolante con le cose; una relazione, che é immediatamente compresa ed è popolare nel senso più profondo.
Come il Dickens anche Guglielmo Thackeray appartenne con la metà della sua esistenza a un periodo più antico. Con la nota «Fiera della vita» egli inaugurò la nuova età - un'età, che del resto per l'Inghilterra significa meno che per il continente.
Il Tackeray fu mezzo Swift, mezzo Dickens. La piacevolezza dei racconti del Dickens si mutò in lui facilmente in satira amara; egli superò per una tendenza acutamente moraleggiatrice. Quantunque satira e umorismo si scindano volentieri, il Thackeray, fra il 1850 e il 1860, tenne quelle conferenze sugli umoristi inglesi del secolo XVIII, che palesavano i suoi rapporti spirituali con quella letteratura.
I romanzi storici, con cui il Thackeray venne fuori nella sue età più tarda, sono riflessi dello Scott e meno interessanti dei lavori, che erano uno sfogo diretto del suo temperamento critico.

Un carattere meno risoluto possiedono i lavori di Eduardo Giorgio Bulwer Lytton, il cui passato letterario giungeva fino al decennio 1820-1830. Il suo spirito non era così forte da poter trattare con intimo successo tutti gli argomenti, che letterariamente afferrava. I romanzi non fanno fede di una unitaria propensione della sua natura artistica; né le sue satire sociali in «The new Timon» della necessità morale della loro origine.
Politicamente e letterariamente troppo variabile, più spirito che carattere, più osservatore che uomo, questa é stata la caratteristica della sua personalità.
Approssimativamente può dirsi il contrario di Carlo Kingsley, il cui merito più importante fu l'inaugurazione letteraria dei socialismo cristiano. Il romanzo «Alto Locke, Tailor and poet» é degno d'esser amato per la sua onesta tendenza.

Nel Tennyson, all'incontro, é quasi impossibile indicare una determinata posizione storica. La sua opera non ha nessun rapporto notevole con la storia contemporanea; come poeta della società colta si contentò di nobili generalizzazioni liriche, che furono esposte con fino spirito e con raro sentimento delle bellezze formali della lingua inglese.

Ancora la letteratura americana non si era emancipata da quella inglese. Il Cooper, era lo Scott con nuovi motivi; fra la «Calza di cuoio» e l'opera dello Scott passa un'artistica differenza fondamentale, ma nessun'artistica contraddizione.
Enrico Longfellow provvide il suo contingente letterario di molta finezza di gusto traendola dalle tradizioni tedesche. I suoi lavori più antichi respirano lo spirito del romanticismo tedesco. «Evangeline» é l'immagine dell'epopea goethiana «Ermanno e Dorotea»; «The golden Legend» attingeva al tedesco medievale «Povero Enrico» dello Hartmann.
«L'originalità» del famoso «Song of Hiawatha» si fonda più sulla materia (il «Song» é notoriamente un addio agli Indiani che si vanno estinguendo) che sullo spirito e sulla forma.

Una manifesta personalità letteraria fu d'altra parte Ralph Waldo Emerson, che solo più tardi si incominciò a stimare secondo il suo vero valore. La forza dell'Emerson è dentro nel saggio, che é la forma artistica del relativismo filosofico.
Egli dice di sè: «Ma per non trarre nessuno in errore, se io seguo la mia testa e i miei grilli, voglio ricordare ai lettori che io sono soltanto uno sperimentatore. Non attribuite il minimo valore a ciò che io faccio; e, d'altra parte, non reputate ciò che non faccio per discredito, come se m'arrogassi di sostenere una cosa qualsiasi come vera o falsa. Io ritengo tutte le cose incerte ed oscillanti. Niente ai miei occhi é sacro; niente é profano. Io faccio semplicemente dei tentativi; sono un creatore senza requie con nessun passato dietro di me».

Tommaso Carlyle dev'essere caro ai Tedeschi soprattutto perché con i suoi studi goethiani ha contribuito più di qualsiasi Inglese a fondare una parentela elettiva fra la vita spirituale inglese e quella tedesca.
La letteratura tedesca aveva nel periodo della «giovine Germania» mezzo abbandonate le orme artistiche del Goethe. Certo se ne ammirava la squisita umanità.
Carlo Gutzkow, il profeta della nuova morale, difese contro lo sgradevole Volfango Menzel la sincerità dei sensi; così egli seguiva la più profonda idea della vita del Goethe. Ma la giovane Germania voleva non già nel senso del Sombart «vivere in Goethe»; appunto la natura non politica - forse nel Goethe si poteva dire superpolitica - dei suoi interessi designava il suo contrasto con la nuova scuola. Infatti lo Heine, il Borne e completamente lo Herwegh, lo Hoffmann, Carlo Beck, Anastasio Grün, il Freiligrath si occuparono con zelo della vita politica.

Il Freiligrath, é vero, da principio si astenne dalla politica. «Il poeta sta su un osservatorio più alto dei pinnacoli. d'un partito». Ma la sua poesia posteriore smentì il suo programma giovanile: egli riconobbe che l'opera di un poeta, specie in un periodo politicamente agitatissimo, non si esauriva in una lirica immaginosa, orientale.

I poeti politici crebbero quasi tutti nell'inquietudine incubatrice del periodo fra il 1830 e il 1850.
La letteratura dal 1850 al 1870 perdé un po' per volta quella specifica tendenza politica del periodo precedente; almeno l'esclusivismo e l'immediatezza politica. Il realismo artistico fu scopo a sé stesso; fra la verità e il poeta si pose la legge della mediazione artistica; legge che non era una estetica raffinata, ma una nuova ed elementare spontaneità artistica.

L'opera di Francesco Grillaparzer appartiene come complesso a un periodo dominato dallo spirito della tradizione classica. La «discordia fraterna nella casa d'Absburgo», quella simpatica rnanifestazione del riflessivo imperatore Rodolfo II, «L'ebrea di Toledo», una psicologia dell'infernale coscienza ebraica femminile, a cui solo il Grillaparzer poteva riuscire, «Libussa», che con grandiosa visione delineava i tempi mitici della storia nazionale boema, vennero per caso alla luce tardivi.

Al meglio della più antica novellistica tedesca appartiene il completamente tenero «Povero sonatore» del 1848.
Una personalità più forte, fu indubbiamente Federigo Hebbel. Egli si trovava nel suo ambiente letterario come nel suo Kleist, col quale nel complesso aveva molti tratti comuni.
La storia é considerata come un fenomeno psicologico e così rivolta tutta alla vita interiore. Effetti meravigliosi produce la tragedia dei Nibelunghi, la germanica più bella, che mai sia stata scritta. Al meglio che abbia composto lo Hebbel appartengono gli scritti teoretici, messi assieme fra il 1847 e il 1850; il trattato sulla relazione di energia e di intelligenza nel poeta é il commentario più indispensabile della sua opera artistica.

È quasi una consuetudine per i tedeschi ricordare accanto allo Hebbel Ottone Ludwig: questa connessione é giusta. Come lo Hebbel, il Ludwig può essere compreso solo attraverso la sua vita personale. Egli non aveva nessuna opinione patetica sull'alta missione del poeta; ciò che creava era una necessaria espressione delle proprie vicende spirituali. Finì di venir su un nuovo tipo psicologico di poeta.
Senza pretenziosa eloquenza «poetica», senza sentimento della decrepita e in sé insostenibile differenza di uno stile «prosaico» e di uno «Poetico», questa età cercò di fissare le proprie vicende spirituali con la maggior possibile esattezza della frase, con la maggiore possibile fedeltà e oggettività. Se si vuole, si può designare questo stato d'anima come realismo. Ad esso era data in retaggio nel più grande poeta tedesco del secolo dopo il Goethe, in Goffredo Keller, quella umana serenità, derivante dal più profondo bisogno dell'anima, la cui silenziosa grandezza designa la natura dell'umorismo realistico.

L'umorismo realistico fu in Germania dal 1850 al 1860 soprattutto il principio artistico più cospicuo. I suoi rappresentanti più splendidi sono gli svizzeri Geremia Gotthelf e Goffredo Keller, lo svevo Móriche, e il brunsvichese Guglielmo Raabe. Del Gotthelf dopo il 1848 comparvero racconti, fra cui da ricordare «Uli il fittaiuolo» come il più bello.
Si potrebbe porlo a pari dell'indimenticabile poeta della valle prativa, il valente prelato di Karlsruhe Gian Pietro Hebbel, sebbene il Gotthelf fosse indubbiamente più forte narratore di lui. Goffredo Keller imparò dal Gotthelf, di cui riconobbe con onorifiche parole la rude opera artistica, poco o nulla conosciuta.

Chi mai sempre si compiacque in Goffredo Keller d'una magnifica crudezza d'espressione - si pensi alla canzone dei gesuiti - ne comprenderà subito la naturale parentela col Gotthelf. Dal «Guglielmo Meister» in poi la nazione tedesca non ha concepito nessun romanzo educativo che pareggi l'«Enrico il verde» del 1855. L'inesorabile bisogno d'una vera auto-confessione costituì la natura di questo romanzo, con cui il Keller nella «Gente di Seldwyla» del 1856 e 1874 e addirittura nel suo più completo romanzo, nelle «Sette leggende» del 1872, dominò la ricchezza e la profondità dei problemi spirituali.

Eduardo Moriche pubblicò nell'età più matura la più delicata novella: «Mozart nel Viaggio a Praga». Guglielmo Raabe fondò la sua fama con la «Cronaca della via della passera» del 1857. Dei rimanenti romanzi otteneva fama principalmente il «Pastore affamato» del 1865. Il Raabe non ebbe né la maniera robusta del Gotthelf né la potenza artistica del Keller né la profondità lirica e la tenerezza del Mórike. Con tutto ciò egli é uno dei fenomeni più notevoli della letteratura tedesca. Egli era un dolce temperamento con simpatie principalmente ironiche per la piccola città; nello «Horacker», che uscì solo nel 1875, raggiunse un umorismo con cui sembrò sorpassare la sua propria natura.

Paragonato con i tre Grandi Gustavo Freytag ci perderebbe. Ma, se egli é considerato come rappresentante d'una più antica cultura professionale tedesca, la sua natura é veramente piacevole. Quella felice congiunzione d'interessi artistici e dotti, che poi si é perduta, era allora naturale. Si pensi agli «Antenati». Con quale artistica delicatezza di sentimento l'Uhland, il Bodenstedt e i fratelli Grimm non si occuparono del loro studi filologici!
Perfino i «Giornalisti»; che si sogliono distaccare dalla cultura contemporanea del poeta e valutare come opera d'arte assoluta, possono acquistare la loro speciale importanza solo sotto questo aspetto.

A questo punto deve ricordarsi anche Giuseppe Vittorio Scheffel. Non per il suo poema epico da studente liceale estremamente dozzinale nel tono e nella sostanza, «Il trombettiere di Sackingen», e neppure per il simpatico romanzo patriottico «Ekkehard», ma per il suo lavoro più maturo, lo «Hugideo».
Infine occorre richiamarci all'umoristica poesia dialettale del basso tedesco. Federigo Reuter così vicino ai tedeschi e così naturalmente loro amico. Solo il Busch potrebbe contrastargli la sua popolarità.
Klaus Groth é, in ogni modo, pochissimo noto ai Tedeschi del sud. Ci sono ben poche poesie della suggestiva forza di quella piccola «Il villaggio nella neve», che incomincia con le parole:
"Silenzioso, come sotto una calda coperta
sta il villaggio della bianca neve;
fra gli ontani scorre il ruscello;
sotto c'è il bianco mare....»

Nel più stridente contrasto con questi rappresentanti del realismo poetico sta un gruppo di poeti, che si riunivano in Monaco attorno a Emanuele Geibel, come loro capo riconosciuto.
A questo circolo monachese appartengono oltre il Geibel, il Bodenstedt e il Dingelstedt anche personaggi, che non si consideravano legati ad esso così fortemente. Paolo Heyse, che fra il 1850 e il 1860 venne fuori con le sue prime novelle, nel loro genere magistrali, mostrò una natura vivacissima; Guglielmo Riehl, che con la sua mirabile "Storia naturale del popolo" é diventato accanto a Iacopo Burckhardt, incontrastabilmente il più acuto storico tedesco della civiltà, era di sicuro uomo così fatto da dare al circolo monachese una fisonomia più forte di quel che potesse il Geibel.

Teodoro Storm assunse una posizione letteraria quasi solitaria. Col Monche si potrebbe paragonare certo prima di tutti lo Storm: ma il parallelo verrebbe solo limitato. Accanto al mondo sentimentale dello Storm, apparve la vita sentimentale del Mórike come espressamente virile. La femminea sensibilità dello Storm in un'età, la cui grandezza consisté nella vittoria sulla sentimentalità, fu un anacronismo particolare, ma popolare.
Molto poco fu considerato fino a poco tempo fa Adalberto Stifter; anche se poi si incominciò a giudicarlo con eccessiva benevolenza. Il sentimento naturale dello Stifter é come un'intima meditazione. La nostra letteratura conosce pochi libri della purità delle sue novelle; la meravigliosa innocenza della sua vena ricorda il romanticismo, a cui nel complesso fu lo Stifter più vicino che al realismo.

Federigo Spielhagen, fu non meno sensibile dello Storm, e tuttavia più imponente: ma pure qualcosa d'ignobilmente appendicistico si attacca alle sue «problematiche nature».
In Goffredo Keller noi godiamo ogni singolo brano; lo Spielhagen e il Fontane operano di frequente con l'acutezza dell'osservazione e della espressione; il loro successo però si fonda nel complesso, non nella bellezza del particolare. Il fatto si palesa già in questo che il Keller a tutta prima rinunzia alle attrattive d'una favola complicata; ciò che non avviene nello Heyse e nello Spleihagen.

L'Holtei, l'Halm, l'Hacklander, il Gerstâcker sono stati certo narratori molto rimarchevoli: ma accanto alla grandezza del Keller e del Mórike furono apparizioni fuggitive. Anche il teatro accanto all'Hebbel offrì appena qualcosa d'importanza duratura. L'autrice di molti libri Birch-Pfeiffer merita menzione solo perché il suo predominio contraddistinse il livello del grande pubblico sotto l'aspetto della cultura.
Rodrigo Benedix fu, (nonostante il suo superstudente Reinhard espulso dall'università) un giovinale filisteo. Questo é appunto il rovescio della medaglia della grandezza letteraria di quell'età: l'ottusità del pubblico!

Quanto dovette lottare Hebbel per essere riconosciuto dal pubblico! Con quanta ostinazione gli sbarrò la via alla notorietà il Laube, che, nonostante molti pregi, non seppe frenare il suo rancore.

Ma perfino la teoria estetica di uomini altamente intellettuali, come Maurizio Carriére e Federigo Teodoro Vischer, parve, accanto alla risolutezza naturalistica dell'estetica francese, - facilmente antiquata..
La teoria artistica, intesa in senso strettamente naturalistico, non trovò fra i tedeschi nessun discepolo, sebbene esprima avversari come Guglielmo Jordan, il cui sublime spirito non si trovava a suo agio in un'oggettività` scientifico-naturalistica, ma perfino là, dove egli trattava un argomento scientifico-naturale, come nel poema cosmogonico «Demiur» del 1854, aspirava a un tono rapsodistico, a metafisici presentimenti.

Il naturalismo, nel significato datogli dai Francesi, era, per quanto si possa dire contro di esso, il più intrinseco evento letterario del tempo sotto l'aspetto della storia della civiltà. Ed anche la giovanissima Germania non si seppe sottrarre all'efficacia di questa dottrina.

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