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68. L'IMPERO TEDESCO FINO AL 1197
( Da Barbarossa a Enrico VI )

Padre e figlio volevano conquistare il mondo
Al primo gli fu fatale l'acqua di un torrente, al secondo l'acqua di un bicchiere.

Nello stesso anno che moriva Corrado III (1152) saliva sul trono Federico Barbarossa; e il giorno stesso della morte di papa Anastasio il 12 luglio fu eletto al soglio l'inglese Nicholas Breakspear, già cardinale di Albano e legato pontificio in Norvegia; consacrato poi in San Pietro con il nome di ADRIANO IV.

Il nuovo papa che doveva restare l'unico inglese della storia ad assumere il pontificato era nato in Inghilterra, a Langley, presso San'Alban. Di umilissima condizione suo padre lo abbandonò a sé stesso ancor ragazzo ed egli sbarcò la vita elemosinando e facendo piccoli servizi. Dall'Inghilterra il ragazzo passò in Francia dove continuò la stessa misera vita, sinché trovò da occuparsi in un monastero presso Valenza, ed in seguito vi divenne religioso. Qui per il suo ingegno, per la sua austerità e per il suo ardore scientifico salì a tanta autorità che fu eletto abate. Come tale lo conobbe e lo apprezzò papa Eugenio III, che lo nominò cardinale e gli affidò la difficile missione di staccare la chiesa norvegese dalla danese mediante la costituzione di un apposito arcivescovado a Drontheim, e così sventare le pretese dell'arcivescovo tedesco di Brema-Amburgo ed arrogarsi una specie di patriarcato nordico. La maniera con cui disimpegnò questa missione e l'ulteriore attività spiegata fecero sì che venne con largo suffragio eletto papa.
Il cronista Giovanni di Salisbury lo descrive di smoderata avarizia finalizzata in una smania di potere, ma sembra che appena divenuto pontefice, cosciente dei suoi doveri, si sarebbe redento. Ma come nota il Gregorovius, non venne mai meno ai principi di grandezza, e prese a modello Gregorio VII "applicando il principio della signoria universale del papato".

Ed infatti nel corso del suo breve pontificato (1154-59) tentò pure di affermarsi sovrano feudale anche dell'impero. Egli era tutto compreso dell'idea dell'onnipotenza e della sublimità del suo ufficio: i principi dovevano servirlo e gli imperatori baciargli i piedi; tutto il mondo doveva ubbidirgli. Ma la città di Roma gli si ribellò, il re normanno di Sicilia rifiutò di adempiere ai suoi obblighi feudali, e dallo stesso ambiente monastico il cui sistema era quello servirsi dell'entusiasmo religioso per ogni fine. Ma proprio da questo ambiente che gli stava più a cuore, si era levato il monaco Arnaldo da Brescia a proclamare che la chiesa doveva rinunziare al potere temporale se non voleva andare in rovina.

È impossibile dire come Adriano si sia districato da tutte queste difficoltà, forse con la semplice forza di volontà propria delle nature che non guardano se non allo scopo che intendono raggiungere e che si credono chiamate a raggiungere ad ogni costo.

Una cosa però è certa: lui con le sue idee riaccese il conflitto a Roma. Motivo: lui non riconosceva il Senato ma anche il Senato non riconosceva lui come papa e tantomeno il suo potere temporale. Già perchè lui, con risolutezza, si apprestò ad agire appena salito sul soglio. Della sua energia fornì subito indubitabile prova, scacciando dal suo cospetto i deputati del popolo che erano andati a chiedergli la cessione dei diritti sovrani.
Vedendo che i moti popolari non cessavano, vedendo Arnaldo da Brescia che con le sue prediche infatuava i romani, quando nella Via Sacra venne ferito a morte il cardinale di S. Prudenziana, entrò subito e seriamente in conflitto con la repubblica romana e scagliò l'interdetto su Roma. Fece cessare tutte le cerimonie religiose nella città, ad eccezione dell'olio santo ai moribondi, che però non potevano essere sepolti in terra consacrata.

L'anatema scagliato contro un'intera città privava i cittadini da ogni conforto religioso. Tutti i crocifissi e le immagini dei santi venivano coperti con un lugubre velo nero, le chiese sbarrate, e quindi non vi si svolgevano nessuna funzione religiosa
Mai la città era stata colpita da una pena tanto severa, e ovviamente se ne sentì impaurita, l'interdetto voleva dire una sorta di punizione divina sulla città. Cosicchè l
'interdetto fece cambiare atteggiamenti ai cittadini di Roma; il Senato resisteva con spavalderia, ma il popolo privato delle cerimonie, quando senza funzioni, messe ecc. giunse la Settimana Santa che precedeva la Pasqua del 1155, sentendosi abbandonato da Dio, insorse contro il Senato sollecitando la richiesta di perdono al papa. Il Senato a quel punto non più appoggiato dal popolo si adeguò, una delegazione si fece interprete dell'opinione pubblica - e finalmente riconoscendo Adriano papa - gli chiese ufficialmente perdono.

Lui promise di sciogliere l'interdetto ma a condizione che Arnaldo fosse cacciato da Roma e punito con l'esilio. Ottenuta la promessa andò a celebrare la Pasqua in Laterano col tripudio della folla. Qui anticipiamo le conclusioni: quando poi scese a Roma Federico, Adriano per sondare le sue vere intenzione, gli chiese per prima cosa la consegna di Arnaldo. Il re lo accontentò con questo stratagemma: fece arrestare uno dei visconti, e grazie all'ostaggio, si fece dai Campagnano consegnare Arnaldo. Affidato ai legati pontifici, il monaco fu condannato a morte per impiccagione, il suo cadavere bruciato su un falò, le sue ceneri - per impedire che il popolo le venerasse come reliquie di un santo - buttate nel Tevere. Spariva così il monaco che per nove anni con il suo entusiasmo e il suo talento si era messo a servizio della libertà cittadina.

Ad Anagni prima di unirsi in alleanza con Brescia, Piacenza, Milano (fu il primo progetto di una Lega Lombarda) per mettersi tutti contro il sovrano tedesco, Adriano IV prometteva di scomunicare l'imperatore. Ma prima del termine fissato di quaranta giorni, moriva improvvisamente ad Anagni, il 1° settembre del 1159.
Morì in pieno disaccordo con l'imperatore, con i romani e con i normanni, mostrando però fino all'ultimo la capacità di "fronteggiare i più potenti monarchi", e fra questi uno, forte, guerriero, abile, pratico, inflessibile, che trovò ben presto sulla sua strada il successore di Adriano che era quanto lui forte, guerriero, abile, pratico, inflessibile.
Nei 22 anni successivi ci fu un vero e proprio scontro di due "giganti". Barbarossa e Alessandro III.

Infatti della stessa tempra di Adriano era anche il suo principale ausiliario, il cardinale Roland, che gli succedette sul soglio col nome appunto di ALESSANDRO III (pont.1159-1181). Questi era originario di Siena, di buona famiglia, aveva insegnato per molti anni diritto canonico all'Università di Bologna ed aveva composto un manuale, rimasto famoso per lungo tempo, la Summa Magistri Rolandi. In lui era viva l'idea che la Chiesa aveva preso il posto della monarchia universale romana, che essa imperava con autorità assoluta ed incondizionata, che dinanzi ad essa ed ai suoi interessi tutti gli altri Stati ed interessi dovevano passare in seconda linea. Egli aveva l'intransigenza del giurista che crede di aver dalla sua la norma decisiva, l'unilateralità di vedute dell'avvocato che facilmente tratta questioni di diritto pubblico con criteri privatistici. Soltanto più tardi, sotto la pressione del ricordo delle lotte passate e delle difficoltà tuttora vive ad onta di un passeggero trionfo, egli - come vedremo più avanti - si decise nella pace di Venezia a venire ad un compromesso che faceva la dovuta ragione alle condizioni reali della società ed a riconoscere una certa autorità all'impero.

Dei due giganti parleremo più avanti; noi qui torniamo all'anno della elezione di ADRIANO IV e a quella di FEDERICO. L'imperatore appena nominato intraprese la sua prima spedizione in Italia nello stesso autunno del 1154 con un piccolo esercito di 1800 cavalieri con i rispettivi scudieri; in tutto circa 6000 uomini. Il punto di concentramento di questo esercito fu Augsburg. Di qui l'imperatore si mosse, passò il Brennero, e a fine novembre arrivò a Roncaglia ad est di Piacenza, dove secondo le antiche consuetudini, tenne una rivista. Fu rizzato un palo da cui pendeva uno scudo reale ed un araldo invitò tutti i cavalieri che tenevano feudi dalle mani del re a farvi la guardia la notte successiva. Uguale invito fecero i principi che accompagnavano il re, e a tutti i loro vassalli di presentarsi sotto le armi. Dei mancanti si prese nota e chi rimase assente senza permesso del suo signore feudale perdette il feudo. La rivista militare peraltro ebbe nel tempo stesso il carattere di dieta e di corte di giustizia (curia universalis). Il re, che vi aveva invitato le città ed i principi italiani, decise molte questioni, ma molte dovette lasciarne insolute.

Inoltre Federico emanò a Roncaglia il 5 dicembre 1154 una legge che, richiamandosi ad una precedente legge dell'imperatore Lotario III, vietava ogni alienazione o spezzamento di feudi senza il consenso del signore feudale; tutto ciò fu poi ratificato in una seconda dieta a Roncaglia nel 1158, a seguito a consiglio dei grandi feudatari. Fu quell'anno emanata la Costitutio de regalibus, che riaffermava i diritti di pertinenza imperiale.

La dieta, come all'epoca franca, aveva competenza di emanare disposizione per tutto l'impero, cioé non solo per l'Italia, ma anche per la Germania. Gli uomini che circondavano qui l'imperatore, guerrieri o consiglieri, erano come rappresentanti di tutto il popolo dell'impero.

Dopo varie lotte contro alcune città insubordinate Federico si avviò verso Roma, ed a Sutri gli venne incontro il papa (giugno 1155). Qui avvenne immediatamente il primo urto tra le due autorità, giacché il papa pretese che l'imperatore, qual suo strator, gli reggesse la staffa. Per giudicare della fondatezza di tale pretesa basta osservare cosa ne aveva già scritto nel 1142 un fautore della chiesa così ardente e dominato dalla credenza nella leggenda della donazione di Costantino, come era Gerhoh von Reichersberg. Era ben vero, egli diceva, che Costantino il Grande aveva retto la staffa e servito perciò da strator a papa Silvestro, ma senza che il papa avesse reclamato questo servizio. Se pertanto i papi pretendevano tale servizio a titolo di diritto, i re potevano rifiutarsi a prestarlo. Se i Romani sfruttavano un simile atto di umiltà per caratterizzare in privato ed in pubblico, con raffigurazioni e scritti, i re e gli imperatori come loro vassalli, non dovevano poi meravigliarsi se non ottenevano ciò facendo altro risultato che di suscitare l'irritazione dei principi, ed inoltre lo scherno e l'indignazione di tutto il mondo.

Come si vede, non si può giustificare la tracotanza del papa e del suo cardinale col dire che la pretesa fosse conforme all'opinione pubblica del tempo; e si aggiunga che già da un pezzo era diffusa la convinzione che i papi facevano di tutto per ridurre l'imperatore alla condizione di loro vassallo. Federico sapeva bene che in Roma (dov'era nutrita la fazione repubblicana) regnavano queste tendenze; egli per molto tempo rifiutò altresì di acconsentire a reggere la staffa, e commise un errore quando alla fine si lasciò persuadere che quel servizio gli veniva richiesto solo come un atto di umiltà verso Dio, e altro errore il fidarsi che non sarebbe stato considerato dal papa altrimenti.

Federico in questa pretesa del pontefice avrebbe dovuto vedere la rinnovazione di un tentativo di affermazione del vassallaggio della corona analogo a quello che era stato fatto circa 15 anni prima raffigurando in un quadro l'imperatore Lotario III che riceveva in feudo dal papa i beni della contessa Matilde, ed in fondo vi era evidenziata questa scritta;
Rex venit ante foras
Jurans prius Urbis honores,
Post fit homo Papae
Sumit quo dante coronam.

(
Prima di varcare le porte il re giura di non menomare i diritti dei Romani, poi diviene vassallo del papa che gli conferisce la corona).

Che un principe od anche un re, oltre ai suoi possedimenti principali, avesse pure dei feudi ricevuti da una chiesa o da un monastero non era cosa rara e, dato l'indebolimento dei vincoli feudali, non importava affatto che questo principe o re diventasse vassallo della chiesa. Era ben altro dire invece che un re avesse ricevuto in feudo dal papa la sua corona ed i territori su cui si estendeva l'autorità della corona; ed era appunto questo che Gregorio VII aveva preteso di sostenere. Né Lotario aveva minimamente ricevuto in feudo la sua corona imperiale dal papa; egli era imperatore in virtù della sua elezione a tale dignità per parte dei principi tedeschi. Lotario non aveva ricevuto in feudo che i beni di Matilde, e questo infeudamento era stato una semplice forma adottata per definire una lunga contestazione sulla spettanza di tali beni. Il quadro sopra accennato avrebbe dovuto perciò caratterizzarsi già come fuori di proposito se il motto che lo accompagnava avesse indicato chiaramente l'imperatore come vassallo del papa rispetto a quei beni; ma così come era costituiva addirittura una falsificazione, perché dava l'impressione che Lotario avesse ricevuto in feudo dal papa la corona imperiale.

Federico aveva avuto notizia dell'esistenza di questo quadro, aveva condivisa l'indignazione di cui, come vedemmo, si era fatto eco Gerhoh e che si era manifestata profonda anche in ambienti schiettamente clericali ; quindi non poteva considerare innocente la pretesa di ADRIANO IV che egli dovesse reggergli la staffa.
È bensì vero che si erano avuti già prima dei casi di re od imperatori che avevano retto la staffa ai papi; ma si trattava di casi isolati. Dell'esistenza di una consuetudine in proposito non poteva sinora parlarsi. L'esempio più antico era narrato dalla leggenda di Costantino. La storiella é completamente immaginaria e già a quel tempo non erano mancati alcuni, sebbene pochi ed isolati, che la avevano tacciata come una assurda leggenda. In generale però essa era creduta vera, e quindi il precedente aveva il suo peso. Ma tutta l'importanza di questo precedente era venuta poi meno per il fatto che nessuno degli imperatori romani successivi aveva seguito l'esempio di Costantino. E questo fatto era stato anche a quel tempo considerato nel suo vero valore.

A provare dunque l'esistenza di un diritto dei papi di farsi reggere la staffa o di una consuetudine nello stesso senso, il precedente di Costantino non si poteva invocare. L'epoca franca non offriva che due esempi; quello di Pipino e quello dell'imperatore Ludovico II. In ambedue questi casi però non si trattò che di una attenzione personale tributata al pontefice, non di un servigio reclamato dal papa a titolo di diritto, e tutti gli altri Carolingi, gli Ottoni ed i Salii, non glielo prestarono, se si prescinde da quel disgraziato figlio di Enrico IV, Corrado, che si lasciò sobillare dal partito clericale ad insorgere come usurpatore contro suo padre. Corrado fu uno strumento della curia e dei ribelli e non va annoverato tra i re legittimi.

Del resto anche in questo caso nulla ci é noto da cui si possa desumere che il servigio sia stato reclamato come un obbligo. E finalmente la medesima cosa si deve dire dell'unico esempio che ancora rimane a considerare, quello di Lotario III che nel 1131 resse a Luttich la staffa a papa Innocenzo Il; esempio che si narra sia stato adoperato per indurre Federico a far lo stesso. Anche Lotario III agì spontaneamente e non per riconoscere una pretesa e ubbidire ad un comando del papa; lo si deduce dalle considerazioni di Gerhoh e dalle espressioni usate dai principi che persuasero Federico I a mostrarsi arrendevole. Ciò che Lotario aveva compiuto era un atto di umiltà, non un atto di obbedienza. In realtà fu un passo ardito quello di ADRIANO IV di pretendere come un diritto in base ad una consuetudine obbligatoria il servizio della staffa da Federico, e fu un errore di Federico di acconsentire alla richiesta, malgrado ne comprendesse i pericoli. E ben presto ne doveva fare l'esperienza, giacché il papa dopo ciò assunse una attitudine anche più audace.

Il papa nel corso dei negoziati del 1155 aveva promesso all'imperatore di distruggere quel quadro che raffigurava Lotario come vassallo del pontefice, ma adempì male alla promessa. Al momento della dieta di Besancon, vale a dire due anni dopo, il quadro era tuttavia intatto e la scritta pure. Questa noncuranza costituiva già una offesa all'imperatore; ma ben presto essa fu superata da un nuovo tentativo di Adriano di abbassare l'imperatore Federico al livello di un vassallo della Chiesa.

In occasione della dieta di Besancon (ottobre 1157) dove forse il papa intuì cosa stava avvenendo, Adriano IV fece pervenire agli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri una delle più tremende lettere della storia; redatta nei seguenti termini:

"Il vostro principe, nato da ingiusta stirpe, dimentico di ogni gratitudine e d'ogni timor di Dio, è entrato come volpe nella vigna del Signore e minaccia di distruggerla. Egli non ha mantenuto nessuna delle sue promesse; ha sempre e dovunque mentito; ribelle a Dio, da vero pagano, egli merita l'anatema. Né soltanto egli lo merita, ma (e lo diciamo per vostro avviso) chiunque gli tiene mano, chi palesemente o segretamente lo approva.
Egli ardisce paragonare alla nostra la sua potenza, come se la nostra fosse, al pari della sua, limitata a quell'angolo di terra che è la Germania, che era uno degl'infimi regni prima che i Papi la innalzassero. Come Roma è superiore ad Aquisgrana così noi siamo superiori a questo sovrano, il quale mentre si vanta della signoria del mondo, è incapace di ridurre all'obbedienza i suoi vassalli e di sottomettere la razza dei Frisi.
Egli possiede l'impero solo per merito nostro, come
"beneficium" e noi abbiamo il diritto di riprendere quello che accordammo a chi credemmo capace di gratitudine. Riconducete sulla retta via il vostro principe; altrimenti, se nuovo conflitto scoppierà tra il regno e la Chiesa, anche voi sarete trascinati in un'irreparabile rovina".

L'imperatore, il suo cancelliere ed i principi adunati alla dieta respinsero la lettera, perché ledeva i diritti dei principi, la cui elezione conferiva al re anche il potere imperiale e perché intaccava l'onore dell'imperatore facendolo passare dal primo posto nell'eribanno al secondo.

Né Federico si accontentò di questo, ma in un pubblico manifesto denunziò al popolo quanto era avvenuto, ponendo la questione nei suoi veri termini giuridici:
« Siccome noi in grazia dell'elezione dei principi abbiamo ricevuto la corona reale ed imperiale da Dio solo, il quale a tempo della passione di Cristo stabilì che il mondo dovesse essere governato da due spade, e siccome l'apostolo Pietro ha dato al mondo come precetto: temete Iddio, onorate il re; chiunque afferma che noi abbiamo ricevuto la corona imperiale in feudo dal papa é nemico del volere di Dio e della dottrina di Pietro e si rende colpevole di menzogna ».

A noi queste argomentazioni scolastiche suonano vuote ed inefficaci, ma a quei tempi formavano la base ed il metodo di ogni deduzione giuridica. Federico inoltre aveva rimandato immediatamente a Roma gli arroganti legati che con gran pena era riuscito a salvare dall'ira dei principi e del popolo, ingiungendo loro di prendere la via più breve senza mai fermarsi. Egli sequestrò pure i loro bagagli, trovandovi numerose copie della lettera incriminata (indubbiamente da distribuire ad altri principi del suo regno) ed altri documenti che denunziavano i preparativi di una agitazione contro l'autorità imperiale.
Federico da parte sua fece diffondere il manifesto sopra riferito che si chiudeva con l'esortazione di appoggiarlo nella lotta contro così inaudite pretensioni e di liberare l'onore dell'impero da una simile onta.

E cominciò infatti subito la lotta, vietando l'abuso che si faceva degli appelli lanciati da Roma. Questo abuso era stato un frutto della politica degli Ottoni che si erano illusi di poter dominare i vescovi tedeschi con l'aiuto di Roma. Gli arcivescovi di Magonza, Willegis intorno al 1000 ed Aribo intorno al 1020, avevano combattuto contro questo abuso e contro gli imperatori Ottone III ed Enrico II che lo favorivano.

Federico riprese la lotta, sebbene a dir vero in condizioni assai diverse. Verso il Mille la questione avrebbe potuto essere definita con poche parole, ora Federico invece sapeva che doveva lottare contro pretese ormai radicate, assistite dalla consuetudine continua ed ammantate della parvenza del diritto. Insomma agì, ed ordinò che nessuno potesse recarsi a Roma se non dimostrava in base ad attestazione delle sue autorità ecclesiastiche che vi si recava per negozi leciti o in pellegrinaggio: l'ordine della chiesa, l'autorità vescovile e la disciplina claustrale non potevano essere mantenuti se ad ognuno era lecito appellarsi a Roma.

Federico trovò energico appoggio fra i grandi dell'impero ed in particolare anche fra i grandi signori di Borgogna, appoggio che egli ricompensò e consolidò con donazioni di terre e con concessioni di privilegi. Egli, in seguito al suo matrimonio con Beatrice, figlia ed erede dell'ultimo conte dell'Alta Borgogna, aveva già nel 1156 ripreso saldo piede in questo paese che poteva dirsi quasi sfuggito di mano all'impero, benchè sua moglie si dice potesse disporre di 5000 cavalieri dipendenti da lei per vincolo feudale. Con la dieta di Besancon del 1157, che dispiegò sotto gli occhi dei Burgundi tutta la potenza dell'impero, e col giro fatto nel paese accompagnato da un numeroso seguito di principi, fermandosi a Vienna, Lione ed in altre località per definirvi e regolarvi importanti questioni riguardanti le chiese, i monasteri, le città ed i territori, l'imperatore Federico aumentò il suo ascendente e la sua influenza in tal modo che un cronista dell'epoca scrisse aver egli riconquistato all'impero la Borgogna.

Dopo questi fatti Federico si preparò per la sua spedizione in Italia, divenuta necessaria per la politica violenta della città di Milano contro Lodi, Pavia ed altre città vicine e per l'attitudine ostile assunta dal papa.

Il resoconto dei legati inviati e tornati da Besancon, convinsero Adriano ad accantonare l'idea l'idea di guadagnarsi dalla sua parte i principi. E siccome i fedeli emissari mandati avanti da Federico in Italia con una piccola scorta, il cancelliere Rainaldo di Dassel ed il conte palatino Ottone di Wittelsbach, avevano pure ottenuto nell'Alta Italia già qualche successo, il papa dovette adattarsi a tentare di riconciliarsi l'imperatore inviandogli un'altra lettera ed altri legati, che esponessero come la parola beneficium inserita nella prima lettera non avesse ad intendersi nel senso di "feudo" o "impero", ma nel senso generico di beneficio.

Ma non vi è dubbio che se l'imperatore non si fosse mostrato così risoluto, Roma avrebbe più tardi sfruttato quel termine come un precedente atto a provare che lo stesso imperatore aveva accettato che la sua corona fosse caratterizzata come un feudo della Chiesa. Questo pericolo ora rimase evitato, ciò che costituisce uno dei più felici risultati della fermezza di carattere di Federico.
Forse su questo fermo contegno di Federico ha non poco influito il consiglio del suo generico cancelliere Rainaldo di Dassel; ma del resto Federico era anch'egli uomo che sapeva difendere i propri diritti con volontà ferrea, e dei diritti spettanti alla corona imperiale egli non aveva certo scarso concetto.

Egli ascoltò perfino volentieri i giuristi che avevano riportato in vita lo studio del diritto romano ed ora esponevano all'imperatore la gradita teoria che egli, quale successore degli antichi imperatori romani (e di fatti Federico si considerava successore di Augusto e di Giustiniano), aveva titolo a far valere i diritti ed i poteri che il Corpus iuris attribuiva all'imperatore.

Naturalmente Federico non poteva arrogarsi questi diritti in tutta la loro estensione, specialmente in Germania ed in Borgogna, ma in Italia le leggi romane e l'influenza dei giuristi educati alla scuola del diritto romano ed imbevuti dello spirito della legislazione giustinianea lo posero in grado di aumentare notevolmente le sue pretese verso i sudditi dell'impero.
Quei giuristi erano cittadini dei comuni italiani, ma quanto proprio ai Comuni, alcuni non vollero saperne di questa applicazione di leggi di secoli passati appartenenti a un'altra società e ad altri ordinamenti politici. Essi opposero alle pretese dell'imperatore una resistenza che non cessò mai, per quante vittorie Federico riportasse e per quante città distruggesse, come fece per Milano.

Probabilmente l'imperatore sarebbe alla fine riuscito ad aver ragione di questa resistenza, perché la sua superiorità militare era in complesso sicura, se nel momento decisivo le sue forze non fossero state paralizzate dai ribellioni scoppiate in Germania mentre egli era assente e che ora diventarono di vaste proporzioni. Da queste ribellioni ed antagonismi partigiani scaturì alla fine il grande conflitto che costrinse l'imperatore a fare la Pace di Venezia col papa e con le città lombarde a costo di gravi umiliazioni (di cui parleremo più avanti)

Ma ad onta di questa sconfitta le sue lotte in Italia, e specialmente la sua lotta con la curia, ebbero un carattere diverso da quelle dei suoi predecessori; e questo già per la circostanza che Federico sin dal primo inizio del suo regno ebbe per alleato quel mutamento dell'opinione pubblica, di cui abbiamo parlato sopra, che era per lo meno diffuso in una parte considerevole delle classi sociali dirigenti.
I principi ed i cavalieri che erano tornati con Corrado III dalla sfortunata crociata avevano sperimentato a proprie spese che valore avessero la retorica sacerdotale e le promesse clericali, e non se ne erano dimenticati. Il pregio dello Stato come tutore dell'ordine giuridico e l'onore delle autorità statali tornarono ad esser tenuti in miglior concetto ed i paroloni dei chierici predicanti, le minacce del castigo divino dei monaci fatte in tono profetico perdettero efficacia.

Queste idee dette sopra erano condivise pure da una notevole parte dello stesso clero. Vediamo infatti degli ecclesiastici tra i principali consiglieri e condottieri dell'imperatore nella sua lotta contro le pretese di Roma, e migliaia di chierici e laici diedero prova di saper tollerare per anni ed anni senza scuotersi l'anatema del vescovo romano che cercava sotto forme religiose di ripristinare la dominazione universale degli imperatori romani. E Federico era anche una personalità capace di tener desta e costante questa corrente di idee e di piegarla a servire ai suoi fini.

Allorché venne eletto Federico aveva 30 anni; ma era stato già assai provato dalla vita e godeva fama di uomo riflessivo, energico e di animo altero. Fin dai suoi primi atti si vide che sarebbe stato inesorabile quando si fosse trattato di tutelare la pace e di proteggere i deboli.
Durante le cerimonie dell'incoronazione un uomo che egli aveva condannato per un grave delitto gli si gettò ai piedi nella chiesa ed implorò grazia. Ma Federico restò irremovibile.
Impressione maggiore fece il vederlo nel 1155 condannare alla pena infamante che ora diremo, suo zio, il conte palatino Ermanno e l'arcivescovo di Magonza che avevano turbato la pace con stupide guerre private fra di loro.

L'arcivescovo ottenne il perdono, ma il conte palatino con altri dieci conti dovettero marciare a piedi nudi per lo spazio di un miglio tedesco con un cane appeso al collo, sotto gli occhi della moltitudine accorsa ad assistere allo spettacolo.
Ovunque questi presenti diffusero la fama che il re puniva i grandi al pari dei piccoli, che egli era la cittadella della pace e della giustizia. Una nomea come questa era una forza. Inoltre egli seppe organizzare in modo da costituirsi una notevole potenza militare propria, i numerosi ministeriali dei territori appartenenti alla sua casa e degli altri possedimenti e feudi dispersi qua e là, ed i ministeriali dei monasteri e delle chiese da lui dipendenti.

Ai vecchi possedimenti della famiglia degli Hohenstaufen si era aggiunta l'eredità dei Salii nella Franconia renana, ed altre eredità, di modo che sotto Federico gli Hohenstaufen erano nel sud-ovest dell'impero la casa più potente. La loro sede principale era l'Alsazia, ove Federico costruì il castello di Hagenau per farne il centro del governo di questi territori e castelli. Egli fuse il patrimonio privato col patrimonio dell'impero. I ministeriali degli Hohenstaufen divennero ministeriali dell'impero dal momento in cui gli Hohenstaufen assunsero la corona. Essi potevano considerarsi come l'élite della loro classe che allora costituiva la parte più importante dell'esercito, e della gerarchia amministrativa, ed avevano pure le più frequenti occasioni d'essere chiamati a disimpegnare importanti funzioni, e di arrivare alle cariche più influenti ed alla ricchezza.
I monti che dominano le vallate dei Vosgi e le importanti strade e contrade dei cantoni adiacenti a settentrione furono da Federico munite di castelli oppure i vecchi castelli furono restaurati. Le loro rovine che si estendono da Trifels a Munster suscitano ancora oggi una viva impressione della grandiosità ed intima forza di questo sistema militare. Col suo matrimonio poi con l'erede dell'Alta Borgogna (1156) l'imperatore Federico acquistò nei territori intermedi tra la Francia, la Germania e l'Italia, cioè in Savoja, in Borgogna ed in Provenza, vasti possedimenti e migliaia di vassalli e ministeriali che gli dovevano prestar servizio militare e alla corte e dovevano tenergli aperti i loro castelli.

Certo non vi era da far molto affidamento sulla loro fedeltà, ma questo era purtroppo vero anche per gli altri vassalli. Federico apprezzò molto i nuovi acquisti, e perciò si fece con sua moglie ed i suoi figli incoronare nel 1178 nella cattedrale di Arles sovrano del regno di Arles ed agì sotto ogni riguardo come padrone del paese.
In particolare egli investì dei loro diritti e dei beni delle rispettive chiese gli arcivescovi del regno (Lione, Vienne, Arles, Tarantaise ed Aix) ed i loro soffraganei, allo stesso modo dei vescovi delle chiese dell'impero in Germania; inoltre concesse in feudo la Provenza al conte Berengario II. Suo figlio, ENRICO VI, consolidò poi con analoghi atti la sua sovranità su questi paesi, acquistò ancora il possesso della Val di Stura importante per poter dominare una parte della Provenza, e mediante trattati con Genova, col duca di Digione ed altri signori territoriali cercò per lo meno di assicurar meglio taluni punti più importanti e conservarli contro la tendenza sempre crescente dei feudatari a rendersi del tutto indipendenti e contro la progressiva penetrazione dell'influenza francese.
Sui paesi posti tra il Rodano ed i Pirenei né Enrico VI, né Federico II riuscirono ad acquistare influenza di sorta. Qui si contendevano la supremazia il conte di Tolosa ed il re di Aragona, e la tendenza dei signori territoriali a rendersi autonomi fu favorita ancora più dall'avversione nazionalista della popolazione neolatina tenuta desta e rispecchiata dagli epigrammi dei trovatori circa i costumi e la lingua dei Tedeschi.
Ciò spiega perchè poi Enrico VI abbia infeudato di questi paesi il re d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. Così facendo infatti egli rinunziava a ben poco di potere effettivo ed aveva invece la speranza di guadagnarsi nel re inglese un alleato, a lui legato da solidarietà di interessi, così contro i tracotanti signori locali come contro la Francia.

Se pertanto la signoria degli Hohenstaufen non si stabilì durevolmente nei detti paesi, tuttavia Federico I personalmente vi aveva notevolmente accresciuto il suo potere in grazia della sua politica burgunda. E con le sue risorse e con le altre acquistate come abbiamo visto da varie fonti egli riuscì a sollevare ad una splendida altezza l'autorità regia, indebolita sotto i suoi predecessori.

Decisiva a tal riguardo fu la maggiore importanza data all'Italia nella sua politica ed in quella dei suoi successori. Federico fu il primo a trarre effettivamente dalle città italiane e dai feudi italiani considerevoli risorse, assai superiori a quelle ricavate dai suoi predecessori, ed impiegò anche una buona parte del suo tempo e delle sue forze ad estendere e consolidare i suoi dominii in Italia.

L'Italia da ora divenne assai più di prima accanto alla Germania il fondamento della signoria universale dei re ed imperatori tedeschi. Ma la resistenza del sentimento nazionale italiano, e specialmente l'orgoglio delle città dell'alta Italia, coscienti della superiorità propria per cultura e ricchezza, per la più progredita economia monetaria e per le flotte delle città marittime, spiegò di fronte alla minaccia che per loro si celava nelle tendenze imperialiste della politica del re tedesco spalleggiata dai romanisti, una forza ed una tenacia impreviste.

Benché l'odio tra le città rivali (purtroppo c'erano anche queste in Italia) abbia favorito considerevolmente l'imperatore in questa lotta, benché la crudele distruzione di Milano nel 1162 sia stata forse desiderata ed attuata più da Pavia, Como, Lodi e da altri nemici di Milano che non dallo stesso imperatore, tuttavia Federico non poté far capitale di queste scissioni; il nucleo fondamentale delle sue forze militari rimase sempre l'esercito composto dei suoi vassalli tedeschi. E quando i suoi cavalieri mostravano la volontà di ritornare in Germania e di metter fine alla campagna di guerra, Barbarossa veniva a trovarsi a mal partito, perché in fondo anche nelle città che prendevano le parti dell'imperatore per cercare in ciò la loro salvezza o per soddisfare il loro desiderio di vendetta si celava ed era sempre pronto a rivelarsi il sentimento nazionale avverso ai tedeschi, nonché la preoccupazione per le possibili pretese dell'imperatore e dei suoi giuristi.

Le città, benché sotto altro aspetto fossero spesso in conflitto con la curia, recarono con questa lotta il più forte sostegno alle pretese dei papi alla supremazia universale. E siccome questa cominciò a trovare anche in altri paesi e persino in Germania dei sostenitori pronti ad ogni sacrificio, e parecchi principi tedeschi, soprattutto Enrico il Leone, cercarono di sfruttare a loro vantaggio la difficile situazione in cui si trovava l'imperatore, così Federico fu costretto a rinunziare per ora ai suoi progetti in Italia per correre a mettere al sicuro le basi della sua potenza in Germania.
È perciò che nella pace di Venezia (1177) egli riconobbe l'autorità di papa Alessandro III e la validità delle scomuniche da lui fulminate ed ottenne, con una umiltà che oggi a noi fa una impressione lacrimevole, ma che il Medio-Evo guardava con altri occhi, la liberazione dall'anatema che lo aveva colpito; ciò gli diede la possibilità di metter fine mediante trattati con la curia e con le città alla lunga lotta per l'affermazione dei diritti dell'impero in Italia.

La pace di Venezia non indebolì in alcun modo l'autorità ed il potere imperiale ; essa quindi non rappresenta affatto il trionfo delle pretese papali. Nemmeno la quasi contemporanea vittoria (1174) della curia nel conflitto con re Enrico II d'Inghilterra ci deve far credere ad un simile trionfo; anche il re inglese non vide menomata la sua autorità.
L'imperatore Federico costrinse in quel trattato di pace il papa a cedere su molti punti importanti e conservò in Italia, specialmente nell'Italia centrale, una solida posizione. Un legato dell'imperatore governava qui con l'aiuto di funzionari imperiali i grandi feudi dell'impero. Inoltre Federico soggiogò ora Enrico il Leone cui risaliva la maggior parte della colpa dell'ultima sconfitta dell'imperatore in Italia e che durante l'assenza di quest'ultimo aveva acquistato nella Germania settentrionale una potenza così grande che l'autorità regia vi si poteva dire quasi soppiantata.

In seguito egli compose il suo conflitto con le città lombarde, trattando con esse né da vincitore né da vinto, ma nella veste del sovrano il quale si sia convinto che molte pretese sinora da lui combattute erano giustificate da esigenze della vita sociale e che vi erano molte-forze latenti cui occorreva dare un posto nell'organismo dello Stato affinché potessero svilupparsi liberamente e non rivolgersi contro lo Stato.

Il trattato di Costanza del 25 giugno 1183 (Papa Alessandro era morto nel'81) che definì tutte le relative questioni, arrecò veramente la pace. La città di Alessandria, che era stata edificata per sfidare l'imperatore, assunse il nome di Cesarea; questo fatto può servir da simbolo dell'alto onore e reputazione in cui egli stette ora presso le città italiane. Barbarossa fu da esse rispettato come nessun altro imperatore; considerato da queste città come vero e proprio re, come la fonte dei privilegi e la fonte del diritto, la sua parola diede agli ordinamenti comunali che si erano costituiti in via di fatto, il suggello del diritto, la sicurezza dell'esistenza legittima.
E chi così altamente lo onorava non erano i frantumi del regno longobardo sui quali Carlo Magno era passato indifferente, non erano i primi inizi del rifiorimento medioevale italiano che Enrico II aveva soffocati a Pavia, era il fiore già sbocciato in tutta la sua forza e pienezza nei comuni potenti per armi e ricchezze.

Quando poi Federico nel maggio del successivo anno 1184 festeggiò a Magonza la cerimonia della consegna della spada ai suoi due figli, ENRICO e FEDERICO, da ogni paese convennero numerosi i principi coN i loro seguiti, i cavalieri, i cantori, i curiosi, i mendicanti ed i giocolieri, gli studenti e gli alti prelati. Gente d'ogni genere affluì a Magonza e solennizzò per tre giorni, in parte con funzioni religiose e cerimonie civili austere, in parte con tornei, danze, canti e banchetti, insieme con l'imperatore ed i suoi figli una festa, il cui splendore e la cui pompa i menestrelli tedeschi e francesi non si stancarono mai di levare al cielo.
Si narra che allora siano convenuti a Magonza quarantamila cavalieri. anzi secondo altri un numero ancor maggiore; certo é che la festa superò tutte le analoghe cerimonie dell'epoca. Fu una vera esposizione e rivista delle poderose forze dell'imperatore e nel tempo stesso una occasione per lui di vincolarsi meglio una quantità di uomini utili e di presentare soprattutto al popolo come futuro re e sovrano suo figlio ENRICO, che 14 anni prima era già stato eletto a suo successore ed ora a 19 anni era nel pieno fiore della sua giovinezza.
Naturalmente Magonza non poté accogliere tanta gente nelle sue case; quindi la larga pianura attorno al Reno si coperse di tende. Ma la città di Magonza apparve in quel momento come il centro principale dell'impero, e se i re tedeschi avessero potuto arrivare a regnare più tranquillamente ed a fissare una stabile residenza come i re francesi, Magonza era certamente una delle città che avrebbero potuto nutrire la speranza di essere scelte a capitale.

La curia (papa Alessandro ripetiano era morto nel 1181, gli era succeduto LUCIO III (1181-1185) poi URBANO III (1185-1187) ) ovviamente vide con crescente apprensione i progressi dell'autorità imperiale, l'esercizio del diritto di investitura diede luogo ben presto a nuovi attriti, e quando Federico, ad onta dell'opposizione del papa, fidanzò e sposò suo figlio ENRICO (1186) suo successore, con l'unica erede del regno normanno di Napoli e Sicilia (Costanza d'Altavilla) tra le due potenze minacciò di scoppiare ancora una volta la lotta aperta.

Ma la situazione era attualmente ben diversa da quella in cui si erano svolte le precedenti lotte. La splendida cerimonia nuziale di Enrico fu celebrata a Milano ed il popolo vi prese tanta parte che tutti gli avversari dell'impero ne subirono una profonda impressione. Federico fece incoronare pure a Milano re d'Italia suo figlio, giacché il papa non lo volle incoronare imperatore.
Questo suo atto dimostrò che ora si ammetteva bensì che la cerimonia dell'incoronazione ad imperatore fosse una prerogativa del papa, ma che si riteneva pure di poterne fare a meno, giacché in seguito alla sua incoronazione a re d'Italia il figlio di Federico venne riconosciuto in possesso legittimo di tutti i diritti spettanti all'impero in Italia allo stesso modo che se fosse stato incoronato imperatore.

Questi diritti del resto non dipendevano da nessuna di queste due incoronazioni; per il principio universalmente riconosciuto fin dal tempo degli Ottoni essi si acquistavano ipso iure con la elezione a re di Germania.
Papa URBANO III acquistò in questo momento un alleato assai pericoloso per l'imperatore nel potente arcivescovo Filippo di Colonia, che un tempo, insieme con Rinaldo di Dassel, era stato uno dei migliori collaboratori dell'imperatore.

Filippo di Colonia per questa defezione richiama alla mente il suo contemporaneo Tommaso Becket, ma se ne differenzia per la circostanza che lui non mutò le sue inclinazioni mondane coll'assumere il vescovado. La sua defezione nel campo dei partigiani della curia ci rivela chiaramente quanto fossero vari e non spirituali gl'interessi che si coprivano del manto religioso e poi ipocritamente venivano difesi con armi spirituali.

Dopo la sua vittoria sopra Enrico il Leone, l'imperatore gli aveva concesso il principale tra i feudi resisi vacanti, il ducato di Vestfalia. Non passò molto però che Filippo fece lo stesso di Enrico il Leone divenne cioè il capo di un partito di principi avversari dell'imperatore. Cause del conflitto furono questioni personali relativamente insignificanti; nell'occasione della festa di Pentecoste del 1184 a Magonza il vescovo Filippo si credette trascurato e messo da parte dall'imperatore; se ne adontò e volle abbandonare la città, ma poi in seguito a spiegazioni si persuase a riconciliarsi; ma in seguito in occasione di una controversia giuridica fu chiamato a render stretto conto e a discolparsi davanti al giovane re Enrico; quando all'evidenza negò ogni addebito, fu umiliato.
Questo fu il fatto che forse punse più di tutto la vecchia volpe. Assai più doloroso fu per l'imperatore Federico vedere che riprendeva la lotta contro l'impero dalla parte del papa questo compagno di tante ore difficili e gravi che era stato sempre concorde con lui nel respingere le pretese di Roma.

Ma tutto questo metteva anche in chiara evidenza la debolezza intima dello Stato feudale e la necessità di una riforma. Ma Federico non si perdette in accoramenti e nemmeno architettò vasti piani di riforma, ma si servì della forza che aveva in mano e seppe dar prova della vecchia sua energia.
Con la Francia strinse rapporti di amicizia, migliorò anche le relazioni con l'Inghilterra, ridusse alla ragione con la forza i principi ribelli, nei negoziati con la curia si mostrò fermo, ma nello stesso tempo, ad onta delle audaci pretese del focoso papa Urbano III, così moderato, che nella dieta di Gelnhausen (fine di novembre 1186) gli arcivescovi di Magonza, Magdeburgo, Salzburg e Brema, nonché moltissimi vescovi e principi laici, si misero decisamente dalla parte di Federico. Essi dichiararono che il papa violava i diritti e ledeva l'onore dell'impero, e la loro dichiarazione dovette fare tanto maggiore impressione, in quanto proveniva da uomini che, come gli arcivescovi di Magonza e di Salzburg, nella lotta tra Federico ed Alessandro III avevano militato nel campo papale.

Di modo che Federico I si trovò in buona posizione quando Urbano III, all'estremo dell'ira e dell'orgoglio offeso, minacciò il castigo divino. Urbano da Verona stava lanciando la scomunica all'imperatore e a suo figlio, ma a dissuaderlo furono i Veronesi intimoriti di una vendetta di Federico sulla loro città. Anzi le autorità di Verona, più fedeli a Federico che non a Urbano, gli imposero di togliere la sua residenza da Verona. Caduta ogni speranza di poter tornare a Roma, il papa si trasferì a Ferrara, dove poche settimane dopo il 10 ottobre 1187 morì, mentre stava preparando a bandire la terza Crociata in Terrasanta. Ma si hanno dei seri dubbi che sapesse cos'era successo soli sei giorni prima della sua morte: Saladino vincendo i cristiani aveva conquistato l'intero regno di Gerusalemme.
I cronisti posteriori scrissero che era morto di crepacuore nell'apprendere la notizia, ma abbiamo anche qui seri dubbi che abbia potuto riceverla in così brevissimo tempo. Non c'era ancora la posta aerea.
Verosimilmente nell'isolamento in cui si trovava, forse per riunire nuovamente la ostile Europa che quasi intera gli aveva voltato le spalle - ebbe l'idea di concepire la nuova crociata.

Papa Urbano morì alla fin d'ottobre del 1187 ed i suoi successori cercarono di instaurare la pace con l'impero. Vi contribuì il fatto che dalla Terra Santa arrivava sempre più alto il grido di soccorso, e da ultimo - come abbiamo già detto - la notizia che il sultano Saladino aveva il 3 ottobre 1187 conquistata Gerusalemme.
L'imperatore Federico volle chiudere la sua vita operosa, non con una nuova lotta contro Roma, ma come condottiero del principale esercito dei crociati che nel 1189 partirono per vie diverse per raggiungere la Terra Santa. L'imperatore Federico Barbarossa, secondo l'epiteto datogli dagli Italiani, apparve in questa spedizione come la figura del vero grande principe, del capo della cristianità occidentale. Tutte le splendide doti di sovrano e di generale che contraddistinguono Federico poterono in questa spedizione ampiamente esplicarsi, libero come egli era dai continui conflitti di coscienza che lo avevano impacciato a tempo della scomunica papale, che Federico a quanto pare non aveva preso alla leggera, per lo meno non tanto alla leggera come il suo cancelliere Rainaldo di Dassel, il quale probabilmente era aiutato dalla sua alta cultura a non lasciarsi atterrire dalle minacce dei chierici.

I re di Inghilterra e di Francia presero anch'essi parte alla crociata, ma si mossero più tardi e per un'altra strada, passarono cioè per la Sicilia, mentre Federico si diresse verso il basso Danubio per raggiungere Costantinopoli, e di qui l'Asia Minore. I due re sopra accennati non erano agli ordini dell'imperatore; non è possibile dire se in Terra Santa gli avrebbero poi concesso l'onore del comando supremo, ma certo non gli avrebbero contestato il primo posto.

Peraltro non vi fu occasione di porre nemmeno queste questioni. Federico era partito nel maggio 1189 da Regensburg, aveva mantenuta rigorosa la disciplina nel suo esercito e con ciò lo aveva guidato intatto attraverso l'Ungheria e l'impero greco sino in Asia Minore; qui vi sconfisse il sultano di Iconio e conquistò questa importante città, ma poi trovò la morte durante la marcia verso Seleucia il 10 giugno 1190, annegando nel bagnarsi nel fiume Saleph (Calicadnus). Con la morte dell'imperatore l'esercito crociato si sfasciò, tanto più che anche suo figlio FEDERICO di Svevia, che lo aveva sostituito, morì poco dopo. Morirono anche molti altri principi, di modo che in questa spedizione perì una considerevole parte della nobiltà militare dell'impero.


L'epoca di Federico I ci è nota sotto molti aspetti; gli scritti ed i documenti contemporanei ci permettono di gettare uno sguardo abbastanza a fondo nella vita delle sue classi sociali. di osservarne le trasformazioni, di vedere quanto esse seppero operare in fatto di colonizzazione e di organizzazione giuridica, di scrutarne la vita religiosa e monastica, di apprezzare le chiese e le fortificazioni edificate, l'ampliamento dei commerci nelle loro varie forme e vie, di conoscere quali fossero i reciproci rapporti fra le nazioni.
Ma la figura personale dell'imperatore ci è nota soltanto nei suoi grandi tratti di energia virile e di orgoglio cavalleresco. E' difficile dire perciò in che misura la sua politica sia stata una sua opera personale ed in che misura egli si sia lasciato invece dirigere dai suoi fidi consiglieri.

Questi suoi consiglieri e collaboratori erano ad un tempo principi laici ed ecclesiastici, giuristi e ministeriali. Non pochi principi erano dotati di cultura e non pochi ecclesiastici erano anche distinti soldati; ma in generale il ceto cavalleresco era privo di cultura letteraria.
In Germania Federico non sembrò aver voluto tentare di arrestare la tendenza dei maggiori signori territoriali a rendersi indipendenti, che dopo la vittoria dei principi su Enrico IV e su Enrico V aveva fatto rapidi progressi. Per ristabilire la pace coi Guelfi egli restituì nel 1155 ad Enrico il Leone il ducato di Baviera, e ricompensò il margravio d'Austria, della famiglia dei Babenberger, che dovette cedere ora la Baviera, con la concessione di privilegi che elevarono il margravio al grado di duca e resero assai indipendente il nuovo ducato d'Austria (1156).

L'imperatore Federico in questa occasione fece il sacrificio di considerevoli diritti e pretese della corona per ricondurre l'ordine nella sconvolta Germania ed aver così le mani libere per potersi dedicare a quei compiti che lo chiamavano in Italia. Né aveva modo di sottrarsi a questi ultimi. Alla corona tedesca che portava sul capo andava unito il dovere di affermare l'autorità regia anche in Italia, e l'Italia era in un immenso fermento; il paese si trovava in via di rapido progresso e già si manifestava insufficiente alla quantità delle energie e della popolazione.

Nel mezzogiorno si era costituito uno Stato monarchico normanno, che si basava principalmente sopra una nobiltà militare, ma che abbracciava pure importanti città, aveva saputo creare una organizzazione burocratica che attenuava i difetti della feudalità, e perseguiva una politica espansionista dichiarata ed intransigente.

Nell'alta Italia prevalevano già i Comuni, come pure nello Stato della chiesa. Nel decimo e dodicesimo secolo in virtù di un progressivo sviluppo economico e costituzionale cui avevano partecipato anche le famiglie nobili che possedevano beni dentro le mura e fuori delle mura cittadine, questi comuni erano saliti ad una importanza assolutamente preminente.

Verso il 1150, secondo la testimonianza di Ottone di Frisinga, il marchese di Monferrato era ormai quasi l'unico feudatario che continuasse ad avere una signoria territoriale autonoma accanto alle città. Con la ricchezza era cresciuto anche l'orgoglio e lo spirito di sacrificio dei cittadini. Essi dedicarono immense somme di denaro ed un enorme cumulo di lavoro a fortificare le loro città ed agli armamenti in genere, di modo che non solo furono in grado di difendersi dietro le loro mura, ma anche di riportare ripetute vittorie sugli eserciti dei principi in campo aperto.

I Milanesi nel 1176 sconfissero Federico I a Legnano e i Bolognesi vinsero e trassero prigioniero il figlio di Federico II, il cavalleresco principe Enzo. La potenza e lo spirito di libertà dei comuni italiani strappò un grido di ammirazione allo zio di Federico Barbarossa, il vescovo Ottone di Frisinga. Egli giudicò che queste città imitassero in molti riguardi il prudente ed avveduto esempio degli antichi Romani, non escluso il fatto che esse non disdegnavano «di ornare della spada di cavaliere e di ammettere anche alle più alte dignità giovani usciti dalle classi inferiori della società e persino operai delle spregiate arti meccaniche, che altrove erano trattati come la peste dai nobili e dai professionisti delle arti liberali».

Non andremo errati se riterremo che di sentimenti analoghi a questi ultimi fossero imbevuti l'imperatore Federico ed i suoi nobili consiglieri; il che ci aiuterà a comprendere come Federico abbia avuto repulsione a riconoscere le libertà comunali.
Ma a determinare la sua attitudine verso i comuni concorsero altri e ben diversi elementi. Queste potenti ed ambiziose città erano rivali l'una dell'altra e vivevano in uno stato di guerra reciproca generale. Il primo urto che Federico ebbe con loro dipese dagli impressionanti reclami di oppressi e di popolazioni evacuate a forza fuori della loro patria distrutta.
I Milanesi, sfruttando la loro superiorità di forze, avevano ad es. presa, saccheggiata ed incendiata la vicina Lodi. I miseri Lodigiani avevano dovuto emigrare dalla loro antica sede e stanziarsi, per volontà dei Milanesi, separatamente in sei nuovi villaggi. Tuttavia uno di questi era tornato a svilupparsi e ad assumere l'importanza di centro principale e di ricollegamento degli altri; ma ben presto i Milanesi minacciarono di calpestare anche questo nuovo fiore appena sbocciato.

Lodi sperava aiuto dall'imperatore Federico, ma non osava apertamente invocarlo. Questa brutale violenza dei Milanesi non è del resto che un esempio di quanto d'analogo facevano molte altre città. L'irritazione di Como e di Pavia contro Milano non era minore di quella che nutriva Roma contro Tusculo. Ed allo stesso modo si combattevano altri gruppi di comuni.
Si riprodusse inoltre l'infausto fenomeno che accompagna gli Stati cittadini, e che la storia greca ci ha insegnato a deplorare: l'ambiente cittadino è cioè troppo piccolo perché gli interessi politici e generali possano rimanere immuni dalla velenosa influenza di elementi personali.

Più notevoli erano gli Stati costituiti dalle città marittime: Venezia, Genova e Pisa. Venezia era indipendente dall'impero ed aveva, ora in lotta, ora in alleanza coi Greci e coi Saraceni, estesi i suoi commerci e fondato un dominio di considerevole estensione. I rapporti di Venezia con l'impero tedesco erano assai scarsi; tuttavia la repubblica inviò nel 1154 ambasciatori al campo di Federico per rinnovare gli antichi trattati.

Genova rivalizzava con Pisa. Essa dominava sul territorio dell'antica contea in cui la città era situata, ovvero cercava di tenerselo sottomesso senza metterlo in condizione di sudditanza, ammettendo che i suoi abitanti potessero prestare il giuramento civico ed acquistare la cittadinanza genovese pur continuando a vivere fuori di città. La città aveva già acquistato o usurpato tutti i diritti più essenziali di sovranità, quando l'imperatore Federico intervenne negli affari dell'alta Italia. Con un privilegio egli confermò alla città il possesso del suo territorio e dei diritti sovrani che esercitava in questo territorio, concedendo tali diritti al comune a titolo di feudo dell'impero.
Genova allora si reggeva con una costituzione repubblicana di tipo germanico, la quale si basava sopra una lega giurata dei cittadini, detta compagna. A capo della città stavano dei consoli elettivi, la cui carica era annuale. Accadde però che in seno alla compagna si formarono ben presto dei partiti che si contesero la conquista del consolato e che poi avrebbero potuto essere tentati di sfruttarlo a loro vantaggio.

Ma Genova evitò tale pericolo affidando dal 1191 il governo, invece che a consoli da eleggersi dalla cittadinanza, ad un cittadino di altro comune che lo esercitasse sotto il titolo di podestà, percependo uno stipendio per il suo ufficio. Questo podestà veniva nominato per un anno ed alla fine dell'anno di carica doveva render conto del suo operato. Il podestà esercitava pure la giurisdizione suprema in Genova e nel territorio appartenente alla città. Dagli abusi di questo potere straordinario da parte del detto magistrato garantiva l'annualità della carica ed il suo obbligo di render conto.
Continuò inoltre a funzionare così come era a tempo del reggimento a consoli il consiglio composto dei maggiori cittadini, e servì da consiglio del podestà; continuò del pari il parlamento, l'assemblea generale dei cittadini alla quale secondo l'antico principio costituzionale germanico, che fu la fonte di questa nuova vita politica italiana, ogni cittadino era obbligato ad intervenire.
Una campana chiamava i cittadini all'assemblea. Questa forma di governo a podestà estraneo, solo all'inizio alternata ancora per qualche tempo col reggimento a consoli, durò sino al 1257 ed assicurò la pace interna.

Uno svolgimento analogo ebbe la costituzione delle altre città, ed in Roma assunse forme che ricordavano l'antichità ed erano perciò di tinta arcaica.
Federico non ha minimamente tentato di distruggere tutta questa organizzazione comunale e di imporre alle città un'altra costituzione. Egli cercò soltanto di ridurle all'obbedienza e di giovarsi delle risorse che esse potevano prestargli. È assai probabile però che egli non guardasse senza diffidenza e senza avversione questo poderoso sviluppo dei comuni che con le loro nuove forme di vita sociale ed economica contrastavano in modo stridente alla struttura sociale dell'impero dominata dalla nobiltà e dal clero, ed agli ordinamenti giuridici feudali.

In molte cose i comuni si atteggiarono da uguali di fronte all'imperatore ed al papa. E queste ebbe alcune volte delle conseguenze politiche. Federico respinse i Romani che avevano cacciato il papa e rivendicavano alla città di Roma, e solo a questa, il diritto di conferire la corona imperiale. Egli non approfittò nemmeno di questo avvenimento per costringere il papa a piegarsi; anzi gli consegnò nelle sue mani Arnaldo da Brescia che era il capo di quel moto cittadino a tendenza repubblicano

Era naturale che egli osteggiasse piuttosto che non favorisse il movimento comunale, ed é un indice delle sue qualità d'uomo di Stano il fatto che in seguito abbia mutato indirizzo e in ultimo abbia concluso la pace di Costanza con loro.

Federico I Barbarossa non è stato un legislatore di grandi disegni; non può dirsi che abbia metodicamente e di proposito incamminato verso un determinato indirizzo la tumultuosa vita politica dell'epoca, ma certamente contribuì molto ad avviarla verso le forme che in seguito assunse. Il privilegio da lui concesso al ducato d'Austria non solo favorì la formazione della futura signoria territoriale in questo paese, ma si ripercosse anche sugli altri territorii e ne provocò la trasformazione nello stesso senso.

Ed anche più profondamente avrebbero influito a mutare le basi politiche dell'impero i diritti accordati ad Enrico il Leone, se Federico non si fosse trovato costretto in seguito ad abbattere la potenza di questo principe che egli stesso aveva creata.

Nell'uno e nell'altro caso Federico non agì in attuazione di un piano prestabilito di riforma dello Stato feudale decadente, ma fece ciò che gli parve indispensabile od utile per non vedersi sfuggir di mano i mezzi e le risorse di cui aveva bisogno per mantenere la pace all'interno e respingere gli eventuali attacchi. Allo stesso criterio fu informata l'opera, coronata da splendido successo, da lui compiuta per aumentare i possedimenti ed i vassalli della propria casa che organizzò in modo da avere una forza militare sempre pronta al bisogno. Se ciò servì ad accrescere anzitutto la potenza della sua famiglia, non servì meno a consolidare le basi della monarchia; e ciò nella miglior forma che i suoi tempi consentivano.

Per potergli equamente fare una colpa di avere in definitiva piuttosto favorito che raffrenato il processo di formazione delle signorie territoriali, bisognerebbe per lo meno provare che in antecedenza Federico avrebbe potuto mantenere la pace anche senza far grandi concessioni a taluni principi. Né è da escludere che egli le abbia fatte con la speranza di trionfare in Italia e di raccogliere in seguito a questa vittoria mezzi finanziari sufficienti per stipendiare un numero di cavalieri o di altri mercenari bastanti ad abbattere l'opposizione dei principi tedeschi.
Noi non conosciamo le ragioni che lo indussero ad agire come agì, ma vediamo perfettamente le difficoltà che avrebbero ostacolato ogni suo tentativo diretto di raffrenare e restringere il potere dei principi, e comprendiamo quindi come egli abbia sperato di trovare piuttosto in Italia e nell'aumento della potenza della sua casa i mezzi per rafforzare la monarchia.

Nella categoria dei principi dell'impero ecclesiastici e laici avvenne in quest'epoca un mutamento sul quale il regno di Federico ebbe indubbiamente una considerevole influenza.
Il conferimento delle regalie ai vescovi ed agli abati delle abbazie dipendenti direttamente dall'impero assunse sotto Federico I una più spiccata forma di investitura feudale, il che trasformò i vescovi ed abati in vassalli del re. Ciò si ripercosse sulla condizione giuridica dei conti funzionanti nelle contee che appartenevano a queste chiese ed a questi monasteri. Essi cessarono di essere funzionari dell'impero alla dipendenza diretta del re e quindi cessarono anche di essere principi dell'impero, e divennero vassalli dei vassalli dei re.

Allo stesso modo perdettero allora tale qualità diversi vescovi ed abati che vennero investiti delle regalie non dal re direttamente, ma da altri principi: così i vescovi di Praga e di Olmi tz che ricevettero a datare dalla fine del XII secolo la loro investitura dal re di Boemia, ed i vescovi di Gurk, Chiemsee, Sackau e Lavant, cui conferì le regalie l'arcivescovo di Salzburg. I vescovi di Lubecca, Schwerin e Ratzeburg erano ab origine vassalli del duca Enrico di Sassonia e non principi dipendenti direttamente dall'impero. Dopo la caduta del duca di Sassonia e la spartizione dei suoi ducati verificatasi nel 1181 la investitura di questi vescovi passò al re, e da allora essi divennero vassalli del re e principi dell'impero.

Quanto ai principi laici, essi erano venuti fuori dal ceto degli alti funzionari dell'ordinamento carolingio, soprattutto dai conti e dai margravi preposti a più contee. Essendosi la loro carica venuta ad accoppiare alla concessione di feudi, il cui godimento fungeva da stipendio, la carica stessa fin dal IX secolo finì per essere guardata come un feudo e divenne ereditaria. Sorsero così potenti famiglie che acquistarono presto una posizione preponderante per estensione di possedimenti e per la quantità di diritti sovrani di cui erano investite.

All'inizio del X secolo si formarono in seno a questa nobiltà degli uffici pubblici cinque grandi ducati; quelli di Baviera, di Svevia, di Sassonia, di Franconia e di Lorena; dai rispettivi territorii però nel corso dei secoli dal X al XII si staccarono notevoli porzioni trasformandosi in nuovi ducati. Questi duchi, insieme con i margravi, conti palatini e langravi - i quali anch'essi dominavano su vasti territori comprendenti parecchie contee, e con i vescovi ed abati vassalli diretti dell'impero che erano stati preposti dal re a parecchie contee - formarono la classe più elevata dei principi dell'impero. Ma anche i conti da loro dipendenti erano ciò malgrado considerati principi dell'impero purché non appartenessero al ceto dei ministeriali.

Contemporaneamente si verificò la frantumazione della maggior parte delle contee, dovuto alle immunità concesse ai latifondi e territori appartenenti specialmente alle chiese, ai monasteri ed alle città ed alla conseguente loro esenzione dalla giurisdizione del conte. Questi distretti immuni non erano sempre sottratti completamente all'ingerenza amministrativa e giurisdizionale del conte, ma tuttavia costituivano delle circoscrizioni separate che erano governate da funzionari del feudatario dotato dell'immunità, chiamati balivi (Vógte). Quando costoro erano investiti pure dalla giurisdizione suprema avevano una posizione analoga a quella dei conti. Accaparrandosi molte cariche di conte e di balivo parecchi dei grandi signori salirono a notevole potenza, ed anche i duchi e persino i re non disdegnarono di ricevere feudi dalle chiese e dai monasteri e di assumere il balivato dei loro territori immuni.

Con il perfezionarsi dei concetti feudali e del diritto feudale, che nel XII secolo fu anche coltivato scientificamente, si fece strada e si radicò l'idea che i feudatari che non ricevevano la loro carica e le loro terre direttamente dal re, ma da uno dei vassalli del re, non appartenevano alla categoria dei principi dell'impero. Sorse così una nuova forma di nobiltà degli uffici pubblici; gli antichi titoli di conte, margravio, duca, non indicavano più in maniera univoca la posizione che godeva nell'impero la persona che li portava; malgrado questi titoli, ed anche senza di essi, un uomo poteva avere una maggiore o minore quantità di terre e diritti di sovranità. Ciò che decideva per la posizione di principe dell'impero era il vedere se la persona aveva ricevuto direttamente dal re un feudo accompagnato dal diritto di giurisdizione.

Fino a questo tempo il titolo di principes era stato usato promiscuamente con gli altri di magnates, maiores, optimates per tutti coloro che possedevano diritti comitali su un territorio. Dal 1180 il titolo di principes invece rimane riservato a sedici principi laici, cioè ai nove duchi di Baviera, Svevia, Sassonia, Lorena, Brabante, Carinzia, Boemia, Austria e Steier, ai due conti palatini renano e sassone, ai marchesi di Brandenburgo, Meissen e Lusitz, ai langravi di Turingia ed ai conti di Anhalt. Lo stesso si può dire per i duchi di Borgogna e delle Fiandre, i cui principali possedimenti erano in territorio francese.

Sono da aggiungere poi alcuni principi cui questo rango era conferito personalmente senza basarsi sul possesso di uno dei feudi maggiori, e ben presto noi incontriamo anche elevazioni formali al grado di principi dell'impero. Ciò servì ad attenuare alquanto la sproporzione di numero tra i principi laici ed i principi ecclesiastici che era assai forte verso il 1180, giacché tra i principi dell'impero rientravano tutti i vescovi, salvo sette, cioè i sei sopra menzionati ed il vescovo di Kammin che dipendeva direttamente dal papa.

Non é possibile stabilire se Federico abbia di proposito introdotto o contribuito ad introdurre questo nuovo sistema; certo è che sotto di lui è pienamente in atto. Per l'anno 1184 abbiamo già un esempio di elevazione di un conte al rango di principe dell'impero.
Sotto Federico I poi assunse il carattere di classe chiusa, di fronte al ceto cittadino ed al ceto campagnolo, il ceto dei cavalieri; di modo che d'ora in poi non poté diventare cavaliere se non chi discendeva da cavalieri. Il ceto dei cavalieri era circondato di un certo splendore, che finì per oscurare le differenze di origine e persino di nascita non pienamente libera dei suoi componenti e li fuse in una classe che si distingueva dalle altre dei borghesi e dei contadini per il sistema di vita, per i costumi e per certi diritti solo ad essa spettanti, sopra tutto per la esclusiva capacità dei suoi membri di essere soggetti di rapporti feudali e di partecipare alla gerarchia ed all'ordinamento feudale, o come si diceva all'Heerschild, che abbracciava tutte le terre concesse in feudo ed i loro titolari.
Un vero e proprio feudo non poteva esistere che su terre di pertinenza dell'impero. A capo della gerarchia feudale stava quindi il re, il signore supremo di queste terre. In secondo ordine venivano i principi ecclesiastici e laici. Siccome però i principi laici per lo più avevano pure dei feudi loro conferiti dai principi ecclesiastici e, salvo il re, chiunque prendeva un feudo da un suo pari discendeva ad un rango più basso dell'Heerschild, così i principi ecclesiastici erano collocati al secondo rango, i principi laici al terzo rango della gerarchia. Il quarto rango era occupato dai liberi e cavalieri che avevano ricevuto feudi dai principi. Nel quinto erano annoverati i ministeriali, una classe in cui nel XII secolo entrò un gran numero di uomini liberi. Il sesto rango era occupato dai cavalieri non liberi che non avevano potuto essere accolti tra i ministeriali; si trattava di vassalli di questi ultimi.

ENRICO VI, figlio di Federico e di Beatrice di Borgogna (n. a Niimega 1165) salito al trono dopo la morte del padre a 26 anni, era già stato eletto dai principi tedeschi a successore di suo padre nel 1169, quando aveva ancora quattro anni. Nel 1186 suo padre l'aveva sposato con l'unica erede del regno normanno di Napoli e Sicilia (Costanza d'Altavilla).

Enrico lo aveva educato il dotto cappellano dell'imperatore, Corrado di Querfurt, uomo pratico di tutti gli affari di Stato e delle cose ecclesiastiche. Egli conosceva a fondo le correnti di idee che dominavano la sua epoca e manteneva relazioni con le personalità, più spiccate del tempo. Aveva infatti studiato a Parigi insieme col futuro papa Innocenzo III e con Tommaso Becket che cadde assassinato mentre era arcivescovo di Canterbury per essersi fatto strenuo difensore dei diritti della Chiesa. Il giovane principe fu da lui avviato non solo nella cognizione del latino e delle scienze, ma anche del diritto romano e del diritto canonico.
L'addestramento alle armi del giovane, curato da alcuni ministeriali di casa Hohenstaufen, e la sua precoce partecipazione agli affari di Stato impedirono che la sua mente rimanesse in seguito agli studi inceppata nelle forme pedantesche della scolastica dominante al suo tempo, ed invece quegli studi ben gli servirono ad orientarsi nelle varie materie e ad addestrare il suo spirito già naturalmente assai acuto. Era celebrata la sua intelligenza ed il suo sapere. Enrico non era alto di statura ed era anche di salute cagionevole, tuttavia valente nelle armi ed appassionato per la caccia. Senza macchia nella vita privata, socievole di temperamento, generoso coi poveri, era instancabile al lavoro.
«Lo si vedeva sempre col pensiero fisso a studiare il modo di elevare la monarchia e di impadronirsi dei regni circostanti. Le figure di Antonio e di Augusto aleggiavano costantemente dinanzi ai suoi occhi e fors'anche lui sognava il dominio universale di Alessandro. Egli appariva sempre pallido e pensieroso ed appena si concedeva tempo per prender cibo».

Il greco Niceta, che così tratteggia l'imperatore, non ci rende di lui che una immagine incompleta. Re Enrico sapeva trovare pure il tempo per procurarsi il piacere della caccia di cui era fervente amatore e per godere della compagnia di cantori, poeti, dotti ed artisti. Non possiamo dire se anche lui abbia composto delle poesie, ma è certo che Federico di Hausen, Bligger di Steinach, Goffredo di Viterbo ed altri poeti e scrittori convennero alla sua corte, la quale, almeno nei primi anni del suo regno, fu un centro di riunione dei migliori intelletti e degli amici dell'arte poetica.

Tuttavia la brama incessante di conquistarsi una grande signoria universale, inspirata in lui dal peso invincibile della tradizione e del lavoro preparatorio fatto da suo padre, questa aspirazione da lui nutrita ed alimentata con l'ardore del suo animo focoso e con una tenacia instancabile, sottrasse alla sua giovinezza quelle ore di godimento spensierato di cui noi uomini non possiamo fare a meno se non vogliamo consumarci ed indurirci precocemente. E così avvenne di lui.

Questo amabile principe, educato alla scuola del bello, spiegò nella lotta contro i ribelli del suo Stato Normanno (acquisito tramite la moglie) una durezza ed una crudeltà che fa orrore. Specialmente dopo la seconda insurrezione di Sicilia (1197) Enrico sottopose ad inumane torture i capi del movimento presi prigionieri. La spada e la corda gli sembrarono esecutori troppo miti delle sentenze. Alcuni vennero affogati in mare, altri segati vivi, altri unti di pece e bruciati, altri ancora impalati e così via. Tutto ciò che quell'epoca aveva saputo immaginare di crudeli martirii, fu applicato in questo caso e ne fu fatta un uso in massa.
Si è voluto giustificare tutto questo procedere con le abitudini dei tempi, ma questa é una magra scusa. Duri e crudeli sino a questo punto ve n'erano anche allora sicuramente pochi. Il figlio di Federico Barbarossa, malgrado tutte le sue belle doti e le sue elevate aspirazioni, si è imbruttito degli eccessi inerenti all'assolutismo. Ed era inevitabile che ne rimanesse vittima, in quanto il potere assoluto, quale era costituito nello Stato normanno, incombeva su una società impregnata delle idee feudali, una società il cui spirito e le cui abitudini ripugnavano all'assolutismo burocratico.
Egli si trovò dunque necessariamente corrosa l'anima da quella inquieta ansia che assale l'uomo quando lotta inutilmente. Egli diede agli uomini che gli si opposero la colpa di non aver potuto raggiungere il suo fine grandioso e non il fine medesimo. Già l'acquisto della corona imperiale fu da lui fatto a prezzo di un sacrificio che macchiò il suo onore.

La città di Roma nel secolo XII tentò più volte, al pari di Milano e degli altri grandi comuni, di rendersi indipendente, e Federico Barbarossa aveva dovuto ripetutamente prestare aiuto ai papi contro la città che con tutti i mezzi lottava per raggiungere una propria autonomia se non proprio repubblicana almeno comunale come stava avvenendo in quasi tutte le città d'Italia.

Papa CLEMENTE III (pontif. 1187-1191) dopo la sua consacrazione non poté entrare in Roma se non dopo aver firmato un trattato (1188) che accordava alla città una estesa autonomia. In seguito a questo trattato il papa venne la trovarsi di fronte al comune di Roma in posizione analoga a quella in cui si trovò ad es. il vescovo di Strasburgo nella seconda metà del XIII secolo di fronte alla sua città, o ancor meglio nella posizione dell'imperatore rispetto alle città lombarde. Egli era riconosciuto tuttora come il signore della città in possesso delle regalie, ma non poteva esercitare queste regalie che erano passate in altre mani. Il governo della città si accentrava nel senato eletto liberamente dal popolo; esso aveva pure il diritto di decidere della pace e della guerra. «Il papa, se tuttora esercitava influenza sui Romani, la esercitava perché era il più grande possessore fondiario e non in grazia dei suoi diritti sovrani ormai limitatissimi».

Ed anche questo trattato svantaggioso per sé, papa Clemente lo ottenne solo perché si obbligò a sostenere i Romani nella loro lotta contro l'infelice Tuscolo, con la quale Roma viveva in continua ostilità non diversamente che Milano con Lodi e Pavia. In tali angustie Tusculo (non avendo il papa i mezzi) chiese aiuto all'imperatore, il quale accorse e trovò in cambio il disponibile papa a consacrarlo. Enrico VI prese la città sotto la sua protezione, ma poi la abbandonò alla discrezione dei Romani, quando questi gli promisero di convincere il papa ricalcitrante ad incoronarlo imperatore.

Il lunedì di Pasqua del 1191 l'imperatore prese la corona con solenne cerimonia religiosa, ma il giorno successivo il cielo venne arrossato dalle fiamme che distruggevano la città tradita dall'imperatore e dal papa dopo che i suoi cittadini erano stati massacrati dalla ferocia dei Romani.
La ricompensa per l'imperatore fu la corona, per il papa i beni dell'infelice città, ma in aggiunta entrambi raccolsero vergogna e disonore. Fu un brutto inizio per il giovane imperatore, e se poco dopo sotto le mura di Napoli una pestilenza gli distrusse l'esercito, non pochi onesti avranno certamente considerato questa iattura come una degna e giusta punizione.

Ma ciononostante Enrico continuò a spiegare quella energia tenace e quella dura inflessibilità dinanzi alla quale i suoi nemici tremavano. Passò a Genova ed a Milano, rafforzando nell'alta Italia il partito imperiale tra le città lombarde e poi nel dicembre del 1191 ritornò in Germania. Dello splendido esercito che dieci mesi prima aveva condotto di qua delle Alpi egli non recava con se che sparuti residui, i suoi Stati normanni erano in mano dei suoi nemici ed anche nel resto d'Italia la posizione dell'impero era gravemente scossa, al che non aveva di certo contribuito poco il tradimento fatto da Enrico a danno dell'infelice Tusculo.

Il pericolo che aveva affrettato il suo ritorno in Germania non era meno urgente.
Enrico il Leone, rompendo il suo giuramento, era tornato dall'esilio fin dall'autunno dal 1189 sotto il pretesto che l'imperatore non difendeva i dominii guelfi come aveva promesso. In verità all'inizio egli era stato costretto a rinunziare presto alla lotta iniziata per riconquistare il suo primitivo posto ed aveva dovuto dare in ostaggio ad Enrico i suoi figli; ma, mentre poi il re aveva il suo rovescio con il suo esercito in Italia, Enrico il Leone era riuscito a riacquistare in Sassonia gran parte della sua potenza, e nel 1192 si coalizzarono assieme a lui numerosi e potenti principi tedeschi e stranieri per abbattere la monarchia degli Hohenstaufen.

Era questo il difetto fondamentale dell'ordinamento feudale. Chi voleva abbandonare un re trovava facilmente un pretesto. Re Enrico percorse i suoi dominii, tenne alla distanza col terrore i nemici e radunò gli amici. Si vide subito che la potenza della sua casa era grande e che il nome del re significava ancora qualcosa. Ma a questo punto la sua posizione peggiorò, perché il vescovo di Luttich fu assassinato in circostanze tali che fecero fortemente sospettare che il re avesse provocato la morte di quel principe che gli era molto scomodo.
I più tiepidi fra i suoi amici di Germania, di Italia e di Borgogna ne approfittarono per allontanarsi dal re ovvero per entrare addirittura nella coalizione dei suoi avversari. Enrico tenne testa a questo camaleontismo, ma le sue risorse erano stremate a causa della crociata intrapresa da suo padre e della sua spedizione in Italia. Enrico VI venne a trovarsi in grave pericolo; ma a liberarlo da questo gli giovò l'aver catturato il re inglese Riccardo Cuor di Leone (verso la fine del 1192), perché questi era l'anima della coalizione contro di lui tra la Francia, l'Inghilterra, la curia, i Danesi, i Siciliani, i Guelfi ed i principi tedeschi congiurati di questi ultimi, tra i quali si trovavano i potenti arcivescovi di Colonia e di Magonza, i duchi di Boemia e di Zàhringen, di Limburg e del Brabante e molti altri ancora.

Enrico VI è stato biasimato per aver tenuto prigioniero il re crociato; ma non bisogna dimenticare che le crociate vanno giudicate in relazione alla politica generale dei vari principi, di cui non erano che un episodio strettamente collegato al resto, e che Riccardo Cuor di Leone nelle sue crociate aveva perseguito mille altri fini con assai più zelo che non la liberazione della Terra Santa. Egli aveva danneggiato e cercava di danneggiare in tutti i modi gli interessi della casa di Hohenstaufen e quelli dell'impero; sarebbe stata una follia, anzi peggio un delitto contro il proprio paese e contro il proprio dovere di sovrano se l'imperatore avesse lasciato libero senza serie garanzie questo potente intrigante privo di scrupoli.
Con questa cattura Enricò spezzò la coalizione dei suoi nemici e trasse dal riscatto percepito per la liberazione di Riccardo le risorse necessarie a riorganizzare l'esercito per la riconquista del regno normanno, sfuggitogli quasi completamente di mano dopo la distruzione del suo esercito sotto Napoli nel 1191.
Qui infatti le truppe ed i partigiani di Enrico non riuscivano a sostenersi ormai che in poche località; sopratutto tenevano testa a Monte Cassino, il cui abate, altrettanto buon soldato quanto buon religioso, aveva saputo respingere tutti gli assalti e non si era lasciato indurre neppure dalla scomunica del papa a defezionare dall'imperatore.
Peraltro neppure il papa era stato in grado di mantenere in sicuro possesso della corona Tancredi, il suo protetto che egli aveva infeudato del regno normanno in opposizione ad Enrico VI.

Nell'estate del 1193 le truppe imperiali avanzarono vittoriosamente e re Tancredi morì nel febbraio del 1194. L'imperatore Enrico VI riordinò nell'estate le cose dell'Alta Italia e procedette poi, appoggiato da una flotta pisana, a risottomettere il regno normanno. Le città si sottomisero ad una ad una, atterrite dalla sorte toccata a Salerno; questa città popolosa, ricca per gli sviluppati commerci, famosa per la sua scuola di medicina, era stata infatti abbandonata al saccheggio ed alle fiamme. Anche questa volta Enrico si mostrò crudele come era sempre quando voleva vendicarsi ovvero intimidire i suoi nemici; ma poi procedette con severa moderazione e disciplina dei suoi ed il suo ingresso in Palermo il 20 novembre 1194, che ebbe l'impronta di una festa.

Alcuni storici affermano che furono i costumi troppo rilassanti della corte Normanna a impedire che i Palermitani reagissero, perchè sembra impossibile la scomparsa di quel potente esercito che esisteva all'epoca di Ruggero II. Forse il partito che non aveva molte simpatie per Tancredi, sperò in un provvidenziale ritorno di Costanza, la figlia di Ruggero, ora consorte di Enrico VI. Ma quando suo marito iniziò a colpire gli avversari con le feroci repressioni, si accorsero ben presto che Costanza non era più la figlia di Ruggero II, bensì un'imperatrice plagiata dall'ambizioso sovrano germanico. Conquistata con facilità la capitale, tutto il reame normanno era caduto nelle mani dell'imperatore Germanico.

Questi successi costituirono il punto di partenza della politica imperialista perseguita da Enrico negli anni successivi. Egli organizzò a Napoli ed in Sicilia uno Stato potente per mare e per terra, per risorse finanziarie come per forze militari, uno Stato che rappresenta la restaurazione e la continuazione del regno normanno. La sua influenza arrivò assai lontano in Oriente. Vassalli dell'impero bizantino cercarono il suo appoggio e persino il re d'Armenia gli mandò ambasciatori per pregarlo di accoglierlo in seno al sacro romano impero. Enrico concepì prima l'ambizioso disegno di liberare dai Saraceni le coste settentrionali dell'Africa, Maiorca e Valenza ma anche l'altrettanto ambizioso progetto di sottomettere Bisanzio. Il "morbo" dell' "Alessandrite" lo aveva ormai preso anche lui.

Facendo il voto di compiere una crociata si riconciliò l'animo del papa, il quale invece ora venne in conflitto con l'Inghilterra perché rifiutò di aderire alla crociata ed era in rapporti tesi con la Francia per altre ragioni. Enrico come abbiamo detto si proponeva di compiere la crociata principalmente allo scopo di assoggettare l'Oriente; gli interessi religiosi c'entrarono come un movente secondario. Egli era all'apice della sua potenza, tanto più che anche nell'Italia centrale il figlio minore di Barbarossa, il futuro re Filippo di Svevia, tutelava energicamente in rappresentanza del fratello i diritti dell'impero, e li aveva anche accresciuti.

I timori che andava nutrendo il papa, iniziarono ad essere giustificati, quando Filippo, iniziò ad effettuare in continuazione scorrerie nel Lazio, finchè si prese la scomunica dal papa. Era chiaro che l'Imperatore voleva annientare lo Stato della Chiesa per riunire tutta l'Italia all'impero, stritolando in mezzo il papato. Tuttavia Enrico così disponibile a fare la crociata il papa non poteva certo tirarsi indietro di fronte ad una santa iniziativa come quella.

Morto verso quest'epoca Enrico il Leone (1195) che per tanto tempo era stato il nemico della signoria degli Hohenstaufen, la sparizione di lui sembrò suggellare la sicurezza di questa casa, e parve venuto il tempo di provvedere, mediante l'abolizione del sistema elettivo e l'introduzione del sistema ereditario, a mettere al riparo la monarchia tedesca dai conflitti che nel corso del XII secolo l'avevano continuamente scossa a causa dell'avvicendarsi sul trono di varie potenti famiglie e delle loro lotte per la conquista della corona.

Con questo disegno in mente Enrico ritornò in Germania, dove si accinse pure a fare i preparativi per la crociata, ovvero la guerra di conquista dell'Oriente. Anche altri degli imperatori precedenti avevano nutrito analoghe aspirazioni alla signoria universale nell'Occidente e nell'Oriente, ma non erano apparse mai prima d'ora così vicine alla realizzazione. Le riforme militari degli Hohenstaufen avevano reso più agevole trarre dalla Germania, od almeno da una parte considerevole di essa, la forza allo scopo necessaria, e le risorse finanziarie delle città dell'Alta Italia, della Tuscia e della Romagna, nonché quelle principali che si potevano ricavare dal regno di Sicilia, libero come era da molti impacci del feudalesimo e fortemente armato per mare e per terra, offrivano una quantità di mezzi per la conquista di un dominio universale, quali non aveva mai ancora avuti a sua disposizione nessun re tedesco.

Ma i principi tedeschi rifiutarono il proprio appoggio alla legge desiderata dall'imperatore con la quale in primo luogo avrebbe dovuto essere stabilita l'ereditarietà della corona nella famiglia degli Hohenstaufen ed in secondo luogo la monarchia ereditaria normanna avrebbe dovuto essere unita all'impero. Enrico, visto che i principi non si lasciavano allettare neppure dal compenso loro offerto di rendere per legge ereditaria la loro signoria nei loro rispettivi territori, anche nella linea femminile, si accontentò, con la freddezza di risoluzione caratteristica della sua indole, che eleggessero a successore nella corona imperiale suo figlio, allora in età di due anni, il futuro imperatore FEDERICO II, e gli prestassero il giuramento di fedeltà. Ottenuto ciò egli ritornò in Italia, potente ormai a tal punto che papa CELESTINO (pontif. 1191-1198) tremò dallo sgomento.

Preoccupato di quel che poteva avvenire se Enrico VI riusciva ad attuare il suo grande disegno, egli avrebbe voluto stringere alleanza con l'imperatore greco Alessio, sebbene a questo modo venisse ad ostacolare la crociata di Enrico VI che sinora aveva lui stesso ardentemente promossa e sostenuta. Ma le trattative allo scopo iniziate rimasero interrotte, perché il messo incaricato di portare la risposta dell'imperatore greco fu preso dagli imperiali ed accecato.

Per le feroci le repressioni, e quando l'autoritarismo del tedesco divenne ancora più spietato, nel 1196-97 a Palermo scoppiò un'insurrezione generale; Enrico a questo punto calcò la mano e ordinò altre sanguinose repressioni, esecuzioni in massa, accecò molti nobili che vi avevano preso parte, e fatti uscire i nobili che erano già in prigione da due anni, fece strappare gli occhi anche a loro.
Con il pretesto della congiura e di voler punire i colpevoli, Enrico VI sfogò ferocemente i suoi istinti sanguinari. Le carceri di Palermo rigurgitarono di prigionieri appartenenti alle più cospicue famiglie del regno; processi sommari furono istruiti a carico di baroni, vescovi e dignitari della corte normanna, e i carnefici ebbero un gran da fare, impiccando, scorticando, bruciando, accecando, mutilando orribilmente i condannati.

Nel frattempo una flotta sbarcò in Sicilia migliaia di crociati tedeschi che avevano preso la via della Manica e del golfo di Biscaglia ed in Portogallo per prestare aiuto contro i Saraceni. Un altro esercito di crociati tedeschi, condotto dall'arcivescovo Corrado di Magonza era arrivato per la via di terra attraverso l'Italia in Sicilia, dove si imbarcò per la Palestina. Altre schiere arrivarono sotto la guida del vescovo di Regensburg e di principi sassoni.
Circa 60.000 uomini venuti dalla Germania si trovarono adunati nell'estate del 1197 attorno al loro re nell'Italia meridionale ed in Sicilia, ed il 22 giugno il cancelliere dell'impero, il vescovo Corrado di Hildesheim consacrò in Puglia dinanzi ad una massa imponente di ecclesiastici e principi tedeschi la chiesa di S. Nicolò di Bari.
Dinanzi a tanto spiegamento di forze tacque ogni resistenza. Persino l'imperatore Alessio di Costantinopoli si obbligò a pagare al re tedesco un tributo annuo, per sopperire al quale dovette imporre al suo paese una nuova tassa.
Già in Sicilia, Calabria e Puglia si erano concentrate tutte le imponenti forze, era una questione di giorni la partenza per la grande conquista.

Ma a questo punto il 20 settembre 1197 a Messina una zanzara si prese la vita del nuono "Alessandro". Enrico aveva solo 32 anni. Il clima italiano gli era stato stato più volte deleterio, tuttavia si era sempre riavuto. Cacciando in un terreno paludoso nei pressi di Messina, contrasse la febbre malarica che sembrò sparire con il suo rientro in città, ma poi nel giro di qualche giorno ricomparve più forte che mai e per rinfrescare la gola arsa dalla febbre, dopo aver bevuto un bicchierer d'acqua il 28 settembre 1197 si spense la vita dell'imperatore, dinanzi al quale si erano piegati i principi tedeschi, il papa, le città Italiane, i normanni, l'imperatore greco, e come era nelle sue previsioni dovevano anche piegarsi i Saraceni d'Africa e poi gli stessi Bizantini.

Morte misteriosa dicono alcuni; la principale responsabile indubbiamente fu la zanzara, altri dicono dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua fredda causando una congestione, ma altri dicono forse avvelenato con lo stesso bicchiere d'acqua per ordine della moglie Costanza. Ad ogni modo, l'uomo che voleva conquistare il mondo, seguendo lo stesso progetto del padre miseramente annegato in una pozzanghera d'acqua, penosamente annegava in un bicchier d'acqua.

L'abate di Fiore, che il mondo allora venerava come un profeta, cui era aperto il futuro, lo aveva poco prima celebrato come lo "strumento di Dio destinato ad umiliare la chiesa degenerata ed i principi orgogliosi"; tuttavia, gli diceva «tu che sei per volontà del Signore il martello della terra che schiacci gli ostinati, tu non offendere il Signore con la superbia».

Ma lo strumento di Dio, il temuto imperatore, l'accorto sovrano, il signore delle flotte e degli eserciti non era ormai che un misero cadavere. Ancora una volta tutti gli onori della terra furono dispensati per glorificarlo. Rivestito delle insegne regie, coperto di porpora, d'oro e di gemme, egli venne sepolto in un sarcofago di porfido nel duomo di Palermo.

Ma poi le cose mutarono. I suoi nemici gridarono giubilanti: «Il flagello d'Italia è morto, è morto il serpente, il tiranno». Il papa lo scomunicò nel sepolcro e con lui scomunicò il fratello Filippo di Svevia. Gli amici degli insorti siciliani poco prima sconfitti levarono la testa e la vedova dell'imperatore, Costanza, che già aveva avuto la sua parte nella precedente insurrezione, si mise con loro.
«Fuori d'Italia i Tedeschi» fu il grido che risuonò dal mezzogiorno al settentrione della penisola. E i Tedeschi dovettero andarsene. Lo stesso Filippo di Svevia, lo stesso che poco prima era ancora il temuto padrone dell'Italia centrale, fu costretto a fuggire a gambe levate se voleva conservare la vita.

Pochi mesi dopo (8 gennaio 1198) morì papa Celestino III, un pontefice che aveva sempre oscillato tra uno sconsiderato rigore ed una mitezza che arrivava alla debolezza, un pontefice che aveva tremato di fronte ad Enrico VI.

Enrico era morto appena in tempo prima che i tempi diventassero molto pericolosi per la Chiesa. Celestino moriva anche lui appena in tempo, quando non c'era più bisogno di un uomo come lui a 92 anni, per quanto valido, ma occorreva nel delicato momento un giovane papa, vigoroso, preparato alla lotta.
Per rimpiazzarlo occorreva più che un atto liturgico, occorreva nella scelta un atto laico, politico, e poi altrove far seguire le cerimonie sacre. Insomma il pontificato si presentava quanto mai difficile, con tante incertezze; e anche se la grande contesa fra papato e impero con la morte di Enrico VI parve sopita, era chiaro che presto sarebbe ricominciata con gravi conseguenze.

L'uomo giusto, giovane, fu trovato in quello che viene considerato il primo conclave della storia.
La scelta cadde su un cardinale 37enne.

L'elezione del successore avvenne l'8 gennaio 1198 in un vecchio casolare, nel Septizonio sul Palatino, trasformato in una fortezza. Il rudere era di proprietà dei Frangipane; il collegio dei cardinali vi tennero un conclave, che alcuni storici considerano il primo della storia; per la prima volta sono distribuite delle schede per esprimere i voti del prescelto. Schede che vengono poi bruciate dopo la conta onde non lasciar traccia al pontefice che viene eletto dei nomi di chi non lo ha votato.

La scelta con voto unanime cadde sull'uomo che occorreva in quel momento: sul cardinale Lotario, figlio di Trasamondo conte di Segni e della romana Claricia Scotti. Nato ad Anagni nel 1160, quindi aveva 37 anni. Come i nobili romani destinati alla vita ecclesistica, giovanissimo aveva studiato telologia a Parigi, dove ebbe maestro Pietro di Corbeil. A Bologna frequentò la scuola di diritto e tornato a Roma verso il 1185, venne creato suddiacono nel 1187, e nel 1190 cardinale diacono da Clemente III, che era suo zio per parte di madre. Tuttavia, se doveva la rapidità della sua carriera allo zio, il giovane possedeva di suo ingegno, cultura e prudenza.

L' elezione fu suggerita indubbiamente dalla fama che già circondava il giovane cardinale. Ma si trattò di un vero e proprio colpo di mano, al quale il popolo non volle o non seppe reagire. Questo più che alla democratica conquista, pensò alle ricche elargizioni di denaro che certamente sarebbero seguite nell'eleggere il rampollo della potente famiglia dei Conti che proprio in questi ultimi anni andava affermando la propria potenza nella Campagna e nella Marittima.

Tuttavia, fu una buona scelta, che andò oltre ogni previsione; il risultato finale fu quello che la vita religiosa dell'Europa occidentale fu organizzata e diretta come mai prima; di nuovo "tutte le strade conducevano a Roma"; e mai come prima fu vera quella frase che ogni fedele recitava "Adbveniat regnum tuum"; Stato e Chiesa sotto la teocrazia di Innocenzo militò per quasi vent'anni.

Il secondo colpo di mano fu completato, quando il papa prima ancora della sua incoronazione, iniziò a rivendicare il Senato come privilegio pontificio. E gli fu anche facile esautorarlo, perchè se l'anno prima (1197) erano stati nominati 56 senatori, al momento della sua elezione ne era in carica solo uno, che fu subito rimosso e il sostituto si apprestò a fare giuramento di fedeltà al papa che "avrebbe tenuto il segreto sugli affari più delicati, ed aiutato il papa alla riconquista dei beni perduti".


INNOCENZO III, era altrettanto accorto quanto energico sostenitore dell'idea della supremazia universale della Santa Sede. Diventò sua alleata e andò a cambiare completamente la faccia del mondo la "Morte"; la "signora" portatosi via Enrico VI l'impero non aveva per il momento un rappresentante e divenne preda delle lotte partigiane. L'idea dell'autorità universale dei papi sembrò a questo punto aver riportato la vittoria, ma questa vittoria fu un'apparenza, caduca quanto la vita del misero imperatore
Il cammino dell'evoluzione si staccò invece da questi concetti medioevali di dominio universale e pose capo alla formazione di Stati particolari i progenitori delle nazioni moderne, i rappresentanti dello incivilimento e della vita politica dell'epoca nuova.

Sic vos non vobis. Imperatori e papi, così i primi come i secondi, credettero di raggiungere i loro scopi ed invece non fecero che maturare risultati ben lontani dai loro propositi. Ed è improbabile che le cose sarebbero andate diversamente anche se Enrico VI fosse vissuto ancora 10 o 20 anni ed avesse accumulato vittorie su vittorie.

L'evoluzione avrebbe proceduto per altre vie, ma difficilmente avrebbe avuto risultati sostanzialmente diversi.
Noi uomini non sappiamo che cosa in realtà facciamo ed in servizio di chi lavoriamo. Ma pochi luoghi al mondo ci parlano della caducità d'ogni umana grandezza così eloquentemente come il grandioso sarcofago di Enrico VI nel duomo di Palermo.

Egli era all'apice della potenza, nel fiore degli anni, a capo di un grandioso esercito ed in procinto di realizzare un disegno diligentemente preparato; venne la morte e troncò tutto.

L'impero tedesco lo lasciamo per il momento qui,
riprenderemo gli sviluppi molto più avanti


noi ora dobbiamo dare uno sguardo
alla genesi degli altri Stati sorti in questa stessa travagliata epoca
ed il primo è...

GENESI DEGLI STATI NORMANNI E NEOLATINI > >

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