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L'EUROPA FRA DUE RIVOLUZIONI - ( 1830-1849 )


199. 8) - SFACELO DEGLI ANTICHI POTERI
NELL'EUROPA CENTRALE


Berlino e Vienna La rivoluzione in casa

Rimase immune dal cozzo della rivoluzione la parlamentare Inghilterra, poiché, come il Macaulay vantava, possedeva la libertà in mezzo al servaggio; e pure immune rimase l'autocratica Russia, inoltre l'Olanda, il Belgio e la Scandinavia, eccettuata la Danimarca, dove il contrasto fra elemento tedesco e danese si faceva notare.

Il sistema metternichiano, così fragile all'interno come all'esterno, difficilmente avrebbe potuto resistere alla crescente violenza potenziale dei suoi avversari, pieni di odio rabbioso, fra i popoli della Germania e dell'Italia, fra Magiari e Cechi.
Quindi l'andamento della rivoluzione non fu solo una scimmiottatura della Francia. Anzi all'incontrario il fervore rivoluzionario a Parigi fu stimolato dall'incendio, che un mese prima era divampato nell'Italia meridionale.
Questo solo é vero: come da lungo tempo si era calcolato - sperando o temendo su una scossa preconizzata alla morte di Luigi Filippo - così la precipitosa caduta della monarchia in Francia sgombrò la via alla sottocorrente radicale per venire alla superficie.

In realtà tutti i movimenti erano autonomi: diversi fini si notavano nei loro centri. Ciò che li univa non era già che essi derivassero dall'esempio francese, ma che avessero uno stesso avversario.

L'Italia iniziò la danza.
L'Austria si era di nuovo mostrata irremovibile nemica di ogni evoluzione progressiva, quando, mediante i suoi trattati con Modena e Parma, cacciò la sua zappa nel nascente tentativo di una lega doganale fra i governi di Roma, Toscana, e Piemonte.
Anche la più insignificamte unità della penisola era contraria all' "orgoglio e alla sicurezza dello stato di fatto" nel Lombardo-Veneto, secondo la massima del castello imperiale di Vienna.

Il modo poi come l'Austria esercitava il suo predominio in Italia (a giustificarla era stata trovata la formula che occorreva "difendere il Reno sul Po") doveva guastare lo spirito anche dei sudditi degli altri sovrani. Poiché dietro ogni durezza, dietro ogni negata concessione alle esigenze dei tempi, si sospettava a ragione una coercizione, esercitata dall'Austria sui prìncipi italiani, tenuti in una indegna dipendenza.
Il movimento di animi temperati, manifestatasi nel Risorgimento italiano, aveva conquistato la nobiltà e gli uomini colti, perché avvicinava le dinastie e le popolazioni e le univa in antitesi alla potenza asburghese che stava fra loro e al di sopra di loro.
L'idea nazionale, diventata un po' alla volta fra le persone colte, sangue del loro san
gue, dopo aver represse le piccole invidie regionali, si sollevò contro gli stranieri, i Tedeschi, come si chiamavano gli Austriaci. Né si era sviluppata nel solo Lombardo-Veneto l' odio antiaustriaco.

Gli ostacoli all'Austria predisposti da questa Italia in gestazione, erano di unificarsi sotto la presidenza del pontefice, dovevano procurare fra i patrioti dal sangue caldo un'apparenza di legittimità all'opinione radicale; oppure farsi sostenere dalle idee del Mazzini per conseguire l'unità d'Italia, con l'abbattimento delle varie dinastie, nella forma repubblicana.

L'Austria di fronte a quelle idee nazionali neoguelfe credeva di poter fare assegnamento, oltreché su Modena e Parma in ogni occasione, anche sul Re, rigorosamente assolutista, delle Due Sicilie.
Al territorio lombardo-veneto potevano in momenti tranquilli, forse bastare riforme comunali; però occorreva anzi tutto tenere in soggezione il paese con una potente forza militare.

Certo non era più possibile fare sicuro assegnamento sugl'impiegati civili d'origine italiana. Violente dimostrazioni contro i fumatori sotto gli occhi del Governo in Milano come nella città universitaria di Padova (fatta poi chiudere) dovevano servire a fiaccare la forza difensiva dello Stato colpendolo nelle rendite del monopolio dei tabacchi (dal 2 gennaio 1848 in poi).
In febbraio i Lombardi-Veneti pubblicarono perfino una solenna protesta indirizzata a tutti i popoli civili ...

 

Lo spirito generale di malcontento scoppiò per prima nel sud Italia il 12 gennaio 1848 in una sanguinosa rivolta. A Palermo la si ebbe fino alla fine del mese.

Alla fine anche se con una lotta disordinata la Sicilia, nel periodo tra il 12 e il 24, si rese indipendente: ma essa voleva rimanere autonoma con un proprio parlamento conforme alla costituzione del 1812, anche se intendeva riformare. Solo l'unione personale con Napoli parve all'inizio sopportabile. ma nel frattempo era avvenuta una mutazione sul suolo piuttosto malsicuro di Napoli. Dinanzi agli eventi di Sicilia e agli umori dell'esercito il Re non osò di ricorrere alle armi contro il movimento che stava prorompendo.


II 29 gennaio promise e il 10 febbraio promulgò la costituzione con un ministero responsabile. Ma l'esercito e la direzione degli affari esteri dovevano rimanere interamente nelle mani del Re.
Veramente i fedeli lazzaroni non credevano alla serietà del cambiamento: né minore era la diffidenza fra i costituzionali. Ma, qualunque sia stata la causa di una tale determinazione, un riguardo alla Sicilia o forse il desiderio di non lasciarsi sopraffare dal Piemonte, il cui re Carlo Alberto era stato il solo o quantomeno il più sollecito a manifestare la sua esultanza per l'azione politica di Pio IX, sta in fatto che il re di Napoli fu il primo a seguire l'esempio del Papa e anzi lo precedette elargendo la costituzione tanto invocata dagli intellettuali del suo popolo.

Carlo Alberto più meditatamente ("tentennando") lo seguì. Il 10 febbraio egli promise solennemente la concessione dello statuto e meno di un mese dopo, il 4 marzo, lo promulgò.


Fu poi il solo che resistendo alla reazione lo mantenne, sicché esso diede al suo regno la prima costituzione (il cosiddetto "Statuto Albertino" che ha resistito fino al 1946) .
Con questa costituzione riconobbe soltanto la tolleranza degli acattolici, mentre quella promulgata il 17 febbraio in Toscana da Leopoldo stabiliva la libertà di coscienza. Qui come pure a Napoli si era scelto a modello la costituzione francese del 1830.

A Roma il Papa che aveva acceso gli animi si fece invece pregare di più; il 14 marzo, e solo dopo che il trono e la costituzione furono abbattuti in Francia, si decise.
Il suo statuto accanto alle due camere riservò al collegio dei cardinali un voto decisivo e non estese l'abrogazione della censura ai libri religiosi.
Il ministero responsabile, formato per due terzi di laici, ebbe come presidente il cardinale Antonelli. Anche in Roma ormai sventolò il tricolore.
Ma subito ci fu lo strano tentativo di imporre al monarca di una Chiesa mondiale i vincoli di un principato costituzionale. Non solo, ma pur con tutti i riguardi e l'entusiasmo per il Papa, da lui ingenuamente ci si attendeva anche la partecipazione alla guerra nazionale contro gli stranieri, già nettamente indicata nei propositi del Re e del Governo di Torino.

Se l'insurrezione nel Lombardo-Veneto, nonostante l'aiuto che era sperabile da quelle mutazioni, si fece aspettare ancora, si deve attribuire al terrore del radicalismo svegliatosi nel frattempo durante la rivoluzione parigina. Nondimeno alla prima notizia della sollevazione viennese (di cui parleremo più avanti) Milano non riuscì più a contenersi dando vita con le barricate alle famose "Cinque giornate".

E così Venezia...


Il canuto maresciallo Radetzky non riuscì a Milano mantenersi in città, e anche il tentativo di domarla con un blocco apparve impossibile con le truppe disponibili. Dopo un combattimento di quattro giorni il Generale iniziò il 22 marzo la ritirata dalla Lombardia verso l'Adige.

Un governo provvisorio assunse l'incarico d'ordinare militarmente la popolazione presa dall'ebbrezza della gioia. Lo stesso giorno Venezia era sgombrata e si costituiva repubblica sotto la presidenza del Manin. Siccome gli Austriaci ritirarono le truppe da tutte le posizioni più esposte, anche i duchi di Modena e di Parma dovettero fuggire dinanzi ai ribelli.
Il Radetzky, preoccupato delle sue comunicazioni e del vettovagliamento dell'esercito, sgombrò sì la Lombardia, ma non inseguito, ebbe tutto il tempo di rinforzarsi e preparare non solo una eventuale - se attaccato- resistenza al quadrilatero oltre il Mincio ma anche di assicurarselo come base per una offensiva.

Ma la fuga da Milano delle bianche divise non poteva non suscitare frenetici entusiasmi tra i patriotti italiani. Volontari dal Ticino, dalla Toscana perfino da Roma e da Napoli accorrevano in Lombardia. Più importante fu l'atteggiamento dei vari Governi. Anche se a quello del Piemonte guardavano tutti gli altri della penisola, sebbene con molta diffidenza e qualche sospetto.
Ormai la politica sabauda era evidente e chiara. La collaborazione del Popolo col Re significava rompere ogni rapporto con l'Austria. Per Popolo non vi era ormai più chi non intendesse tutti gli Italiani, e nella politica di Carlo Alberto era manifesto l'impegno di compiere a costo di ogni sacrificio l'azione redentrice, onde lo sbocco suo naturale non poteva non essere la guerra contro l'Austria, indispensabile per quella indipendenza senza di cui non sarebbe stata possibile nessuna forma di unificazione.

Il momento era reso opportuno dalle vicende europee. La Santa Alleanza quasi non esisteva più o per lo meno era molto compromesso l'assetto ch'essa aveva imposto all'Europa.
Il 24 marzo Carlo Alberto pubblicò un proclama che annunziava le ragioni della guerra e, tra il 25 e il 29 varcava il confine. In seguito a quest'atto i duchi di Parma e di Modena furono cacciati dalle popolazioni che si dichiararono annesse al Piemonte. In Toscana il granduca Leopoldo II aderendo al voto dei patrioti organizzò un piccolo esercito perché al comando del gen. Laugier partecipasse alla guerra d'indipendenza. Esso raccoglieva la gioventù universitaria di Pisa, che si batté eroicamente a Curtatone e Montanara; un esercito napoletano al comando di Guglielmo Pepe partì da Napoli col consenso di Ferdinando II e anche Pio IX permise la partenza di truppe regolari, sebbene a patto che non varcassero i confini dello Stato Pontificio.

Per la prima volta in Italia si verificava una così unanime concordanza di propositi contro lo straniero; per la prima volta tutta la nazione insorgeva inalberando il Tricolore.
Nel frattempo, anche se con un po' di ritardo (e fu fatale) l'Esercito Sardo al comando di Re Carlo Alberto si batteva vincendo a Goito, a Valeggio, a Monzambano, a Borghetto, costringendo gli austriaci ad abbandonare la linea del Mincio.
L'Austria a quel punto offrì la Lombardia. Ma Carlo Alberto rifiutò. Egli non voleva l'ingrandimento del suo Stato, ma l'indipendenza d'Italia dallo straniero.
Il 6 maggio a S.ta Lucia ebbe luogo un altro combattimento favorevole per i Piemontesi. Ma senza effetto, perché, Verona, come si sperava non insorse.

Venezia - in verità senza aiuti (stava aspettando Carlo Alberto e aveva già accettato l'annessione al suo regno) proclamando la repubblica indipendente e rimasta sola decise di far da se; Pio IX, poiché il gen. Durando (andando ad aiutare Vicenza) aveva contraddetto all'ordine di non varcare i confini pontifici, rinunciava alla guerra; e Ferdinando II emanava l'ordine di ritiro delle sue truppe (anche se poi Pepe ignorò l'ordine).

In queste condizioni politiche s'iniziò la seconda fase della guerra (6-30 maggio). Dopo un vano tentativo di Carlo Alberto di prendere Verona, cominciò l'azione controffensiva di Radetzky col concorso di nuove truppe giunte dall'Isonzo al comando del gen. Nugent. Il problema grave per l'Austria era consistito nel trovare queste truppe di rinforzo. Questo problema fu risolto dagli avvenimenti europei, la cui esplosione fu accelerata a nord delle Alpi dalla catastrofe parigina.
E giova esaminarli prima di riprendere la narrazione della prima guerra dell'Indipendenza Italiana.

L'opinione radicale in Germania si nutriva di briciole letterarie degli scritti rivoluzionari francesi. In parte per esasperazione, in parte per ingenua ammirazione questi gruppi, a cui nel Mezzogiorno appartenevano anche agiati artigiani, spingevano alla repubblica; nella quale i fanatici scorgevano fiduciosamente una panacea, di cui occorreva avvalersi, se non era possibile altrimenti, anche contro la volontà della maggioranza del popolo.
I costituzionali nella guerricciola degli ultimi anni si erano abituati a ravvisare un alleato prezioso nella forza di volontà dei radicali, i quali erano poi, nella maggior parte dei paesi tedeschi, una scelta schiera, reclutata nei ceti colti. Fra i loro capi spirituali essi annoveravano non pochi rappresentanti del ceto erudito.
Il seguito di questa storia varrà a dimostrare, per quanto concerne questo rimprovero, che essi stessi, pieni d'impeto idealistico, non avevano una sufficiente comprensione dell'importanza dell'autorità nella vita dello Stato. il liberalismo costituzionale non si era per nulla preparato a svilupparsi in un grande partito della borghesia con fini del tutto precisi.
La grande folla della borghesia liberale si lasciò trascinare dal terrore per la reazione alla debolezza verso il radicalismo altrettanto facilmente, come essa, sbigottita dallo sprizzar schiumoso della rivoluzione, si lasciò andare talora a favorire le usurpazioni dell'autorità nell'interesse d'un preteso ordine pubblico.

In Germania i demagoghi, specialmente autorevoli nel sud-ovest, si sollevarono pieni di fiducia nella fraterna intromissione dei Francesi in pro' della libertà di tutti. Da ciò e da una insurrezione della Polonia essi speravano la paralisi delle autorità esistenti. A queste i liberali a loro volta rinfacciavano di avere nelle loro vedute dinastiche trascurato la forza difensiva nazionale.
Soltanto la sperata felicità primaverile diffusa fra vecchi e giovani spiega l'atteggiamento comune di ambedue i partiti al principio del movimento. Fin dal febbraio del '48, nel sud e nel sud-ovest, presto anche nel centro e nel nord della Germania, delle assemblee popolari avevano incominciato a fissare le richieste della nazione. Queste deliberazioni quasi del medesimo tenore furono trasmesse in non equivoche petizioni rivoluzionarie ai Governi sbalorditi, che uno dopo l'altro rapidamente si rassegnarono a cedere.

I capi dell'opposizione costituzionale si videro, in quasi tutti i medi e piccoli Stati, portati dalle sollevazioni in alto, intrufolarsi nelle varie pastoie dei ministri.
Nelle concessioni si rispecchia fra tanta immaturità sia positivamente, sia negativamente un notevole progresso. Ma è riservato a una ricerca più esatta fino a qual punto queste richieste sono un riflesso delle idee e degli avvenimenti francesi.
Senz'altro ciò si potrebbe ammettere rispetto alla domanda, da per tutto messa avanti, di una guardia popolare o civica con ufficiali elettivi. In generale oltre a ciò i desideri popolari attuati con le «conquiste del marzo» andarono a finire nella convocazione d'un parlamento tedesco, nella concessione della completa libertà di stampa, di associazione e di riunione, nella introduzione della corte d'assise, nell'eguaglianza delle imposte, nei ministeri popolari e così via.

Le pretese degli operai industriali furono un compromesso della disparità fra il lavoro e il capitale, come pure una garanzia per il primo. La gente di campagna si volse contro l'abuso del diritto di caccia e contro tutti gli avanzi dei privilegi feudali. L'impotenza dei Governi permise si formasse una condizione di cose che più argutamente che felicemente si é immortalata come una comoda anarchia.
Desideri nazionali e richieste giustificatissime della gente di campagna si intrecciavano con le pressioni, aizzate, senza coscienza, di proletari armati in non pochi luoghi. Il pericolo di ogni sorta di anarchia minacciava con l'imbarbarimento e con i delitti, se la nuova libertà non riceveva presto un contenuto più positivo del beneplacito d'ognuno.
Ma donde doveva derivare la forza necessaria?

La dieta federale cercò invano di rafforzarsi con l'abrogazione di tutte le leggi eccezionali, con l'adozione dei colori nero, rosso e giallo, perseguitati con astio puerile, con la creazione d'una giunta di uomini di fiducia della pubblica opinione e con l'assenso alla convocazione d'un parlamento costituente.
La fede e la paura fallirono allo stesso modo. L'invito dell'Austria e della Prussia, spedito prima della metà di marzo, ad una conferenza in Dresda con il proposito di estendere la competenza federale arrivò troppo tardi.
Dal basso frattanto si era posto mano - in conseguenza di tendenze, che rimontavano alla fine del 1847 - all'opera di salvare la patria.
Il 5 marzo, cinquantuno deputati, convenuti in Heidelberg dalla maggior parte dei paesi tedeschi, elevarono la domanda di un parlamento popolare liberamente eletto, la cui opera doveva, - rigettate esplicitamente le tendenze di alcuni repubblicani - iniziarsi d'accordo fra il popolo e i Governi.

Una giunta di sette persone ebbe fra gli altri l'incarico di preparare per il 30 marzo la riunione di un parlamento preparatorio. Alla proposta d'un parlamento tedesco dovevano aderire anche repubblicani come lo Hecker; non meno sicuramente parve doversi attendere la cooperazione dei Governi della Germania meridionale, anche di quello bavarese.
Ma come Carlo Mathy fin dal 1847 aveva ritenuto dannoso un parlamento senza un Governo federale, così già il 28 febbraio il deputato Enrico Gagern propose nella Camera dell'Assia-Darmstadt di affidare per i momenti di pericolo ad un Governo solo l'autorità federale insieme con la rappresentanza nazionale costituzionale riguardo agli affari esteri, all'esercito e all'armamento del popolo, come pure alla legislazione e alle imposte.
Il Gagern pensava, senz'alcun dubbio, alla Prussia. Il pensiero di lui si rivelò presto nel tentativi, promosso dal Nassau, dei gabinetti della Germania meridionale (eccettuata la Baviera) e della Sassonia di far propaganda, mediante una ambasceria collettiva, per una confederazione tedesca sotto la direzione della Prussia, purché questa, come pose per condizione il Württemberg, fosse diventata uno Stato costituzionale.

Ma a Berlino non c'era da aspettarsi né da una parte, né dall'altra spirito di conciliazione. Il Re il 10 marzo aveva desiderato di dichiarare incorsi nel bando supremo dell'Impero non solo i 51 di Heidelberg, ma anche quelli di Darmstadt e di Nassau, quindi gli aderenti al Gagern, e di far la voce grossa con la rivoluzione tedesca.
Egli pensava all'occupazione dei territori irrequieti mediante truppe forestiere, soprattutto austriache e prussiane. Lo Zar avrebbe tenuto tranquilli i Polacchi. L'Austria si vide costretta, senza rinunziare a nessuna delle sue pretese sulla Germania, a pensare solo a sé. Il guaio della monarchia danubiana non consisteva semplicemente in ciò che l'Imperatore era una nullità e i componenti della conferenza di Stato, che governava per lui, non si trovavano d'accordo, ma ancor più in questo che i personaggi più autorevoli poco alla volta avevano perduto la fede nella stabilità del sistema e tuttavia mancavano della capacità indispensabile a preparare quanto necessitava con giudizio e con energia.

Il Metternich fin dal 1847 non era più avverso a certe riforme, ma non riusciva a renderle accette all'arciduca Luigi, che presiedeva la conferenza di Stato: d'altra parte, giacché le ondate si erano fatte più alte, l'arciduchessa Sofia, preoccupata dell'avvenire di suo figlio Francesco Giuseppe destinato alla corona, complottava di nascosto contro il cancelliere imperiale che appariva onnipotente al mondo esteriore.
La tempesta rivoluzionaria trovò Metternich come lui stesso ebbe a dire, paralizzato e isolato. Abbiamo visto come fino dal principio dell'anno i seguaci del movimento nazionale in Italia avevano superato l'austro Governo del Lombardo-Veneto, cosicché solo il giudizio statario costringeva all'obbedienza.

In Praga c'era dell'agitazione. In Ungheria, per colpa del Governo, forte unicamente nel rifiutare, i nazionali radicali incominciavano a sopravanzare tanto il vecchio partito conservatore, quanto il moderno costituzionale. La questione nazionale, per lo più e a ragione temuta al «castello imperiale», svelava la sua faccia.
Inoltre i mezzi dello Stato, soprattutto finanziari, non bastavano più. Invano da tempo il Radetzky aveva chiesto rinforzi. Anche i pieni poteri al principe Windischgratz, di cui si parlò per un momento, per la sicurezza della monarchia di qua dalle Alpi non vennero concessi.
Nella Austria tedesca il torpore artificialmente coltivato incominciò a svanire già prima della rivoluzione parigina e soprattutto dopo. Ma siccome si era consciamente depresso ciò che si voleva muovere, la lucidità e la armonia dei vari gruppi sociali non potevano offrire ai reggitori nessuna mira, nessun appiglio o appoggio, anche se ci fosse stata la volontà.

Ora poi si aggiunse a ciò e alla preoccupazione per la temuta bancarotta dello Stato anche l'esasperazione, di cui si sentiva l'eco dall'Ungheria. Tutti ricordavano come il Kossuth, alla dieta del regno del 1847 aveva minacciato una spietata distruzione «al pitocchiesco privilegio» dell'esenzione dalle imposte concesso alla nobiltà.
II 3 marzo 1848 il poderoso agitatore aveva, con ostentata sicurezza, dichiarato garantito l'avvenire dell'Ungheria, finché il sistema governativo nelle altre province contraddiceva a ogni principio costituzionale. In luogo del sistema viennese, dall'ossario del quale spirava un'aria pestilenziale, bisognava domandare per la salvezza della dinastia l'affratellamento dei popoli dell'Austria mediante una libera costituzione e l'associazione al trono imperiale di istituzioni costituzionali.

Una rappresentanza della tavola degli Stati espresse questo desiderio, che invano i magnati si studiarono di stornare. L'11 marzo una assemblea di cittadini di Praga aveva deliberato una petizione in favore di una più stretta unione dei paesi della corona di Boemia, dell'abrogazione della prestazione di servizi, della guardia civica e così via. Qui come a Vienna c'era della preoccupazione per il comunismo. A Vienna, in attesa della riunione degli Stati dell'Austria inferiore, i circoli colti, gli studenti, i mestieranti formularono soprattutto i loro desideri.
La dieta stessa, che si radunò il 13 marzo, si accontentò con molta moderazione della domanda della costituzione di giunte unite degli Stati provinciali. Ma il movimento, trascinato da letterati, studenti, lavoratori andò molto più in là; con il debole tentativo di una repressione militare crebbero l'eccitamento e la bramosia della lotta anche fra la tranquilla borghesia.

La conferenza di Stato, assediata e incalzata da consiglieri invitati e non invitati, da deputazioni, ondeggiava incerta, finché si risolvette a concedere la libertà di stampa e a promettere una costituzione per l'Impero; la quale fu promessa soltanto dopo che il Metternich, il quale non aveva avuto che scherno per la rivolta, si era visto costretto a dimettersi dalle sue cariche per mancanza di fermezza o per segreta opposizione del partito statale e di corte (Sofia in testa).
Ciò che era inevitabile, assunse una forma sotto l'aspetto personale umiliante e fatale al bene comune.


Con il Metternich era sparito il punto d'azione tollerato per consuetudine timorosa. Ne seguì uno sfacelo come non si era mai manifestato più pericoloso nella storia della casa di Absburgo anche al principio del 17° secolo.

Come l'Italia, fuori dal campo del Radetzhy, fosse per il momento perduta per l'Austria é stato raccontato. Per salvare il prezioso possesso si posero in moto, dopo l'irruzione di Carlo Alberto, le truppe disponibili per rafforzare il Radetzhy. Ci si doveva ben presto accorgere con dolore della loro mancanza in patria.
In Boemia si notavano dei movimenti convulsivi sempre più appassionati. I céchi palesavano tendenze al panslavismo, infatti la più, caratteristica manifestazione fu il posteriore congresso slavo di Praga.
I torbidi nazionali céchi durarono fino al giugno, la repressione sanguinosa dei quali per opera del principe Windischgratz fu un primo buon successo dei circoli interessati al mantenimento dell'impero asburghese.
L'estensione e il carattere autonomistico del moto avevano relazione con l'importanza tedesca della rivoluzione, rilevata soprattutto dagli studenti viennesi, e con la debolezza del Governo centrale di Vienna dopo il 14 marzo. Gli uomini, come il Fiquelmont, il Pillersdorf, che doverono sostituire i personaggi celebri caduti, erano impiegati fedeli, ma senza la stoffa di statisti. A formarli, il sistema di tutela patriarcale era stato del tutto inadatto. Solo dei saldi caratteri avrebbero potuto arrestare il giochetto puerilmente perverso della rivoluzione, a cui si davano i trionfanti studenti ed operai.

Invece la capitale era sotto il dominio dell'aula magna. La legione studentesca e la guardia nazionale rincalzavano le richieste del Popolo. Ogni movimento indipendente del Governo destava la diffidenza e il timore della reazione in quei gruppi, nei quali nessuno sarebbe stato in grado di dire come dovesse farsi la nuova costituzione.
Ma quando, in nome dell Imperatore, il 25 aprile fu pubblicata una costituzione sul modello belga per la metà occidentale della monarchia, essa fu rigettata sdegnosamente per il modo, onde era stata concessa, e per il sistema delle due camere.
Si dovevano indire le elezioni per una assemblea costituente. Certo quella costituzione era sorpassata da guarentigie ad alcuni paesi della corona, per esempio alla Boemia. Altre città avevano imitato in tutta fretta l'esempio di Vienna, cosicché il ministero doveva lottare di continuo per la propria esistenza.

In Vienna esisteva per la difesa dei diritti popolari il comitato centrale; formato da vari gruppi, la cui efficacia avviliva la Corona a trastullo dei rivoluzionari. Quando si tentò di scioglierlo, Vienna si sollevò di nuovo e costrinse a cedere. Ma almeno la corte imperiale con il suo trasferimento nella leale Innsbruck (metà di maggio) fu sottratta alla quotidiana violenza di richieste rivoluzionarie. Prima che avvenisse ciò, il malato sovrano alla chiusura della dieta ungarica (10 aprile) aveva dovuto dare la sua approvazione di persona a leggi (ai 31 articoli), che non solo trasformavano la feudale Ungheria in uno Stato moderno costituzionale, ma spezzavano l'antica unità monarchica dell'Austria.

Fino dal 13 marzo, in grazia delle colpe del sistema seguito per decenni, la massa radicale aveva reso la dieta quasi il portavoce delle proprie passioni. La giunta di sicurezza a Pest era padrona, a causa della irresistibile personalità del Kossuth nella dieta, della situazione nella capitale e fuori.
La tavola degli Stati fu trascinata; i magnati si adattarono malvolentieri. Gli impiegati del paese furono più volte cacciati via da giunte popolari. In tali condizioni la dieta era l'ultima difesa contro l'anarchia e la corte viennese non si trovava in grado di non ascoltarne la voce minacciosa. I 31 articoli rappresentavano in realtà una nuova costituzione. Il Regno, insieme con la Transilvania, ricevette un ministero autonomo, responsabile, cosicché perfino per gli affari esteri fu assegnato un ministro ungherese alla corte del Re.
Così era dichiarata l'unione personale della Ungheria con la rimanente Austria. Solo il contributo dell'Ungheria ai gravami della monarchia era in generale garantito. I privilegi della nobiltà, pur risparmiandosi la costituzione dei comitati, decaddero. Si concessero imposte obbligatorie per tutti, abolizione delle imposizioni rurali, libertà di stampa, corte d'assise; il diritto elettorale per le elezioni alla dieta fu trasformato in senso democratico, e s'introdussero sessioni annuali.

Il nuovo ministero comprese, oltre a vecchi costituzionali, come il Deak, anche il Kossuth, il quale, per quanto amasse di chiamarsi un semplice cittadino, in realtà era il personaggio più autorevole del paese. Il carattere rude magiaro del movimento eccitò le altre nazionalità. I Croati si strinsero alla loro volta tanto più saldamente attorno al baro di Croazia, nominato dal Governo, lo Jellacic. Nella Transilvania i Valacchi fecero opposizione, mentre i «Sassoni» tedeschi preferivano di stringersi nell'unione con la nazionalità dominante. Altrove si sognò un triplice regno di Croazia-Slavonia-Dalmazia.
Rimarrebbe a questo punto molto poco da dire: la monarchia asburghese scricchiolava in tutte le sue connessure e sembrava andare incontro allo sfacelo, mentre era un'illusione frequente di persone non versate nella storia!

Pur in mezzo a tutte le calamità in Vienna non si pensò minimamente a rinunziare a nessuna pretesa; neppure a quella del predominio sulla Germania. Forse il maggior servizio che la politica studentesca abbia reso all'impero é che all'occasione opportuna pose in mano all'imperatore Ferdinando una bandieraa nera, rossa e gialla.
Allora le trattative intorno alla riforma federale col prussiano von Radowitz non avevano dato ancora nessun risultato palpabile. Il Re Federico Guglielmo IV nondimeno teneva fede all'idea di procedere di comune accordo anche dopo la rivoluzione, e il 16 marzo fece suggerire l'invio dell'arciduca Giovanni al progettato congresso dei principi, che però ormai doveva essere trasferito a Postdam. Ma egli tuttavia si era indotto a un apprezzamento più esatto delle forze, che si offrivano dal basso, ancor poco prima aborrite, in quanto egli riteneva il riguardo ai costituzionali, come alle corti della Germania meridionale, quale provvedimento preventivo favorevole alla monarchia contro i repubblicani.

Allora si vide in quale caos fosse precipitata la vecchia Austria, e maturò il disegno di emanare una notifica conciliante prima che si fosse pensato, e quindi nel nome dei vecchi ministri affatto malvisti.
A ciò incalzavano i sanguinosi tumulti, di cui sin dal principio di marzo era stato teatro Berlino, le notizie intorno alla pericolosa eccitazione nelle province, specie nella Slesia e nella regione renana, e così via.

Così nella notte dal 17 al 18 marzo fu approntata e nel pomeriggio pubblicata una patente, con cui la dieta unificata era convocata per il 2 aprile. Da essa in unione con altri Stati tedeschi doveva formarsi una provvisoria rappresentanza federale per intraprendere, d'accordo con i principi e col popolo, la trasformazione della confederazione tedesca in uno Stato federale.
La necessità di dotare tutti i paesi tedeschi di una costituzione era riconosciuta. Un esercito federale sul modello prussiano sotto un generale federale, una flotta con bandiera tedesca, un tribunale federale, una lega doganale tedesca, un indigenato tedesco, libertà di domicilio, monete eguali e finalmente libertà di stampa erano proposte per un libero accordo di quella rappresentanza dei principi e del popolo.
Solamente l'abrogazione della censura per la Prussia avvenne mediante una legge speciale. Lo Hohmzollern, patriotta tedesco, voleva, e non era per lui una novità, assegnare all'amata Germania gli attributi più essenziali dello Stato prussiano.

Senza dubbio, prima della rivoluzione egli voleva sotto questo rispetto fondere la Prussia nella Germania; ma c'era troppo di oscuro e di impreciso nel suo programma. I circoli politicamente più progressivi della Prussia sentivano con dolore soprattutto la mancanza di una trasformazione immediata più democratica della rappresentanza, chiamata a cooperare al mutamento. E non intendeva aspettare più.
Così alla mezzanotte del 18 marzo le manifestazioni di gioia della folla radunata sulla piazza del castello furono un po' alla volta sostituite da un certo senso di malcontento. Non si credeva del tutto alla serietà della cosa e non ci si persuadeva che il partito militare di corte, del quale si accettava per buono come capo l'erede del
trono, il principe di Prussia, non cercasse dei conflitti per creare un pretesto a ritirare le promesse regie.

In mezzo a quella triste condizione, esplosero due colpi, che si scaricarono casualmente, dai fucili dei soldati, i quali, per il minaccioso assembramento della folla, erano destinati al pacifico sgombro della piazza.
Nessuno fu colpito. Ma in mezzo al malumore degli animi eccitati da un contrasto di settimane con i militari aumentò oltre misura il sospetto di essere ingannati, anzi traditi. C'erano in Berlino alcuni agitatori stranieri; sarebbe però un grosso errore vedere in essi i rappresentanti della sollevazione, che anzi tutto trascinò giornalisti, studenti, operai e indubbiamente comprese anche molti agiati cittadini, per quanto con più calma e più senno.


In un attimo si innalzarono barricate nelle vie, che sboccavano al castello recinto da truppe. Senza far torto all'eroica perseveranza di alcuni, le soldatesche, comandate dal generale Pritwitz, avanzarono vittoriose nella battaglia notturna per le strade della città. L'esito, più che in qualsiasi altra rivoluzione, era assicurato secondo il giudizio umano.
Avvalendosi della sua restaurata potenza, al Re si offriva l'impareggiabile fortuna di inserire nello Stato monarchico quanto di sano avevano i desideri popolari.
È la sua colpa storica quella di non essersi saputo risolvere ad approfittare del momento. Umanamente si comprende come egli trascinato qua e là dalle sue impressioni, determinate da influssi e opinioni di specie diversa, in quel suo proclama patriarcale, ma scandaloso della mattina del 19, abbia ordinata ai suoi amati Berlinesi la ritirata dei soldati quasi vittoriosi con la condizione della demolizione delle barricate.

Secondo la sua opinione la ritirata avrebbe dovuto proseguire fino ai posti attorno al castello. Ma il Prittwitz aveva considerato quella posizione molto precaria già prima, soprattutto, perché era intollerabile lo star fermi gli uni di fronte agli altri con quelli delle barricate ebbri della possibile vittoria. Ma del resto nemmeno poteva contare sul permesso del Re, che nell'intimo suo era nel travagliato dubbio di far uso delle armi.

Per suo ordine verso il mezzogiorno avvenne l'ulteriore ritirata nelle caserme e presto dalla città, eccettuata una modestissima guarnigione nel castello. In sostanza la protezione della coppia regia era solo affidata alla guardia civica, allora formata con il consenso del Re. Qui non si può tacere della umiliante posizione, in cui il Re nei giorni successivi si vide ridotto più di una volta dinanzi ai rivoluzionari esasperati, del suo saluto mezzo forzato ai caduti sulle barricate nella corte del castello, della sua partecipazione al solenne funerale, l'immagine del quale ci ha trasmesso Adolfo von Menzel.

Più importanti sono le concessioni strappate al monarca, dalle quali il nuovo ministero, sotto la presidenza del Conte Arnim-Boitzenburg, non riuscì a preservarlo. Un'amnistia con la liberazione di Polacchi condannati favorì il ritorno dei capi naturali con le forti tendenze nazionali polacche in Posen.

Il 21 marzo Federico Guglielmo, ornato dei colori nero, rosso, giallo, cavalcò per le vie di Berlino e annunziò in vari discorsi agli studenti di aver presa la decisione di voler prendere nelle proprie mani la "direzione della Germania per i giorni del pericolo".
Un proclama: «Al mio popolo e alla nazione tedesca» spiegò ancora meglio della dichiarazione, che da allora in poi la Prussia si fondeva nella Germania.

Che così - meno di quanto si pensasse- si fosse toccato un registro nuovo si ricava dall'accordo del concetto con quello del proclama del 18. Il 2 aprile infatti prìncipi e rappresentanze dei vari ceti con organi della dieta unificata doveva raccogliersi in un'assemblea provvisoria degli Stati per deliberare quanto occorreva. Quindi in ambedue i momenti si trattava dei delegati dei vari ceti accanto ai prìncipi.

Caratteristico per l'intimo suo significato fu il duplice argomento delle sue discussioni: "formazione d'un esercito nazionale federale e dichiarazione di neutralità armata". L'introduzione della responsabilità ministeriale, secondo il concetto costituzionale, fu di nuovo promessa.
Ma Federico Guglielmo fu mal consigliato nell'intimo del suo animo oscillante e anche dal suo ministro degli esteri, Enrico di Arnim, in questo tentativo di procurare al fermento interno uno sfogo all'esterno.
Le corti avrebbero ben dovuto appoggiarsi ad una Prussia forte; ma alla Prussia fiaccata dalla rivoluzione le ben disposte corti fin dall'inizio si mostrarono ben presto più fredde, in quanto l'Austria il 24 marzo aveva richiamato l'attenzione sulla via legale federale, sulla quale la Baviera anch'essa aveva insistito.

Con la condanna dei Governi coincideva lo scherno furibondo dei democratici da tutte le parti. Il contrasto tra le forze del regionalismo e del progresso costringeva quindi ad aspettare. Anche in Prussia gli esaltati non erano per nulla contenti delle concessioni fatte fino allora. Deputazioni di Breslavia e di altrove esigevano l'immediata formazione di un'assenblea legislativa sulla base del suffragio universale.
È merito del conte Arnim di avere, davanti alla tempesta, mantenuta la continuità della evoluzione legale dello Stato, non con l'impossibile conservazione della dieta unificata, costituita dalla rappresentanza delle classi, ma con lo avere sottoposto ad essa per la decisione le norme concernenti la legge elettorale.

Certo bisognò al tempo stesso promettere mediante un ordine di gabinetto che la rappresentanza doveva essere scelta col sistema diretto, senza differenza di religione, ed esser chiamata a formare una costituzione sulle basi più larghe. Al progetto di legge liberale per la nuova rappresentanza si congiunse la promessa di far prestare all'esercito permanente giuramento di fedeltà a quella costituzione.
Al conte Arnim, che aveva ottenuto un così ambiguo impegno, teneva dietro fino dal 29 un ministero essenzialmente liberale sotto la presidenza di Ludolfo Camphausen, che ben presto si dichiarò responsabile. La seconda dieta unificata (dal 2 aprile), oltre alla legge elettorale, fondata sul suffragio universale, per l'assemblea destinata a deliberare la costituzione e a curarsi provvisoriamente delle funzioni degli stati del regnò, stabilì il 6 aprile completa libertà di stampa, diritto di riunione e associazione, abolizione di tutti gli speciali tribunali di classe, consenso alle imposte e approvazione delle leggi come attributi della futura costituzione.

Questa dieta, formata rigidamente sulla rappresentanza di classe, accolse, con eccezioni del tutto isolate, quelle riforme molto democratiche (suffragio elettorale universale e sistema di un'unica camera), senza che dall'alto si facesse neppure il tentativo di adoperare questi rappresentanti del vecchio ordinamento come freno contro la corsa troppo precipitosa della carrozza dello Stato.
Anzi, si sarebbe votato un incoraggiamento unanime al Governo, se uno non si fosse opposto, Ottone di Bismarck. Contro la sua opposizione fu pure approvato un prestito volontario (o altra fornitura) dei mezzi finanziari occorrenti nella somma di 15 milioni di talleri per la difesa interna ed esterna; quindi per l'esercito.
Siccome l'erario dello Stato disponeva tuttavia di considerevoli fondi, ne risultò la regolare continuazione dei pubblici servizi pur nell'ebbrezza della
rivoluzione.

Nessuna giunta popolare rivoluzionaria poteva sostituire le pubbliche autorità. L'esercito sostenne la più difficile prova con l'essere sacrificato nella vittoria dal suo capo ereditario. Senza dubbio dai gruppi degli ufficiali si rivolgevano sguardi appassionati all'Inghilterra, dove si era rifugiato, per ordine del Re, il principe di Prussia, colpito dall'odio della plebe della capitale.
Per mesi interi si protrassero gli sforzi tanto per rendere possibile il suo rimpatrio, quanto per far ritornare nella loro guarnigione la truppe allontanate da Berlino.

Oltre all'agitazione della grande città, accresciuta dai demagoghi artificiosamente con lo spargere notizie inventate, per esempio, dell'imminente avanzata dei Russi, sovrastava la ribellione nella provincia di Posen.
Contemporaneamente alla grazia dei condannati nel grande processo contro i Polacchi veniva promesso a una deputazione di Posen dal Re, col patto di un atteggiamento legale, un riordinamento nazionale mediante l'opera di una giunta mista di Polacchi e di Tedeschi.

Con una fraudolenta alterazione delle parole del Re i Polacchi si erano arbitrariamente accinti a usare violenza ai coabitanti tedeschi, a cacciar via impiegati, e perfino a istituire una milizia polacca.
Da principio la debolezza delle autorità -sia civili che militari- aveva tollerato tutto ciò anche per riguardo all'armamento. Ma quando i Tedeschi si mossero e quando fu deliberato l'assegnamento della parte tedesca della provincia, come pure della Prussia orientale, alla confederazione tedesca, i Polacchi apertamente rifiutarono di obbedire. Solo dopo una sanguinosa lotta si arrivò, al principio di maggio, a ristabilire l'ordine, cosicché si evitarono complicazioni con la vicina Russia.

L'impiego di una parte dell'esercito, di cui si parlerà in altra parte, in favore dei ducati dello Schleswig Holstein contro la Danimarca era di giovamento per rialzare lo spirito depresso delle milizie.
Così lo Stato necessariamente adempiva al dovere di affermarsi, ma le forze e l'opinione, che dello stesso Stato si nutriva fuori del paese, non l'abilitarono subito a abbandonare le sue incertezze per difendere e dirigere l'intera Germania.
E fu una prova d'educazione politica tanto più progredita che, con tutto ciò, patrioti moderati conservassero la speranza di un futuro volo dell'aquila federiciana.
Forse non dipese da quella debolezza, se l'idea favorita di coloro che prima del marzo 1848 vagheggiavano l'unità germanica, il concetto della fusione della Prussia nella Germania, si trasformò negli attivi campioni dell'unità monarchica della patria in un presupposto, per lo meno tacito, dei loro disegni?

Ad uno Stato paralizzato, ad un Re, che vuole o non vuole, non si poteva certo confidare nessuna egemonia! L'Austria poi, molto più disfatta, non esitava a ricordarsi con ogni energia delle sue pretese. Alla notificazione di Federico Guglielmo del 21 marzo fu risposto il 25 sulle colonne della «Gazzetta di Vienna», (fino allora ufficiale) che il Re con la mano insanguinata aveva inalberato i colori germanici, perseguitati da anni, e che il popolo tedesco indietreggiava spaventato davanti al suo entusiasmo.

Il Re voleva innalzare il suo io al disopra della legge e imporre alla Germania la sua persona come capo. Il ministero austriaco dopo quel proclama rinunziò ad ogni ulteriore partecipazione alla concertata conferenza per le riforme a Postdam e dichiarò che avrebbe partecipato a trattative per la revisione costituzionale solo conforme alle vigenti leggi federali nella dieta federale. L'Austria mantenne questa riserva in favore dei trattati del 1815 e mai rinunziò ai privilegi derivantigli da quei trattati durante l'intero svolgimento della rivoluzione tedesca.
Ma anche senza tale protesta legale, nell'inerzia sconsigliata nelle piccole e nelle grandi cose, ancora una volta spettò alla quasi dimenticata dieta federale l'ufficio di unico organo della totalità dei Governi.

Durante le ultime settimane essa aveva proseguito nelle volontarie rinunzie. Non solo erano stati sostituiti speciali inviati malvisti con altri; ma, in forza di una propria proposta le furono aggiunti, conforme ai 17 voti del consiglio più ristretto, 17 uomini di fiducia, il più autorevole dei quali era il professor Dahlmann di Bonn.

Siccome tutti, anche i Governi, si erano dichiarati favorevoli al ringiovanimento della Germania, anche la dieta federale era naturalmente propensa a una costituzione da concertarsi fra i Governi e il popolo mediante una rappresentanza nazionale germanica.
La compilazione del disegno della legge fondamentale fu lasciata ai 17 uomini di fiducia. Il progetto, rigidamente federale, pubblicato nell'aprile chiedeva un parlamento con una camera alta (principi e consiglieri scelti dai singoli Stati) e una camera bassa. Intorno al problema del sovrano dell'impero se dovesse essere un imperatore ereditario o elettivo, non si era riusciti a ottenere nessuna concordia.

Neanche in seguito non fu dai Governi fatta alcuna specie di proposta al parlamento per le sue deliberazioni, né fu presentato alcun progetto di costituzione, quale risultato di comuni decisioni. Ciò si comprende, anche se rammentiamo soltanto le opposizioni dei Re di Prussia e di Baviera, o quelle del principe di sentimenti tedeschi, Alberto di Coburgo, marito della Regina d'Inghilterra.
Una così strana sterilità é spiegata dal fatto che un'assemblea semplicemente nazionale, sorta dal più puro patriottismo, ma mancante d'ogni fondamento legale, ebbe importanza decisiva nell'ulteriore svolgimento degli eventi. Il parlamento preparatorio, convocato dalla giunta dei sette, arbitrariamente formato di membri attuali e precedenti delle rappresentanze delle classi, di deputati delle città, di pretesi fiduciari del popolo tedesco, si radunò fino dal 31 marzo a Francoforte sul Meno in mezzo al più vivo interesse dell'intera nazione.

Nella violenta lotta venne fatto di eludere le proposte del partito, guidato dallo Hecker, dallo Struve, dal Blum, che esigeva con ardore, a così dire, temperato l'introduzione della repubblica, rispondesse essa o no al volere del popolo. Costoro turbati abbandonarono il parlamento preparatorio, di cui avevano chiesto la permanenza sotto la direzione di una giunta esecutiva e la protezione di un esercito parlamentare.

Ma, a prescindere da questi inconciliabili avversari dell'ordine costituito, anche i costituzionali monarchici non riuscivano a trovarsi d'accordo sul terreno di un disegno di riforma. Non restava altro - dato il carattere di quell'assemblea improvvisata ed era l'unica cosa giusta - che rimandare al futuro parlamento la questione della costituzione. Si adottò pertanto la formula che la deliberazione intorno alla futura costituzione della Germania sarebbe stata lasciata completamente e soltanto all'assemblea nazionale da eleggersi dal popolo.

Così, col porre in disparte i prìncipi, era affermata la massima della sovranità popolare; al parlamento era riservata la facoltà a suo piacimento di venire in fine ad accordi con i Governi. Oltre il potere travolgente della teoria, oltre la debolezza presente dei Governi contribuì pure a questa deliberazione assai biasimata anche il pensiero di liberarsi in bella maniera dei disegni costituzionali, gettati là dalle due parti all'assemblea niente affatto autorizzata.

Nessuno allora si oppose, neppure fra i Governi. La dieta federale rinunziò, senza proferir parola, all'accordo fra prìncipi e popolo, da lei stessa avanzato prima, come scopo del parlamento. I deputati a questa assemblea nazionale costituente dovevano, conforme il decreto del parlamento preparatorio, essere eletti con votazione segreta da tutti i cittadini maggiorenni e indipendenti, lasciandoli così liberi di seguire il sistema d'elezione diretta o indiretta.
Ogni 50.000 abitanti formavano un distretto elettorale. Anche riguardo al suffragio universale ed eguale per tutti, la dieta federale rinunziò alle sue deliberazioni precedenti; anzi la Prussia addirittura revocò la scelta dei suoi deputati già compiuta dalla dieta unificata, e lasciò effettuare le elezioni conforme alle decisioni del parlamento preparatorio.

Non poteva contrassegnarsi più acutamente il potere di questo corpo rivoluzionario, fondato sulle condizioni di fatto. Una giunta di cinquanta persone, sopravvissuta alla chiusura della tornata, nel caso di pericolo della patria doveva subito riconvocare il parlamento preparatorio e nel resto sostenere frattanto per suo conto gl'interessi nazionali presso la dieta federale. Anche qui c'era un compromesso della maggioranza con i radicali, che esigevano una giunta esecutiva: dall'importanza rivoluzionaria della quale erano ben lontani i cinquanta, che all'opera loro non trovarono troppa obbedienza in alto, e in basso nessuna. Pur nondimeno partì da loro l'iniziativa di fondare una flotta tedesca con denaro federale.

Era stabilito che la Prussia orientale e occidentale come pure lo Schleswig s'incorporassero senz'altro nella confederazione e quindi partecipassero all'atto delle elezioni parlamentari. Il problema riguardo alle elezioni nei distretti tedeschi di Posen era stato riservato alla decisione dell'assemblea nazionale. Il parlamento preparatorio aveva, quasi unanime, dichiarato un sacro dovere del popolo tedesco contribuire a restaurare la Polonia.

Strano era che non si fosse neppur lontanamente pensato - così forte era l'odio partigiano contro la Russia autocratica-reazionaria - al tradimento, che così si compieva, verso i fratelli tedeschi. Un tradimento verso l'evoluzione nazionale fu fatto dai radicali nel Baden, stato mediano di recente nascita, ormai quasi del tutto posto fra due repubbliche.

Che lo Hecker, un demagogo affascinante, e lo Strùve, cocciuto nelle conseguenze delle sue dottrine fino all'assurdo, in un paese, che già prima del marzo era, sotto il ministro Bekk, avviato sulla strada del progresso, scatenassero la rivolta con tutti i mezzi della peggior demagogia, fu al tempo stesso un colpo di grazia per l'autorità della giunta dei cinquanta.
Quando lo Hecker e lo Struve ebbero visto che il parlamento preparatorio non si lasciava trascinare a stabilire una repubblica federale tedesca, essi, contro la volontà di famosi correligionari politici, come Roberto Blum, si erano decisi a una levata di scudi repubblicana nel sud ovest della Germania.

L'estendersi del moto rivoluzionario nel distretto del lago di Costanza fu impedito dall'atto virile del deputato alla dieta Carlo Mathy, che fece arrestare il giornalista Fickler al momento della sua partenza. Il comandante delle truppe badensi, già generale olandese, Federigo di Gagern, fratello del ministro, pensava con delle trattative di ricondurre i rivoltosi alla ragione: appoggiato nei suoi sforzi dagli eguali tentativi della giunta dei cinquanta.

Ambedue dovevano temere che in un movimento, represso subito con le armi potesse annidarsi un incitamento alla reazione. Per la cocciutaggine dello Hecker un abboccamento fu inutile, e una palla sparata contra gli usi di guerra uccise il patriottico Generale. Gl'insorti furono battuti e dispersi a Kandern dalle milizie badesi, le forze dello Struve a Steinen da soldatesche federali. Un contingente di truppe formato principalmente da profughi tedeschi, che il poeta G. Herwegh conduceva con se dalla Francia, soccombette per opera dei würtemburghesi alla medesima sorte.
L'atteggiamento corretto del Governo francese non permise che si arrivasse al temuto appoggio. Le truppe - l'obbedienza delle quali non era per nulla scossa - tennero in loro possesso il paese fino alla frontiera di Basilea fino all'ultima decade di aprile.

A prescindere dal dominio d'un giorno dei repubblicani in Costanza, l'impalcatura del Governo resse. Nel Baden in piccolo, come in occasione di altri eventi, così nello stesso parlamento preparatorio, era sempre apparso che la resistenza dei monarchici costituzionali agli eccessi verbali e di fatto dei repubblicani era stata timida e meschina. Costoro erano (lo sentivano) salvatori dello Stato, ma senza seria fiducia nella veridicità delle promesse dei prìncipi non volevano addossarsi di toglier loro del tutto il terrore, che frenava i sovrani.
Alle difficoltà interne della Germania in formazione s'accoppiavano quelle esterne.

Nella Danimarca, retta fino allora con Governo assoluto, il nuovo Re Federigo VII, l'ultimo della linea maschile, aveva espresso l'intenzione di attuare mediante una costituzione politica, abbracciante il Regno e ambedue i ducati, l'unione e l'indipendenza dello Schlewig e dello Holstein. Ma dopo la rivoluzione parigina si vide costretto per opera dei democratici di Copenaghen, riusciti a diventare strapotenti, a cambiare ministri e ad accettare il programma danese dell'Eider.
Quindi il 23 marzo fu notificata l'annessione costituzionale dello Schleswig, tedesco per due terzi, alla Danimarca e così spezzato arbitrariamente il vincolo nazionale e l'antico ordinamento basato sul diritto storico. Ciò avvenne proprio nel momento, che una deputazione dei notabili dei ducati in Copenaghen aveva chiesto comuni rappresentanze delle classi ed entrata anche dello Schleswig nella confederazione tedesca.

Alla notizia degli avvenimenti di Copenaghen e alla posteriore dell'imbarco per lo Schleswig di speciali truppe danesi si formò nei ducati un Governo provvisorio, costituito dai personaggi più in vista, con il pretesto di dover difendere il duca dello Schleswig Holstein e l'antico diritto contro il non più libero Re di Danimarca. Esso si vide appoggiato dal giubilante consenso della popolazione tedesca e addirittura anche della parte agiata.
Dopo la sorpresa della fortezza di Rendsburg, le truppe native del paese, allontanati i loro ufficiali danesi, si erano dichiarate favorevoli senza nessun contrasto al Governo provvisorio. Giovani e vecchi si armavano per resistere all'imminente assalto. L'entusiasmo nazionale, che allora pervadeva tutta la Germania, aggiunse loro una schiera di volontari audaci, non sempre e del tutto idonei, formata da studenti, ma anche da elementi meno desiderabili.

La Germania ufficiale non poté del tutto rimanere in disparte. Ai richiami del duca di Augustenburg, nella sua qualità di pretendente legittimo, subito dopo il Re danese, ai ducati, il Re di Prussia, il 24 marzo, riconobbe, in una lettera, le tre massime del diritto pubblico dello Schleswig Holstein, fra le quali la successione della linea maschile, e promise aiuto. Pochi giorni dopo andò più avanti la dieta federale, che, riconosciuto il Governo provvisorio, decretò senza indugio l'accoglienza dello Schleswig nella federazione tedesca e l'ammissione di un plenipotenziario alla dieta federale (oltre il danese-holsteiniano).

È chiaro che questa concessione alle esigenze nazionali contemporanee non era meno illegale dell'annessione dello Schleswig alla costituzionale Danimarca. Non ci sarebbe stato bisogno di questa differenza di posizione rispetto al proclama accennato per rendere egualmente dubbioso il Re di Prussia al primo passo sulla via annunziata il 24 marzo. Egli cercava di persuadere la Danimarca che la sua intromissione in favore della appartenenza storica dei due ducati era rivolta solo al meglio della casa regnante in Danimarca: poiché i Tedeschi dei ducati, lasciati in asso, si sarebbero gettati nelle braccia dei repubblicani: la conseguenza potrebbe facilmente essere lo sfacelo della Danimarca, il suo incorporamento in una Unione scandinava.

Questa benevolenza non fu per nulla compresa dal partito dominante in Danimarca. Invece di entrare in trattative, passarono all'attacco e inflissero un colpo tremendo, sanguinoso a Bau alle milizie dello Sccleswig Holstein, che scarseggiavano di ufficiali sperimentati.
Era ormai pericoloso indugiare, e la guardia prussiana varcò l'Eider, altre truppe la seguirono per ordine della dieta federale, e vennero sottoposte al comando supremo prussiano.
Dopo l'espugnazione del Dannewirk i Tedeschi oltrepassarono, verso il principio di maggio, la frontiera dello Jütland; però solo allorché la Danimarca ebbe dato ordine di catturare le navi prussiane. Nella penisola di Sundewitt i Danesi si mantenevano.
Era, per la mancanza di una flotta tedesca, impossibile sopraffare i Danesi, i quali dominavano il mare e le foci dei fiumi tedeschi, cosicché puntavano all'usura, mediante il blocco delle coste prussiane, e delle perdite sofferte nello Jütland.

Ben presto il malcontento dei vari rami delle industrie danneggiati arrivarono al Governo berlinese oltre a ciò turbato dai disordini rivoluzionari. L'impresa irregolare, considerata propriamente come una specie d'esecuzione federale, aveva con la violazione della frontiera dello Schleswig estraneo, secondo il diritto delle genti, alla confederazione germanica, senza dichiarazione di guerra, assunto un carattere internazionale.
La Danimarca, dinanzi alla pretesa cupidigia di conquiste dei Tedeschi ebbe per sé le simpatie delle grandi Potenze non germaniche. Ciò che poteva fare la Francia, che aveva manifestato già seria voglia di appoggiare i Polacchi a Posen, era incalcolabile.
Da parte della Russia, il cui imperatore condannava la rivolta dei sudditi dello Schleswig al Re danese, c'era da attendersi dell'opposizione.

Lord Palmerston aveva, é vero, accennato alla divisione dello Schleswig secondo la frontiera linguistica come mezzo d'accomodamento, ma non c'era dubbio alcuno che l'Inghilterra guardasse con gelosia ad un ingrandimento nordico della Germania e al proposito della fondazione di una Potenza marittima, che il popolo tedesco credeva di poter foggiare con un tributo spontaneo.
La Svezia si armava per aiutare la Danimarca. Nei gabinetti tedeschi si nutriva poca simpatia per la questione.
L'Austria era risolutamente contraria e non mise a disposizione né un uomo né un fiorino. Così divenne inquietante ben presto per il Re di Prussia di procedere a braccetto con la rivoluzione contro i legittimi sovrani.

Indizio ulteriore fu un'istruzione del 5 maggio, con la quale la Prussia faceva dipendere l'accoglimento dello Schleswig nella confederazione tedesca dal consenso della Danimarca.

Così stavano le cose, quando il popolo tedesco non ancora educato politicamente nelle sue masse, e profondamente agitato fu chiamato ad eleggere un parlamento, a cui dovevano essere affidate le sue sorti.

segue

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