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CRONOLOGIA
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17. LA CULTURA ISRAELITICA - GIUDAISMO - MONOTEISMO

La lingua materna di Abramo e discendenti doveva essere quella del suo paese d'origine, Ur dei Caldei.
"Questi furono i figli di Cam secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori e nei loro popoli" -
( Genesi Cap. 10 -15. - sono allora Camiti oppure Semiti?

 

Sul finire del regno nuovo, come allo stato egiziano, così mancavano al neobabilonese - lasciando stare le splendide conquiste nel campo dell'astronomia - tutte quelle forze fresche, dalle quali sarebbe potuto venire all'Oriente antico un essenziale progresso di cultura.
La ricchezza, il lusso favoloso e la magnificenza per cui era famosa la Babilonia ai tempi di un Nebukadnezar II, non tornarono in seguito a profitto dei Semiti, ma dei giovani e forti popoli indo-germani (Sciti e Cimmeri) che presero il loro posto, e in particolare dei Persiani; i quali dalla loro patria trapiantarono nell'Asia occidentale il tenore di vita altissimo, fortificato dalla rigida disciplina, di un popolo prode e dedito alle armi e che non fecero fatica a sostituire una nuova organizzazione di stato a quella ormai decrepita dei loro predecessori.

Solo la forma dell'impero babilonese rimase immutata. Ma tutta quanta la cultura ariano-iranica, e soprattutto la religione di Ahuramazda predicata da Zoroastro, trasformarono completamente la vita dei popoli dell'Asia anteriore.
Fin nell'Asia minore mutarono gli interessi politici, religiosi e commerciali degli abitanti dell'Asia occidentale; fin nella terra dei Faraoni penetrarono nuove idee, costumi, norme e tradizioni.

Non in queste pagine parleremo del sorgere e del progredire di questa civiltà iranica, lo faremo in una serie di capitoli più avanti.
A completare invece il disegno della civiltà dell'Oriente antico, abbozzato nelle pagine precedenti, dovremmo valerci di vari altri monumenti, interpretare varie altre iscrizioni, discutere di vari altri rapporti.
Sarebbe da illustrare l'influenza della civiltà egiziana sui confinanti Nubi, che più tardi, e per buon spazio di tempo, tennero la signoria della valle del Nilo. Dovremmo esaminare, nei loro scambievoli rapporti con la cultura babilonese, i primordi della cultura araba, sui quali si aspetta da tempo getti luce un numero considerevole di
iscrizioni indigene.
Converrebbe indagare il pensiero religioso dei Moabiti e il pantheon fenicio, la cui mitologia potrebbe esser ricostruita con l'aiuto delle iscrizioni votive ed inoltre dalla esposizione che ne dà più tardi, in stile ellenistico, Filone da Byblos.

Ma in tutte queste ricerche singole, di grande importanza per lo specialista, non si può finora giungere ad un giudizio definitivo. Basta dare un'occhiata alle traduzioni delle epigrafi dell'Arabia meridionale, cosiddette mineo-sabeiche, e come le interpretano i dotti più competenti, per convincerci che in questo campo siamo ben lontani dalla certezza.

Abbiamo esposto sopra la nostra opinione circa i fondamenti della cultura cananea. Quanto allo studio della civiltà in parte certo originale, attestata nel sud dell'Egitto, ci mancano per ora le necessarie fonti indigene.
L'Assiria-Babilonia e l'Egitto sono gli unici grandi fattori nella serie dell'antico Oriente della cui progredita civiltà ci restino notizie abbondanti e autentiche. E poiché fino ad ora non siamo riusciti a decifrare in modo definitivo i monumenti del potente regno dei Cheta, che ebbe pur esso, per un mezzo millennio, parte cospicua in quella seria, saremmo giunti al termine del nostro lavoro, se non dovessimo ricordare l'importanza assunta da un piccolo stato cananeo nella storia universale e mantenutasi sempre vigorosa pur nel corso dei secoli con l'influenza profondissima esercitata sulla nostra propria cultura; alludiamo alla religione di Israele.

Chi tenta di riassumere la storia della civiltà ebraica, dovrà rendersi conto, con sorpresa e delusione tanto maggiori quanto più egli si addentra nel compito propostosi, delle enormi difficoltà che gli si accumulano davanti. Basta considerare, anche superficialmente, dal lato storico la posizione geografica del piccolo territorio colonizzato dagli Ebrei, per intendere la natura di quelle difficoltà.
Pervenuti circa nel XV secolo a sedi fisse, i Chabiri-Ebrei (ammessa l'attendibilità di questa equazione già più volte ricordata) vennero ad amalgamare la loro civiltà originale più o meno progredita, con una antica ed alta cultura, sorta da elementi in parte indigeni in parte attinti dall'Oriente babilonese, dal Mezzogiorno egiziano e dall'Occidente tuttora (quello dello stesso periodo) avvolto in fitta oscurità.

É dimostrato che gli influssi della cultura babilonese ed egiziana continuarono ad esercitare la loro efficacia fin dopo la colonizzazione della Palestina. Ma anche a settentrione il fiorente regno dei Cheta costituì un nuovo fattore che non poteva restare senza effetto sullo svolgimento della civiltà israelita.

Quella d'Israele, del pari che di tutte le altri stirpi cananee e aramee, fu dunque una cultura mista, nel senso più largo della parola. Ma mentre nel paese dei Nilo come in quello dell'Eufrate e del Tigri i ricordi monumentali ci rendono, già ora e fino a un certo punto, intelligibile il processo della civiltà egiziana e babilonese, nella Palestina mancano del tutto, si può dire, fonti contemporanee, autentiche e parallele.

Le notizie dell'Antico Testamento provengono tutte da un'età di molto posteriore; e quanto più si accentua in esse lo spirito settario e il colorito nazionale, tanto più difficile riesce separare il materiale antico, da servire allo storico della cultura.
Solo per questo si spiegano la esagerata importanza attribuita, durante la seconda metà del secolo scorso, a quelle influenze egiziane e babilonesi: il voler riconoscere, via via che progrediva la decifrazione dei testi geroglifici, influenze egiziane in ogni possibile aspetto della cultura d'Israele, apprezzamenti da tempo messi da parte; il fatto che, ancora una volta ed oggi stesso, alcuni assiriologi affermano aver dominato in tutta la Cananea la cultura babilonese; mentre altri asseriscono che Abramo - a stabilire la cui età non aiuta alcun passo delle cuneiformi - abbandonò Ur di Mesopotamia a causa della nuova religione ivi sorta con Chammurabi; o altri finalmente vogliono scoprire in quasi ogni racconto dell'Antico Testamento una allusione astrologica, credendosi così autorizzati a riguardare anche i libri cosiddetti storici non come oggetto di assennata interpretazione del testo, ma come gara per le più audaci speculazioni di mitologia astrale.

Solo di rado si può riconoscere da queste teorie fino a quanto le singole parti della letteratura dell'Antico Testamento siano da risolvere in semplici miti, ovvero se nei racconti relativi la trama mitologica valga solo come «forma stilistica».
Per lo più non si fa parola, o si considera come estraneo alla ricerca, nemmeno del modo di trasmissione del patrimonio leggendario babilonese; passò di bocca in bocca, o fu tramandato per iscritto, o stanno a base di esso « motivi » originali primitivi ?
Quanto abbiamo finora accennato basta per mostrare come l'indagine intorno all'Antico Testamento sia ad ogni modo, in questi ultimi anni, entrata in uno stadio nuovo. Sopra i punti più alti di tutta la critica letteraria e del testo scorre un vento fresco, contro al quale non potranno reggersi a lungo le friabili colonne dell'antico edificio.
Saranno più solidi i sostegni che ora si mettono al loro posto ? solo l'avvenire potrà dirlo.

Sarebbe prematuro di difendere una di queste nuovissime ipotesi, anche sotto forma di un semplice resoconto. Troppo complicato è il processo della tanto discussa cultura dell'Antico Testamento, per poterlo costringere tutto quanto in alcuno dei nuovi schemi finora tentati. I risultati da potersi finora ritenere come sicuri riguardano sempre singoli punti, illustrati via via dal deciframento delle iscrizioni o di Egitto o del regni dei Cheta o della Babilonia.
Ma non staremo a parlare di tutto quello che ci fa sapere il canone dell'Antico Testamento, considerato di per sé solo. Abbiamo infatti la soddisfazione di presupporre che il lettore di queste pagine le consulti solo dopo ripetuta lettura della Bibbia, se non nel testo originale almeno in una traduzione letterale.

Appunto un lettore simile - cui raccomandiamo, a complemento dal nostro abbozzo, la Hebraische Volkskunde [Etnografia ebraica] di Fr. Küchler (2.° fascicolo della II serie dei « Religionsgeschichtliche Volksbücher » [Di Storia delle religioni] editi da Fr. M. Schiele, Halle a. d. S. 1906 - ma ve ne sono molte altre altrettanto importanti e recenti) - constaterà con sorpresa, riaccostando quanto é detto nelle pagine precedenti intorno alle antiche civiltà orientali alle notizie della Bibbia, quanto scarsa originalità sia da attribuire, in ultima analisi, alla cultura israelitica.

E concederemo volentieri che la scarsezza di quelle notizie dipenda per non piccola parte dall'indole delle nostre fonti bibliche, nelle quali è riposta non già una storia profana, ma quella del popolo eletto dal dio Jahwe, cioè una storia «sacra».

Cominciando dall'architettura, non è facile farsi un'idea precisa della sua storia. Pare che le varie stirpi nomadi e seminomadi, viventi di saccheggio ad est e sud-est della Palestina, favorite - dopo lunghe alternative - dalla fortuna nelle loro lotte contro le popolazioni stabili dei Cananei, occupassero prima i territori di quello che fu poi il regno settentrionale, e solo molto più tardi la regione orientale del Giordano.
Queste tribù, quando non potevano impossessarsi delle sedi fisse dei nemici debellati, avranno dapprima continuato a vivere sotto le tende. Solo dopo un certo tempo i Cananei sedentari avranno loro insegnato a costruire case di pietra o, nelle pianure, di mattoni, a somiglianza delle loro dimore provviste di cisterne, acquedotti e giardini.
Della costruzione del tempio di Salomone siamo, come tutti sanno, un po' più storicamente informati; ed esplicite testimonianze ci fanno sapere che, oltre a fornire i tronchi di cedro e di cipresso, operai fenici presero parte alla costruzione stessa, apprestando anche gli arredi fusi in bronzo.

Non abbiamo invece nessuna notizia sulla costruzione delle antiche tombe. Ma gli accenni sporadici a luoghi cinti di mura e alla costruzione di città vere e proprie ci riportano alla influenza cananea. Lo stesso può dirsi anche della lavorazione dei metalli, in specie del bronzo, ma anche del ferro, nella quale i Fenici, non meno che nelle costruzioni delle navi, furono certo i maestri degli Israeliti.
Già fin dai testi più antichi appaiono note le arti dell'orefice, del vasaio, del tessitore; il pane si otteneva con mulini a mano e si cuoceva in forni o in grandi tini di arzilla. Ma da che il popolo si stabilì in sedi fisse, sua principale occupazione fu l'agricoltura, principali arnesi il pungolo e l'aratro. Si coltivarono varie specie di cereali, soprattutto frumento e orzo, che insieme al vino, all'olio, ai fichi e ai vari legumi e frutta costituivano le principali sussistenze degli antichi Israeliti.
Assai più di rado il pesce e la carne, nei tempi antichi certo considerati come ghiottonerie. Però l'allevamento del bestiame, in specie di buoi e muli, asini e cavalli, era certo praticato nell'antichità. A quanto pare, questa civiltà primitiva subi un essenziale mutamento nell'età di Salomone, migliorandosi e raffinandosi. L'esteso commercio attestatoci dalle fonti indigene per quest'età e specialmente durante il regno di Salomone, condusse necessariamente allo scambio di prodotti forestieri.
Il popolo d'Israele conobbe allora le mercanzie fenicie, egiziane e babilonesi e imparò a servirsene. Anche l'interno delle case dei benestanti, costruite non di rado con pietre quadre, fu meglio arredato. Da questo tempo cominciano i lavori in avorio, i letti e le sedie intagliate, le imitazioni di opere d'arte forestiere, gli ornamenti di metalli preziosi, i cocchi e le pariglie di lusso, e varie stoffe di pregio.

Di importazione estera appaiono pure gli abiti finemente tessuti, di lana e di lino, che poi rimpiazzarono, presso le classi alte, l'antica semplice veste a maniche, per lo più a colori, portata dai due sessi. Si parla con biasimo dei banchetti ricchi di vini squisiti, degli esotici preparati adoperati ad ungere i capelli e la barba, lasciati sempre crescere lunghi, e del lusso sfoggiato nei grandi harem, ad imitazione degli stranieri.
Uno o due strumenti musicali sembrano invece indigeni già presso gli antichissimi Israeliti.

L'influenza straniera che accompagna queste forme di progresso civile, segue pure di pari passo l'amministrazione e la burocrazia, la vita della famiglia e della tribù. Negli Stati singoli dei Cananei gli Israeliti colonizzanti trovarono un modello per il governo della tribù; ed alla formazione parallela di piccoli Stati simili a quelli contribuirono le alleanze con i colonizzatori più antichi e le parentele contratte con famiglie regnanti.
Una vera ed intima vita di famiglia non si svolse, come pare, che molto lentamente; le descrizioni che qualche volta se ne hanno, sembrano per l'età più antica casi eccezionali. Il ratto delle donne, ricordato almeno in un passo dei Giudici (cap. 21, v. 21) fu più tardi sostituito dal matrimonio regolare, pagandosi il prezzo della sposa, in natura o in oro; la poligamia e il concubinaggio eran liberi ad ogni persona ricca.
Se si deve vedere un'influenza diretta dell'Egitto nel matrimonio permesso tra fratello e sorella di due letti, è per ora dubbio. Anche queste istituzioni subirono innovazioni solo dopo che alla signoria feudale subentrò il governo monarchico, inseparabile dall'amministrazione civile e militare.

All'antico diritto consuetudinario si sostituì una legislazione con norme fisse, dalla quale veniamo a conoscere il diritto individuale e il diritto reale, nonché una serie di assiomi di diritto criminale. Furono allora codificate le disposizioni intorno al matrimonio e al divorzio, alle mogli in sottotitolo e alle concubine, alla punizione dell'adulterio. La posizione degli schiavi o delle schiave fu regolata per legge, e garantita la emancipazione degli schiavi indigeni dopo sette o rispettivamente sei anni di fedeli servizi.
L'antica vendetta del sangue venne limitata all'omicidio premeditato; la rapina, il furto, il peculato e i danni arrecati per negligenza ai beni altrui puniti con pene adeguate, per lo più secondo miti criteri.
Ci sono conservate anche particolari disposizioni circa la eredità e le obbligazioni, mentre di trattati di commercio parlano solo fonti di molta più tarda età.

Studiando più da vicino - il che non possiamo farlo qui in modo ampio - queste leggi israelite dell'età dei re, si é necessariamente tratti a confrontarle, come sopra già accennammo, col famoso codice di Chammurabi. Ma per quanto l'influenza babilonese su Israele sia innegabile appunto in questo campo della legislazione, tale confronto dovrà esser condotto con molta prudenza.
E due sole considerazioni mostreranno che abbiamo ragione di raccomandarla. Prima di tutto non conviene affatto considerare la legislazione cosiddetta «mosaica» come un insieme unico. Precetti comprensibili solo nella più antica vita nomade, nel deserto, si alternano con altri che si spiegano solo col passaggio dalla vita nomade a quella dell'agricoltore e da questa a quella del cittadino.

A parte ciò, finora non si vede chiaro per quale via sarebbe giunta agli Ebrei la legge di Chammurabi, di quasi mille anni più antica dei precetti di cui parliamo, e che a sua volta deve riguardarsi come l'ultimo prodotto codificato di un lungo sviluppo. Perché non si dovrebbe ammettere che in ambedue le leggi, nella babilonese e nella israelita, si siano per caso venuti a trovare precetti antichissimi ch s'incontrano anche presso popoli di altra razza? o che si presentino analogie nell'una e nell'altra? in questo modo si spiegherebbero anche quelle leggi israelitiche che sembrano recare un'impronta di maggiore antichità delle corrispondenti babilonesi.

In quei casi però in cui siamo costretti ad ammettere un prestito, non dovremo rifiutare l'ufficio di intermediari ai Cananei, delle cui istituzioni giuridiche ci mancano finora notizie autentiche. La difficoltà di giudicare definitivamente di questi problemi é accresciuta dal fatto che al tempo di tali eventuali prestiti i Babilonesi e gli Israeliti si trovavano ad ogni modo in uno stadio di cultura del tutto differente. Né quei problemi possono risolversi senza conoscere le varie fasi per cui passò l'amministrazione della giustizia, a capo della quale stava il re in persona, giudice supremo alla testa di una burocrazia a poco a poco sviluppatasi.

Appunto per quest'ultima si ha ragione di aspettarci un'influenza da parte dell'Egitto, finora però non direttamente dimostrabile dai pochi titoli di funzionari militari o di corte conservatici nel Vecchio Testamento o dalle mansioni dei prefetti di città, i cosiddettii «anziani».

Un problema anch'esso purtroppo finora insoluto, e affine al precedente, é quello dell'introduzione della scrittura presso gli Ebrei. Come già osservammo, il più antico monumento scritto cananeo, l'epigrafe del re moabita Mesha, non risale oltre il primo quarto del nono secolo; la Bibbia stessa si limita a ricordare uno storiografo di Stato alla corte del re David (II Samuele, cap. 20, V. 25 segg.), il cui ufficio pare fosse ereditario; mentre la più antica iscrizione in una peculiare calligrafia ebraica, apposta ad un edificio e scoperta presso il canale di Silvah, non va oltre all'età di Hiskia.
Poiché d'altronde nell'epoca dei re si fa menzione anche di lettere, doveva essere già fin d'allora in uso l'arte della scrittura, della quale pure gli Ebrei sono debitori, secondo ogni apparenza, ai Cananei, da quando presero sede stabile.

Ma non ne esiste, come si sa, documento più antico delle tavolette di argilla di Tell-el-Amarna. Gli scribi avrebbero quindi adoperato, secondo l'esempio dei Babilonesi, i mattoni come materiale scrittorio; accanto a questi e già, come pare, assai presto, lastre di metallo e solo più tardi il papiro importato dall'Egitto e la pergamena.
Quegli scribi erano tanto avanti nella conoscenza della scrittura cuneiforme stessa, da scrivere in essa assai correntemente la lingua straniera e da esprimere con sufficiente esattezza la loro lingua mediante i segni sillabici dei Babilonesi.
Corrono quasi cinquecento anni fra questi documenti e la posteriore scrittura indigena cananea, sull'origine della quale siamo ancora del tutto all'oscuro. Ad ogni modo, da quei documenti babilonesi é probabile che già durante il regno israelitico l'uso della scrittura fosse discretamente progredito, in grazia soprattutto della su ricordata redazione di norme giuridiche e della fissazione, verosimilmente parallela, di costumanze rituali. Ma con ciò siano ancora ben lontani dai primordi di una attività letteraria.

Una lunga tradizione orale deve aver preceduto il sorgere della letteratura israelitica, come di tutte le letterature dell'antico Oriente finora meglio conosciute. Dei canti amorosi e bacchici, di quelli accompagnanti il lavoro, delle canzoni satiriche, degli inni di battaglia e di vittoria, quali li possiamo ancor oggi - per es. in Abissinia - osservare e seguire fin dal loro sorgere, si fissarono con la scrittura prima i meglio riusciti o quelli più in voga.
In modo analogo dobbiamo spiegarci i più antichi documenti della legislazione e della gnomica, come mostrano chiaramente le note analogie dell'Egitto.
Dopo che vari di questi ricordi furono fissati con la scrittura, si cominciò a sentire il bisogno di riunirli in un tutto. Sorsero raccolte di canti, di sentenze, di leggi. All'incirca nella stessa epoca devono esser state per la prima volta fissate con la scrittura le novelle e leggende di ogni sorta, già diffuse fra gli Ebrei durante le loro migrazioni e da essi recate tra i Cananei: insieme ai canti, queste conservarono i più antichi ricordi delle stirpi nomadi prima della immigrazione.

Dalle immagini ottenute con tali elementi s'intende che debbono poi essere eliminate le sovrapposizioni cananee, formatesi quando il termine della immigrazione era stato raggiunto e spesso riconoscibilissime dal colorito locale; nonché gli influssi egiziani e babilonesi tramandati a mezzo dei Cananei stessi.
Vari esempi attestano che nel corso della storia israelitica ai canti popolari si unirono anche canti politici, - dei quali si ritiene generalmente come il più antico il canto di Debora nel Libro dei Giudici, cap. 5 -, inni trionfali e in onore del re. Delle due più importanti raccolte di tali inni disgraziatamente non ci restano che i titoli. Negli albori dell'attività letteraria gli autori di simili raccolte non mettono avanti le loro persone col nome, non meno in Israele che in Egitto o in Babilonia.
Ma allo stesso modo che una delle opere più importanti della letteratura assira, un famoso libro d'astrologia, veniva direttamente riportato al nome del potente antico re Sargon I, così pure presso gli Israeliti i più splendidi prodotti dell'arte della poesia si attribuirono al re David e al re Salomone.
Il Cantico dei cantici, composto di elementi diversi e in parte molto antichi, passò più tardi per opera di Salomone, che avrebbe composto anche le poetiche descrizioni naturali raccolte nella Sapienza di Salomone e altri canti in numero di quasi un migliaio; lo stesso dicasi del Salterio di David, sul quale dovremo ritornare.

Il parallelo può continuare perfino per i primi documenti delle norme del diritto israelitico; nello stesso modo che Chammurabi diceva di aver ricevuto il suo codice bell'e fatto dalle mani stesse del dio del sole, anche la legislazione israelitica viene rappresentata nell'Antico Testamento come opera di Mosé, uomo divino e personale mediatore degli atti della volontà divina.

Eppure di quanto appartiene al diritto profano solo una raccolta, relativamente scarsa, di sentenze è da ritenere come antica ed è appunto quella che per la forma si riaccosta più strettamente al codice babilonese: vogliamo dire quei precetti, che per tutto il loro carattere ci riportano alla prima età delle sedi stabili, del cosiddetto Libro dell'Alleanza (Esodo, cap. 21-23) accanto ai quale sembrano essere all'incirca dello stesso tempo, i due «Decaloghi», cioè il cosiddetto «Decalogo del culto» (Esodo. cap. 34), e il Catalogo ordinario, certo alquanto più giovane (Esodo, cap. 20).

La storiografia israelitica è sorta da brevi ricordi a mo' di cronaca, il più antico dei quali non può neanch'esso esser riportato, dal punto di vista storico-letterario, oltre l'epoca dei Re. Eventi straordinari nella storia delle tribù e delle famiglie, vittorie su popolazioni straniere, come sui Filistei, sollevazioni nell'interno del regno erano i fatti di cui sembrava essere importante conservarne la memoria.
Nello stesso tempo si dava un peso speciale alle vicende personali del principe regnante e della sua corte, come risulta da numerose notizie, pare autentiche, conservateci.

Però la tendenza religiosa, diffusa in tutto l'Antico Testamento, è tanto sensibile nella riduzione di queste cronache a libri in apparenza storici, che solo con estrema cautela, come già osservammo essi debbono adoperarsi come fonti insieme alle notizie, contemporanee e anteriori, delle cuneiformi.
Di decennio in decennio si sbriciolano pietre e pietre dell'edificio presunto storico, rivelandosi come leggende. Gli Ebrei avevano conservato un ricordo sbiadito delle antiche vicende dei nomadi, loro antenati: stabiliti che si furono in sedi fisse, ravvivarono quei ricordi con elementi sempre nuovi, condensandoli in narrazioni di alta poesia.

Attingevano questi elementi dal confronto, quale al popolo appariva, dei principi di Canaan, della loro indole e costumi con quelli dei venerandi antenati delle stirpi ebraiche immigrate. Anche quei motti usati a deridere altri paesi o altre città possono esser stati occasione per tramandare oralmente simili motti nei racconti.

Inoltre durante la lunga elaborazione di questi racconti e la loro definitiva redazione in iscritto, il mondo leggendario babilonese lasciò tracce evidenti della sua influenza. Non solo ne ebbero nuovo alimento quei paragoni etnologici; ma anche i tentativi, più volte manifesti nell'Antico Testamento, di una interpretazione etimo-etiologica accennano, se pur non c'inganniamo, ad una spiegazione scolastica di forme linguistiche, quale da secoli era praticata nella Babilonia.
Le leggende degli antenati sono evidentemente connesse con le tradizioni dei monumenti cuneiformi, adattate al modo di concepire e di pensare degli Ebrei, ed inoltre probabilmente amalgamate con le rappresentazioni comuni a quell'antichissimo mondo leggendario, che già fin dall'epoca nomade circondava le singole stirpi e di cui sono riconoscibili dirette emanazioni in parecchie leggende di animali e di piante.

Anche le figure eroiche di un Mosé e di un Giosué, di un Gedeone, di un Sansone, di un Samuele, i venerandi patriarchi come Abramo, Isacco e Giacobbe sopravvissero quali uomini divini nella robusta immaginativa popolare o furono da essa posti come centro di un tessuto in cui s'intrecciavano centinaia di fili.
Più di tutto evidente é l'origine straniera delle leggende di contenuto religioso; miti antichi, ma nella forma in cui sono tramandati del tutto adattati al culto di Jahwe. Insieme alla molto scolorita, leggenda di Giona e al racconto, di età più tarda, di Ester, sono qui da considerare specialmente le saghe della torre di Babele, del paradiso terrestre, del diluvio universale e della creazione del mondo, in parte esistenti in diverse redazioni parallele, ma alcune di molto più antiche.

A dir vero non si è finora scoperta sul suolo babilonese una leggenda affine a quella della «costruzione della torre», anzi è assai inverosimile, per motivi interni, che essa potesse formarsi in quella regione; anche nella saga del paradiso con la perdita dell'immortalità da parte degli uomini vi è solo una lontana risonanza del mito, sopra ricordato, di Adapa; e solo nel territorio semitico occidentale può spiegarsi il racconto del peccato originale, quale noi lo abbiamo.
All'incontro il parallelismo dei racconti della creazione e del diluvio é tanto evidente, che é impossibile tenerli separati dai miti babilonesi corrispondenti.

Singole parti di questi miti e leggende ritornano nel genere letterario più cospicuo importante degli Israeliti, nella letteratura dei profeti, che ha dato la sua impronta peculiare alle scritture «sacre» degli Ebrei.
Il fanatismo e l'estasi dei profeti (cfr. più sotto) dovevano dare innanzi tutto espressione orale alle ispirazioni che essi credevano ricevere dalla divinità. Con la potenza della parola, talvolta accompagnata e rinforzata da gesti particolari, furono all'inizio da questi uomini divini formulate in sentenze profetiche le "ispirazioni" ricevute dall'Essere supremo nelle visioni e nei sogni, le parole e i pensieri di Lui.

L'impressione prodotta dai più geniali e profondi di questi uomini con i loro efficaci vaticini e sentenze, condusse, dopo lunga tradizione orale, a fissarli con la scrittura; il che avvenne sia per mezzo degli autori stessi, sia dei loro discepoli. Raccolte quindi in unità di scrittura poetica, in ordine cronologico più o meno preciso, solo in età più tarda (con Ezechiele) furono sostituite da creazioni letterarie di arte consapevole.

Però fin dagli inizi della letteratura profetica, l'elemento personale degli scrittori risalta decisamente rispetto a tutti gli altri generi letterari degli Ebrei. Basta ricordare i nomi di Amos e di Hosea in Israele, di Isaia, Geremia, Ezechiele e del grande anonimo comunemente designato come Deuteroisaia in Giuda - nè sono i soli - per rievocare dinanzi al lettore le possenti ammonizioni, le profezie di salvezza e di rovina, le lamentazioni e gli scoppi d'ira, che un entusiasmo divino sostenuto da una larga visione poetica metteva in bocca a quegli uomini.

L'influenza della letteratura profetica si fa pur sentire nello svolgimento della lirica ebraica, rispetto ai su ricordati semplici canti ai panegirici, alle satire, alle elegie di vaio stile. I più cospicui di questi inni ci sono conservati nelle raccolte dei salmi, composte evidentemente dopo l'esilio, in parte per la comunità religiosa, in parte per i singoli credenti. Non solo nella forma (parallelismo dei membri, osservabile anche in Egitto), ma anche per la sostanza, questi salmi ricordano così da vicino poesie simili dei Babilonesi, che nemmeno qui si può respingere l'ipotesi di una feconda influenza da parte dell'Oriente sulla letteratura ebraica.

La gnomica diede frutti squisiti, già in tempo antico, nei Proverbi e l'espressione poetica della saggezza della vita raggiunse la massima perfezione nel libro di Giobbe, nell'Ecclesiaste, nella Sapienza di Salomone. La letteratura propriamente «giudaica» dell'età posteriore all'esilio supplì con imitazioni, rifacimenti ed erudizione sempre più profonda, al difetto di «motivi» nuovi e di originalità di pensiero.

La fissazione della Torah, la redazione della storia israelitica nel senso delle vicende del popolo eletto da Dio, il formulare e interpretare per le profezie dell'ultimo periodo gli elementi mitici attinti a fonti straniere, tutto ciò caratterizza i libri più tardi che compongono quello che noi chiamiamo l'«Antico Testamento» : il canone cioè dell'antica letteratura ebraica e giudaica, che non la esaurisce tutta, ma che finora - tralasciando singole aggiunte indicateci dalla tradizione più tarda - la rappresenta esclusivamente.

A meglio giudicare di tutti questi prodotti letterari gioverà la considerazione delle idee religiose degli Ebrei, così particolari nel concepimento e nell'espressione, e del loro culto e servizio divino: quelle e questi tenteremo di brevemente tratteggiare alla fine di questa concisa rassegna delle antiche civiltà orientali.

Veramente, qui più che altrove, crescono le difficoltà a chi voglia obiettivamente illustrare i fatti. Non solo la sorgente luminosa stessa, i cui raggi rischiarano il passato, viene di momento in momento indebolita o offuscata dal processo del pensiero o giudizio nostro, che è quanto dire dalla moderna scienza delle religioni; anche l'oggetto stesso si sposta e si muta continuamente secondo la interpretazione filologica e critica del testo biblico, e secondo che oggetti analoghi, che si presentano con maggiore o minor chiarezza, vengono ad esso contrapposti o con esso confrontati.

Restano solo tracce delle forme primitive dell'antichissima religione naturalistica, che gli Ebrei avranno portato con sè nella migrazione verso Canaan. Nei loro ricordi scritti appaiono fra tali forme il culto di pietre e di fonti, di pali e bastoni, di alberi naturali o artificiali, dei «numina» dentro, dietro o sopra di essi e di altri svariati spiriti della natura o della casa.
Può essere che anche il culto dei tori e dei serpenti risalga all'epoca nomade; e negli avanzi delle antiche novelle ha parte cospicua il «Signore Zebaoth», cioè il signore degli eserciti celesti, delle stelle.
Ma per la inconscia tendenza della credula anima popolare di mettere a confronto e quasi di soppesare le varie divinità, una di esse, la più grande e più potente, deve esser riuscita a dominare sulle altre, fin dai tempi preistorici: secondo ogni apparenza fu questa la divinità dell'uragano, il dio Jahwe, il significato del cui nome é rimasto finora impenetrabile.
Dopo che le tribù, nelle loro migrazioni, ne ebbero sperimentata la valida protezione, e per gratitudine delle vittorie in suo nome riportate, questo dio fu posto al disopra di tutti gli altri esseri divini, degli Elohim (dei)

La tradizione presenta la sua definitiva supremazia sotto forma di un'alleanza stretta fra lui e Mosè sul monte Sinai (nell'immagine sopra) , luogo sacro, ma forse in origine ad un'altra divinità del tutto diversa, cioè al dio della luna. Quest'alleanza significa nello stesso tempo la stretta unione di tutte le tribù che marciavano insieme contro Canaan. Un'altra fase della concezione del dio Jahwe si ha con la colonizzazione del paese.
Nuovi confronti con l'antico dio dei deserti offrirono le divinità già esistenti presso i Canaanei e da questi ultimi probabilmente rivestite di attributi di origine babilonese: in specie Baal ed Astarte.
Ma anche da questi raffronti Jahwe riuscì trionfante. Se alla divinità israelitica si attribuiscono qualità degli dei cananesi, é solo perché sia accresciuta la potenza e lo splendore di quella.
Appunto con lo stabilirsi del popolo in sedi fisse, necessariamente accompagnato dal sorgere di luoghi destinati al culto, si affermò ancor più fortemente. e durevolmente la supremazia del dio nazionale degli Israeliti.
I santuari delle divinità cananee furono sgombrati per lui, le loro solennità e loro feste furono consacrate in onor suo (così fece più tardi anche la religione cristiana, trasformando solennità e feste del "pago" in feste e solennità "cristiane").

Anche le lotte contro i Filistei riuscirono a vantaggio del culto di Jahwe. Vi era il pericolo che l'unico dio si suddividesse in più dei d'eguale autorità, con diversi centri di culto: vi fu ovviato mediante la tendenza, sempre più spiccata, all'enoteismo, dinanzi al quale le antiche divinità naturali dileguarono e tutti i culti forestieri passarono in seconda linea.

Così era stabilita la posizione specialissima della religione d'Israele in tutto l'Oriente antico, e segnata la via per l'avvenire. Il disegno che possiamo tentarne di fare è in massima parte solo preparatorio. Anche le più antiche forme di culto, che secondo la leggenda si svolgevano intorno all'arca dell'alleanza, accompagnante gli Ebrei nelle migrazioni e nelle battaglie, si possono comprendere solo in generale.

Parte cospicua debbono avervi avuto gli oracoli, pronunziati dal sacerdote forse per mezzo di frecce contrassegnate. La più antica forma di sacrificio attestata, lo spargimento di sangue di animali, in età preistorica forse di sangue umano, può essersi già in antico sostituita alla cerimonia di bere il sangue, a mo' di comunione con la divinità; l'offerta dell'animale primogenito (agnello) condusse probabilmente alla solennità della Passah [Pasqua]. Ma anche nel culto di Jahwe rimasero tracce dell'antica religione naturalistica, e le idee religiose dei Cananei resero ancor più complicato il culto degli Ebrei, dopo essersi stabiliti nel paese, senza che fossero neppure in seguito del tutto cancellate.

Ad una specie di culto degli antenati è probabile siano da ricondurre i Theraphim, geni del focolare, venerati fin nell'età dei re e motivo a superstizioni d'ogni sorta.
L'arte degli oracoli acquistò nuovi distintivi, fra cui è specialmente ricordato l'ephod, nel quale gl'interpreti più recenti ravvisano l'antico grembiale che cingeva i lombi del popolo egiziano, e più tardi simboleggiava la dignità regale. In quest'ordine di riti rientrano certo anche la circoncisione e certe forme del culto dei morti.
Avanzo di un antico sacrificio di capelli può forse considerarsi il «nasireato», importato nell'epoca nomade e solo più tardi congiunto, dalla popolazione agricola, col voto dell'astensione dal vino.
Anche la santificazione del sabato non può essere anteriore all'epoca dello stanziamento e specialmente le tre feste della raccolta con le relative offerte sacrificali di frumento e frutta, olio e vino sono certo da riportare ad antiche usanze cananee, nelle quali per ora non si scorge chiara la sovrapposizione babilonese.

Bastano questi resti di forme religiose pagane, e più ancora i culti stranieri circondanti da ogni parte Israele, per intendere come a mantenere puro il culto del dio nazionale gli zelanti adoratori di Jahwe dovessero incessantemente lottare contro il politeismo, lotta che rimase continua per tutta la storia israelitica.
Anche dopo che il culto dell'antico dio della guerra fu accentrato, sotto i primi re, nella capitale Gerusalemme, anche quando nel re si vide rappresentata la divinità, accanto al santuario principale non poterono esser soppresse le antiche sedi di culto e di altre divinità (anzi ne sorsero più tardi e nello stesso luogo altre due nuove: la cristiana e la maomettana)

Ci é difatti espressamente attestato che Salomone ed altri re fecero innalzare, per le loro mogli, templi a divinità straniere. Non é qui, come in Egitto o in Babilonia, il sacerdozio che esercita poi l'influenza più persistente sullo svolgimento e il passaggio dall'esoterismo al deciso monoteismo, ma una classe, unica nell'antichità, di uomini divini: la classe dei profeti.
Tra una folla di fanatici religiosi, manipolatori di estasi a mezzo della danza e della musica, di processioni e di canti, crebbero quegli uomini pensierosi e assorti, che affascinavano chi li ascoltava, a cui i re porgevano orecchio e che finirono coll'esercitare una influenza politica sempre più profonda.

Illuminati dalla divinità mediante visioni e sogni, spiegavano il passato e il presente come emanazioni della volontà divina, come ammonizione o minaccia; leggevano nell'avvenire, scorgevano le intenzioni di Jahwe rispetto al suo popolo.
Come gli astrologi di Ninive trasmettevano i decreti del dio del sole, Shamash, ad Asarhaddon e Ashshurbânipal, così i profeti di Israele e di Giuda divennero via via i consiglieri del re e i mediatori fra la divinità e il sovrano e il suo popolo.

Ma appaiono anche come custodi della legge divina. Seppero opporsi, nel loro sdegno, al re la cui esagerata tolleranza verso l'antica idolatria cananea minacciava di compromettere l'esclusivo dominio di Jahwe.
Un Elia lotta contro il tempio di Baal del re israelita Ahab in Samaria; un Isaia ordina al re giudeo Hiskia di distruggere i santuari, memorie di antichi culti di animali ed alberi; il che non valse però ad impedire che già sotto suo figlio, Manasse, i culti assiro-babilonesi facessero il loro ingresso nella Giudea, e risuscitassero remote costumanze pagane.

Nella luce di questa incessante lotta contro la idolatria popolare noi vediamo svolgersi la religione nell'età dei profeti.
Solo quando, al tempo di Ashshurbânipal, i culti stranieri e in specie i babilonesi, furono travolti dall'urto potente dato all'Assiria dalle stirpi indo-germaniche (popoli ariani), questa religione si rinnovò e purificò da cima a fondo.

Il ritrovamento, di lì a poco avvenuto sotto Josia, del supposto libro delle leggi di Mosè, condusse a togliere di mezzo, una volta per sempre, la consolidata adorazione delle immagini e i templi pagani, concentrandosi tutta la religione nel tempio di Gerusalemme.
Però, come aveva saputo predire il profeta Geremia, anche questa riforma fu di corta durata; la distruzione del regno di Giuda trovò il popolo di Jahwe immerso sì in fanatismo religioso, ma senza la purezza della fede.

Il ravvivamento delle sue forme di culto dopo il lungo e difficile periodo dell'esilio, durante il quale un Ezechiele e un Deuteroisaia riuscirono a mantener vivo nel popolo il sentimento nazionale, prende le mosse da quando fu introdotto, sotto Ezra e Nehemia, il codice sacerdotale, col quale s'inizia pure il giudaismo propriamente detto.
Rigida separazione del sacerdozio dal laicato, riforma completa del culto allo scopo di sgombrare di ogni superstizione la fede di Jahwe, valore della predica e della preghiera, immediato sviluppo dell'idea messianica su base escatologica, ecco i fondamenti dell'unica religione monoteistica vitale dell'antichità, divenuta, nel suo retaggio cristiano e insieme all'idealismo ellenico, il più robusto pilastro della nostra propria cultura.

Ci aspetta ora un'altra serie di capitoli su un'altra religione
quella dell'Islam !

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