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143. L'EUROPA DOPO LA PACE DI WESTFALIA


Due protagonisti del "dopo": Mazarino e Cromwell

I trattati che posero fine alla lunga guerra dei Trent'anni furono firmati a Munster in Westfalia (dove erano riunite le delegazioni cattoliche), tra Spagna e Province Unite e tra impero e Francia; firmati a Osnabruck sempre in Westfalia (dove si riunirono le delegazioni protestanti) quello tra impero e Svezia.
Con i trattati fu concessa agli Stati non compresi nell'impero la piena libertà religiosa. La Francia si vide confermare il possesso di Toul, Metz e Verdun e ricevette parte dell'Alsazia. I trattati furono favorevoli anche alla Svezia, che ricevette la Pomerania occ. L'impero riconobbe l'indipendenza della confederazione svizzera e la piena sovranità delle Province Unite.

Ma non fu un opera duratura. Quando i delegati il 25 giugno 1650 si radunarono a Norimberga per scambiarsi solennemente le ratifiche dei trattati, vi fu chi credette che la posterità avrebbe cantato le loro lodi per avere inaugurato l'età aurea della pace. Essi presero un grande abbaglio. Neppure lo spazio di una generazione fu concesso all'Europa e alla Germania per riaversi e radunare nuove forze.

Tuttavia nel 1650, Il fragore della lotta terribile, che per trent'anni aveva infuriato nell'Europa centrale, taceva; sopra le rovine e i sepolcreti, si diffondeva la pace per tanto tempo invano sospirata e desiderata con ardentissimi voti. Soltanto nell'Occidente, sui confini della Francia e dei domini spagnoli, tuonavano ancora cannoni e moschetti di eserciti combattenti. E parve che tutte le calamità, tutta quell'opera di distruzioni fossero rimasti senza alcun risultato per lo sviluppo della cultura umana in Europa; quasi nelle medesime condizioni di tre decenni prima stavano l'una di fronte all'altra le tre grandi confessioni religiose storiche. Cattolici, luterani i riformati, con qualche eccezione, avevano conservato le loro precedenti posizioni .

Ma proprio per la sua inutilità apparente, quella lotta gigantesca ebbe conseguenze profonde, che si radicarono sempre più solidamente ed operarono in modo sempre più irresistibile. Paradossalmente quello che si era voluto togliere di mezzo con la guerra era stato da essa semmai consolidato; la scissione religiosa.
Non senza ragioni il papa nella bolla « Zelo domus Dei » del 26 novembre 1648 aveva sollevato opposizioni vivaci contro la pace di Wesfalia. Questo trattato, riconoscendo l'uguaglianza delle tre grandi confessioni cristiane e ponendole l'una presso l'altra con gli stessi diritti e con la stessa autorità, aveva spezzato per sempre quell'unità ecclesiastica, che si era cercato per tredici secoli di tenere in piedi con tutte le armi spirituali e temporali.

Non avevano forse il luteranesimo e il calvinismo sollevato la pretesa al pari di Roma di essere l'unica vera chiesa e di voler divenire la chiesa universale? Non avevano anch'esse con infallibili sicurezza sostenuto di essere nell'esclusivo possesso delle verità e chiamato figli e alunni dell'Anticristo e rei contro la maestà divina tutti quelli chi la pensavano diversamente?

Ormai un monopolio di quel genere non poteva più esser mantenuto. Nelle diverse chiese si doveva tollerarsi reciprocamente, si doveva accordare alle altri il diritto di esistere; prima di tutto nelle relazioni internazionali, dove il punto di vista confessionale passò del tutto in seconda linea e soltanto l'interesse politico decise delle amicizie e delle alleanze da stringere, come delle ostilità da iniziare, dove il papa pregò per la vittoria delle armi eretiche contro un conquistatore cattolico. E a poco a poco ne risultò naturalmente che l'unità ecclesiastica fu lasciata da parte anche nell'interno degli Stati.

I governanti, abituandosi a considerare un'altra religione come dotata degli stessi diritti e dello stesso valore nello Stato alleato, non potevano più guardarla a lungo nel proprio paese come un'empietà insensata, come una scelleratezza da estirpare. Quella tolleranza e quella mitezza, che si dimostrava al forestiero si estese anche al compatriota e al compaesano. Risuonavano sempre più alte le voci, che difendevano gli accomodamenti e la pace nel campo religioso, e volevano che si accentuasse quello che unisce e si escludesse quello che divide.

Filosofi, come Leibniz, ecclesiastici cattolici, come lo spagnolo Rojas, teologi protestanti, come lo scozzese Durans, maestri nel diritto pubblico come Samuele Pufendorf ed anche grandi principi come Federico Guglielmo di Brandeburgo, ripieni di pio zelo, si adoperavano per la riunione delle chiese cristiane ed accordavano frattanto ad ognuna di esse libertà di azione ed uguaglianza di diritti.
Come l'interesse per le contese di religione, così anche quello per la libertà e per l'indipendenza personale si era intiepidito, almeno sul continente europeo.

Le guerre durate già un secolo, provocate da contrasti confessionali in Germania e in Francia, avevano prodotto soprattutto uno stringente bisogno di trovar quiete e sicurezza, di render possibile una vita ordinata, di prendersi cura del benessere distrutto. Per questo incalzante desiderio di amore si era già pronti ad assoggettarsi alla signoria assoluta di un principe, nella quale si scorgeva la più sicura garanzia del mantenimento della pace e dello stato giuridico dei privati. Che poi fosse cattolico o protestante poco gli importava.

Il tempo delle sollevazioni dell'aristocrazia contro i principi, dei cittadini e dei contadini contro i nobili, degli avversari «letterari» della monarchia in Italia e in Francia era passato.
Il potere delle assemblee provinciali nei singoli paesi fu spezzato in favore dell'onnipotenza dei principi, il cui radioso ideale fu il grande monarca delle rive della Senna, il « Sole », Luigi XIV.
La seconda metà del secolo XVII e lìinizio del XVIII significano perciò il periodo della repressione dell'ordinamento medioevale per assemblee e lo svolgimento dell'assolutismo principesco. Cadono ormai gli angusti confini, tracciati al sovrano dallo stato feudale, con le sue rappresentanze di classe a vantaggio non dell'intero popolo, ma della minoranza delle classi privilegiate.

Contro il clero, contro la nobiltà e il patriziato cittadino, i principi « stabilirono la loro sovranità come un rocher de bronze ». Dopo la guerra dei trenta anni Moscherosch pone in bocca ai principi tedeschi le parole «io sono il signore, a dispetto di chi si oppone ; diritti o non diritti, ognuno faccia quello che io desidero; a chi non lo fa gli costerà onore e beni. Io sono il diritto, a dispetto di chi mi resiste».
L'elettore Massimiliano di Baviera, anche troppo noto per la storia di questa grande lotta, nel suo testamento consigliava il suo successore di tenere le assemblee più che fosse possibile in rispetto e nel caso che esse facessero «difficoltà superflue», « di metter mano al proprio potere e diritto e di valersene, tanto più che un principe regnante non deve aver bisogno della volontà di quelle, ma adoperare la sua superiorità sovrana».

Evidentemente la violenza nuda e cruda, la pura teoria del colpo di stato per parte del principe! Questa fu ancora ulteriormente sviluppata dal cancelliere Boehamb dell'elettore Ferdinando Maria a lui succeduto; le assemblee provinciali non recano onore nè utile al principe; da esse, che si «pongono come uguali a lato del sovrano, affettando una parità o consortium imperii, un sovrano avrebbe poco onore, poca reputazione e poco vantaggio. Un principe legittimo in forza della sua sovranità e autorità suprema può imporre da sé stesso delle imposizioni agli stati provinciali ed ai sudditi». È oltremodo caratteristica della posizione nuova assunta dal principato tedesco l'espressione del duca Giovanni di Annover (nell'anno 1670) "nel mio territorio sono io l'imperatore".

Dopo avere conseguito un potere illimitato, le case principesche germaniche, per la prima volta nella storia, cominciano a rappresentare una parte importante nella grande politica europea: così i Wettin della Sassonia, gli Hohenzollern del Brandeburgo, i Guelfi del Brunswick e dell'Annover, i Wittelsbach della Baviera. Nel secolo che seguì alla grande guerra, tre di queste case principesche ottennero corone regali, quella polacca, quella prussiana e quella inglese; un Wittelsbach portò il diadema più nobile del mondo, quello dell'impero romano. Da stirpi di vassalli erano così cresciute potenti dinastie europee.

Il sostegno principale del potere sovrano nuovamente rafforzato, anche più della burocrazia, era l'esercito stanziale, che ovunque prendeva i suoi contingenti feudali, insufficienti e indisciplinati.
I vantaggi di un esercito assoldato per il potere politico, che lo pagava e lo teneva perciò del tutto sotto la sua dipendenza, disponendone così sicuramente come di un'arma tagliente contro gli avversari interni ed esterni, erano tali che quello non si serviva più dell'esercito feudale.

I nobili si videro volentieri liberati da quest'obbligo grave e pericoloso, e nelle diete dell'impero e delle province accordarono somme considerevoli per i soldati, veramente non a proprie spese, ma prendendole dalla borsa dei cittadini e dei contadini. Non riflettevano allora che disarmavano sé stessi, mentre ponevano a disposizione del sovrano una spada sempre affilata e che, rinunziando ad un tempo al dovere di difendere il paese e alla vera sorgente e alla vera base dei loro privilegi, ponevano in grave pericolo anche questi ultimi ed anzi li rendevano a lungo andare insostenibili.
L'esercito stanziale assoldato ha reso i servizi più importanti all'assolutismo dei principi. Con esso Richelieu e Mazarino hanno soffocato i tentativi ripetuti di sollevazione dei poteri particolari tradizionali - nobiltà, parlamento, democrazia delle grandi città, ugonotti, chiesa. Con esso i re spagnoli hanno mantenuto in soggezione le province ricalcitranti dell'Aragona, di Napoli, del Portogallo, del Belgio. Con esso Venezia represse la nobiltà malcontenta e le città bramose di libertà della sua « terra ferma ».
Con esso dei sovrani, come il Grande Elettore di Brandeburgo, hanno annientato il potere delle diete, riscuotendo essi stessi manu militari delle imposte non consentite e persuadendo con questo le «signore diete» che erano prive di ogni aiuto e di ogni importanza. Con esso gli Asburgo hanno distrutto dalla base la libertà politica e religiosa dei loro regni di Boemia e di Ungheria.

Il non avere lo Stuart Carlo I d'Inghilterra costituito un esercito stanziale bene esercitato, fu la ragione principale della sua caduta.
L'iniziativa individuale, che non si poteva più manifestare nella lotta per gli ideali religiosi o per la libertà personale o per quella della propria classe sociale, si volse alla colonizzazione dei paesi stranieri al di là dei mari. Mentre prima principalmente i popoli romani - portoghesi e spagnoli - avevano fondato degli stabilimenti oltre gli oceani, vennero nel secolo XVII a mettersi a pari con essi, oltre ai Francesi, pure di stirpe romanica, specialmente le nazioni germaniche degli Inglesi e degli Olandesi. Con questo la colonizzazione conseguì un vasto carattere universale europeo.

Il sistema coloniale dei tempi moderni si distingue del tutto da quello dell'antichità. In questo solo eccezionalmente le nuove colonie procedevano come « cleruchiè » dello Stato e rimanevano perciò in stretto legame con esso, nella immensa maggioranza erano «apochìe» intraprese da privati senza partecipazione dello Stato, e poi il culto degli Dei patri, congiunto con una certa riverenza politica, era l'unico vincolo che le univa alla madre patria. Ben diversa é la colonizzazione moderna, la quale anche se compiuta da privati, avviene sempre in nome dello Stato d'origine e perciò riduce a possedimenti di questo i paesi stranieri.

Le colonie sono ormai considerate come un mezzo potente di rialzare il commercio, l'industria, la navigazione e la prosperità nazionale e quindi tutta la potenza politica dello stato colonizzatore. Con questo mezzo si spera di adoperare utilmente anche la parte torbida e violenta della popolazione di un paese. Soltanto quando in Inghilterra salì al trono il pacifico Giacomo I e cessarono le guerre corsare, fatte da Elisabetta contro la Spagna, la colonizzazione inglese ricevette in genere un grande impulso. Gli Inglesi, che in questo rapporto fino a quel tempo di fronte agli Spagnoli appena erano stati degni di considerazione, divennero i loro rivali vittoriosi.

Si può notare una profonda differenza tra il modo di colonizzare dei due popoli. Gli stabilimenti spagnoli furono in origine pure colonie di conquista, che provenivano dalla repressione, anzi dalla distruzione degli indigeni. Ma anche ai coloni si tolse ogni indipendenza. L'America spagnola divenne il paese classico di una numerosa gerarchia di funzionari, che a sua volta dipendeva da un governo centrale lontano qualche migliaio di miglia, affatto ignaro dei bisogni e dei diritti dei coloni, spesso discorde in se stesso. Ogni richiesta e l'esecuzione di ogni disposizione esigevano, con l'andare e venire attraverso l'oceano, molti mesi e perfino degli anni. La madrepatria cercava principalmente di sfruttare le colonie a vantaggio del fisco e poi dei suoi funzionari, privati e ufficiali; l'interesse dei mercanti spagnoli veniva pur esso soltanto in terza linea, quello dei coloni poi in quarta.
Ricavarne la maggior quantità possibile di oro e di argento - questo era il vero scopo degli Spagnoli in America. Nessuna meraviglia che le loro colonie laggiù, per quanto fossero estese e ricche, non potessero progredire e prosperare con beneficio della patria. I teorici invece della colonizzazione inglese fin dal principio non cercavano sterili metalli preziosi, ma lo svolgimento di un commercio produttivo - che bensì, secondo i principi del sistema mercantile, doveva tornare a profitto della sola madrepatria.

Così tutto il traffico d'importazione e di esportazione delle colonie era limitato alle navi inglesi; soltanto gli Inglesi vi potevano esercitare il commercio, le merci delle colonie potevano essere trasportate soltanto in Inghilterra o nei possedimenti inglesi e poi le merci europee solo dai porti inglesi alle colonie. E per le colonie stesse l'Inghilterra fu l'esclusivo emporio commerciale.

Per questo già da lungo tempo nelle colonie americane l'opinione pubblica era in verità molto infastidita contro la madrepatria. Però per l'impulso preso nel frattempo dall'agricoltura e dal commercio nelle nuove colonie, queste si erano in se stesse rafforzate e la massima inglese di lasciare che gli stessi abitanti decidessero sugli affari locali aveva prodotto in quelle lontane regioni prosperità materiale e forza morale. Appunto per il principio dell'autonomia amministrativa il sistema coloniale inglese si distingue vantaggiosamente da quello spagnolo ed anche da quello francese, che dallo spagnolo differisce soltanto per un trattamento più mite e benigno degli indigeni. Le colonie inglesi in America si svilupparono con insolita rapidità, poiché vi s'incontravano insieme e potevano svolgersi in piena libertà capitali, energie addestrate e disposizioni d'ordine con la natura inesauribile di un suolo vergine e sovrabbondante.
Soltanto un lavoro onesto e indefesso arricchisce le colonie e non il guadagno disunito da fatica, che si affida sul caso e sulla speculazione. Si é paragonata la ricchezza coloniale della Spagna come la vincita di un grosso premio, che finisce in mano a un dissipatore, mentre la ricchezza coloniale dell'Inghilterra originata dal profitto di un intraprendente e operoso mercante o industriale.

La Spagna appaltò il commercio con le sue colonie alla comunità dei grandi mercanti di Siviglia. Gli altri paesi seguirono il principio di affidare l'esercizio del commercio con le regioni transmarine ad una o a più compagnie privilegiate, escludendo la libera concorrenza. Lo stato permanente di guerra sull'oceano, sanzionato dal diritto internazionale di quel tempo, che richiedeva anche per il commercio l'impiego continuo di navi grandi e bene armate; l'interesse esclusivo di siffatte compagnie negli scopi della colonizzazione; la difficoltà di annodare i primi rapporti commerciali con l'estero, che all'inizio esigevano spesso grandi sacrifici, impossibili se non letali per i mercanti isolati; il carattere di lotteria, che avevano in complesso quelle intraprese; la maggiore potenza di fronte alle popolazioni barbare - tutte queste erano nel fatto ragioni, che nelle circostanze d'allora quasi necessariamente conducevano a monopolizzare il commercio transmarino in mano di grandi compagnie.

In Inghilterra e in Olanda fu almeno lasciata alle compagnie piena libertà; in Francia, data l'onnipotenza dello Stato, a partire da Colbert si seguì invece il sistema di sostenere le compagnie col pubblico denaro, ma in compenso di ciò di sottoporle a sorveglianza e a regolamenti, abitudine che ha determinato la rovina del maggior numero delle compagnie francesi e che in parte spiega i risultati mediocri della colonizzazione francese in paragone a quella olandese ed inglese.

Il primo popolo commerciale di quel tempo era pur sempre l'olandese. In una lotta eroica di ottanta anni contro la Spagna, così tanto superiore per territorio e per numero di abitanti, gli Olandesi avevano acquistato vittoriosamente l'indipendenza nazionale e la libertà religiosa, conquista che la loro avversaria riconobbe solennemente nel 1648 nella pace di Munster (Westfalia). Questo periodo di entusiasmo nazionale era stato anche quello di un incredibile sviluppo commerciale e soprattutto marittimo. Appunto nella sua lotta con la marina spagnola, la flotta olandese era divenuta la prima del mondo. Aveva soppiantato nell'oceano la bandiera spagnola e si era quasi esclusivamente impadronita del commercio internazionale, quello europeo come quello transmarino, aveva strappato agli Spagnoli e ai Portoghesi le loro colonie più produttive, le Molucche, Giava, Ceylon, Malacca, Sumatra, la Guinea, il Capo di Buona Speranza; aveva poi preso solidamente piede sulle coste del Malabar e del Coromandel.

Due grandi società per azioni - quella delle Indie orientali e quella delle Indie occidentali - dominavano questo commercio mondiale e ne ricavavano infiniti profitti. La compagnia olandese delle Indie orientali comprava una libbra di pepe da uno e mezzo a due « stuver » e lo rivendeva a diciassette; in 250.000 libbre di noci moscate guadagnava 900.000 fiorini, in 10.600 libbre di macis 550.000, in 600.000 libbre di cannella tre milioni e mezzo di fiorini.

Il secolo XVII fu inoltre il periodo più splendido della pesca olandese delle aringhe, che provvedeva tutto il mondo di quell'alimento a buon mercato, allora in voga dovunque; essa occupava da 1500-2000 bastimenti con 20.000 marinai e dava un prodotto annuo di 60 milioni di fiorini. Si costruivano nei Paesi Bassi bastimenti leggeri e a buon mercato e si potevano perciò offrire noli più bassi rispetto a tutti gli altri paesi. La borsa di Amsterdam regolava il mercato del denaro. L'abbondanza dei capitali era così notevole che la tassa dell'interesse importava soltanto dal due al tre per cento.

Nell'anno 1609 seguendo l'esempio di Venezia, si era già fondata la banca di Amsterdam, che godeva di un grande credito, promuoveva non poco la vita mercantile, e custodiva nei suoi sotterranei al tempo della pace di Wesfalia dell'oro in verghe o in monete per l'importo di ben trecento milioni di fiorini. Nella stessa misura fioriva l'industria. La fabbricazione dei panni e la tessitura del lino, le manifatture dei tappeti e il ricamo occupavano quasi un terzo degli abitanti.
La pianura assomigliava a un vasto giardino, le città assai linde come scrigni di gioielli. Le Province Unite con le spiagge marine piene di porti eccellenti, protette contro le inondazioni da dighe gigantesche, con canali di facile navigazione, che accompagnavano dovunque le strade terrestri, ricche inoltre, operose, sperimentate nelle arti della guerra e della diplomazia con i loro due milioni e mezzo di abitanti, erano allora una delle prime potenze d'Europa.

Né meno fiorivano le arti e le scienze in quel popolo pieno di vigorose aspirazioni e consapevole del proprio valore. Quattro università a Leida, a Kraneker, a Utrecht e a Groninga, diffondevano la dottrina e il sapere. La filosofia classica, le matematiche, la medicina, la giurisprudenza erano coltivate con diligenza. Ma soprattutto le Province Unite si distinguevano per la loro tolleranza. In questi uffici pubblici erano capaci soltanto i calvinisti ortodossi, tuttavia ogni confessione rimaneva senza offesa. Il matrimonio civile facoltativo esisteva già nel 1580. I liberi Paesi Bassi divennero l'asilo per i perseguitati di tutta Europa a cagione della loro fede o della loro incredulità. Regnava una libertà di stampa quasi illimitata; ognuno poteva dire e stampare ciò che gli piacesse. Sui titoli dei libri, Amsterdam era celebrata con i nomi di Cosmopoli, Eleuteropoli («città della libertà»), Aletopoli («città della verità»), Irenopoli («città della pace»).

Il popolo, che del resto era stretto e parsimonioso, dava a piene mani, quando si trattava di alleviare la miseria. Ospizi per poveri, ospedali, orfanotrofi, ricoveri di vecchi e manicomi ed anche case di correzione somigliavano ca palazzi più che a stabilimenti di beneficenza. È questo il tempo dell'apogeo della scuola pittorica olandese gioconda, ardita e tuttavia così sensata, con quella sua profonda intelligenza del reale, dell'amoroso sentimento della natura, con il suo modo di riprodurre vigoroso e fine ad un tempo, con l'esatto studio dei particolari, il disegno accurato e l'intimo tocco del pennello - il tempo di un Rembrandt, di un Ruysdael, di un Terburg, di Tenier il giovane, per ricordare solamente i maggiori.

Nel campo letterario Pietro Hooft creò la prosa artistica neerlandese. Ioost van der Vondel componeva le sue liriche così intimamente vere ed imitava il dramma francese. Iacob Cuts - «il padre Cuts» - in versi e in prosa diede ai sentimenti della grande massa del popolo un'espressione facile, sciolta e simpatica. I filologi olandesi - orientalisti e classici - erano i primi del loro tempo. Hugo de Groot (Grozio) fu il fondatore del moderno diritto internazionale.
Né meno ragguardevole fu questo piccolo paese nelle scienze esatte. Hans Lippershey di Middelburgo inventò il cannocchiale, i fratelli Janssen il microscopio, Willebrord Snell scoprì la legge della rifrazione della luce.

Tuttavia questa fiorente comunità soffriva gravemente per il disordine della sua costituzione come per i violenti contrasti tra il partito nazionale ed accentratore, guidato dalla casa di Orange, e i magistrati delle grandi città, che erano di sentimenti particolaristi e procedevano dalle oligarchie cittadine. I gloriosi successori di Guglielmo il Taciturno e del principe Maurizio contesero il potere alla cittadinanza ricca e privilegiata.
Dopo la morte prematura del governatore generale Guglielmo II (1650) suo figlio postumo Guglielmo III, divenne il trastullo del partito aristocratico, il cui capo, il gran pensionario olandese Giovanni de Witt, statista di mente feconda, di fine cultura e di grande abilità, ma di passioni politiche senza freno, distrusse frattanto il potere degli Orange e procurò all'oligarchia la vittoria. Per assicurarla De Witt si unì poi nel' modo più stretto alla Francia.

In questo grande e potente paese Richelieu morendo aveva affidato l'impegno di rafforzare ancora l'onnipotenza regale all'interno e inoltre di continuare la lotta decisiva contro la casa di Asburgo al suo docile alunno e collaboratore, il cardinale Giulio MAZARINO, nato nel 1602 a Pescina negli Abruzzi, ma da lungo tempo divenuto del tutto francese. Dotato di mente sagace e di eccellente memoria, padrone in alto grado della sua parola, solito a valutare tutto con esattezza, e a nulla abbandonare al caso, pronto a piegarsi dinanzi alla forza delle cose, per dominarle tanto più sicuramente al momento giusto, senza riguardo alla lealtà e alla fede, usato a subordinare tutto all'interesse, questo Italiano era il compiuto rappresentante della sottile arte di Stato del secolo XVII, così piena d'ingegno come priva di coscienza.

Senza possedere la forza creatrice del Richelieu, dal proprio netto giudizio si lasciò persuadere della giustezza e della grandezza delle sue idee. Meno geniale e poderoso, era più scaltro ed astuto del suo maestro. Dotato di un egoismo e di un'avidità illimitata, sempre conciliava queste sue qualità col vantaggio dello Stato che egli serviva. Una ferrea diligenza ed una infallibile cognizione degli uomini assicurarono il suo buon successo. «La perseveranza - diceva spesso - non consiste nel fare sempre le stesse cose, ma nel compiere cose, che conducano sempre al medesimo scopo».

La, morte del re Luigi XIII (14 maggio 1643), avvenuta alcuni mesi dopo quella di Richelieu, ebbe l'unica conseguenza di accrescere il potere del Mazarino. Poiché la regina Anna d'Austria - cioè di Asburgo - principessa spagnola, che teneva la reggenza in nome del suo primogenito minorenne, Luigi XIV (nato il 5 settembre 1638), non solo ripose nel cardinale la sua fiducia, ma gli dimostrò una così meravigliosa affezione da unirsi segretamente in matrimonio con lui, che aveva ricevuto soltanto gli ordini minori.
Questo forestiero ebbe un dominio senza limiti sulla Francia, circondato da uno stato maggiore di funzionari italiani, che al pari di lui si arricchirono a spese della nazione. II malcontento per questa opprimente signoria straniera era generale. Ancora una volta tutti gli elementi, che prima d'allora avevano combattuto la monarchia, si unirono insieme contro la Corona e il ministro; l'alta nobiltà, la democrazia cittadina e la suprema corte giudiziaria cioè il Parlamento, che aspirava ad un potere politico.

Questa variopinta opposizione, insieme collegata si chiamò la «fronde». Per cinque anni dal 1648 al 1653 durò la lotta della fronda, che poi finì con la compiuta vittoria della monarchia e del Mazarino e dimostrò con questo incontestabilmente che in quel tempo una limitazione del potere regale era impossibile in Francia. Tutti gli altri partiti si erano mostrati ugualmente incapaci e indegni di governare; così la Corona, alla quale erano intimamente congiunte la fortuna e la grandezza della Francia, apparve come l'unica rappresentante conveniente della nazione, come l'unica salvezza dai disordini della guerra civile.

Tuttavia i torbidi della fronda avevano annullato le conseguenze delle gloriose vittorie riportate sugli Spagnoli dal principe Luigi di Condé (il Grande Condé) a Rocroy (1643) e a Lens (1648), avevano mandato a vuoto i grandi disegni di Richelieu e reso possibile agli Spagnoli il riacquisto della Catalogna e del Belgio. Il trionfo della monarchia sopra i ribelli significò per la Francia il principio di nuovi trionfi sugli emuli spagnoli.
Alleatosi con l'Inghilterra, Mazarino rivolse tutte le forze dello stato alla guerra. I Francesi riportarono una serie di buoni successi, finché il 14 giugno 1658 il maresciallo Turenna distrusse finalmente alle Dune presso Dunkerque l'ultimo esercito, che la Spagna esausta potesse mettere in campo. Tutta la Fiandra cadde in potere del vincitore, la cui cavalleria spingeva le sue scorrerie fino alle porte di Bruxelles.

Sotto l'impressione di questo colpo terribile la Spagna non pensò che alla pace; il 7 novembre 1659 fu conclusa di persona dai due ministri allora al governo, Mazarino e Luis de Haro, nell'Isola dei Fagiani, sulla Bidassoa, piccolo fiume di frontiera; il trattato fu detto dei Pirenei dal nome della vicina catena di montagne. Gli Spagnoli cedettero ai Francesi la contea di Rossiglione, situata a settentrione dei Pirenei, come quasi l'intera contea di Artois nei Paesi Bassi, una parte del ducato di Lussemburgo con la fortezza di Thionville e una serie di fortezze nel Belgio meridionale.
La pace dei Pirenei fu il coronamento dell'opera, che dai tempi del re Enrico IV gli statisti francesi avevano mandata avanti con uguale costanza ed abilità; spogliare cioè la Spagna del predomino, mantenuto dall'inizio del secolo XVI, e far passare questo alla Francia. Dopo lotte disperate la Spagna riconobbe oramai la superiorità della rivale. La Francia si procurò nel tempo stesso con i suoi recenti acquisti un vantaggioso confine militare, che in ogni tempo le permise di prendere l'offensiva contro il Belgio e contro la Germania settentrionale.

Quasi anche più importante fu il matrimonio di Maria Teresa, figlia maggiore del re di Spagna col giovane monarca francese, stabilito nella pace dei Pirenei e celebrato il 1.° giugno 1660. Data la debolezza del ramo spagnolo della casa di Asburgo, senza figli maschi, Maria Teresa era l'erede probabile della immensa monarchia spagnola, che si estendeva su tutte le parti del mondo. Prima dei matrimonio ella aveva veramente dovuto rinunziare al suo diritto di eredità; ma i Francesi tanto più speravano di poter trovare al momento opportuno delle ragioni per dichiarare non valida questa rinunzia, in quanto il totale dissesto delle finanze spagnole rendeva improbabile che queste permettessero il pagamento della dote promessa di un mezzo milione di talleri d'oro.

La pace dei Pirenei consolidò il potere e la fama dei Mazarino.
Nell'interno della Francia si dileguarono le dolorose conseguenze delle guerre civili. L'industria e il commercio si svilupparono rapidamente. Parigi fu considerata come la città più ricca d'Europa. La letteratura ebbe un nuovo e libero impulso; erano i tempi bellissimi di Pietro Corneille. Pascal scriveva le sue celebri «lettere provinciali», che con un linguaggio puro e brillante, con spiritosa ironia e con ammaliante persuasione difesero la morale e la vera religiosità contro la dottrina degenerata dell'ordine dei gesuiti. Gassendi «contro lo spiritualismo di Descartes» poté sostenere la dottrina atomica e quindi un concetto materialistico appena velato, che è divenuto la base del pensiero moderno nelle scienze naturali.

Il governo del cardinale lasciò esenti i liberi pensatori da ogni impaccio, sentendosi abbastanza forte per essere tollerante. Mazarino dominava senza limite in Francia. Non vi era cosa grande o piccola, che non dipendesse dal suo volere, nessuna dignità ecclesiastica o temporale che egli non dispensasse. Del tutto indifferente in religione, questo principe della chiesa sfidò anche il papato, col quale stava in cattivi rapporti, e chiamò dei protestanti ai più elevati uffici dello Stato.
Veramente la Francia non dettava ancora legge su tutta l'Europa, come venti anni dopo; in compenso non era ancora divenuta la comune nemica di tutti; in compenso tutta l'Europa non si unisce in lega contro di lei; in compenso assume diplomaticamente una posizione molto più favorevole che sotto il «Re Sole».

Ma nemmeno a questo punto culminante della sua vita Mazarino smentì la sua avidità e la sua cupidigia. Non si accontentava delle sue entrate colossali, come le innumerevoli cariche onorifiche e benefici ecclesiastici, ma praticò un vergognoso commercio degli uffici più importanti, scavalcò lo Stato nelle forniture, gli prestò denari a interessi da usuraio; anzi partecipò a imprese di corsari contro potenze straniere. Le sue sostanze furono valutate da quaranta a cinquanta milioni di «livres». Una somma enorme per quel tempo.
Tuttavia i suoi successi politici furono considerevoli. Come i liberi Paesi Bassi seppe vincolare alla politica francese anche la Svezia.
La figlia di Gustavo Adolfo non aveva qui tenuto a lungo il governo; Cristina, che era una «egoista neuropatica», per poter soddisfare i suoi capricci e il suo desiderio d'imperare, depose nel 1654 la corona; un anno più tardi l'unica prole del celebrato salvatore del protestantesimo, passò in Innsbruck alla chiesa romana.
Le succedette sul trono svedese il cugino Gustavo, il palatino di Due Ponti, sotto il nome di Carlo X. Di corpulenza enorme, misantropo e taciturno, questo principe era pieno d'ambizione insaziabile, ed era di fulminea rapidità nei suoi propositi e nelle sue azioni. Per procurare preda e territori soggetti alla Svezia, povera per natura, nel 1655 con pretesti frivoli invase la Polonia che in breve conquistò quasi completamente. Ma ben presto in questo paese si scatenò la resistenza contro il sovrano eretico.
Nonostante la vittoria che Carlo X, con l'aiuto dell'elettore Federico Guglielmo di Brandeburgo, riportò presso Varsavia (28-30 luglio 1856) sopra le truppe polacche quattro volte più numerose, perdette nuovamente col suo piccolo esercito la maggior parte del regno conquistato.
Si guastò poi con l'imperatore, con i Danesi e finalmente anche con il suo alleato della vigilia, il Brandeburghese. Lasciò allora andare la deserta Polonia e si gettò sulla ricca Danimarca, male difesa, della quale s'impadronì in massima parte.
Ma il Brandeburgo, per cui era già troppo forte il vicino svedese, e l'imperatore, suo vecchio nemico, gli ripresero la preda e lo costrinsero a gettarsi nelle braccia della Francia.

Mazarino, che per la pace dei Pirenei disponeva liberamente di tutte le forze del suo Stato, dettò, tuttavia solo dopo la morte improvvisa di Carlo X Gustavo (22 febbraio 166o), la pace di Oliva (maggio 186o), la quale era oltremodo favorevole alla Svezia, che per lunghi anni gli era stata alleata, restando questa in possesso della Livonia e delle già province danesi di Halland, Schonen, e Blekingen, e ottenendo così il dominio del golfo di Riga e arrotondando definitivamente la propria terraferma. Lo stato più importante del settentrione appartenne d'allora in poi alla clientela francese.

Ed anche la Polonia, l'avversaria della Svezia, si schierò dalla stessa parte. Veramente, questo Stato sotto il regno di Vladislao IV (1632 fino al 1648) era in una decadenza irresistibile e appunto in seguito a due circostanze, il predominio del clero e l'insolenza sempre maggiore della nobiltà.
Vladislao, sebbene personalmente incline alla tolleranza, era servo obbediente del clero. Come i gesuiti avevano già in mano l'insegnamento superiore, così il re consegnò quello medio e inferiore agli scolopi. In Polonia si doveva insegnare solo secondo il sistema ecclesiastico. La nobiltà poi, in mezzo ai pericoli interni ed esterni più minacciosi, spezzò la forza militare della monarchia con una legge, che a questa permetteva di tenere truppe stanziali con soltanto una guardia di milleduecento uomini; anzi il sovrano veniva del tutto a dipendere dai contingenti feudali.

È evidente quanto una tale misura dovesse paralizzare la potenza militare della Polonia. Il castigo dell'egoismo e della stoltezza dei nobili polacchi non si fece aspettare. Poiché essi non solo perseguitarono per i motivi della loro confessione greco-ortodossa i cosacchi, che vivevano sotto l'alta sovranità della Polonia sul Dnieper medio e inferiore, ma cercarono di trasformare in servi questi abitatori personalmente liberi della steppa e provocarono tra loro una terribile sollevazione, a capo della quale stava il selvaggio e sanguinario Bogdan Chmielnisky (1648).

Tutta l'Ucrania si era aollevata in arme e il popolo contadino della Piccola Russia, irritato dallo zelo dei missionari gesuiti, confluì nel campo dell'etmano dei cosacchi; anche i Tartari della Crimea, avidi di far prede in Polonia, mandarono le loro rozze orde di cavalleria.
In mezzo ad orribili devastazioni e stragi atroci Bogdan penetrò fino a Zamosc. Tra queste turbolenze morì Vladislao IV; Giovanni Casimiro fratello e suo successore (1648 a 1669), debole di volontà e di mente limitata, si fece battere completamente da Bogdan sul piano di Zborow e poi accerchiare in modo da esser costretto ad accettare ogni condizione postagli dai Cosacchi. Dovette concedere loro l'indipendenza di fatto ed ai Tartari un tributo annuo.

Da questi fatti l'aristocrazia polacca avrebbe dovuto trarre la conclusione che per la salvezza della patria era necessaria una concentrazione maggiore ed una più solida unione delle forze nazionali. Ma avvenne precisamente l'opposto; nella dieta del 1652 il famigerato liberum velo divenne una legge permanente. Veramente nella dieta non si era mai parlato di una votazione ordinaria; la maggioranza aveva con le sue grida vinto la minoranza e se questa non si voleva accontentare, l'aveva costretta a sottomettersi con la violenza e talora persino con omicidi ed assassini. Allora poi si fece prevalere l'idea assurda che senza il consenso di tutta la dieta non si potesse prendere alcuna decisione valida.
Quest'assurdità fu considerata d'allora in poi come una legge fondamentale della costituzione, anzi come il palladio della libertà. La predilezione per l'indipendenza personale e per l'arbitrio individuale non ha mai in altri paesi indotto una casta dominante a una tale condotta dannosa e suicida. Alla libertà dei singoli fu qui sacrificata senza esitazione la quiete e la grandezza, anzi la stessa esistenza della patria.

Preso animo dalla debolezza della Polonia, i Cosacchi passarono alla Russia, con l'aiuto della quale penetrarono di nuovo nel cuore del regno. Con la decadenza politica della Polonia si compie anche quella intellettuale. La borghesia fu esclusa da ogni partecipazione non solo alla vita politica, ma anche all'insegnamento superiore. Anche qui i gesuiti mostrarono il loro consueto formulario, il loro latino fluido, ma insipido e poco chiaro, la loro predilezione per le vuote frasi e per le rappresentazioni teatrali. Il visitare le università straniere cadde ormai in disuso anche per i nobili, come pericoloso dal lato religioso.
L'università di Cracovia decadde con rapidità irresistibile. Il dominio di una chiesa influentissima e rigidamente esclusiva bandì ogni libera indagine e ogni indipendenza di pensiero. Il dissolvimento politico, l'egoismo della casta dominante indebolirono ogni impulso superiore della nazione. Una volta ancora Vaslaw Potocki nella sua poesia eroica sulla battaglia di Choczin celebrò una splendida vittoria dei nobili suoi concittadini, ma in questo panegirico dell'aristocrazia si mostra già uno scadimento del potere artistico e della finitezza della lingua.

Gli altri poeti, almeno quelli che scrissero in polacco, sono di minor valore. Presto si preferì scrivere in latino come era stato imposto dai gesuiti; solo così si poteva salire nel celebrato Olimpo dei poeti.

Poiché, specialmente dopo la pace di Oliva, la Polonia mirò ad un'unione con la Francia, allora dominante. Ed a questa grande clientela francese si associò anche una parte notevole della Germania.
Raramente un popolo è stato colpito da una così tremenda sciagura, come il tedesco da quella lunga guerra di religione. Ed é una splendida prova della sua intima salute e della sua robusta vitalità che questo popolo abbia continuato ad esistere. anzi si sia a poco a poco risollevato sempre più fiorente da quella calamità mortale.
Alle devastazioni delle soldatesche, alle gravi imposte, che i sovrani riscossero per il mantenimento delle proprie truppe, si unirono per compiere la rovina le esorbitanti contribuzioni di guerra, che i generali imposero ai paesi e alle terre del nemico e finalmente le falsificazioni delle monete, che in parte ridussero a nulla addirittura il commercio e i traffici.

Conseguenze immediate della miseria e della fame furono il tifo e le altre epidemie, che portarono via quelli che la spada e tanti strazi avevano lasciato in vita. Non vi é perciò da meravigliarsi che quasi in tutta la Germania abbia avuto luogo uno spopolamento enorme. Il calcolo che l'impero nel 1648 possedesse soltanto un terzo della popolazione del 1618 é forse esagerato, ma comuqnue non lontano dal vero.
Quale regresso era stato quello delle città tedesche, già sede nobilissima della cultura germanica! La borghesia aveva perduto il vigore, il coraggio, lo spirito d'impresa. Piena di timore e impoverita si sedeva nelle vie deserte delle sue città, in preda a cupa disperazione e a stupide superstizioni. Si desiderava soltanto quiete e ordine. Le relazioni commerciali con i paesi esteri erano da lungo tempo interrotte, le antiche case di commercio non esistevano più. Non si osava scuotersi per partecipare al commercio mondiale né per manifestare qualche sentimento per il bene comune, e specialmente mancava un potere centrale, che proteggesse gl'interessi internazionali dei Tedeschi con la diplomazia e in caso di bisogno con le armi; inoltre non vi erano colonie proprie, che promuovessero il commercio tedesco.

Ebbe allora fine e per sempre anche la «Hansa». Il re Cristiano IV ne abolì gli ultimi privilegi in Danimarca e in Norvegia. Essa consentì a tutto; ognuno degli Stati alleati era ansiosamente intento soltanto alla propria sicurezza e a spender meno che fosse possibile; non poterono risolversi a provvedimenti uniformi. Nell'anno 1628 si radunò l'ultima assemblea dell'«Hansa», per mettere in evidenza lo sfacelo dell'unione con l'arrogante dichiarazione «che i re del settentrione erano stati preposti da Dio a dominare i mari più prossimi alla Germania».

La « Hansa » non fu ufficialmente disciolta, ma si spense per debolezza senile. Le tre città di Amburgo, di Brema e di Lubecca, che ne continuarono il nome glorioso, tennero in piedi soltanto un commercio di commissione piuttosto meschino, in cui però la parte del leone spettava ai paesi esteri. Ma vi é di più. Poiché in Germania s'imitavano servilmente le mode straniere e specialmente le francesi e poiché inoltre l'industria locale era del tutto depressa, il commercio estero tedesco era puramente passivo; vi era solo una importazione dall'estero; le navi che invece di mercanzie del paese da esportarsi si caricavano con sabbia e zavorra. In questa maniera da cinquanta a sessanta milioni di talleri passavano ogni anno i confini marittimi tedeschi senza speranza di ritorno. Al più si portavano all'estero dei prodotti tedeschi greggi o semi, lavorati, che ritornavano poi in Germania in prodotti finiti ovviamente in cambio di oro sonante.

Il benessere della nazione fu essenzialmente danneggiato dalle svariate barriere, che dovunque impacciavano la libertà dei traffici nell'interno dell'impero. La navigazione dei fiumi da innumerevoli stazioni doganali fu resa difficile e per grandi distanze addirittura impossibile. Ciascuno dei territori, che si contavano a centinaia, si chiudeva, come dentro una muraglia insuperabile, per mezzo di dazi d'importazione e di esportazione ed anche con proibizioni di vario genere. Il trasferirsi da un territorio ad un altro richiedeva non solo il consenso del sovrano, ma anche grosse tasse d'emigrazione («Abschoss»).
I vari tipi di monete e la mancanza di una sorveglianza legale sulle zecche rendevano difficili le maggiori operazioni dei commercianti tedeschi. La meticolosità e una uniformità desolante prendevano piede nelle città, dove si soleva aggrapparsi alle vuote forme di una tradizione ormai spenta per degenerare in una ristrettezza di vedute da borghesucci.

Così la borghesia, che nel secolo XVI aveva dominato la vita della nazione, ormai cedette il suo scettro davanti alla nobiltà della campagna e della Corte, che oltre ai principi divenne senz'altro la classe, che di tutto decideva. Un segno caratteristico del mutamento delle condizioni sociali e l'uso di «sollevare» al grado di nobile i cittadini di maggior merito - procedimento che la borghesia del secolo precedente, conscia del proprio valore, avrebbe respinto con un sorriso di disprezzo.

In una situazione ancora più triste di quella della città si trovava per lo più l'aperta campagna, esposta senza rimedio alle ingiurie della guerra. Le abitazioni dei contadini erano rovinate, il loro bestiame distrutto, gli alberi fruttiferi tagliati, gli arnesi rotti, il denaro contante scomparso; mancavano le braccia per dissodare i campi, coperti di erbacce, di sterpi o invasi dal bosco. Veramente molti soldati licenziati si videro costretti a porre mano alla zappa e all'aratro; nutrivano però sentimenti selvaggi e turbolenti e spesso non poterono assuefarsi a fare ritorno alle condizioni di pace e di dipendenza della vita del villaggio ed a rinunziare agli impulsi arroganti e sregolati della soldatesca. Perciò i padroni delle terre strinsero sempre più fortemente le briglie ai loro vassalli e la condizione sociale del contadino dopo la guerra dei trenta anni si fece di decennio in decennio più grave.
La nobiltà, spogliata sempre più dai principi del potere propriamente politico, fu "ricompensata" di tutto questo con un asservimento crescente. Vi fu anche una vera «schiavitù» dei contadini, ma solo in poche regioni della Germania, per quanto anche essi conservassero il diritto di non esser venduti senza il podere a cui appartenevano, come pure degli averi personali e (almeno di nome) il diritto di reclamare contro i loro padroni; tuttavia per il rimanente restavano del tutto abbandonati all'arbitrio di questi.
Furono spogliati del diritto di emigrare; in luogo delle precedenti prestazioni furono costretti a servizi illimitati e a gabelle opprimenti a favore dei padroni e soggetti alla giurisdizione di questi senza un appello efficace al tribunale del principe. Il contadino doveva macinare il suo grano al mulino del suo signore, cuocere il suo pane nel suo forno, comprare la birra da lui fabbricata, e accudire al bestiame perché il padrone potesse venderlo quando gli pareva - e tutto ciò a prezzi fissati da costui o dai suoi duri ed avidi impiegati.

Spesso doveva perfino fare prestazioni di lavoro ai padroni nei loro stabilimenti industriali ed anche nelle miniere. La scelta di una professione e il matrimonio dipendevano dal consenso dei proprietario. Anche il carico delle imposte di Stato gravava, per quanto concerneva la pianura solamente sul contadino. Se così piaceva al proprietario, questi poteva «collocarlo», ossia cacciarlo dalla casa o dalla fattoria e incamerare questa nella propria amministrazione.

Chi ne ricavò il massimo vantaggio fu ancora la nobiltà; che aveva accumulato una ricca preda, servendo nella gerarchia dell'esercito, e che approfittò con egoismo e senza riguardi della miseria delle altre classi per stabilire la propria preponderanza economica e sociale. S'impossessò sempre più di tutte le cariche dell'esercito e del governo, possedendo essa soltanto il necessario spirito di corpo e la energia richiesta per promuovere con efficacia i propri affari.

Per quanto, come fu detto, fossero già abbastanza dolorosi i danni materiali sofferti dalla Germania in quella guerra spaventosa, anche di più gravemente pesava il decadimento morale e intellettuale, nel quale era caduto il popolo tedesco in conseguenza di essa. I danni pecuniari col tempo si potevano risarcire, se fosse rimasta illesa la sanità dello spirito della nazione. Veramente non fu così e solo dopo molto tempo si sono rimarginate le ferite aperte nell'animo del popolo tedesco dalla guerra dei trenta anni.
L'esempio dei soldati era contagioso; le inclinazioni selvagge, brutali, ribelli ad oggi legge, l'avversione ad oggi lavoro tranquillo ed onorato erano penetrate in tutte le classi della nazione; la distinzione tra mio e tuo si offuscava nella coscienza. Poiché non si era mai sicuri dell'indomani, si voleva godere dell'oggi. Come avrebbero potuto mettere radici tra le vicende e le brutalità dello stato di guerra i sentimenti nobili, il rispetto di ciò che è santo e l'inclinazione ai godimenti più elevati?

Il carattere selvaggio ed ignobile sopravvisse naturalmente al termine della lotta. Un egoismo illimitato, una bramosia di godimenti sensuali, che non indietreggiava minimamente dinanzi ad atti selvaggi e crudeli, la gozzoviglia e lo scialacquo anche nella maggiore povertà, l'indebitarsi senza ritegno fino al fallimento, che era dovunque un fatto giornaliero, la slealtà nelle relazioni commerciali; dei truffatori e vagabondi d'ogni risma, dotti e ignoranti, questa era la caratteristica della Germania di quel tempo.

Ad un lavoro faticoso e previdente nessuno trovava più soddisfazione, ed era ormai cosa del passato «l'onoratezza del mestiere e del lavoro». Il mercante si compiaceva di speculazioni arrischiate e vedeva senza affliggersene andare in queste perduti anche i denari altrui, a lui affidati. Si dovettero sostituire al sentimento dell'onore che mancava, delle minacce di castighi sempre più rigorosi contro i falliti. L'artigiano cercava di crearsi la sua «reputazione» non con un lavoro abile e solido, ma nell'esteriore lusso e in una goffa ostentazione, e pensava di procurarsi i mezzi necessari con un lavoro frivolo ed eccessivamente caro.
La decadenza dell'industria tedesca, che a torto si volle attribuire alla moderna libertà economica - che in questo caso avrebbe dovuto condurre ad uguali risultati anche in altri paesi - procede veramente dal tempo della guerra dei trenta anni o da quello che la seguì.

La rozza incredulità e le tendenze materiali di quell'epoca si accordavano molto bene con la più crassa superstizione. Lo spavento onde si era circondati, gli orrori sanguinari in mezzo ai quali si viveva, lo scatenarsi di tutte le passioni malvagie dovevano offuscare l'animo anche dei migliori e sviarlo dal bello e dal nobile verso le tenebrose potenze dell'errore. I soldati credevano di rendersi invulnerabili con incantesimi d'ogni sorta dalle armi nemiche e di poter poi con altri incantesimi distruggere le stesse. Sopra queste arti fu composto un gran numero di libri, essendo considerate diaboliche anche per quelli che le conoscessero.
In nessuna altra epoca e in nessun altro luogo come nella Germania di quel tempo, la credenza nelle streghe ha infuriato così generalmente con tutte le sue conseguenze terribili e mortali. Non bastando ancora le stragi della guerra e dell'incendio, della fame e della peste, innumerevoli persone, specialmente donne, caddero ancora vittima di quell'errore insensato.

Era naturale che una guerra civile così lunga soffocasse gli ultimi residui del sentimento nazionale, che ancora sopravviveva nel popolo tedesco. Non vi era più una patria comune per quei Tedeschi, che si erano lacerati l'un l'altro crudelmente per trenta anni con l'aiuto degli stranieri. Dovevano forse i protestanti onorare come loro imperatore e loro amato signore l'alunno dei gesuiti, che da Vienna aveva loro fatto ogni male possibile?
Anche i cattolici comprendevano che quegli Asburgo pensavano solo ad accrescere la potenza della loro casa, ma non al bene e alla grandezza della Germania.
Davanti al puro egoismo dei potenti si dileguavano l'idealismo, il coraggio e la forza morale per cedere il luogo ad una cupa indifferenza e ad un gretto istinto di conservazione. Non si parlava più di serenità di sacrificio e di sentimenti di onore; una terribile prostrazione colse l'intera nazione tedesca.

Né era possibile sottrarsi alle influenze degli stranieri, che, come soldati, ufficiali e diplomatici, con l loro seguito di uomini e di donne si erano riversati sulla Germania durante tutta quella guerra. Il Tedesco non é in genere fatto di quella sostanza rigida, che in altre nazioni impedisce ostinatamente la penetrazione di elementi di altra specie; si era anzi nel medio-evo aperto specialmente alle maniere francesi. Quanto più facilmente e copiosamente dovevano quelle trovare accesso allora che ogni forza nazionale, ogni sentimento del bene comune, ogni orgoglio era spento nei Tedeschi, e questi anzi, avendo perduto in genere ogni intima certezza, si erano mutati in una moltitudine incapace di resistenza !

Gli stranieri si presentavano così vittoriosi, così consapevoli del proprio valore, erano tanto più brillanti, ricchi e fortunati che volentieri si credeva esser migliore tutto quello, che proveniva da loro, e se ne imitavano avidamente i costumi, la lingua, le mode.
Fin dall'anno 1626 venne in voga quanto fosse «à la mode» francese. Gli uomini si sottomisero allora alla stravaganza delle parrucche gigantesche, che Luigi XIV aveva fatto accettare ai Francesi. Il mantello militare cedette al soprabito, mentre la giubba si riduceva a poco a poco ad una sottoveste e tutto secondo il modello francese.
Né meno predomina questo nell'abbigliamento delle signore. Da esso si prende a prestito la «fontange», alta pettinatura a forma di torre, sostenuta da una reticella di fili metallici, che fa riscontro alla parrucca, la sfacciata nudità del dorso e del seno, le scarpe a punta poggianti su tacchi acuminati, che rendono l'andatura lenta e penosa.

Sfortunatamente un sentimento di servilità prevaleva non solo di fronte agli stranieri, ma anche nelle relazioni reciproche dei vari ceti. Ognuno strisciava umilmente davanti ai superiori, per trattare poi lui gli inferiori con alterigia e con disprezzo tanto maggiore. I principi vedevano nei loro sudditi soltanto un gregge, che doveva lasciarsi docilmente tosare. Il beneplacito del principe, il suo potere assoluto, i suoi interessi dinastici, le sue sontuose costruzioni e i suoi intrighi amorosi, erano guardati come «ragione di Stato», davanti al quale taceva ogni altra considerazione. Del bene dei cittadini, di un'amministrazione razionale dello Stato, dell'osservanza della morale pubblica o privata non era nemmeno il caso di parlare.

La nobiltà si affollava alla corte e si schierava intorno al suo signore con ben calcolata devozione, per aver una parte nella sua vita splendida e gioconda, per ricevere dalla grazia di lui un poco di quella preda, che proveniva dal saccheggio sofferto dai sudditi. Con le linee collaterali delle case regnanti si mantenevano allora in Germania almeno da 500 a 600 corti ed inoltre 1500 castelli nobiliari ; in complesso vi erano almeno 6000 uffici e cariche di corte e la nobiltà occupava tutti questi impieghi subordinati.

La borghesia imitava tutto ciò nella misura del possibile. Di essere un semplice e onorato borghese, ognuno si vergognava formalmente; si voleva portare almeno un titolo decorativo. Non vi è da meravigliarsi che scemasse anche l'interesse del comune cittadino e che l'amministrazione comunale fosse in una dolorosa decadenza. In compenso comincia l'onnipotenza della burocrazia, che, data l'incapacità del popolo a governarsi da sè, diviene una necessità inevitabile.

È questo il tempo, in cui il potere dei principi, che si sviluppa vigorosamente, annienta l'indipendenza non solo dei nobili, ma anche (ed in grado ancor maggiore) delle città. Molte fra queste, che fin allora si erano considerate autonome e dipendenti immediatamente dall'impero - come Munster, Herford, Osnabrück, Magdeburgo, Brunswick, Erfurt - sono assoggettate con la violenza al dominio del principe regnante. I secoli dello splendido sviluppo del carattere cittadino tedesco e delle libertà cittadine erano ormai terminati e per un tempo immensamente lungo.

Ci volle un lavoro di duecento anni per rimediare alla maggior parte di questi gravi danni arrecati alla popolazione tedesca, per estirpare le male erbe che vi crescevano rigogliose e per procurare nel luogo di queste spazio e terreno a nuove piantagioni. Questo, a dire il vero, all'inizio del '900 non era ancora riuscito interamente, e parecchi di quegli inconvenienti hanno esercitato la loro influenza, sebbene in misura assai minore.

Qualche primo passo per un miglioramento si trova anche nei tempi dolorosi della guerra dei trenta anni o in quelli immediatamente seguenti; principi capaci e consapevoli dei loro doveri, come Federico Guglielmo di Brandeburgo, Carlo Lodovico del Palatinato, Eberardo IV di Württemberg; valenti funzionari, che avevano a cuore il massimo bene dei territori da loro amministrati che non quello dei ministri e dei favoriti; e perfino alcuni ecclesiastici, pieni di abnegazione, dei quali non difettavano nè i cattolici né i protestanti.

La tendenza intellettuale, l'amore per le assidue indagini e il dono delle invenzioni pratiche, che sono stati dai tempi più remoti propri dei Tedeschi, non furono del tutto distrutti da quella grande guerra e dalle sue conseguenze. Chi non conosce Ottone di Guericke, il borgomastro di Magdeburgo, che nel 1650 inventò la macchina pneumatica e quattro anni più tardi ne dimostrò pubblicamente l'azione con la famosa esperienza degli emisferi dinanzi alla Dieta di Ratisbona ? Egli ha inoltre costruito il primo manometro e la macchina elettrica. Gli stessi principi si occupavano spesso di questo argomento, veramente non sempre per amore della scienza, ma spesso per la loro propensione all'alchimia o ad altre superstizioni.

Si fondarono numerose biblioteche e società di dotti. Giovanni Amos Comenius (Komensky) di Ungarisch-Brod in Moravia (1592-1671), fondandosi sopra un'educazione conforme alla natura e alla pietà, arrischiò un tentativo di riforma dell'insegnamento inferiore e medio, che in piccola parte giunse ad essere effettuato. La scienza e le arti non potevano lungamente prosperare in un'atmosfera cupa ed angusta, dati i sentimenti meschini, egoistici ed antinazionali della Germania di allora.
Nei paesi protestanti dominava una rigida e noiosa tendenza ad un'interpretazione letterale, in quelli cattolici i gesuiti col loro fanatismo e con la loro snervante tirannia del pensiero tenevano nelle loro mani il potere. I dotti erano pedanti o cercavano nei paesi esteri quegli incitamenti che la patria loro rifiutava. I protestanti si abbandonavano all'incanto seducente e affascinante che proveniva dalla Francia, mentre i paesi cattolici si tenevano in rapporto con l'Italia e la Spagna e premurosamente spalancavano le porte alle loro mode, ai costumi, alla lingua. Modi di dire francesi, espressioni italiane e spagnole penetravano in massa nella lingua tedesca, che era già piuttosto impregnata di elementi latini.
Fortunatamente la poesia si tenne lontana dalla corruzione- di quella mescolanza di lingue, che soffocava la prosa; questo dipese dalla circostanza che la poesia del nuovo alto tedesco stava sotto l'influsso di un uomo perspicace e patriottico, cioè di Martino Opitz. Però se questo salvò la forma dell'arte poetica dalle affettazioni esotiche, non poté far lo stesso con la materia. Poiché allora la vita nazionale non offriva materia interessante e il ricordo del glorioso passato era pressoché morto, si dovette necessariamente prender le mosse dagli stranieri e specialmente dai Francesi, dal Ronsard e dai suoi seguaci. Era questo tanto più imperiosamente richiesto, in quanto ai poeti stessi mancava una vera facoltà immaginativa e la poesia di quel tempo era prevalentemente artificiale, fatta di sottigliezze e a preferenza coltivata dai dotti secondo le regole della loro casta. E da ultimo essa non procedeva da una creazione della fantasia individuale, ma da un trattato modello, il celebre scritto di Opitz «Dell'arte poetica tedesca» (Voi dee deutschen Poeterey), 1624.

L'opera ha il merito incontestato di aver posto fine all'arbitrio e alle rozzezze della versione tedesca precedente e di averle sostituito una tecnica fondata su misure e regole esatte, condizione indispensabile di ogni creazione poetica destinata a durare. Ma per la materia molto lasciano ancora a desiderare Opitz e la sua scuola. In difetto di fantasia poetica prevale troppo la tendenza rivolta a quello che è puramente ragionevole, onesto, tranquillamente istruttivo, cioè la semplice didattica, evitando tutto quello, che può commuovere profondamente il cuore umano o corrispondere anche al carattere popolare.

In conformità al sentimento religioso dell'epoca, acquista una importanza speciale l'inno sacro. Le relazioni tra il singolo uomo e Dio non sono mai state rappresentate in modo più intimo ed efficace che nei canti di Paolo Gerhardt. Ricordiamo qui solamente il magnifico «Tu decreti le tue vie», che a moltissimi uomini ha dato conforto; il canto della sera «Ora riposano tutte le selve» ; il cantico di ringraziamento per annunziare la pace di Wesfalia.
Non é un sentimento oscuro, che trova espressione in questa poesia, ma il sentimento è sempre accoppiato ad una limpida ricchezza di pensiero e prende corpo in un nobile linguaggio. Il canto inondano trovò il suo rappresentante più degno nel maggior poeta di quel tempo, poeta di grande importanza, Paolo Fleming (1609 al 1640) dell'Erzgebirge. Invece di sottilizzare nelle sue poesie sopra soggetti razionali, interrogò arditamente il proprio cuore e l'intera vita umana e ne rispecchiò le condizioni naturali ed eternamente rinnovantisi, nei suoi canti pieni di caldo sentimento e sorretti da una chiara comprensione e da un'intelligenza profonda.

Se Fleeting fu senza contrasto il maggior ingegno poetico del tempo, Andrea Grifio (Gryphius) ebbe quello più versatile (1616 al 1664). Nativo della Slesia, come Opitz, sviluppò al pari di questo il suo ingegno nei viaggi e fu poi a vicenda insegnante e alto funzionario, del governo. Una triste sorte personale e le calamità della patria, così di quella più ristretta come della maggiore, hanno dato alla maggior parte delle creazioni del Grifio un'impronta cupa e melanconica. Ma se nelle sue liriche il sentimento è espresso con una certa verità e spontaneità, sono queste tuttavia accoppiate troppo spesso con qualche rozzezza e mancanza di arte. Le sue tragedie, che si accostano a quelle degli stranieri, specialmente a quelle di Seneca e degli Olandesi, col loro merito inferiore dimostrano che la sua forza poetica non era sufficiente per questo genere elevato di poesia.
Sono invece migliori le commedie, che derivano in grande parte da situazioni reali e da concetti popolari, e spesso godono di una robusta «vis comica» e di una naturalezza senza belletto. Fino a Lessing in questo campo, nulla si produsse di così pregevole.
La tendenza popolare, - che si palesa nelle commedie del Grifio, spicca ancora negli scrittori satirici di quel tempo. Lo slesiano Federico di Logau é senza dubbio il poeta epigrammatico più importante, che abbiano i Tedeschi. Il vigore e la precisione dell'espressione ed anche una leggera grazia si uniscono in lui con l'acutezza dello sguardo, col sottile giudizio e con una sana arguzia. Il suo caldo sentimento patriottico si esprime con amarezza a proposito dei lati deboli dei Tedeschi di quel tempo, specialmente della prevalenza dei costumi stranieri.
Questo incita anche la beffa mordace del Laurenberg, professore a Rostock, le cui satire scritte nel vigoroso dialetto della sua patria, trattano certo ruvidamente i costumi e la poetica alla moda. Sventuratamente questa reazione patriottica non poté affermarsi di fronte alla superiorità manifesta degli elementi stranieri.
Specialmente la poesia era caduta in tale dissolvimento e confusione da restarne finalmente minacciata l'esistenza stessa della lingua. Frammisto con parole straniere, privo del sentimento della struttura e dell'eufonia del periodo, solito a imitare con indicibile goffaggine le frasi forestiere, il linguaggio tedesco parve votato alla morte.

Due prosatori soltanto si mantennero abbastanza liberi dalla corruzione generale, Moscherosch e Grimmelshausen. L'alsaziano Moscherosch, abile funzionario di governo ed uomo di Stato, seguendo come modello lo spagnolo Quevedo, ha flagellato gli errori e i vizi dei suoi contemporanei nell'opera «mirabili e vere visioni di Filandro di Sittewald». Con acuto sguardo penetra nel carattere del suo tempo, ne sente profondamente la perversità e la castiga con uno spirito tagliente e doloroso, perché originato dalle sofferenze della sua propria anima. Molto più popolari erano i romanzi dell'assiano H. J. Ch. von Grimmelshausen, principalmente il suo famoso «Simplicissimus», la rappresentazione poetica più fedele, estesa e insieme attraente delle condizioni contemporanee, che esista nella letteratura tedesca, anzi in tutta quella universale. Si legge ancora oggi con lo stesso interesse e forse con maggiore attenzione che non due secoli e mezzo fa. Veramente nemmeno a questo vero poeta per grazia di Dio si é potuto del tutto sottrarre alla degenerazione della prosa di quel tempo.

L'arte tedesca era già decaduta da lungo tempo. Le mancavano tutte le condizioni, che avrebbe presupposto la sua esistenza: ricchezza e stabilità, sentimento nazionale, interesse per parte del popolo, fine cultura e una tradizione comune. Se intorno al finire del secolo precedente l'architettura e la scultura tra loro unite avevano creato opere splendide e piacevoli, tra le miserie e le calamità della guerra non vi erano rimasti per esse nè ispirazione e né mezzi. Il pittore Adamo Elsheimer dotato di grande talento, che insieme al Caravaggio fu il creatore del naturalismo di quei tempi, fu costretto ad emigrare a Roma per trovarvi un campo alla sua operosità.

Né meno triste appariva lo stato politico della Germania d'allora. Veramente ognuno aveva in bocca frasi patriottiche, ma non era il caso di parlare di vero sentimento patrio. I principi, che per la pace di Wesfalia avevano ricevuto una sovranità effettiva, cercavano ansiosamente di assicurare queste loro «libertà» da ogni ingerenza del potere imperiale e inoltre per riempire il loro tesoro, eternamente esausto, si vendevano alle potenze straniere.
La più vicina e la più forte tra queste era la Francia e perciò ognuno in Germania si diede da fare per ottenere il favore del re cristianissimo. A dire il vero era andato fallito il tentativo fatto dal Mazarino nel 1650, dopo la morte dell'imperatore Ferdinando III, per sottrarre la corona imperiale alla casa di Asburgo e per trasferirla in quella dei Vittelsbach, e poiché questi rifiutavano questo onore troppo grave, Mazarino intendeva porla sul capo dello stesso giovine sovrano francese.

Ma in compenso ancora nell'estate del 1658 il cardinale concluse con un gran numero di principi della Germania occidentale la «lega del Reno», la quale con le sue condizioni espresse in termini generali e facili ad estendersi, concedevano alla Francia alcuni pretesti per ingerirsi negli affari tedeschi. Il re di Francia divenne in Germania più potente dello stesso nuovo imperatore Leopoldo I, figlio di Ferdinando.

Anche l'Inghilterra aderì alla grande alleanza francese, la quale comprendendo già la Svezia, la Polonia, i liberi Paesi Bassi e una grande parte della Germania, pareva destinata a dominare l'Europa.
L'Inghilterra aveva allora attraversato una rivoluzione, che ha un'importanza storica tanto maggiore, in quanto che i suoi risultati sono divenuti tipici per la maggior parte degli Stati europei; noi infatti assistiamo qui alla nascita del parlamentarismo, che cento e cinquanta anni più tardi i popoli più civili e gli spiriti più nobili hanno considerato ed amato come lo scopo di tutte le aspirazioni politiche, come un esempio da imitarsi con tutta la propria energia, come un ideale di costituzione per tutti gli Stati.

Da quando gli Stuart erano saliti con Giacomo I sul trono d'Inghilterra, questi pretesero di fondarvi l'assolutismo regio. La nuova dinastia pensava d'imitare l'esempio, che le davano allora i principi del continente europeo. Però essa non si rese conto che nella Gran Bretagna le cose erano del tutto diverse. Prima di tutto la dinastia degli Stuart era straniera, senza radici nel proprio territorio; le sue tradizioni e le sue memorie nulla avevano in comune con quelle della nazione inglese; proveniva da un popolo - lo scozzese - che da molti secoli, era stato nemico di quello inglese, odioso e perfino spregevole. Erano questi gravi inconvenienti, ma non gli unici e nemmeno i più dannosi. Altrove vi erano dovunque eserciti stanziali, che mantenuti dal principe ed obbligati a lui solo, divennero lo strumento più efficace per stabilire il suo potere illimitato.
Invece le isole britanniche, protette dalla loro posizione contro ogni attacco straniero, non conoscevano una simile istituzione; mancava così alla monarchia la vera arma per imporre il suo potere assoluto ai comuni ricalcitranti.

La nobiltà, che sul continente preferiva già da lungo tempo di schierarsi come una classe privilegiata intorno al trono e col suo aiuto e sotto la sua protezione sfruttare cittadini e contadini, in Inghilterra da un mezzo millennio stava in continui rapporti reciproci col popolo, col quale si confondevano i suoi figli cadetti, e fin dal giorno, in cui a Runnymede fu accordata la magna charta, aveva considerato l'interesse del popolo identico al proprio. Invece di essere gli scudieri del dispotismo regio, come i loro colleghi del continente, i nobili inglesi erano i campioni della libertà nazionale anche mettendosi contro il sovrano.
La rivoluzione religiosa, che altrove aveva prodotto lotte sanguinose e rivolte, si era compiuta in Inghilterra lentamente, sotto la direzione della Corona stessa. Quindi qui non esisteva quel bisogno illimitato di quiete, di pace interna ad ogni costo, che in Francia, nel Belgio, in Germania spingeva i popoli nelle braccia dell'autocrazia dei principi. Dunque da quasi mezzo secolo lo sviluppo delle condizioni sociali non era per nulla favorevole ai disegni di Giacomo I e dei suoi primi successori.
In una pace interna, durata più di un secolo, si erano risanate le ferite apertesi nel popolo dalla guerra delle rose. Finché la nazione era stata povera e decaduta, si era umilmente sottomessa alla forte monarchia. Ma poi il commercio, l'industria e l'agricoltura avevano progredito con una rapidità vertiginosa. La marina si era sviluppata splendidamente e i marinai nutrivano sentimenti liberali, così in politica come in religione, al pari di quelli che li utilizzavano, dei mercanti cioè con tutti i loro aderenti nelle varie città. Un sentimento di orgoglio e di arditezza riempiva l'animo della classe media numerosa ed ormai agiata.

Nel campo religioso, ad onta di tutta l'opposizione della Corona, si era vigorosamente sviluppato un ardente calvinismo; questo prevaleva appunto tra i commercianti delle città e i piccoli proprietari fondiari delle campagne e costituiva la maggioranza nella Camera bassa. La consapevolezza del proprio valore, i sentimenti liberali e l'opposizione religiosa del popolo avevano già opposto una solida diga alle tendenze assolutiste di Giacomo I, del primo Stuart salito sul trono inglese, e spogliata la monarchia di popolarità.
Quando il 27 maggio 1625 Carlo I, figlio di Giacomo I, prese la corona, da ogni parte incombevano contrasti minacciosi: la rappresentanza della nazione era piena di arditi disegni per impadronirsi del dominio e alla Corte, nonostante i recenti rovesci, si aveva l'intenzione di persistere nell'arbitrio di fatto dei Tudor; il puritanesimo - il calvinismo rigido - per nulla democratico, seguiva le parti del Parlamento.

Il re Carlo I non possedeva alcuna delle qualità, che avevano reso suo padre oggetto di disistima e di avversione. Era di forme belle e slanciate, di fini lineamenti, con occhi bruni e tranquilli. Il suo contegno era dignitoso, la sua vita morale senza macchia. Parlava di rado e poco, ma sempre con espressioni convenienti e nobili. Era parsimonioso senza essere avaro, puntuale in tutte le sue azioni, di volontà ferma e forte come il suo predecessore. Nondimeno alcuni difetti snaturarono il carattere del giovane monarca, salutato all'inizio con tanto giubilo. Carlo era malfidente nelle parole e negli atti per semi-incoscienza e quasi per ingenuità; così ostinato da non sottrarsi alla perfidia; privo del tutto di chiaro giudizio, di penetrazione per ciò che era praticamente possibile ed utile. Certo non ebbe mai una visione sicura delle condizioni e necessità della situazione politica e prese sempre per cose reali i suoi desideri.

Venne subito a contesa con le rappresentanze della nazione e la contesa fu esasperata da una politica estera dispendiosa quanto infelice. Due volte nel breve intervallo di un anno fu sciolta la Camera dei comuni. Il terzo parlamento nel 1628 ottenne dal sovrano che fosse accettata la «petizione dei diritti», che vietava alla corona di contrarre prestiti arbitrari, d'imprigionare chiunque senza l'ordine del giudice e senza che fossero osservate le forme legali, di mai sottoporre di nuovo il popolo alla giurisdizione di tribunali statali.

Con questo era stato distrutto l'arsenale dell'assolutismo. Nondimeno il re violò ben presto la legge, appena pubblicata, e così di nuovo scoppiò il dissidio col parlamento. Il 2 marzo 1629 Carlo licenziò anche il suo terzo parlamento e decise di governare ormai senza la rappresentanza nazionale.

Carlo I ha poi tenuto in piedi questo sistema per undici anni, perseguitando crudelmente tutti quelli, che difendevano le libertà legali del popolo inglese. Ed alla oppressione politica si accompagnava quella religiosa. Disceso dal sangue di Maria Stuarda, considerata martire del cattolicesimo, Carlo aveva sempre sentile una certa inclinazione per le credenze cattoliche. Trovò allora tra gli ecclesiastici anglicani un uomo secondo il suo desiderio, il vescovo di Londra, Guglielmo Laud.
Era costui un uomo certamente pio e retto, ma passionale e ingeneroso, il quale voleva nella chiesa soltanto unità, ordine e subordinazione. Infatti, non si doveva parlare di alcuna libera opinione, di alcuna singolarità individuale, ma tutti dovevano uniformemente assoggettarsi al comando dei superiori. Come si vede, ad uno spirito tale doveva stare dinanzi agli occhi come ideale la gerarchia romana, non perché egli avesse riconosciuto la verità dei dogmi romani, ma perché in quella l'unità e l'autorità incondizionata del governo della chiesa sono attuate nel modo più logico ed efficace.

Si consideri ora che tra i quattro milioni d'Inglesi di quel tempo, si trovavano non di più di duecentomila cattolici e che quindi all'immensa maggioranza il «papismo» appariva come il più temibile e odiato nemico. Ciò nonostante Laud, con l'aiuto del sovrano, cominciò presto la persecuzione dei puritani come il graduale passaggio della chiesa di stato a tendenze cattoliche.
Ma nulla è più pericoloso dell'attaccare nello stesso tempo le convinzioni religiose di un popolo e quelle politiche - poiché ciò é più di quello che esso possa a lungo sopportare.
Soltanto con un forte esercito stanziale e insieme con una rigida parsimonia, che risparmiasse gl'interessi materiali del popolo, liberando così il re dal dover chiedere il consenso del parlamento, si sarebbe forse condotta a termine un tale mutamento.

Ma di queste due cose non era il caso di parlare con Carlo I. Egli si compiaceva della pompa nelle apparenze esteriori e delle comodità di una vita ricca. La sua corte era il ritrovo dei primi artisti e dotti di Europa. Rubens era qui ospite ben accetto, Van Dyck fu il pittore di corte fisso e riccamente ricompensato dalla famiglia regia inglese, al cui servizio morì. Ben Johnson dilettava il seguito del monarca con le sue commedie per maschere, Hugo Jones ne ricreava l'animo con i suoi splendidi edifici. La regina Enrichetta Maria, di animo ardente e leggero, partecipava di tutto cuore a questa brillante attività, alla quale lasciava sacrificare senza esitazioni delle somme considerevoli.
Erano così dissipate le rendite scarse di Carlo, che si sarebbero semmai dovute adoperare alla formazione di un fidato esercito stanziale. Al contrario egli stesso dava a piene mani i denari destinati direttamente all'esercito in invenzioni, in costruzioni di fortezze e di canali, in cambiamento di uniformi e di armi per lo più di qualità non pratiche, ma era convinto di poter diminuire l'effettivo dell'esercito, che alla fine ebbe quasi soltanto ufficiali senza soldati.

E per questo Carlo riscosse tasse arbitrarie ed illegali con l'aiuto di funzionari e giudici ossequenti. Il campione più energico e di maggiore ingegno dell'assolutismo, Tommaso Wentworth, col titolo di conte di Strafford, divenne primo ministro. Laud fu elevato alla dignità di arcivescovo di Canterbury e quindi di capo della chiesa anglicana.
Incoraggiato dal buon successo già ottenuto nell'Inghilterra propriamente detta, Carlo decise di estendere anche alla Scozia il suo sistema religioso romanizzante. Però questo paese, abitato da una popolazione povera e semiselvaggia, ma passionale, ardita e calvinista fanatica, si sollevò senza indugio (1637). La nazione intera si unì solennemente nel «Covenant», nel quale si obbligò al mantenimento della religione protestante e della libertà e delle leggi del paese.

Quando Carlo temporeggiando cercò di opporsi a quel moto, presto si trovò senza denaro e i suoi soldati racimolati in fretta, non pagati e perfino ostli a quella guerra, si sbandarono. Si vide allora costretto a convocare il parlamento per procurarsi mezzi maggiori (aprile 1640). Ma invece di riconoscere la sua disfatta e, sacrificando l'assolutismo del resto già perduto, di salvare a vantaggio della monarchia quello che ancora si poteva salvare, cercò di vincere con la violenza anche questa rappresentanza della nazione e poiché essa non si sottomise,, sciolse questo «corto parlamento», che durò soltanto tre settimane.

La misura era colma; il rispetto alla monarchia al pari del timore di essa erano scomparsi. In molti luoghi avvennero sollevazioni e le truppe rifiutarono di obbedire. Non vi era modo di procurarsi denaro. Gli Scozzesi avanzarono in Inghilterra. Tutto l'edificio del potere assoluto cadde in rovina senza rimedio. Il re dovette dichiararsi vinto e convocare un quinto Parlamento - il «lungo Parlamento» - che si adunò il 3 novembre 1640.
Questi fece «tabula rasa» dell'arsenale dell'assolutismo, punì tutti i funzionari del sistema di arbitri fino allora seguito, fece decapitare Strafford e gettare in carcere Laud.

Carlo non mosse un solo dito per salvare i suoi fedeli servitori. Ma poiché la maggioranza della Camera dei comuni procedeva a misure sempre più radicali, l'opinione pubblica cominciò a volgersi di nuovo dal lato del re. Se questi avesse conservato un contegno fermo, ma legale, si sarebbe potuto sostenere ancora. Invece commise un nuovo atto di violenza, tentando in persona di arrestare cinque membri della Camera bassa nella sua sede. Avvertiti, questi si erano messi in salvo (4 gennaio 1642).
La Camera dei comuni chiamò il popolo a difendere la sua libertà e la legge; la città di Londra, il mezzogiorno e l'oriente industriale e prospero del paese presero le armi. Carlo abbandonò la capitale e i paesi poveri e scarsamente popolati del settentrione e dell'occidente, dove prevaleva l'influenza della nobiltà, si raccolsero intorno alla sua bandiera.

Era così scoppiata la guerra civile tra i puritani dai capelli corti, «le teste rotonde», e i realisti o «cavalieri».
All'inizio questi ebbero il sopravvento. Gli elementi da cui era composto l'esercito di Carlo erano di gran lunga migliori di quelli raccolti intorno alla bandiera del Parlamento. Ma appunto la disfatta di questo fece salire in credito tra i suoi partigiani un partito estremo, quello degli indipendenti, che aspiravano ad una completa uguaglianza e indipendenza personale così nelle istituzioni politiche e sociali, come in quelle religiose; che nè la nobiltà nè il clero siano più classi privilegiate; che dovunque le comunità dei credenti non debbono sottostare ad alcun reggimento unitario della chiesa. Questa dottrina logica e semplice ispirava ai suoi partigiani una ferrea decisione, alla quale non poteva a lungo andare opporsi il partito indeciso del «presbiterianesimo» moderato. Gli indipendenti inoltre ebbero un geniale condottiero in OLIVIERO CROMWELL.

Oliviero era nato il 15 aprile 1599 a Huntingdon nell'Inghilterra orientale, figlio di
un agiato gentiluomo campagnolo. Secondo l'abitudine della sua famiglia, aveva studiato in una scuola letteraria e nell'università di Cambridge, tuttavia senza fare grandi progressi nel sapere. Godeva però di una tale autorità che, pur essendo nel suo ventinovesimo anno, fu eletto nel parlamento. Per lungo tempo vi si fece notare non per la sua eloquenza, ma soltanto per la violenza e scorrettezza del suo linguaggio. Il suo spirito così gagliardo ed ardente e tuttavia così chiaro e astuto si é manifestato soltanto sul campo di battaglia. Cromwell non era infatti un uomo da regolare l'opera di tutta la sua vita secondo teorie, nè frutto di lunghe riflessioni. Il suo genio pratico operava secondo lo stato delle cose, che sapeva giudicare con impareggiabile sagacità e mettere a profitto, procedendo con ardimento e con energia.

Cromwell vide ben presto che da ogni lato era necessaria della risolutezza per guidare alla vittoria la causa del Parlamento; sentiva istintivamente che nelle rivoluzioni il buon successo arride al più risoluto. Perciò si unì agli indipendenti, la cui pietà esaltata e insieme energica e democratica, corrispondeva al suo forte carattere. Raccolse nelle contee orientali un corpo di mille giovani liberi proprietari, agiati, ma figli di agricoltori induriti alle fatiche, fanatici e arditi, alesstendo così la miglior cavalleria del mondo. Sono questi le famose «coste di ferro» di Cromwell, uguali per prodezza ai cavalieri ma di gran lunga ad essi superiori per rigida disciplina.
Un rigoroso servizio e la preghiera si alternavano tra loro. Questa milizia si acquistò una tale fama che il suo maggiore Cromwell fu promosso luogotenente generale. In questa qualità presso Marston Moor, nelle vicinanze di York, salvò gli Scozzesi già battuti e finalmente pose del tutto in fuga gli avversari (2 luglio 1644): Questa battaglia ridusse tutto il settentrione dell'Inghilterra in potere del Parlamento.

Questa splendida vittoria ebbe per conseguenza che presto tutti i gradi superiori di ufficiale toccarono agli indipendenti, e il comando supremo a Tommaso Fairfax, a loro devoto. Essi nel tempo stesso purgarono l'esercito dagli elementi presbiteriani, cui sostituirono persone delle stesse loro opinioni. Erano essi uomini, che pregavano con quello stesso ardore con cui combattevano; nessuna bestemmia fu più udita nel campo, dove non si videro né giochi di carte, né orgie. Quegli zelanti calvinisti si considerarono come eletti strumenti del Signore contro i Filistei e gli Amaleciti; un vero esercito della fede.
Avveniva spesso che i semplici soldati, colti dallo spirito divino, impartissero insegnamenti teologici ai loro ufficiali; ma in servizio osservavano una energica disciplina. Ogni saccheggiatore, sedizioso o bestemmiatore era severamente punito.

La cresciuta influenza di questo partito fanatico si manifestò nella circostanza che dopo un'interruzione di tre anni il processo dell'arcivescovo Laud fu ripreso, e questo prelato, con violazione delle forme come dello spirito della legge, fu condannato a morte e giustiziato (gennaio 1645).

L'esercito indipendente riorganizzato e specialmente Cromwell riportarono poi una vittoria definitiva presso Naseby (14 luglio 1645); l'esercito realista fu distrutto, la guerra fu decisa in favore del Parlamento. Carlo fuggì presso gli Scozzesi, dove il presbiterianesimo ancora dominava. Tuttavia, siccome egli rifiutava ostinatamente di accettare il «covenant», nel febbraio del 1647 gli Scozzesi per star tranquilli loro, consegnarono il re al Parlamento inglese.

Questi credette di tenere nelle sue mani la vittoria. Sperò d'imporre le sue condizioni al re prigioniero, ma sopra tutto di licenziare l'esercito degli indipendenti, che ora appariva più pericoloso del monarca disarmato. Però Cromwell e i suoi amici istigarono i soldati a resistere. L'esercito dei « santi » si sollevò come una nuova e terribile potenza a fianco del Parlamento e contro di esso.
Con rapidità inaspettata era giunta per la parte presbiteriana l'ora della resa dei conti. Lo strumento, col quale essa aveva rovesciato la monarchia, le si rivolse contro nello stesso momento della vittoria. L'esercito condusse via a forza il re a Newmarket, in mezzo alle truppe, avanzò poi su Londra, obbligò a dimettersi prima undici dei membri più eminenti della Camera dei comuni e poi costrinse a fuggire tutti i presbiteriani decisi del Parlamento e del Consiglio comunale di Londra. La Camera alta contava ancora pochi membri soltanto.

Per procurarsi un alleato contro i presbiteriani, l'esercito iniziò delle trattative col re. Questi tuttavia, secondo la sua indole incorreggibile, cercò di ingannare e di tradire. Sul continente si armarono i realisti emigrati, nella stessa Inghilterra scoppiarono sollevazioni realiste, e gli Scozzesi avanzarono di nuovo, veramente a difesa più del presbiterianesimo che del re. Ma Cromwell li vinse definitivamente a Preston e a Warrington (agosto 1648) e sconfisse ovunque i ribelli.
Carlo fu tenuto in dura prigionia prima nel castello di Carisbrooke nell'isola di Wight, poi nel tetro castello di Hurst. Lo sdegno per tali violenze, dopo che il Parlamento aveva poco prima promesso solennemente al re sicurezza e un trattamento onorevole, diede coraggio perfino alla intimidita maggioranza presbiteriana. La Camera bassa rigettò tutte le «rimostranze» dell'esercito e dichiarò che le risposte del re erano una base sufficiente per trattare la pace.

Gl'indipendenti decisero di raccogliere il guanto di sfida a loro in tal modo gettato, potendo essi disporre della forza brutale. Il 6 e il 7 dicembre delle truppe sotto il maggiore Pride circondarono la Camera bassa e imprigionarono ottantuno dei suoi membri. Altri sessanta nel timore ben fondato di una simile sorte, si tennero lontani dalle discussioni. L'intero partito presbiteriano era scomparso.
Con questo era in pari tempo deciso il fato del re. Il 23 dicembre 1648 i comuni, ormai formati solo da indipendenti - il « tronco (rumpf) del lungo Parlamento » - decisero a grande maggioranza di condurre davanti ad un tribunale speciale da costituirsi, il monarca quale reo di alto tradimento contro il Parlamento. La Camera bassa aveva cento volte dichiarato illegali e tirannici i tribunali speciali; la Camera alta, ancora frequentata da dodici pari, rigettò a voti unanimi la decisione dei comuni; tuttavia questi non tennero alcun conto di quel veto, dichiarando che dopo Dio il popolo è l'unica fonte di ogni potere legislativo.

Si dovette circondare ed occupare la sala del tribunale con degli interi reggimenti perché si manifestavano apertamente nel popolo lo sdegno contro questa violenza e la compassione verso l'illustre prigioniero. I procedimenti della Corte di giustizia furono sconvenienti al pari della sua composizione. Senza ascoltare la risposta o la difesa del re, essa lo condannò a morte il 27 gennaio 1649. Il 30 gennaio 1649 (vecchio stile) Carlo I, calmo e rassegnato, subì il suo destino sul patibolo innanzi al palazzo di Whitehall, in mezzo alla dolorosa commozione di un popolo, che aveva dimenticato tutti gli errori del suo re dinanzi a quella terribile espiazione.

La lunga serie di errori e di debolezze, di cui Giacomo e Carlo si erano resi colpevoli, scomparve dalla memoria della nazione, quando Carlo, in certo modo quale rappresentante dello Stato legale della vecchia Inghilterra, fu tolto via di mezzo dalla brutale ed illegale violenza, per opera di un esercito di pretoriani. Egli non continuò a vivere nella memoria degli uomini quale persecutore della libertà costituzionale, ma come vittima e martire di essa. La sua ombra stette d'allora in poi implacabile tra i capi della rivoluzione e una stabile condizione legale. Inoltre se si fosse stati contenti di esiliare Carlo nel continente, finché egli fosse stato in vita non sarebbe stato il caso di pensare a una restaurazione della monarchia. La sua persona spiaceva a tutti i partiti. Anche i cavalieri esecravano la sua doppiezza e incostanza, la sua continua politica d'intrighi.

Le cose mutarono del tutto quando suo figlio maggiore Carlo (II) divenne il legittimo pretendente alla corona inglese. Di questo giovane non si conosceva nessuna cattiva qualità; nonostante il triste ricordo non si separava dal partito del suo popolo, pensava liberalmente. Egli spogliato senza sua colpa della corona, figlio del «martire regale», per la sua stessa situazione destava già numerose e profonde simpatie.

II supplizio di Carlo I non fu quindi soltanto un misfatto, ma fu anche il più grave errore che i repubblicani potessero commettere. Appena ci possiamo spiegare perché il loro capo così geniale, Cronwell, lo abbia commesso, se non si ammette che con questo volesse procacciarsi il luogo per la fondazione di una nuova dinastia sua propria.

Frattanto il partito repubblicano dall'atto di violenza che gli era così riuscito trasse, a dire il vero, nuova forza e nuova confidenza, Fu istituita una repubblica, diretta dà un Consiglio di Stato e dal « rumpf ». Il suo campione letterario più entusiasta fu il gran poeta Giovanni Milton (1608-1674). Essa però fu l'opera di una piccola minoranza, il cui dominio poteva esser tenuto in piedi soltanto con la violenza.
Cromwell soffocò tra fiumi di sangue là resistenza dei cattolici d'Irlanda, vinse a Dunbar e a Worcester gli Scozzesi, che avevano chiamato nel loro paese il giovane Carlo Il; questo giovane pretendente a fatica trovò scampo in Francia (1651).

Tuttavia scoppiarono nuovi dissidi tra la Camera bassa e l'esercito. Cromwell tagliò corto ad essi disperdendo il « rumpf » coi suoi soldati (20 aprile 1653). Così fu compiuta là distruzione del parlamentarismo per opera della violenza militare. L'esercito affidò l'ufficio più elevato al suo onnipotente generale col titolo di protettore il 16 dicembre 1653.
Per cinque anni Cromwell ha tenuto questo ufficio. Egli ha elevato l'Inghilterra alla posizione di grande potenza europea. Ha vinto. la concorrenza marittima- dell'Olanda e procacciato agli Inglesi la signoria dei mari. Ha difeso dovunque la causa del protestantesimo. Ha finalmente concluso con la Francia un'alleanza contro la Spagna, che procurò agli Inglesi il possesso di Dunkerque e di Mardyk e con ciò - quale compenso per Calais perduta un secolo prima - due teste di ponte sul continente europeo.

Nel termine di pochi anni Cromwell dette alla potenza esterna dell'Inghilterra un maggiore splendore che non le desse prima di lui Elisabetta con un lungo regno. Ma con tutto ciò non gli riuscì né con l' astuzia né con la forza di fondare una condizione di cose durevole. Non poté fare accogliere nell'Inghilterra, abituata ad un regime libero, il governo della sciabola, sebbene vi fosse introdotto da un geniale reggitore di stati, il cui primo fanatismo religioso era stato da lungo tempo addolcito da una profonda conoscenza delle condizioni e delle istituzioni politiche.
Tutti i tentativi di fondare il protettorato sopra istituzioni parlamentari fallirono miseramente. Quando poi il 3 settembre 1658 il grande Oliviero morì e gli succedette il suo figlio maggiore Riccardo, uomo bonario e di buone intenzioni, ma senza alcuna capacità politica e militare, gli stessi soldati nell'aprile del 1659 costrinsero costui a deporre la sua carica.

Un'anarchia generale dilagò allora, alla quale mise termine il generale Giorgio Monk, che comandava nella Scozia, convocando di nuovo l'intero «lungo Parlamento». Questi ristabilì subito la monarchia, e il 29 maggio 1660 Carlo II fece il suo ingresso in Londra tra l'esultanza dei cittadini.

Si poteva credere che gli ultimi venti anni fossero stati per l'Inghilterra un puro sogno, eppure essi avevano dato per sempre al Parlamento la coscienza della sua superiorità rispetto al potere della Corona. La monarchia che conseguì Carlo II non era la medesima, per la quale aveva combattuto suo padre sventurato; essa significava ancora e soltanto la presidenza ereditaria di una repubblica aristocratico-borghese.
Carlo II, che ben sentiva la propria debolezza, cercò un forte alleato. Nessuno gli parve più adatto del giovine re di Francia.

Quale tra gli Stati europei poteva ancora contrastare a questo e alla sua numerosa clientela? Ancor meno del ramo tedesco della casa di Asburgo ne era capace quello spagnolo. Il gigantesco regno di Spagna, che un tempo poteva aspirare al dominio universale, si trovava ormai in profonda decadenza. Le continue guerre, il mantenimento della sua odiata signoria nelle province italiane di Sicilia, di Napoli, di Sardegna, di Milano, come sopra i Paesi Bassi meridionali e finalmente il governo e la difesa del suo immenso impero coloniale avevano consumato le forze materiali della Spagna, mentre quelle intellettuali si estinguevano lentamente sotto la terribile oppressione di un clero intollerante e maniaco di persecuzione.

Lo Stato spagnolo viveva effettivamente di una vera amministrazione brigantesca, ingannando i suoi creditori intorno ai loro diritti, confiscando l'oro e l'argento, che proveniva dall'America ed apparteneva a privati, esercitando in grande la falsificazione della moneta. I funzionari non pagati si risarcivano con una corruzione sfacciata, gli eserciti pure senza un soldo si disperdevano come fa l'acqua fra le sabbie. Le province si sollevavano e specialmente il Portogallo, che dal 1640 si trovava in stato d'insurrezione fino a sfidare indomito le armi spagnole.
Il re Filippo IV dimenticava le sventure e le vergogne del suo regno, ricreandosi con la poesia e con l'arte, il cui fiorire sopravviveva a quello dello Stato e della nazione. Il teatro era oggetto di una generale predilezione; perfino la regina e le principesse comparivano in rappresentazioni sceniche. Erano i tempi del grande Calderon de la Barca (16001683) ; questi compose commedie, drammi, tragedie e rappresentazioni religiose, tutte con la stessa facilità nel trattamento del verso.
Un pensiero intimo, una moralità si trova in fondo ai suoi lavori teatrali, che é poi svolta sino alla fine in un tessuto variopinto di avvenimenti, che continuamente stimolano e interessano gli ascoltatori. Per quanto Calderon non riesca a caratterizzare nettamente i suoi personaggi, a rappresentare esattamente delle singole individualità ben circoscritte, sa fare risuonare alta e vera la voce della natura, anche nei suoi toni più profondi e commoventi. La Spagna dei suoi tempi col suo suscettibile sentimento dell'onore, la sua iattanza, la sua passione per le avventure galanti, il suo illimitato zelo religioso, rivive dinanzi a noi nelle opere del suo poeta.

Anche all'infuori del dramma l'arte poetica spagnola non rimase inattiva. Quevedo, uno degli spiriti più geniali, ma anche più bizzarri, scrisse le sue «visioni» satiriche, che servirono di modello al tedesco Moscherosch, e romanzi comici abbastanza scollacciati, come «la vita del grande Tacano». Il carattere adorno e ricercato, che già spicca negli ardenti «canti d'amore» del Villegas, lo «stile coltivato», ricevette uno sviluppo di gran lunga maggiore per opera di Luigi di Gongora, che riscosse molto plauso dai suoi contemporanei e fondò una scuola vera e propria, quella dei «gongoristi». Nessuna parola conservò in essa il suo significato naturale, nessun periodo la sua naturale struttura, nessun pensiero la sua naturale espressione; tutto fu sovvertito, mutato, cacciato a forza in forme inusitate, frammisto con elementi stravaganti, fregiato di metafore portentose.

Così già nel tempo di Filippo IV comincia la decadenza della letteratura spagnola, che si compie poi rapidamente e che segue immediatamente al suo massimo fiorire.
Il re prendeva un vivo interesse anche per la pittura e fu un patrono munifico dei grandi artisti di quel periodo. Questi sono contraddistinti innanzi tutto da un'ardente inclinazione religiosa, che prende una forma anche più fanatica, evidentemente per il suo contrasto col protestantesimo, per la coscienza che la Spagna sia il vero baluardo della fede ortodossa contro ogni eresia.
Un pieno abbandono di sé alla divinità, un ascetismo monastico, uno zelo religioso divorante sono rappresentati a preferenza da questi Spagnoli, che dispongono inoltre di un colorito vigoroso e tuttavia delicato e di un dono meraviglioso di interpretare le gradazioni più sottili di colore. Alla loro pietà spesso tetra é però associato, come in ogni spagnolo, un elevato sentimento nazionale. Uno schietto realismo popolare, un pieno abbandono allo spirito della vita spagnola del tempo, ci fa apparire quali veri figli della loro nazione di per sé estremamente orgogliosa e contenta di sé stessa; invece passa del tutto in seconda linea il sentimento aristocratico del rinascimento, che ricerca astrattamente la bellezza. Quelle tendenze furono condotte alla loro piena espressione da Francisco Zurbaran (1598-1662). Figlio di un contadino dell'Estremadura fondò la sua opera sopra una pura interpretazione naturalistica, da lui espressa con un disegno sicuro e corretto. Però questa materia é da lui penetrata con l'abito di un'ardente pietà, che tutto abbraccia, e ciò con un geniale zelo religioso, che ne fa l'antesignano più entusiasta e più unilaterale della pittura ecclesiastica della Spagna, il rappresentante più perfetto di quelle tendenze religiose, che prevalsero nel suo popolo durante i secoli XVI e XVII.

Dalla stessa scuola deriva anche il sivigliano Diego Velasquez (1599 - 1660). Tuttavia il suo esatto studio dei pittori dei Baesi Bassi e il suo lungo soggiorno in Italia, gli fecero spezzare i ceppi, in cui stavano presi gli artisti suoi compatrioti, e gli conferirono un colpo d'occhio più libero, che oltrepassava il loro temperamento monacale. Un colorito argentino e vaporoso diffonde sopra i suoi quadri un incanto commovente. Paesaggi, quadri di genere, soggetti religiosi occuparono il suo pennello. Poi fu per lui decisivo che Filippo IV lo nominasse pittore di corte. D'allora in poi si dedicò preferibilmente a dipingere ritratti di notevoli personaggi. E questo ebbe in lui un carattere più aristocratico e più nobile che nella maggior parte dei pittori dei Paesi Bassi, in lui che sapeva dal modello più insignificante, anzi dal più brutto creare affascinanti capolavori con una grandiosa verità di vita e con una tecnica meravigliosa. Non vi é dubbio che Velasquez, con Murillo di lui più giovane di una ventina d'anni, formino la più splendida stella doppia del cielo artistico della Spagna.

La scultura, che era stata introdotta nella Spagna nella prima metà del secolo XVI dall'eccellente artista Berruguete, vi trovò pure, specialmente nel mezzogiorno, assidui cultori. Gli scultori spagnoli sono troppo poco conosciuti, perché le loro creazioni sono visitate dai forestieri di rado rispetto a quelle degli Italiani e dei Francesi. Montanes (morto nel 1649) fu artista di primo ordine, dotato di sentimento profondo, di nobile intendimento e di un senso delicato per la leggiadria e la bellezza della forma.
Ancora più celebre é il suo scolaro, Alonso Cano di Granata (1601-1667), che con ingegno michelangiolesco abbracciava insieme alla scultura anche l'architettura e la pittura. Fu un uomo impetuoso e focoso, come il suo grande modello italiano, di carattere energico, quasi selvaggio, incline ad ogni pregiudizio. Una rigida asprezza, un profondo fervore, una nobiltà genuina di forme contraddistinguono la sua opera.

Così la letteratura e l'arte gettavano ancora uno splendore, che irradiava sopra il deperimento della nazione spagnola. Anche la sua agonia ha qualche cosa di grandioso e di attraente e fa ancora una volta risaltare in modo splendido le sue nobili ed elevate attitudini. Anche se la scienza spagnola in verità era già da lungo tempo morta nell'amplesso soffocante dell'inquisizione.

Per molte ragioni la penisola degli Appennini era politicamente dipendente dalla Spagna e tuttavia differiva da questa nel suo sviluppo intellettuale e sociale. La vittoria della tendenza esclusiva e dello spirito di persecuzione nella chiesa cattolica aveva potuto certo recar danno e pregiudizio al fiorire della vita intellettuale italiana, ma non annientarlo del tutto.
A questo contribuì notevolmente la mitezza dei costumi, che prevaleva nella migliore società italiana e che in modo quasi insensibile toglieva di mano le armi agli stessi inquisitori. I grandi artisti e poeti non avevano invano lavorato allo svolgimento della cultura italiana, non invano i Medici, gli Este, i Gonzaga e molti papi avevano preferito gli allori della pace a quelli guerrieri; dopo un istante di feroce e sanguinosa reazione tutto il popolo, anche il sacerdozio, si abbandonò troppo al dolce fascino dell'arte e della poesia per pensare agli «auto da fé» o alla caccia agli eretici.

Senza dubbio non doveva nemmeno venire in mente agli Italiani di attaccare addirittura la religione e le sue istitutuzioni o anche le condizioni del governo del loro paese; non si era del resto intenti come nella Spagna a porre argine ad ogni svolgimento di vita intellettuale. Questa fioriva invece sotto la protezione sicura e tuttavia mite delle leggi, che erano osservate ed applicate da governanti assoluti, ma non proprio dispotici. La nazione intera, fino alla parte più povera e più ignorante, amava appassionatamente i suoi grandi poeti ed artisti.
Politicamente l'Italia godeva per lo più di pace e di tranquillità. La più potente delle sue repubbliche era tuttora Venezia, però anch'essa cercava la sua salvezza esclusivamente nel mantenimento dell'ordine costituito; così faceva all'interno, dove un'aristocrazia diffidente e ristretta custodiva con equità l'ordine e il diritto, ma teneva lontano da ogni partecipazione alla vita politica l'immensa maggioranza della popolazione; così pure si comportava con l'estero, dove con timore si evitava ogni decisione azzardata e specialmente la guerra.

La decadenza politica e militare dell'Italia trova il suo riscontro nella letteratura, dove - come nella Spagna - trionfavano l'affettazione dello spirito e l'ampollosità, secondo il modello del napoletano Giambattista Marini. Questo «marinismo» si manifestò anche nell'architettura; si cerca il sovrabbondante, il colossale, lo sfoggio esagerato della decorazione, la prospettiva pittoresca, che tuttavia contrasta al vero carattere dell'arte. Niente conserva il suo carattere naturale; le linee diritte delle pareti si trasformano in curve, che avanzano o si ritraggono con voluminose sporgenze; gli architravi diventono ondulati, i frontoni assurdamente traforati, le colonne avvolte come serpenti in modo non meno contrario alla loro destinazione.


Ovunque una boriosa ricchezza di foglie accartocciate, di frutta, di figure, di vasi fumanti, di emblemi di ogni specie. Lorenzo Bernini (1589-1660) é il rappresentante più eminente di questo stile «barocco» (cioé meraviglioso). Il suo discepolo ed emulo Borromini cercò di sorpassarlo in una selvaggia frenesia di tutti gli elementi costruttivi. L'esempio del Bernini è stato anche troppo seguito a nord delle Alpi; principalmente i gesuiti in questa pompa variopinta, nemica di ogni idealismo trovarono un eccellente stimolo per il gusto disilluso e sazio di quel tempo.

Che anche la plastica, la quale col suo carattere freddo e tranquillo è indirizzata a una nobile semplicità di forme, partecipasse a questa smania di effetto, a questo appassionato movimento, fu motivo della sua assoluta rovina. Ne ebbe origine una grande quantità di opere fastose, piene di pretensioni, nelle quali maestri, che da natura avevano sortito grande talento, manifestarono tragicamente la decadenza della scultura. Anche in questa il Bernini fu il dominatore del suo tempo, specialmente in Roma, che riempì delle sue creazioni scultorie durante sei pontificati.
Dei movimenti esagerati e un voluttuoso trattamento del nudo, un rozzo sfoggio di vigoria nelle figure virili, un contegno lezioso in quelle femminili, dei lineamenti del volto convulsi o contorti, degli abiti agitati o confusamente ondeggianti contraddistinguono un'arte, della quale il Bernini mille volte imitato fu il grande e pur sempre geniale maestro.

Anche la pittura non poteva sottrarsi a queste influenze. Ma nondimeno la tendenza dominante non era in essa così innaturale come nella scultura, poiché grazie ai progressi della tecnica, con lo splendore e lo smalto dei suoi colori, con le molte e brillanti sfumature delle luci e delle ombre poteva qui raggiungere effetti realmente notevoli; inoltre essa trovò rappresentanti geniali, che seppero risollevarla dalle sue aberrazioni, raffinarla e nobilitarla. All'inizio di quest'epoca Luigi Caracci e suo nipote Annibale cercarono perfino di ricondurre quest'arte allo studio della natura e dei grandi cinquecentisti e raggiunsero risultati felici e consolanti. Però il loro discepolo Domenico Zampieri, chiamato per lo più il Domenichino, e Guido Reni poterono conservare questa tendenza soltanto nelle loro opere giovanili, per seguire presto, secondo lo spirito generale del tempo, la voga degli ornamenti fastosi di una esagerata pienezza della forma e di una grazia sdolcinata.

Il rappresentante caratteristico di questa maniera é Carlo Dolci. Tuttavia questi artisti da noi già ricordati con un florido splendore e un colorito vigoroso, con un senso assai sviluppato della bellezza e spesso con un sentimento sincero, seppero dare alle loro opere un alto significato ed elevarle molto sopra il loro effetto sensuale. Più lungamente e in modo più compiuto Francesco Barbieri, detto il Guercino, conserva una robusta naturalezza e un colorito luminoso ed efficace. Così nella pittura italiana durante il secolo XVII si ebbe pure una seconda ricchezza.
D'altra parte l'alterazione di quel tempo si manifestò nella grossolana naturalezza, nella rozza e ardita ruvidezza, che Michelangelo Amerighi, detto il Caravaggio dal luogo della sua nascita, pose come fondamento della sua scuola. L'avere egli posseduto un vigore non comune e riprodotte le cose con profonda verità, rese soltanto più deleterio il suo esempio, perché più efficace. Nei fatti egli riuscì soltanto nel rappresentare soggetti tolti alla vita delle infime classi sociali.
Con tutto il loro rigoglio artistico l'Italia e la Spagna, per quello che riguarda la politica, passano sempre più in seconda linea di fronte allo Stato del giovane Luigi XIV, che aspira a sempre maggiore potenza.

E proprio di Luigi XIV
parleremo nel prossimo capitolo

LUIGI XIV, IL PERIODO EROICO > >

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