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'800: NUOVE NAZIONALITA' - CRISI NEL PAPATO


210. 19) -- LA DECADENZA DEL SECONDO IMPERO FRANCESE


L'imperatore Napoleone III - Il Re di Prussia Guglielmo I

Mentre la politica estera di Napoleone III ora come prima acquistava territori imperialisticamente, e, aspirava ad accrescere la potenza francese, quella interna già dal 1860 piegava sempre più verso forme costituzionali, o piuttosto, come dice il Sybel, era dispotica per ciò che concerneva 1a costituzione, democratica per quanto s'atteneva all'amministrazione.
Così simili concessioni avrebbero ben potuto consolidare il trono, se Napoleone si fosse mantenuto con risolutezza e con convinzione sulla via battuta, ma proprio anche su questo terreno si scorge, influenzato com'era essenzialmente dagli urti della politica estera, un incerto fluttuare qua e là.
«Un governo assoluto, che vuol mascherare la sua natura, disse il repubblicano Carnot , commette solo il proprio suicidio, poiché l'ammissione di concessioni accrescerà soltanto le pretese della nazione; é impossibile che il Governo le soddisfi tutte, quindi retrocederà, e questo sarà il segno della sua caduta ».

Siccome l'Imperatore aveva quali avversari tanto i clericali, quanto i radicali, cercava ora di accattivarsi questi, ora quelli, e così deteriorava i rapporti con gli uni e con gli altri.
La libertà della stampa fu allargata, al diritto di riunione furono tolti gl'impedimenti più gravi; ma era naturale l'immediata conseguenza che l'opposizione levasse la voce ancor più forte. E non c'é da meravigliarsi quanto ciò offrisse occasione a scherni e ad accuse.
Frequenti processi scandalosi misero in luce prove vergognose di baratterie e di venalità nelle sfere più alte.

Guerra e pace furono sistematicamente sfruttate dai personaggi più autorevoli della corte e dell'amministrazione statale nell'alto gioco di borsa.
Appena il Juarez si rifiutò di pagare i milioni di fittizie cartelle del debito pubblico, fu iniziata l'azione politica contro il Messico. Un segreto canale correva dalla Borsa alle Tuglierì e ai ministeri; tutte le imprese, ferrovie, cantieri navali, strade e così via dovevano innanzi tutto portare un vantaggio ai signori e alle signore della « società»; neppure sotto il Re borghese erano stati praticati immorali imprese di affari con tale maestria; anche i più immondi intrighi erano ricoperti dalla giustificazione che così il denaro girava!

L'amministrazione della giustizia non godeva alcuna considerazione; spionaggio e delatori dominavano da per tutto. La corte delle Tuglierì stessa offriva un indegno esempio; ora vi rappresentava la sua parte l'evocatore di spiriti Home, ora la cantante Teresa, ora il buffone Bivier! Anche alla corte imperiale ci si imbatteva in quella spiacevole mescolanza di incredulità e di superstizione, che molti francesi hanno nel sangue.
Contro la pietà della Imperatrice non ci sarebbe stato nulla da dire, se essa non avesse esercitato in così infelice modo influenza nelle faccende dello Stato. Importanti diritti di sorveglianza dello Stato sugli organi ecclesiastici furono troppo facilmente abbandonati, le scuole, l'organismo scolastico fu completamente posto sotto la protezione ecclesiastica.
Parigi era ancora la regina delle città, la celebrata capitale dell'arte, della moda, del lusso, ma il legno sotto la vernice splendente era marcio e putrido.

Proprio nel ceto dei lavoratori, nel quale fino allora il regime napoleonico aveva avuto il suo appoggio, crebbe un po' alla volta una potente avversione, e ancor più appassionatamente si volgeva il Quartier latino contro l'Impero, che disprezzava i diritti popolari e dissipava le forze del popolo nella vita del gaudente.
Le manifestazioni rivoluzionarie crescevano nelle città e nelle campagne. L'avvocato Leone Gambetta attaccava con inaudita audacia l'«uomo del 2 dicembre»; il Rochefort nella sua Lanterna trascinava nel fango l'Impero; gli istigatori degli inconciliabili con varie turbolenze esigevano un colpo di Stato del popolo.

Come se non bastasse, amichevolmente Napoleone si avvicinava al clero e al partito clericale: ma anche questa benevolenza gli fu fatale. I servizi resi ai clericali lo misero in contraddizione con il principio da lui stesso proclamato del diritto di indipendenza dei popoli.
Fin dal distacco della Umbria e della Marca dopo il plebiscito del 4 novembre 1860 il dominio temporale del pontefice era ristretto a Roma con il territorio adiacente.
La guarnigione francese di Roma era l'unico ostacolo alla unione degli ultimi avanzi dell'antico Stato ecclesiastico con il resto d'Italia; e alla fin fine l'ardente desiderio dei patrioti era quello di conquistare per il nuovo Regno in formazione la rocca della razza latina.
Con la parola d'ordine: « Roma o morte » Garibaldi nell'estate del 1862 mosse con i suoi volontari contro l'eterna città. Il ministero Rattazzi non osteggiava l'impresa, ma, quando Napoleone minacciò un intervento armato, dovette opporsi addirittura con le armi al beniamino del popolo.

Dopo breve mischia con le truppe regie ad Aspromonte Garibaldi fu fatto prigioniero, dopo che una ferita al piede lo rese inabile a combattere. Appena un paio di settimane dopo fu rimesso in libertà; però non produsse solo in Italia una impressione penosa il fatto che il canuto eroe, cui Vittorio Emanuele doveva la propria corona, avesse servito di bersaglio alle palle dei soldati regi.

Ma chi altro ne ebbe la responsabilità, se non l'«amico e l'alleato dell'Italia» alle Tuglierì? Napoleone cercò d'allontanarne l'odio da se concludendo il 15 settembre 1864 una convenzione con l'Italia, con cui essa col patto della ritirata di tutte le truppe francesi dal suolo italiano s'incaricava di rispettare e di proteggere l'attuale frontiera dello Stato ecclesiastico.

Appena che i francesi si furono imbarcati a Civitavecchia, Garibaldi riprese subito i vecchi piani del «Roma o morte». Ma appena le camice rosse apparvero sul suolo romano, i Veuillot e i Dupanloup chiesero violentemente che la sempre fedele patrona della Chiesa cattolica scendesse in lizza anche allora per l'indipendenza della Santa sede; con una codarda ritirata in Italia Napoleone si sarebbe addossato la colpa di Pilato, che con la sua indolenza si era caricato della responsabilità della morte di Cristo.
Napoleone si vide costretto a protestare presso il Governo italiano per la violazione della convenzione di settembre. Un corpo d'esercito francese inviato alla difesa del Papa in unione con i soldati delle Somme Chiavi sotto il Generale Kanzler si scontrò a Mentana con i volontari Garibaldini.

Le meraviglie dei fucili Chassepot fecero ottenere una facile vittoria ai Francesi (3 novembre 1867). Quindi furono ristabilite guarnigioni a Roma e a Civitavecchia. Ma Napoleone stesso non potè rallegrarsi della facile vittoria, poiché apparve chiaro che così aveva perduto ogni titolo alla gratitudine dell'Italia.

Anche nella così detta «questione lussemburghese» Napoleone ebbe la peggio nella contesa diplomatica con Bismarck. Siccome - soprattutto dalla pubblicazione in poi dei trattati difensivi e offensivi fra la Confederazione della Germania del sud e gli Stati tedeschi meridionali - dall'opposizione nella Camera e nella stampa gli fu incessantemente rinfacciato che anche la Francia aveva ricevuto una grande sconfitta a Sadowa, egli volle a ogni costo ottenere un compenso vantaggioso.
Il granducato del Lussemburgo, lasciato dal Congresso di Vienna al Re dei Paesi Bassi, ma al tempo stesso appartenente alla Confederazione germanica, dopo la catastrofe del 1866 non era entrato nella Confederazione della Germania del sud.
Avversione contro la Prussia e difficoltà finanziarie indussero addirittura il Re Guglielmo a offrire all'Impero francese di comprare quel territorio bastardo franco-tedesco.

L'affare sembrava già assicurato, quando il Bismarck come interprete dell'opinione pubblica tedesca diresse al Governo olandese la dichiarazione che la Prussia avrebbe considerato come un caso di guerra la cessione di un paese, che apparteneva alla lega doganale germanica e aveva nella sua capitale un presidio tedesco (3 aprile 1867).

Per ciò il Re Guglielmo I abbandonò l'idea della elaborata vendita, ed anche Napoleone per un affare così rischioso preferì di non correre il rischio di una guerra; lo scioglimento della questione dovette esser affidato ad una conferenza delle grandi Potenze in Londra. La decisione fu questa: che il Lussemburgo restasse uno State indipendente, la cui neutralità fu posta sotto la comune protezione delle Grandi potenze europee; la Prussia rinunziò al suo diritto di presidiarlo e acconsentì alla demolizione delle opere di fortificazione di Lussemburgo, ma il granducato rimase membro della lega doganale germanica.

Già dopo che fu sorta la questione lussemburghese Napoleone offrì la sua alleanza a Vienna, dove, nonostante la catastrofe di Kóniggratz, i Mensdorff e gli Esterhazy erano rimasti nel gabinetto, alla cui testa era salito il vecchio prussianofobo conte Beust.
L'intera colpa della sfortuna della monarchia danubiana fu attribuita al Benedek; anzi persino l'ammiraglio Tegethoff, il vincitore di Lissa, cadde in disgrazia dopa una magnifica accoglienza a Vienna. Così il terreno per l'alleanza con la Francia era propizio. Come premio fu fatta balenare alla monarchia absburghese la speranza di cessioni nella Slesia o nella Germania del sud.
Anche a Vienna la rivelazione dei trattati difensivi e offensivi con gli Stati della Germania meridionale fu sentita, quale «anticipata violazione della pace di Praga», come un grave colpo.
La fredda riservatezza, evitante ogni provocazione, osservata fino allora dall'Austria di fronte alla Confederazione germanica del nord, minacciava di convertirsi in aperta ostilità. Le trattative furono proseguite in un convegno personale degli Imperatori di Francia e d'Austria a Salisburgo nell'autunno del 1867, ma tuttavia conseguirono così poco lo scopo, come la mediazione fra Austria e Prussia, che per incarico del Bismarck volle avviare il diplomatico conte Tauffkirchen.

In generale, Napoleone poteva calcolare che a Vienna si attribuiva il più gran valore a un accordo con la Francia: ma si ingannò supponendo che il Beust si sarebbe a tutte le ore lasciato trascinare ad avventure guerresche.
La splendida riuscita dell'esposizione mondiale parigina del 1867 offrì qualche consolazione; però la ignominiosa esecuzione dell'Imperatore Massimiliano gettò anche su questa luce oscure ombre.
Il Thiers e il Favre chiesero il resoconto documentato delle spese dell'esotica avventura; la maggioranza della Camera non acconsentì, è vero, a troppo radicali domande, ma il numero dei mammalucchi, sul voto dei quali la corte poteva contare con piena sicurezza, andò sempre più diminuendo.

L'Ollivier, passato dalle file dell'opposizione al partito governativo, si rivolse proprio appassionatamente contro il Vice-imperatore Rouher, e domandò un ministero responsabile. Si giunse più volte a tumulti per le vie. Nella stampa e nella Camera le accuse sugli scacchi della politica estera, sulla prodigalità, la mania del fasto, la corruzione delle classi dominanti non volevano più ammutolire.
L'Imperatore non poteva nascondersi che la sua popolarità era in grave sofferenza: ma sperava con riforme liberali di porvi facilmente rimedio. Il mal visto Rouher dovette, nel luglio 1869, lasciare il suo portafoglio, sebbene gli fosse concessa la non meno importante presidenza del senato.
L'Ollivier, capo della maggioranza costituzionale, salì alla testa d'un nuovo gabinetto, così detto parlamentare, che fu salutato come ministero della speranza.

Ma non mancavano segni che l'Imperatore sinceramente non voleva adattarsi nient'affatto alle forme del regime costituzionale. L' Ollivier la spuntò che l'indelicato prefetto della Senna Haussmann si dimettesse, che il capo dei lavoratori Ledru Rollin fosse amnistiato, che Pietro Bonaparte fosse processato per tentato omicidio, che fosse assicurata sufficiente protezione alla libertà delle elezioni e della stampa.

Ma il Gambetta e il Favre continuarono a combattere il Governo, mentre c'era da temere che il piegare verso le idee liberali mettesse a repentaglio l'antica forza dell'Impero. Frattanto l'elogio della magnanimità del supremo capo dello Stato fu cantata in tutti i toni.

L'Ollivier chiuse la sua orazione di ringraziamento, il 27 marzo 1870, nel Corpo legislativo con solenne enfasi: «Plutarco dice: La cosa più grande che un uomo può compiere la compie, quando egli in possesso di un potere illimitato, concede la libertà al suo popolo! Il nostro Imperatore ha questa gloria. Chi nella storia mondiale vi partecipa con lui? ».

Quantunque non ci fosse nessuna necessità d'interrogare il popolo, che poteva manifestare nelle elezioni la sua volontà, sulla conferma del mutamento della costituzione, e quantunque l'opposizione rinfacciasse che l'appello al popolo trasformasse il nuovo costituzionalismo in una commedia, Napoleone reputò per ragioni dinastiche vantaggioso un plebiscito.

Il meccanismo ufficiale lavorò in modo ineccepibile, e l'8 maggio 1870, il popolo francese espresse con 7.350.000 si contro 1.588.000 no il suo consenso alla riforma liberale.
Cionondimeno l'Imperatore rimase impressionato che dei voti negativi non meno di 47.000 provenivano dall'esercito e dalla marina. In questi circoli ci si lamentava soprattutto che il Governo imperiale non si preoccupasse abbastanza di assicurare alla nazione, la quale procedeva alla testa della civiltà, l'egemonia politica in Europa.
Solo una guerra contro la Prussia - così pensavano proprio i più zelanti bonapartisti - contro cui anche per Lipsia, Waterloo, e Sadowa bisognava vendicarsi, poteva rinverdire il fascino sbiadito delle Idées Napoléoniennes, e procurare la necessaria saldezza al trono imperiale.

Ogni ulteriore passo sulle vie dell'unificazione della Germania era considerato un danno e un'onta per la Francia; in questa considerazione si accordavano il capo supremo dell'Impero, i suoi seguaci e i suoi nemici.
Nel Corpo legislativo fu addirittura lamentato che l'Imperatore non fosse abbastanza risoluto nel pensare nazionalmente, cioè nazionalmente nel senso del motto mazzariniano: "Soyons' Français tour la France!".
Egli aveva lasciato, diceva Thiers, diventare già troppo potenti Italia e Germania; bisognava non fare più errori.
L'Ollivier, l'unico avvocato della conciliazione dell'Impero col diritto dell'idea nazionale nel senso moderno, era solo: all'incontro il Thiers esprimeva egregiamente l'anima dell'intera nazione.

I Francesi non volevano neppure rinunziare al pensiero che la potenza della Francia, indispensabile alla salute del mondo, consistesse nell'irrimediabile debolezza e dipendenza di tutti i regni limitrofi, che la formazione di grandi Stati nazionali di qua e di là dalle Alpi fosse una offesa alla Francia, che dovesse punirsi col taglio della spada.

Ma anche nessun Tedesco non si poteva più nascondere che l'unità della Germania non si sarebbe conseguita, senza che prima fosse spezzata l'opposizione francese.

Di qua Napoleone, cui sarcasticamente era rinfacciato da destra e da sinistra il titolo di risalito, il quale per ciò non si poteva mantenere che con un successo militare - di là lo statista prussiano, cui appariva chiaro che la questione tedesca finalmente doveva sciogliersi anche con il pericolo che Parigi, cervello del mondo, cadesse in convulsioni nervose.

L'esito della crisi non poteva rimanere a lungo con tutti questi dubbi.


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211. 20). - GUERRA FRANCO-TEDESCA DEL 1870-1871 > > >

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