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135. LA CONTRORIFORMA NEI PAESI BASSI


Guglielmo d'Orange - Il protagonista nella rivolta nei Paesi Bassi

Il Seicento si configura come uno dei periodi più fecondi dell'intera storia dell'Europa moderna. Eppure ci sono stati i fallimenti dei tentativi di riconciliazione religiosa operati alla fine del Cinquecento dal Concilio di Trento, vi è stata accanto a queste lotte religiose l'ascesa economica e politica della Francia, Prussia, Paesi Bassi e Inghilterra che hanno però creato una serie di tensioni che fanno del Seicento un secolo di guerre ininterrotte, e come non bastasse un secolo di carestie, di rivolte e di epidemie. La guerra civile latente od organizzata è insomma permanente, e le grandi questioni politiche dibattute sono essenzialmente le lotte e i tentativi di egemonia della Francia e degli Absburgo che dominano in Spagna, Inghilterra e Germania, ed è una lotta che coinvolge tutta l'Europa. Non è ancora l'Era Moderna della "Grande Politica", perchè ogni lotta è sempre colorata da motivazioni religiose, cioè dagli irrazionali e fanatici contrasti tra cattolici e protestanti, mentre nella sostanza tutti gli avvenimenti bellici sono lotte per la supremazia militare, economica e politica dei sovrani delle grandi potenze. E sono questi ultimi (e subito dopo i loro eredi) i grandi protagonisti.

Il XVI secolo è dunque l'epoca dei grandi caratteri. Il vasto movimento religioso trovò una robusta generazione così dal lato degli innovatori come dal lato dei conservatori aderenti alla vecchia confessione cattolica. L'attacco e la reazione si portarono a termine sotto la guida di uomini di ferrea volontà che seppero mettere in moto la potente leva di vasti programmi ideali: da una parte Lutero, Zwingli, Calvino, Knox, Hutten, Sickingen, Maurizio di Sassonia, Coligny, Guglielmo e Maurizio d'Orange, Elisabetta, Cecil; dall'altra parte Lojola, i papi Paolo IV e Sisto V, l'imperatore Carlo V, Filippo II, il duca d'Alba, Alessandro Farnese; - per ricordare i più eminenti, a fianco dei quali si schierarono molti altri intrepidi e capaci collaboratori e le masse popolari violentemente agitate o sapientemente fatte agitare dalla passione.

Ma è uno spettacolo movimentato e spesso tragico, sanguinoso, in cui si vede, accanto alla nobiltà della coltura ed allo squisito senso dell'arte, alla cortesia e cortigianeria raffinate, dominare al pari una sfrenata ambizione ed una sconfinata crudeltà; e tutte queste buone e cattive qualità si pongono al servizio delle lotte religiose, dando luogo le seconde a frequenti scene di fanatismo raccapricciante. Ma od onta di ciò l'epoca nel suo complesso è così ricca di episodi altamente drammatici da riuscire attraente più di ogni altra della storia.

Al progredire della Riforma, per molti decenni vittoriosa, la chiesa cattolica, sia mediante la sua salda riorganizzazione nel concilio di Trento, sia mediante l'opera dei nuovi ordini religiosi, come i cappuccini, i teatini e specialmente i gesuiti, aveva contrapposto non solo argini poderosi ma anche una energica reazione. Dopo qualche esitazione assunsero le sue difese una serie di potenti dinastie, come gli Absburgo, i Wittelsbach in Baviera, varie dinastie italiane, i re francesi e sopra tutto il figlio di Carlo V, FILIPPO II di Spagna.

 

Nato il 21 maggio 1527, dotato di una solida istruzione e precocemente iniziato alla gestione degli affari di Stato, Filippo rivelò sin dalla giovinezza quella stessa indole che conservò immutata per tutta la sua vita. Semplice, dedito esclusivamente alle cure del governo ed all'esercizio scrupoloso e zelante delle pratiche religiose, dispotico, avverso ad ogni fatica fisica, egli si isolò dai rumori del mondo chiudendosi nel suo angusto gabinetto da lavoro, una specie di cella nel chiostro dell'Escuriale da lui fatto edificare.

Di qui, con un lavoro instancabile che scendeva sino ai minimi particolari, resse i destini del mondo intero. Da qui mosse i diplomatici e i numerosi ed agguerriti eserciti che in tutta Europa stavano al cenno e al volere del romito sovrano. Filippo era di media statura, piuttosto esile, di costituzione delicata; ben presto divenne continuovamente malaticcio e fu soprattutto afflitto dalla gotta fino al punto da rimaner spesso costretto all'immobilità.
Aveva viso regolare, una bella fronte spaziosa, carnagione bianca, naso ben proporzionato e grandi occhi azzurri; solo la bocca era troppo larga e sfigurata da un difetto ereditario nella casa d'Absburgo, il labbro inferiore grosso e pendente; i capelli aveva biondo-chiaro, eredità anche questa dei suoi antenati tedeschi.

La lentezza, il riserbo scontroso e la nessuna espansività, la fredda dignità dei modi, denunziavano quale alto concetto egli avesse della propria posizione. Due soli tratti più blandi addolcivano alquanto questa dura figura: il suo amore per l'arte e la sua inclinazione per le donne cui, malgrado la sua religiosità, non perse occasione fino ad età avanzata.
Egli conservò immutati i suoi ministri più a lungo che fosse possibile; e ciò non per attaccamento o riconoscenza, sentimenti che il suo animo quasi non conosceva, ma per dar prova della sua infallibilità ed accreditarla. Perciò egli lasciò passare persino gravissime colpe senza punirli. Solo quando si credeva offeso personalmente ovvero riteneva che alcuno dei suoi funzionari ostacolasse o minasse i suoi progetti, allora la sorte di costui era decisa irrevocabilmente. «Tra il sorriso del re e il suo pugnale v'è meno di due dita di distanza», soleva dirsi a quei tempi in Spagna.

L'alta nobiltà fu da lui umiliata ed esclusa il più possibile da ogni ingerenza e partecipazione al governo dello Stato. La gestione degli affari pubblici era condotta con minuziosità pedantesca, i provvedimenti, preparati prima in seno ai numerosi corpi consultivi all'uopo costituiti, venivano lungamente e da tutti i lati meditati dal re, le cui decisioni arrivavano tardi, e spesso troppo tardi.
Egli controllava e vagliava ogni più piccolo particolare, persino le notizie geografiche e storiche, degli atti che gli eran sottoposti; e gli archivi di stato ci fanno vedere i margini dei documenti coperti della sua grossa, sgarbata e illeggibile scrittura.
Questo procedimento macchinoso arrecava una infinita perdita di tempo. Ma era proprio quel che Filippo voleva. «Io e il tempo», era il motto di questo sovrano dalle laboriose decisioni. Ma, una volta presa una decisione, era irremovibile nel mantenerla ferma e invariata, anche quando nel frattempo le circostanze erano sostanzialmente cambiate.

Questa sua caparbia ostinazione nelle decisioni adottate gli fu altrettanto pregiudizievole quanto la eccessiva lentezza nel risolversi.
Filippo era contento se i suoi ministri erano in discordia, gelosi l'uno dell'altro e si osteggiavano a vicenda, perché credeva così di non poter essere ingannato da nessuno di loro e di veder meglio salvaguardata la propria autorità. All'inizio del suo regno i suoi consiglieri più eminenti e capaci, per quanto costantemente in discordia tra loro, furono il mite e conciliante Ruy Gomez principe di Eboli, e Fernando de Toledo, duca d'Alba, discendente da una delle più nobili famiglie di Spagna, uomo orgoglioso e duro, ma per la sua grande esperienza politica e soprattutto per la sua capacità militare indispensabile al re, al quale era anche legato dallo stesso fanatismo nazionale e religioso.

Eppure, ad onta di tanto fanatismo, Filippo non era un buon cattolico nel senso della chiesa medioevale e della stessa chiesa dei nostri tempi, giacché non fu un figlio obbediente della Chiesa, ma volle essere il suo tutore e capo temporale e pretese di esercitare una influenza dominante sulla sua politica e persino sul suo indirizzo dogmatico.
D'altro canto egli riuscì talmente a sottrarre all'autorità di Roma il clero spagnolo ed a subordinarlo talmente alla corona, coll'avocare a questa la nomina a tutti gli uffici ecclesiastici redditizi e col sottoporlo ad una rigorosa sorveglianza da parte delle autorità statali, che rimase ormai collegato alla Santa Sede dal solo vincolo della fede, non più da quello dell'organizzazione e della disciplina e considerò come suo capo e superiore gerarchico il re.

Lo Stato moderno non riuscì mai più in seguito ad esercitare poteri e diritti così ampi sul clero cattolico. Quanto poi allo stesso papa, Filippo stimò che per la causa della religione cattolica esso contasse assai meno del potente re di Spagna e pretese che dovesse cooperare pedissequamente all'attuazione dei suoi disegni nel campo politico ed ecclesiastico.
Tanto più questo gli sembrò poi necessario, in quanto da un lato considerò il trionfo del cattolicesimo come una condizione imprescindibile dell'ampliamento della propria potenza personale e della potenza del suo paese, e dall'altro si ritenne indispensabile alla vittoria dello stesso cattolicesimo. È perciò che la sua azione politica si colorì sempre di fanatismo religioso e il fanatismo divenne elemento integrante della sua ambizione politica personale; e lo stretto connubio dell'ambizione politica con lo zelo religioso conferì alla condotta di Filippo II e dei suoi fidi strumenti quella tremenda, spietata, tenace energia che li distinse, frutto della convinzione che fosse lecito e doveroso abbattere ogni ostacolo anche con i mezzi moralmente più riprovevoli, perché essi erano destinati a condurre alla vittoria la causa di Dio.

Così facendo Filippo agiva in piena consonanza con le idee e i sentimenti della grande maggioranza degli spagnoli, e principalmente dei castigliani, che li preferì sotto ogni riguardo e soprattutto li prescelse quasi esclusivamente come suoi consiglieri e coadiutori. E a dire il vero, al pari del loro re, i castigliani si ritenevano chiamati a conquistare e dominare il mondo con la spada in una mano e il crocifisso nell'altra, a maggior gloria di Dio, ma anche della nobile Spagna, baluardo della fede.

Eppure ogni nuovo tentativo di ampliamento dei dominii spagnoli nascondeva un serio pericolo, perchè, già allo stato attuale, la loro immensa estensione costituiva per la Spagna una causa di debolezza. Come poteva infatti alla lunga reggere al peso uno Stato che doveva provvedere agli interessi e alle esigenze della Spagna e dei Paesi Bassi, di mezza Italia e dell'America centrale e meridionale, e difendere tutti questi territori così lontani l'uno dall'altro contro numerosi nemici e rivali? Era necessario per far questo un complicato meccanismo amministrativo che ingoiava un tempo prezioso e una quantità enorme di denaro, e, date specialmente le difficili e lente comunicazioni d'allora, raramente consentiva di fare al momento giusto quanto era richiesto dalle circostanze.

Erano queste ragioni di debolezza, che avrebbero in genere impedito a chiunque nell'epoca moderna di riuscire nel tentativo di conquistare un dominio universale; ma le particolari qualità di carattere del popolo spagnolo aggiunsero ulteriori difficoltà. Le sue lunghe lotte con i Mori, nemici contro i quali aveva fatto nascere oltre all'odio politico, l'odio di razza e l'odio religioso, lo avevano abituato all'oppressione implacabile di qualsiasi nazione straniera conquistata in guerra; i vinti o erano sterminati oppure venivano sottoposti ad un crudele atroce sfruttamento a favore dei vincitori.
L'arte di assimilarsi o almeno di conciliarsi le popolazioni straniere era rimasta ignota agli spagnoli. In America essi si comportarono esclusivamente da conquistatori, anzi da carnefici; in Italia e nei Paesi Bassi governarono con le fortezze, le guarnigioni, il boia e l'inquisizione.
Solo il filo della spada e la fiamma dei roghi essi seppero adoperare, mai l'abilità politica o una saggia moderazione, e per questo motivo erano rabbiosamente odiati da tutti i popoli assoggettati, che con l'animo pieno di cocente rancore anelavano al momento di poter scuotere il loro giogo che li umiliava; tutti aspettavano il giorno e l'uomo che li avrebbe distrutti. Ma a facilitare quest'opera di distruzione furono gli stessi spagnoli.

Questi rilievi giovano a valutare le condizioni reali dello stato spagnolo, in contrasto con la sua immagine esteriore che appariva assai brillante. La sua popolazione, per quanto non del tutto proporzionata alla sua vasta estensione, superava ad ogni modo notevolmente quella degli altri Stati dell'epoca.
Filippo regnava in Europa su 20 milioni di sudditi, mentre la popolazione della Francia ammontava a poco più di metà di questa cifra e la popolazione inglese arrivava appena ad un quarto.
Anche le entrate annue di cui poteva disporre il re di Spagna superavano di gran lunga quelle di ogni altro principe cristiano, elevandosi a 5 milioni e mezzo di ducati. Tuttavia le spese, compresi gli interessi del rilevantissimo debito pubblico, assommavano a 6 milioni e mezzo di ducati, e il deficit veniva coperto col malefico espediente della vendita delle dignità o cariche amministrative e giudiziarie e con imposte straordinarie, il cui peso era riversato tutto sulle spalle delle popolazioni dei paesi soggetti, risparmiando scrupolosamente gli spagnoli.

I paesi della corona d'Aragona avevano conservato le loro libere istituzioni politiche. Ma questo garbava a Filippo come una spina in un occhio; ed egli infatti nel corso del suo regno riuscì a ridurre al minimo quelle libertà, versando il più nobile sangue aragonese, con l'aiuto dell'inquisizione a lui assolutamente devota e che infierì senza riguardo nè a rango nè a meriti.

Quanto agli altri territori del regno, egli li governò - per usare l'espressione d'un contemporaneo ben informato - con una sbarra di ferro. Qual gran maestro dei tre ordini cavallereschi esistenti in Spagna, Filippo ne distribuì a suo piacimento le ricche commende, rendendosi con questo mezzo assoluto padrone della bassa nobiltà, per lo più povera. Mentre l'alta nobiltà la ridusse all'obbedienza mediante l'Inquisizione che era istituzione ecclesiastica e statale nello stesso tempo.
A datare dal 1538 le sole città contribuirono a costituire le cortes castigliane, inviando ciascuna, dietro invito del re, due «procuratori » come rappresentanti. Ma la corte seppe costantemente trarre dalla sua e tener ligi ai suoi voleri questi cittadini adoperando un abile sistema di corruzione e con il soprappiù le minacce. A Napoli poi, in Sicilia ed in Sardegna i rispettivi vicerè governarono a loro assoluto arbitrio; e poteri quasi altrettanto illimitati ebbe il governatore di Milano.

Il principale fattore e strumento della potenza spagnola era l'esercito, a quei tempi il primo del mondo per valore, disciplina e perizia, e la cui organizzazione venne imitata in tutta Europa. L'instancabile perseveranza e l'intrepidezza dell'elemento spagnolo, la foga irruente degli italiani e la massima prestanza dell'elemento vallone concorrevano alla mirablle efficienza bellica di queste milizie, affidate al comando di abili ed animosi generali.
Le fanterie erano suddivise in reggimenti; ciascun reggimento (« tercio ») su tre battaglioni (« coronelias ») contava circa 3.000 uomini ed era comandato da un «maestro de campo ». Parte delle 12 compagnie di ciascun reggimento era composta di alabardieri, il resto di archibugieri; ma presto il leggero archibugio fu soppiantato dal pesante moschetto, che non si poteva sparare se non appoggiandone la canna su un bastone a forcella che il moschettiere doveva portar con sé.
La cavalleria annoverava una cavalleria pesante costituita dai gendarmi, una cavalleria leggera (i « ginetas ») ed una specie di dragoni che venivano chiamati archibugieri a cavallo; in tutte queste specialità l'unità massima era la compagnia, di forza corrispondente a parecchi degli odierni squadroni. Con i 30.000 uomini che in complesso formavano queste milizie, mantenute costantemente in armi, il re di Spagna possedeva il più grande esercito stanziale dell'Europa d'allora.

La flotta spagnola era del pari la più potente della cristianità, era seconda solo rispetto alla flotta turca. In tempo di pace essa contava da 60 a 70 galere, montate (a prescindere dai soldati di marina e dai marinai) da 8.500 rematori, per la metà schiavi; giacché queste galere andavano normalmente a remi e solo eccezionalmente a vela. Anche la flotta poi in tempo di guerra fu rafforzata e portata a tal grado di potenza che nessun'altra riuscì a competere con essa.

Filippo aveva dunque a sufficienza risorse per l'attuazione dei suoi vasti progetti politici e religiosi. Perciò gli fu facile riuscir nell'intento allorché concepì il suo grande piano, quello di imporsi anche all'Inghilterra.


Questa, dall'avvento al trono della dinastia dei Tudor (1485), si trovava in via di progressiva trasformazione da paese meramente agricolo in paese prevalentemente commerciale e industriale. Con una serie di misure protezioniste re Enrico VIII aveva ridotto in mano di elementi nazionali il commercio estero del suo regno, sino allora esercitato da intermediari stranieri. Così pure aveva sviluppato straordinariamente la grande industria, specialmente nel ramo della fabbricazione delle stoffe, a spese dell'artigianato e della piccola industria prima fiorenti.

La flotta inglese, sino allora debole, fu da lui portata ad alto grado di efficienza, dotandola di 53 navi con 5.136 marinai, 1.885 soldati, 759 artiglieri, 235 cannoni di bronzo e 2.752 cannoni d'acciaio; Enrico inoltre fu il primo monarca cristiano che creò una speciale categoria professionale di ufficiali di marina. La marina da guerra inglese aveva pure rinunciato all'antiquato sistema di propulsione a remi delle sue navi, facendo affidamento sulla propria perizia nell'impiego delle vele.
Dopo la morte precoce dell'unico figlio di Enrico, Eduardo VI (1553) l'introduttore della Riforma in Inghilterra, salì al trono l'altra figlia Maria ch'egli aveva avuta dalla prima moglie Caterina d'Aragona e che i cattolici zelanti guardavano già da tempo come il proprio capo. E costoro erano tuttora superiori di numero in Inghilterra, giacché soltanto i borghesi colti e benestanti delle città avevano abbracciato la Riforma, mentre la vecchia nobiltà e la popolazione rurale erano rimaste attaccate alla confessione cattolica.
Maria Tudor, educata dalla madre spagnola al cattolicesimo intransigente, si pose decisamente per la via della reazione. I vescovi cattolici deposti sotto Edoardo VI vennero ripristinati nel loro ufficio, mentre i vescovi protestanti furono espulsi o addirittura incarcerati nella torre di Londra.
Col tempo quasi tutto il clero inglese fu rinnovato con elementi di rigidi sentimenti cattolici. Si ebbero bensì rivolte di protestanti nelle città; ma esse furono tanto più facilmente domate, in quanto le elezioni al Parlamento diedero una maggioranza favorevole al governo. E questo agiva immediatamente con la più dura repressione.

Maria che si preoccupava di rafforzare la propria posizione, venne agevolmente conquistata al progetto di un matrimonio col potente erede del trono di Spagna, con Filippo II, che da tempo era rimasto vedovo della prima moglie Maria di Portogallo, la madre di don Carlos.


Qui re Enrico VIII e la figlia Maria Tudor
avuta dal matrimonio con Caterina d'Aragona, poi ripudiata nel 1533 per sposare Anna Bolena
.

E nel luglio 1554 fu effettivamente celebrato questo matrimonio tra il giovane e avvenente principe spagnolo, appena ventisettenne, e la Tudor, di undici anni più vecchia di lui, sgradevole nell'aspetto ed armata per giunta di una grossa voce di timbro maschile.
Come facilmente succede alle zitellone, essa si innamorò pazzamente del giovane marito, il quale però non poté mai corrisponderle. Ma questi si valse dell'ascendente che aveva sulla regina e dell'autorità che godeva presso i suoi devoti per affrettare il cammino della controriforma in Inghilterra ed soggiogare completamente questo Stato al carro della politica spagnola.

A condizione che i beni ecclesiastici incamerati ed alienati sarebbero stati conservati anche in avvenire agli attuali possessori, il Parlamento inglese acconsentì al ripristino della supremazia religiosa del papa in Inghilterra e al richiamo in vigore delle vecchie leggi penali contro gli eretici. Né si trattò di un semplice richiamo a parole; numerosi protestanti vennero arsi sul rogo, e la persecuzione religiosa fece più di duecento vittime. Se altrove gli stermini furono più vasti e operati alla cieca, in Inghilterra con una sistematica politica repressiva si cercò di eliminare gli uomini più influenti, tutti i sostenitori del movimento di riforma.

Dal punto di vista morale si può anche non far carico a Maria Tudor di tali atrocità, perché essa sinceramente reputava suo diritto e suo dovere estirpare con mano ferrea l'eresia per salvare il popolo a lei affidato dalla perdizione. Essa credeva di adempiere così al suo più sacro dovere di sovrana e di essere una vera benefattrice dei suoi sudditi. Altra cosa è vedere se dal punto di vista politico essa abbia agito saggiamente instaurando una così insistente violenta reazione, ovvero se non sarebbe stato più opportuno adottare un sistema di maggior moderazione.

Gli inglesi non erano dei fanatici come gli spagnoli. Se in seno al popolo inglese il protestantesimo conseguì ben presto piene vittorie, lo si dovette soprattutto all'orrore che in esso avevano suscitato le pene capitali e le fiamme dei roghi.


Per il momento tuttavia i disegni di Filippo trionfarono nel campo religioso. E non minore successo egli ottenne nel campo politico, perché, contrariamente ai veri interessi dell'Inghilterra ed al sentimento del popolo inglese, riuscì ed indurre Maria che lo amava teneramente ed allearsi con lui contro la Francia, con la quale le Spagna era nuovamente in guerre dell'anno 1552.

Personalmente Filippo non era un soldato e tanto meno un generale, lui preferiva la clausura nel suo eremo; in sua vece guidò l'esercito spagnolo il duce Filiberto Emanuele di Savoia, che a S. Quintino sconfisse completamente e prese prigioniero il conestabile di Francia, Anne de Montmorency.
Per riconoscenza verso il santo del giorno delle battaglia, S. Lorenzo, il pio Filippo II edificò il colossale chiostro dell'Escuriale, a forme di graticola sulle quale, secondo la leggende, lo stesso santo aveva subito il martirio. L'edificio costò 8 milioni di ducati.

Quando l'ambasciatore portoghese ebbe un accenno alla grandiosità di questo palazzo che gli serviva solo come convento, Filippo esclamò: «Quanto deve essere stata antecedentemente grande l'angoscia di colui che lo ha fondato! ».

Tuttavia gli spagnoli non misero a profitto convenientemente le loro vittorie e nell'incertezza i francesi, condotti dal duce Francesco di Guisa, si impadronirono in pochi giorni della piazzaforte di Calais, l'ultimo possedimento degli inglesi in terra di Francia, l'unico trofeo che ancora loro rimaneva delle splendide vittorie di Crecy, Poitiers ed Azincourt. Tutta la Francia accolse con giubilo questa vittoria che cancellava finalmente le vergogne delle sconfitte subite nelle guerre con l'Inghilterra e rimarginava pienamente le ferite delle patria (gennaio 1558).

Per la verità questo successo fu poco dopo turbato dalle disfatta che Lamoral conte di EGMONT, gentiluomo pieno di ardore, magnanimo e prode, ma anche orgoglioso e presuntuoso, inflisse il 13 giugno 1558 a Gravelines ai francesi che avevano invaso le Fiandre al comando del maresciallo de Termes; ma questa vittoria non ebbe solo l'effetto di ristabilire l'equilibrio tra francesi e spagnoli. I due re finirono per essere stanchi entrambi di una guerra che durava già da tanto tempo senza condurre ad un qualcosa di risolutivo inoltre stremava le loro finanze e i loro popoli. Si aggiunga che il protestantesimo levava sempre più audacemente il capo nei Paesi Bassi, in Francia e persino in Spagna; e questo allargarsi destò le preoccupazioni dei due monarchi, i quali avrebbero preferito unire piuttosto le loro forze nella lotta contro e nemici della Chiesa.

Un ostacolo alla pace era però Calais, in quanto i francesi non volevano saperne di restituirla per non riaprire agli inglesi le porte di casa loro, mentre Maria Tudor non intendeva rinunziare al possesso di quella città e Filippo non poteva sicuramente lasciare in asso la propria moglie ed alleata. Alla fine anche questo ostacolo scomparve con la sparizione di Maria.
Questa si era vista ben presto abbandonata dal marito che era stanca di lei e per il momento aveva raggiunto e suoi scopi in Inghilterra. In seguito, visto che le prospettive di un lieto evento che avrebbe assicurato un erede cattolico al trono inglese se erano tramutate nella constatazione di un principio di idropisia nella moglie, Filippo rinunziò per ora alla speranza di una permanente egemonia sull'Inghilterra e si disinteressò delle cose inglesi. Maria da un lato si struggeva dentro di sé per l'infedeltà del consorte, e dall'altro sentiva bene che la ostinata assenza di lui e il pessimo esito della sua sperata maternità l'avevano piombata nel ridicolo.

La disillusione e la disperazione diedero a questa donna quasi a compensazione la tenacia di un fanatico bigottismo. Contrariamente ai moniti del suo stesso ministro, di Filippo II, e persino del legato pontificio, essa inasprì ed affrettò la reazione cattolica nel proprio stato, ed arrivò a minacciare la revoca dei beni ecclesiastici dalle mani degli attuali possessori e la loro restituzione alla Chiesa, benché ciò avrebbe significato il dissesto economico di 40.000 famiglie della nobiltà e della gentry. Bastò questo per produrre delle ribellioni e non mancarono dei potenti lords i quali proclamarono che fino a quando loro rimaneva una spada al fianco non avrebbero restituito gli ex-beni dei conventi.

Il raccolto era stato per parecchi anni cattivo e la carestia e la peste avevano desolato il paese; si dice che in due anni fosse perito un terzo della popolazione inglese. I frequenti supplizzi di ribelli bollati sempre come eretici avevano causato l'orrore e il disgusto del popolo contro un governo che era capace soltanto di infierire contro gli inermi, mentre di fronte ai francesi non subiva che sconfitte. L'irritazione e il fermento erano al colmo, quando con generale soddisfazione Maria Tudor il 17 novembre 1558 chiuse la sua tormentata esistenza. E la sua dipartita segnò pure la fine della reazione cattolica in Inghilterra.

La sua morte tornò utile persino ai suoi stessi amici. Infatti nell'aprile 1559 fu conclusa la pace di Cateau-Cambrésis che restituì alla Spagna ed alla Savoia le 196 piazzeforti che Francesco I ed Enrico II di Francia avevano tolte agli inglesi. Chi pagò le spese della pace, fu l'Inghilterra da un lato che perdette definitivamente Calais e l'impero germanico dall'altro che ci rimise i tre vescovadi lorenesi di Metz, Toul e Verdun.

Il trattato ora menzionato fu tanto più vantaggioso per la Spagna, in quanto la Francia, da questo momento e per lungo tempo, si accordò e rimase ligia alla politica di restaurazione cattolica capitanata da Filippo II. Conveniva ora metter fine violentemente all'eresia in Italia, in Spagna ed in Francia.

In Italia, che per metà era suddita immediata della Spagna (Milano, Napoli, Sicilia e Sardegna) e per l'altra metà era soggetta alla sua egemonia, le prime apparizioni del protestantesimo avevano già provocato energiche repressioni. Qui papa Paolo III aveva introdotto nel 1542 l'inquisizione sull'esempio della Spagna e l'inflessibile, rigido e intransigente cardinal Caraffa l'aveva organizzata.

L'Italia nella sua condizione di quasi totale asservimento alla Spagna e per la posizione geografica che la trasformò in teatro d'azione nella guerra contro la Francia, per tutto il seicento soffrì di una progressiva decadenza sotto ogni aspetto. Le distruzioni belliche, le carestie e le pestilenze, il pessimo governo spagnolo, agirono non solo sulle sorti economiche della penisola, ma ebbero ripercussioni sul morale stesso degli italiani.
Tutte le intense e svariatissime attività che avevano avuto vita e prosperità durante il Rinascimento si spensero trasformando il volto del Paese, che diventò esclusivamente agricolo, povero e arretrato, lasciato nelle mani di un'aristocrazia fondiaria inerte e popolato da masse di contadini miseri e ignoranti. Qualceh volta il malcontento sfocerà in ribellioni, ma senza conseguenze costruttive.

L'inquisizione in Italia colpì in modo determinato gli eretici più ragguardevoli o più altolocati (erano del resto questi che possedevano grandi patrimoni). Per sfuggirle il generale dei cappuccini Bernardino Ochino generalmente ammirato per la sua trascinante eloquenza, ma reo di tendenze protestanti, dovette rifugiarsi all'estero. E numerosi altri innovatori, palesi e sospetti, ne seguirono l'esempio. Chi fra costoro rimase in patria finì in carcere o sul rogo, specie dopo che lo stesso Caraffa si mise sul capo la tiara e salì sul soglio col nome di Paolo IV. Sotto di lui vennero processati per eresia i vescovi Foscarari di Modena e San Felice di La Cava, e persino un principe della Chiesa, il cardinal Morone.
La più famosa donna d'Italia, la poetessa Vittoria Colonna, amica e protettrice di Michelangelo, fu salvata soltanto dalla morte dagli artigli dell'inquisizione. Nessuno in Italia con l'inquisizione fu più sicuro. Bastava un'accusa infondata e si finiva davanti al tribunale che impiegava poco per emettere una sentenza.

Le accademie di Modena e Napoli simpatizzanti per la Riforma dovettero sciogliersi. Né il suo alto rango ecclesiastico salvò dal carcere e da una morte obbrobriosa il protonotario pontificio Carnesecchi, né la sua fama scientifica il professore milanese Paleari. A nulla giovarono il rango principesco ed il sangue reale alla duchessa Renata di Ferrara, per molti anni protettrice di tutti coloro che erano animati da sentimenti protestanti; col consenso di suo marito, che da lungo tempo si era stancato di lei, non bella, essa venne separata dai suoi figli e tenuta segregata sotto buona custodia sinché si perdette d'animo e abiurò il protestantesimo.

Ben presto questa confessione fu eliminata dall'Italia; del resto con il terrore senza troppa fatica; tuttavia il protestantesimo non aveva trovato né simpatia né diffusione nel popolo ed aveva attecchito soltanto presso alcuni ceti più colti, e come già detto presso quei borghesi che con l'intraprendenza cavalcavano il cosiddetto "spirito dei tempi".

Maggior resistenza offrì il movimento riformatore nella Spagna, benché anche qui esso abbia incontrato scarso consenso nelle masse ed abbia interessato poche persone delle classi colte. Ma Filippo II lo represse con mano ferrea. Il capeggiatore di questo movimento, Agostino Cazalla, famoso predicatore e un tempo cappellano di corte, fu arso sul rogo a Walladolid, la capitale allora della Spagna, insieme con parecchi altri ecclesiastici e con alcuni nobili, il 21 aprile 1559, pochi mesi dopo la pace di Cateau-Cambrésis. Grande cerimonia sul sagrato, poi sul rogo o a penzolare dalle forche.


La tetra camera delle torture - Alla destra il reverendo Cattolico Inquisitore

L'8 ottobre dello stesso anno si ebbe un altro autodafé, cui assisterono il re, il suo figliolo giovinetto don Carlos, l'intera corte e centinaia di migliaia di spettatori, giacché il popolo spagnolo fanatico e di indole crudele, accorreva a questi supplizi con maggior voluttà che non al teatro o alle corride dei tori.

Durante questo periodo trovarono la morte nelle fiamme personaggi delle più nobili famiglie spagnole, e il grande inquisitore Fernando Valdes, arcivescovo di Siviglia, ottenne che persino il capo della Chiesa spagnola, l'arcivescovo Bartolomeo Carranza di Toledo, fosse arrestato come sostenitore all'eresia luterana e gettato in un'orrida prigione, ove languì otto anni, finché il papa lo chiamò dinanzi al proprio tribunale. Nove anni ancora egli rimase in carcere a Castel S. Angelo in Roma, e solo pochi giorni prima della sua morte, previa la ritrattazione dei suoi errori, venne confinato in un convento (1576).

Non meno dura fu la repressione del protestantesimo in Andalusia. Il capo del movimento protestante in questa regione, il canonico Costantino Ponce de la Fuente, fu gettato in un carcere così orrendo che dopo breve tempo vi morì di malattia (1559). I suoi seguaci vennero raggiunti tutti dall'inquisizione; lo stesso anno 1559 vide la fine delle comunità protestanti di Siviglia e Valladolid. In complesso nella sola Siviglia vennero punite dall'inquisizione 800 persone imputate di luteranesimo. Ed anche in altre città e nei successivi anni si accesero i roghi degli eretici.

Nel campo intellettuale si stese sulla Spagna il silenzio della morte; ognuno tacque nel terrore che una parola sbadata, un gesto irriflessivo, non lo facesse cadere in sospetto di scarsa ortodossia. È facile immaginare quanto una simile oppressione dovesse riuscire deleteria al progresso intellettuale del popolo spagnolo.
Si pensi che Filippo vietò persino ai suoi sudditi di frequentare scuole estere per erigere una barriera insuperabile tra la Spagna e la vita spirituale del resto d'Europa. Vi sono scrittori spagnoli, anche recenti, che elogiano come un atto di saggia politica l'eliminazione completa delle differenze di confessione religiosa in Spagna, perché, essi dicono, l'unità religiosa è servita a consolidare anche l'unità politica.
Certamente; ma al prezzo troppo caro dell'arresto di ogni sviluppo spirituale della nazione. Che cosa giovò alla Spagna la sua maggiore unità, se la soppressione di ogni libertà di pensiero la portò ad una precipitosa decadenza?

Non diversamente che nella Spagna e nelle province italiane, Filippo intese estirpare la eresia nei Paesi Bassi a lui soggetti.
Le diciassette province dei Paesi Bassi erano venute ad adunarsi tutte nelle mani della casa di Borgogna prima, e poi di quella d'Absburgo, attraverso varie vie: l'eredità, la vendita, la forza. Nel complesso un territorio ragguardevole, perché, se ne rimaneva tuttavia fuori Liegi, che nell'organizzazione dell'Impero costituiva principato a sé sotto un principe-vescovo, vi rientravano invece allora tutto il Lussemburgo comprese le sue regioni ora pertinenti alla Lorena ed alla Renania, l'odierna Fiandrs francese, e l'odierno Hainaut ed Artois.

Carlo V col trattato di Augusta del 1548 aveva fatto di queste province uno stato unico ed in realtà uno stato a sé, benché nominalmente contasse ancora tra i dipartimenti dell'impero; il che aveva provocato il graduale formarsi di un sentimento nazionale comune in seno a quelle popolazioni. Carlo V si impegnò pure di abbassare e disarmare le ribelli autonomie particolari che gli avevano create tante difficoltà in questi paesi; ma lo fece più con l'abilità che con la violenza; egli lusingò e accarezzò in tutti i modi questi suoi sudditi, si servì a preferenza di loro, attrasse nel suo entourage le famiglie nobili più influenti. E, in luogo degli stati provinciali, convocò gli stati generali, i quali, composti di delegati dei primi, erano destinati a rappresentare il paese intero.

Tutto questo gli giovò, sia per rinsaldare il sentimento unitario nel nuovo Stato, sia per ottenere più facilmente i contributi di denaro che a causa delle sue guerre quasi ininterrotte egli ebbe bisogno di chiedere continuamente ai Paesi Bassi. E si trattò di contributi rilevanti; mentre infatti l'America rendeva allora raramente più di un milione e 200.000 ducati annui, i Paesi Bassi rendevano annualmente 5 milioni di ducati. Ciò spiega l'importanza straordinaria che la Spagna aspirava al dominio su queste regioni e spiega gli enormi sacrifici che più tardi fece Filippo II per non lasciarsele sfuggire di mano.

Malgrado l'esosità delle imposte, le condizioni economiche dei Paesi Bassi erano floridissime. Carlo aveva parificato i loro commercianti ai commercianti spagnoli, ond'essi parteciparono in misura considerevole ai cospicui guadagni del traffico con l'America in via di continuo sviluppo e soprattutto del trasporto dei prodotti americani verso le regioni occidentali e settentrionali d'Europa.
Anversa, dotata di completa libertà commerciale, divenne non solo il più ricco centro monetario, ma anche il primo porto del mondo, l'emporio delle merci americane e nord-europee. Anversa disponeva di 4500 navi mercantili proprie e nel suo porto si aveva fra entrata ed uscita un movimento giornaliero di circa 500 navi, mentre settimanalmente ne partivano 2000 diretti in Germania ed in Francia. «Il mondo è un anello ed Anversa ne è il diamante», diceva un motto dei tempi.

Nel nord dei Paesi Bassi emergeva poi Amsterdam per la sua industria della pesca delle aringhe che occupava più di 20.000 famiglie e per il suo vasto commercio di cereali. Del resto in tutto il paese l'agricoltura, l'industria della birra, e la fabbricazione dei panni, merletti e velluti erano fiorentissime. 208 città murate, 150 grosse borgate e più di 6.300 villaggi si ergevano in mezzo a queste regioni accuratamente coltivate, che in complesso annoveravano 700.000 case abitate. Il denaro era abbondante e quindi le merci avevano prezzi elevati; forse costavano il doppio di quel che costavano in Francia. La massima generale era di "vivere e lasciar vivere".

Il livello medio di cultura di questo popolo benestante era molto elevato; gli stessi contadini sapevano leggere e scrivere. Questa eccezionale diffusione della coltura aveva a sua volta contribuito molto alla rapida diffusione della Riforma che Carlo V non era riuscito ad impedire ad onta dei divieti e delle persecuzioni.
I progressi del protestantesimo erano stati molto maggiori nelle province di stirpe tedesca, mentre le province vallone si erano tenute prevalentemente ferme alla fede cattolica. Al momento in cui Filippo II assunse di persona il governo dei Paesi Bassi, la Gheldria e l'Olanda erano piene di protestanti, più a sud era Anversa il centro del protestantesimo, dal quale la nuova dottrina si era diffusa largamente nel Brabante e nella Fiandra francese. Si può dire che nessuna provincia era completamente immune dall'eresia.

Ma Filippo II era risoluto ad estirparla anche qui ad ogni costo. Inoltre egli intendeva ridurre quei paesi - da tempo abituati alla libertà politica e dotati di numerosi privilegi - ad una più stretta subordinazione al governo centrale, in altri termini avviare le cose verso l'abolizione totale della loro autonomia. Perciò vi installò dei fidi consiglieri di nazionalità straniera e vi lasciò, in contrasto con le leggi costituzionali vigenti per le diciassette province, anche dopo la conclusione della pace, delle guarnigioni spagnole composte di soldati stranieri. Poi se ne tornò in Spagna, il centro della sua potenza ed il solo luogo ove si sentiva a suo agio in mezzo ai suoi castigliani, fedeli, abituati alla sottommissione, rigidi, taciturni e attaccati all'etichetta.

Sua luogotenente nei Paesi Bassi divenne la duchessa Margherita di Parma, figlia di Carlo V e della contadina fiamminga Giovanna van der Gheenst, donna di intelligenza pronta e perspicace, laboriosa e di instancabile diligenza, ma sfornita di occhio politico acuto e lungimirante e priva di criterio nell'agire. Fedele cattolica, essa era incondizionatamente devota al suo real fratellastro. Tuttavia le sue facoltà erano piuttosto ristrette e rigorosamente determinate, perché Filippo fu sempre animato da una vigile diffidenza verso i suoi prossimi parenti. Il governo vero e proprio era affidato ad una consulta composta di poche persone, con a capo Antonio Granvella, vescovo di Arras, esperto uomo di stato che dalla gioventù era stato addestrato alla gestione degli affari pubblici da suo padre, cancelliere di Carlo V, filologo e giurista eminente, e dal punto di vista politico niente affatto tenero degli spagnoli come tali, ma invece ardentemente devoto alla causa del dominio universale della casa d'Absburgo, al cui servizio pose senza riserve né limiti tutte le forze del suo ingegno e la sua immensa attività, la sua inesorabile energia.

Accanto alla consulta funzionava anche il consiglio di Stato, composto dei più alti funzionari e dei principali membri dell'alta nobiltà del paese; ma il suo potere era affatto illusorio ed apparente.
Ma di questo per l'appunto si rodevano le popolazioni paesane. Non solo dovevano sopportarsi un sovrano straniero, che si considerava spagnolo e soltanto spagnolo, che non le comprendeva e che esse non comprendevano, ma dovevano anche vedere il governo effettivo nelle mani di stranieri sorretti da truppe straniere: e tutto ciò contro la lettera e lo spirito della loro costituzione.
Per mantenere questi stranieri (specialmente gli odiati spagnoli) erano costretti a pagare imposte gravose. Da questo momento tra i protestanti latenti fece sempre maggiori progressi lo spirito combattivo del calvinismo in sostituzione del luteranesimo pacifista. I più ricchi fra i nobili che dal nuovo re si erano visti spogliati a favore degli spagnoli delle alte cariche che occupavano sotto suo padre, attizzarono il fuoco del malcontento.

Alla loro testa stava Guglielmo di Nassau, possessore di vasti beni nei Paesi Bassi e titolare del principato sovrano di Orange nel mezzogiorno della Francia che gli era pervenuto in via di eredità. Nato nel 1553, questo giovane precocemente maturo, freddo calcolatore e d'ingegno versatile, che sotto apparenze sempre sorridenti celava una cocente ambizione, era stato dall'imperatore impiegato in diversi importanti uffici politici e militari; Filippo poi lo aveva relegato nel consiglio di Stato di cui si è detto sopra. Lo stesso era accaduto al vincitore di Gravelines, conte Lamoral di Egmont, generale di valore, ma di animo semplice e quindi cattivo politico; incapace di indovinare le vere intenzioni dell'astuto Orange, egli di nulla sospettando si alleò con quest'ultimo nell'opposizione a Granvella, convinto come era, sebbene falsamente, che fosse da attribuire solamente a colpa di costui se egli ed in genere l'alta nobiltà si vedevano defraudati della debita partecipazione all'effettivo governo del paese.

L'Orange invece mirava in realtà al completo rovesciamento dell'assolutismo politico e religioso instaurato dagli spagnoli nei Paesi Bassi. Figlio di genitori luterani, egli esteriormente parteggiava senza riserve per i cattolici, mentre nei fatti sposava in seconde nozze la principessa luterana Anna di Sassonia e allacciava amichevoli relazioni con i protestanti tedeschi e francesi. Nel primo periodo della sua attività politica Guglielmo d'Orange fu indubbiamente un abile intrigante senza scrupoli.

Il malcontento generale aumentò quando Filippo nel 1561, in contravvenzione alle leggi vigenti per i Paesi Bassi, vi aumentò il numero dei seggi vescovili, portandoli da sei a diciassette, nel duplice intento di rafforzare la disciplina e la vigilanza ecclesiastica e sminuire l'autorità delle influenti personalità laiche. Il fatto poi che Granvella, nominato arvicescovo di Malines, divenne primate della chiesa dei Paesi Bassi, e cumulò quindi la suprema autorità religiosa alla suprema potestà civile, non fece che rendere più odioso il provvedimento, in quanto esso apparve per questo anche più minaccioso per la libertà e l'indipendenza del paese.
Qui i cittadini erano in maggioranza cattolici, ma anche costoro non volevano né una politica interna di oppressione religiosa a spese della libertà personale di cui erano sopra ogni altro gelosi, né una politica estera di propaganda cattolica a spese del pacifico sviluppo della loro patria e a costo dell'aggravamento della pressione tributaria.
Ciò che volevano era di non alterare la fondamentale linea pacifista "del vivere e lascia vivere", dettata dalla laboriosità degli abitanti; e se attecchì il Calvinismo è perchè questa esaltava il lavoro e il successo negli affari, nell'attività agricola e mercantile. E fu proprio questa scelta di campo che portò i Paesi Bassi in breve tempo a diventare la seconda potenza economica europea.


La situazione dei Paesi Bassi dopo il trattato di Westfalia - 1648

D'altro canto il numero dei riformati andava continuamente crescendo. Da Ginevra vennero dei predicatori calvinisti e dalla Francia e dall'Inghilterra immigrarono numerosi riformati che si crearono nelle città, e specialmente ad Anversa, una nuova patria. Lì formarono le prime comunità calviniste che si adunavano in sinodi segreti ed anche pubblicamente per l'esercizio dei loro riti religiosi. I governatori delle singole province, tutti indigeni, per lo più li lasciarono indisturbati.

Incoraggiati dalla generale ondata di opposizione, Guglielmo d'Orange ed Egmont attirarono nella loro alleanza anche il conte Hornes, l'ammiraglio dei Paesi Bassi, un gentiluomo di scarse qualità personali, ma influentissimo per la antica e autorevole famiglia cui apparteneva. Tutti e tre inviarono una petizione al re richiedendo il richiamo di Granvella; non avendo ottenuto nulla, si astennero per protesta dalle sedute del consiglio di Stato e reclamarono la convocazione d'urgenza degli stati generali, del cui caldo appoggio erano sicuri. Con ciò era apertamente dichiarata la guerra tra il primo ministro di Filippo e l'alta nobiltà, che del resto aveva dietro di sé tutto il popolo.

Ed anche Margherita di Parma si schierò dalla loro parte. Le si era fatto credere che la caduta del ministro avrebbe eliminato tutte le difficoltà e l'avrebbe resa assoluta padrona della situazione. Perciò essa insistette segretamente ripetute volte presso suo fratello per la pronta esonerazione di Granvella. Finalmente Filippo acconsentì, desideroso soltanto di salvar le apparenze; Granvella fu elevato al cappello cardinalizio e partì per il suo paese nativo col pretesto di visitarvi la vecchia madre (marzo 1564), ma non ritornò più e si trasferì invece a Roma, conducendo con sé, amante come era del progresso delle scienze, il celebrato giovane filologo Giusto Lipsio. Nei Paesi Bassi fu immenso e generale il giubilo per l'allontanamento dell'odiato ministro ed i nobili astensionisti rientrarono nel consiglio di Stato.

Ma il dissidio era troppo profondo per poter essere composto con un semplice cambiamento di persone. La reggente lasciò mano libera ai governatori e signori paesani, e costoro concessero di fatto ai calvinisti libertà di culto. Nel gennaio 1565 Egmont venne mandato dalla reggente e dalla nobiltà a Mackid per chiedere al re la riforma del governo in senso nazionale e la mitigazione degli editti contro gli eretici. A Filippo non passò neppur per la mente di accedere a simili richieste. Mentre rimandava a casa Egmont con un viatico di buone parole, faceva pervenire alla reggente un messaggio col quale rinviava a miglior tempo ogni riforma e nel frattempo le imponeva la persecuzione inesorabile degli eretici. «Preferisco - scriveva Filippo - perdere centomila vite piuttosto che tollerare il minimo mutamento in fatto di religione».

Le osservazioni mossegli persino dai vescovi e teologi dei Paesi Bassi trovarono irremovibile il re, il quale oscillava e indugiava prima di prendere una decisione, ma quando l'aveva adottata non la ritrattava mai. Così i fatti stavano mettendo in luce che l'allontanamento di Granvella non era servito ad altro che ad esasperare il conflitto tra le idee del re e le pretese dei Paesi Bassi. Margherita aveva disconosciuto il valore e l'utilità dell'uomo altrettanto quanto l'alta nobiltà ed il popolo.

Il 17 ed il 20 ottobre 1565, dal castello di Segovia, partirono le lettere diplomatiche che decisero le sorti dei Paesi Bassi. In questi dispacci il re Filippo stigmatizzava severamente l'opposizione che era insorta contro l'inquisizione, ordinava che fosse mantenuta ed estesa, che fossero rigorosamente e alla lettera osservati gli editti contro gli eretici e che fossero destituiti tutti i funzionari convinti di negligenza nell'applicarli. Quanto all'ordinamento governativo dei Paesi Bassi, esso, salvo eccezioni di poca importanza, doveva restare qual'era; in particolare era respinta la richiesta di convocazione degli stati generali.

A questo punto una tempesta di indignazione scosse tutto il paese che si vide minacciato nella libertà politica, religiosa e personale. Qui non era più possibile supporre che la colpa fosse della reggente e di un ministro; era il re stesso che si dichiarava nemico della nazione, e quindi contro di lui e contro la dominazione spagnola in genere si appuntò d'ora in avanti l'odio e le ostilità del popolo.
Le quattro città principali e lo stesso tribunale del Brabante elevarono solenne protesta contro l'Inquisizione, dichiarandola una patente violazione delle immunità della provincia. Ad Anversa furono addirittura i cittadini più ricchi e soprattutto i grandi commercianti che si pronunziarono in modo netto e chiaro contro ogni forma di oppressione religiosa.

Il compito di organizzare e guidare la resistenza se lo assunse ora una classe alquanto temibile, per il coraggio e ardimento che la distingueva e per l'autorità che godeva: la media e bassa nobiltà, che si era vista messa da parte e disprezzata da Filippo, con a capo il visconte Brederode, avventuriero impulsivo e temerario, Filippo Marnix di Sainte-Adelgonde, ardente calvinista, eminente del pari come uomo di stato, soldato, teologo, pubblicista e poeta, e un fratello del principe d'Orange, Luigi di Nassau, gentiluomo disinteressato, cavaliere nel miglior senso della parola, e pieno di entusiasmo per la sua fede protestante.

Questi capi nel novembre 1565 conclusero a Bruxelles con circa venti altri nobili il «compromesso», cioè una lega (che si presentava pacifica) contro ogni specie di inquisizione. Non passò molto che il compromesso contò migliaia di aderenti, borghesi e nobili, cattolici e protestanti. Il popolo intero si ritrovò unanime nella lotta contro la tirannia spagnola.
Guglielmo d'Orange e gli altri membri dell'alta nobiltà non aderirono apertamente al compromesso, ma lo approvarono in una assemblea dei cavalieri del Toson d'oro ad Hoogstraten nel marzo 1566.

Fiduciosi nel consenso e nell'assistenza dell'alta nobiltà, quattrocento nobili aderenti alla lega, armati di tutto punto, giunsero nell'aprile 1566 a Bruxelles e presentarono alla reggente una petizione con cui si chiedeva l'attenuazione degli editti contro gli eretici. Berlaymont, consigliere di Margherita, trattò con disprezzo costoro come un «mucchio di pezzenti (gueux)»; e questi dopo avere appreso questa parola spregiativa, adottarono per il loro partito proprio il nome di gueux col distintivo dei frati mendicanti.

La reggente tuttavia, intimorita, ordinò la provvisoria sospensione dei processi contro gli eretici.
A questo punto un'altra categoria cacciò via ogni timidezza. Erano per lo più artigiani ed operai, ma sapevano tutti leggere e scrivere e sapevano a memoria la loro bibbia. Essi iniziarono a radunarsi a migliaia, armati di tutto punto, in aperta campagna per ascoltare la spiegazione dell'evangelo. Ben presto reclamarono chiese proprie nelle città, nelle quali, accanto al compromesso dei nobili, si costituì il «compromesso dei mercanti», mentre nelle regioni boschive comparvero bande armate organizzate. Migliaia e migliaia di opuscoli di propaganda aumentarono l'agitazione del paese.

Guglielmo d'Orange convocò i nobili nel luglio 1566 a Saint-Trond. Si decise di inviare alla reggente una nuova protesta, per chiederle la concessione di una amnistia e la chiamata di Orange, Egmont ed Hornen a collaborare al governo dello Stato, con la minaccia, in caso di rifiuto, di ricorrere alla forza. E realmente i collegati cominciarono a levare truppe e ad allacciare intese con i protestanti tedeschi. Finalmente, sotto la minaccia di prigionia in piena regola, Margherita fu costretta a concedere la libertà di predicazione in quei luoghi ove fino allora era comunque clandestinamente già praticata.

L'esempio, prima della nobiltà poi degli artigiani e operai, ebbe effetti contagiosi in seno alle classi inferiori; incoraggiate dall'impunità sino allora goduta e dalla sempre maggiore debolezza dimostrata dal governo, insorsero, dapprima a Saint-Orner (agosto 1566) e poi in tutto il paese, con furia iconoclasta contro le immagini delle chiese che consideravano idolatre. Migliaia di chiese vennero barbaricamente devastate e saccheggiate dalla plebaglia armata, e innumerevoli opere d'arte andarono distrutte. Né la parte migliore della cittadinanza mosse un dito per impedire un simile scempio: «che ci pensino i preti - dicevano costoro - a difendere le loro chiese».

Questa crociata iconoclasta segnò la crisi decisiva dei rapporti tra i Paesi Bassi e la Spagna; se un trattato pacifico si era potuto sinora sperare, ora era divenuto impossibile. Ai Paesi Bassi non rimaneva che affidare le proprie sorti alla rivoluzione. Così pure questo avvenimento determinò una situazione nuova nei rapporti della cittadinanza: i cattolici ferventi ruppero ogni intesa e si separarono dai difensori della libertà, perché li ritennero, ad onta della loro astratta professione di fede liberale, nemici della loro confessione religiosa.

La reggente soprattutto era atterrita delle conseguenze della tolleranza da essa usata sinora. Essa fece causa comune con il partito intransigente del consiglio di Stato, con i fautori di Granvella, i così detti « cardinalisti », che prima aveva combattuto, e così temendo il peggio fece ricorso alle truppe. L'alta nobiltà non osò proteggere e difendere i distruttori delle chiese cattoliche ed anzi Egmont sostenne senz'altro la dura repressione e la persecuzione dei protestanti.
Incoraggiata da ciò, Margherita iniziò la reazione sanguinosa. Vietò l'esercizio del culto protestante e pose guarnigioni nelle principali città. Essendosi Valenciennes rifiutata di accogliere queste truppe, fu assediata, presa e punita ferocemente. Invano Brederode, Luigi di Nassau e Marnix scesero in campo aperto; essi rimasero sconfitti presso Austruweel in vista di Anversa (marzo 1567). Su tutte le strade maestre si allinearono le forche con i cadaveri pendenti di sventurati protestanti.

Guglielmo d'Orange comprese che per il momento non era in grado di difendere la libertà del suo paese e decise di abbandonarlo in attesa di tempi migliori. Si pose in salvo recandosi nei suoi possedimenti di Nassau. Invano egli aveva con le lacrime agli occhi scongiurato Egmont o di prendere le armi insieme con lui o di seguirlo fuori. L'avesse ascoltato! Il conte invece, di carattere incerto e vacillante, fece del suo meglio, tante numerose manifestazioni di lealtà, tali da far dimenticare la sua passata opposizione, ma alla fine non seppe decidere e si scavò la fossa. Moltissime persone d'ogni ceto, e specialmente della nobiltà, temendo ciò che presagiva il d'Orange, fuggirono all'estero, in gran parte in Inghilterra.

Ma Filippo di questo fuggi fuggi non fu ancora contento. Egli non perdonò a sua sorella la transitoria debolezza dimostrata in materia politica e religiosa con il suo atteggiamento tollerante e la sostituì con l'uomo che fin dall'inizio aveva presso di lui sostenuto di procedere nei Paesi Bassi con la violenza: il DUCA d'ALBA.
Questi con 10.000 sperimentati veterani passò dall'Italia nei Paesi Bassi, seminando davanti a sé il terrore e la disperazione. La sua comparsa provocò un nuovo esodo di cittadini che a migliaia abbandonarono il loro focolare per salvarsi all'estero. Il 22 agosto 1567 egli entrò a Bruxelles che lo accolse in cupo silenzio.
La reggente ben presto dovette accorgersi che il duca d'Alba l'aveva ridotta a una mera comparsa spogliandola d'ogni potere effettivo. Essa dichiarò allora che preferiva cadere in mano ai Turchi piuttosto che tollerare le sopraffazioni di Alba e abbandonò i Paesi Bassi.

Il duca da parte sua attuò punto per punto il programma minutamente concertato in precedenza con il re Filippo. I soldati locali che la reggente aveva richiamati vennero congedati, e mantenuti soltanto, oltre agli spagnoli, quelli di nazionalità italiana, tedesca e francese; insomma solamente soldati stranieri, proprio il contrario di quanto prevedeva la costituzione del paese. Poi Alba vibrò all'alta nobiltà un colpo mortale.
Dopo essere riuscito ad attirare a Bruxelles il conte Hornes con inviti ipocritamente lusinghieri, lo arrestò e imprigionò insieme con Egmont ed alcuni altri nobili. Troppo tardi costoro dovettero accorgersi quanto erano giusti gli allarmanti presentimenti di Guglielmo d'Orange!

Contro gli individui malvisti di rango inferiore Alba creò un tribunale marziale composto di dodici consiglieri (che il popolo a buon diritto chiamò un consiglio di carnefici ("Blutrat"), autorizzato a sentenziare in pieno arbitrio, ignorando del tutto le leggi vigenti nel paese. Come lo stesso Alba scrisse al re, in un solo giorno egli aveva fatto arrestare cinquecento persone, di cui aveva chiesto al "suo" tribunale la condanna a morte. Le persone sospette che per mancanza di prove non era possibile mandare al supplizio, venivano ad ogni modo colpite con gravi pene pecuniarie. Arbitro delle decisioni in seno a questo tribunale divenne un certo Juan de Vargas, un uomo che aveva commesso in Spagna i più volgari delitti e doveva guadagnarsi la protezione del duca d'Alba a prezzo di una instancabile crudeltà. Se una sentenza gli sembrava troppo mite egli la mutava di proprio arbitrio. Re Filippo espresse a costui la sua massima soddisfazione per la sua opera sanguinosa e illegale.

L'Europa intera, e persino il cugino di Filippo, l'imperatore Massimiliano II, si mostrarono profondamente sdegnati di questo tirannico macello. Anche i più fedeli alla Spagna fra i cittadini dei Paesi Bassi brontolarono; ma Filippo persistette irremovibile nel suo sistema terroristico. Agli oppressi pertanto non rimase che una speranza: quella di poter scuotere con la forza l'odioso giogo.
Su questo contò anche Guglielmo d'Orange, cui gli spagnoli avevano rapito il figlio primogenito, studente dell'Università di Lovanio, conducendolo in Spagna dove lo educarono a sentimenti ostili ai propri genitori ed alla patria.

Guglielmo mise assieme un piccolo esercito, col quale suo fratello Luigi il 23 maggio 1568 riportò una splendida vittoria sopra un corpo di truppe spagnole ad Heiligerlee in Frisia.
Il duca d'Alba decise di prevenire una possibile sollevazione dei Paesi Bassi a favore dei liberatori raddoppiando il terrore. Col consenso espresso del re, e ad onta dei grandi servizi da loro prestati in passato egli fece giustiziare Egmont ed Horns sulla piazza del mercato a Bruxelles il 5 giugno 1568.

Filippo confiscò tutto il cospicuo patrimonio di Egmont, il generale che un tempo gli aveva procurato la vittoria; lo stesso Alba riuscì con grande fatica a persuaderlo a concedere una pensione di fame alla vedova e ai numerosi figli del giustiziato. Contemporaneamente egli fece strangolare nel carcere, ove l'infelice era stato gettato da lungo tempo, un inviato di sua sorella, l'ex-reggente, Montigny.
La ferocia di Alba e i supplizi seguiti senza posa tennero realmente fermi gli atterriti protestanti. E così il piccolo esercito di Luigi di Nassau il 21 giugno rimase sconfitto a Jemmingen e fu costretto a sgombrare la Frisia. Né miglior fortuna ebbe Guglielmo, invadendo i Paesi Bassi da sud-est. La maggiori abilità strategica del duca d'Alba e la superiorità dei ben addestrati reggimenti spagnoli sulle truppe raccogliticce dell'Orange ributtarono quest'ultimo fuori dei confini in territorio francese.

Filippo aveva per il momento raggiunto il suo scopo. Il dispotismo e il cattolicesimo esclusivo trionfavano nei Paesi Bassi asserviti e umiliati. Si è detto spesso che una delle principali cause della insurrezione dei Paesi Bassi fu che Alba anche dopo il ristabilimento della tranquillità non desistette dal suo sistema terroristico di governo e quindi rese malvisto e odioso il nome spagnolo anche alla parte pacifica della popolazione. A nulla servirono atti di rivolta o atti terroristici. Purtroppo l'arma del terrorismo presto si logora e si attenua ovunque, perché l'anima popolare si abitua alle crudeltà e non le teme più.

Anche da un'altra parte, cioè contro i Turchi, Filippo II difese strenuamente l'interesse comune della Spagna e della Chiesa.
L'impero turco era arrivato all'apogeo della sua potenza sotto lo scettro di Solimano II (1520-1566). Questi aveva tolto agli Absburgo la massima parte dell'Ungheria e dei territori da essa dipendenti ed ai Persiani le regioni dell'Eufrate. Le sue flotte, al comando del terribile corsaro Caireddin-Barbarossa, saccheggiarono le fiorenti coste d'Italia e assoggettarono al sultano gli Stati della costa settentrionale dell'Africa. Malgrado poi le sue vaste operazioni ed imprese guerresche Solimano trovò il tempo di dare un eccellente assetto alle sue finanze e di disciplinare ottimamente con severità e giustizia le funzioni amministrative e giudiziarie del suo impero. Il suo occhio acuto sapeva scoprire dappertutto gli uomini adatti cui affidare le supreme cariche dello Stato. Scienze, poesia e architettura fiorirono nell'ambiente turco pur così avverso allo sviluppo culturale.
A glorificazione dell'Islamismo egli fece edificare il più splendido tempio di Costantinopoli dopo S. Sofia, la moschea che porta il suo nome, ammirabile tanto per la magnificenza dei materiali quanto per la bellezza ed efficacia dello stile, e degna del gran principe che la eresse. Solimano dispensò a piene mani tesori a scienziati, poeti ed artisti, ma promosse con non minore entusiasmo l'agricoltura, le industrie e i commerci.

Molto diverso da Solimano il Grande fu il figlio e successore Selim II; piccolo e pingue, col volto tumefatto e arrossato dal generoso vino di Cipro, tutto dedito ai piaceri e agli ozi dell'harem ed agli eccessi della crapula, imbelle e torpido di mente. Fu una fortuna per il suo regno che egli per un certo tempo lasciò il governo nelle mani dell'eccellente gran visir Mehemet Socolli elevato a quelle funzioni da Solimano. Costui era uno schiavo bosniaco di origine cristiana, senza grande cultura, ma dotato di un grande talento naturale, instancabile negli affari, di animo nobile, giusto, entusiasta della fede maomettana ad onta che in passato vi fosse stato convertito per forza, ma nel tempo stesso tollerante verso i seguaci di altre religioni, magnificamente generoso nel donare e beneficare.

Filippo II aveva sin dai primi anni del suo regno combattuto con i Turchi con varia fortuna lungo le coste settentrionali dell'Africa. In seguito, nel 1565, la sua flotta e i suoi soldati salvarono l'isola di Malta e l'Ordine dei Giovanniti qui stanziato dagli attacchi degli Osmani che vi perdettero 30.000 uomini. Inoltre Filippo ebbe da lottare con i maomettani anche in casa sua.
Dopo la conquista di Granata, l'ultimo regno maomettano della penisola iberica, erano rimasti in Spagna numerosi discendenti dei Mauri, detti « moriscos », cui era stata concessa piena libertà religiosa. In verità già Ferdinando ed Isabella avevano violato questa promessa costringendo questa gente ad accettare il cristianesimo almeno pro forma. Tuttavia non si era andati più in là e si era lasciato che i moreschi facessero a modo loro, tanto più che si rendevano utilissimi per l'industriosità e per lo zelo con cui si dedicavano all'agricoltura.

Ma con Filippo II le cose mutarono; questo re ritenne un debito di coscienza per sé di trasformare costoro in veri cristiani e spagnoli oppure distruggerli. Quindi ne decise la snazionalizzazione, vietando loro rigorosamente l'uso della propria lingua, i riti e le costumanze e la foggia di vestire nazionale. Alle suppliche di costoro per ottener maggiore indulgenza si rispose con lo scherno e con i maltrattamenti. Allora essi perdettero la pazienza. Un discendente dell'ultima dinastia che aveva tenuto il trono del regno di Granata, Faradsch-Aben-Faradsch, levò la bandiera della rivolta nell'aspra regione montuosa dell'Alpujarras a sud di Granata (1568); i suoi seguaci vi massacrarono 3000 cristiani.

Così Filippo II poteva vantarsi di avere, con la sua smania inesorabile di livellamento e con la sua tirannica oppressione, seminato una nuova desolazione e la morte di migliaia di suoi innocenti sudditi.
Un nobile e moderato generale, il marchese da Mondejar, inviato contro i ribelli, seppe in parte con la forza in parte con una saggia indulgenza sedare l'insurrezione. Ma simili metodi moderati non erano nei gusti né dei soldati spagnoli né del loro monarca; Mondejar fu richiamato e sostituito dal fratellastro del re, Don Giovanni d'Austria (febbraio 1569).

In seguito a ciò l'insurrezione divampò nuovamente e non poté essere soffocata se non dopo due anni di spargimento di sangue da una parte e dall'altra e solo dopo la morte del valoroso capo degli insorti Aben-Abu. Naturalmente dopo la sorte dei superstiti divenne peggiore di prima.

Nel frattempo si era riaccesa la guerra con i Turchi. Il sultano Selim II aveva deciso di togliere la bella e fiorente isola di Cipro alla Repubblica di Venezia che ne era in possesso. Questa si rivolse per aiuto contro lo strapotente nemico alle potenze cristiane. E papa Pio V, un pontefice energico e animato da un senso altissimo della sua dignità, cercò realmente di costituire una lega generale degli Stati cattolici contro i Turchi, Ma il solo Filippo II e le piccole repubbliche di Genova e Malta aderirono all'invito del papa. A comandar la flotta alleata fu scelto Don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V che lo aveva avuto il 24 febbraio 1547 da una tedesca, Bardbara Blumenberg di Regensburg.

Questo giovane, bello, avvenente, e di ingegno sveglio, si guadagnò l'affetto di tutti, persino del suo tenebroso fratellastro Filippo, che a soli 21 anni lo nominò grande ammiraglio. Don Giovanni era elegante, valentissimo in tutti gli esercizi cavallereschi e sapeva esprimersi con nobiltà e scioltezza di parola; ma era inaccessibile ad impulsi altruistici, smisuratamente vanitoso e pieno di sé, roso da una ambizione cocente e priva di scrupoli, e fecondo di progetti fantastici.

La flotta alleata non arrivò a tempo per salvare Cipro. In compenso essa il 15 ottobre 1571 distrusse la grande squadra turca nella baia di Lepanto. L'ammiraglio turco Ali pascià trovò la morte nella battaglia, 20.000 dei suoi uomini rimasero uccisi o prigionieri, 130 delle sue navi caddero nelle mani dei vincitori e più di 200 furono affondate. Ma il più bel trofeo della vittoria furono 12.000 schiavi cristiani, legati al remo delle galere maomettane, che vennero così liberati da una umiliante servitù. In questa battaglia Cervantes, il poeta di Don Chisciotte, perdette il braccio sinistro che gli fu portato via da una palla turca.

La battaglia di Lepanto suggellò per sempre l'inferiorità dei Turchi sul mare. Ma essi vi avevano perduto anche il meglio del loro esercito che si trovava imbarcato sulle navi. Dalla giornata di Lepanto si può datare la decadenza della potenza osmanica, e senza dubbio la massima parte del merito va data agli spagnoli. Tuttavia le immediate conseguenze della battaglia furono insignificanti, perché Pio V poco dopo morì, Venezia fece pace con la Porta e Filippo si ingelosì della gloria e della potenza acquistate dal suo fratellastro.

Questi nel 1573 prese Tunisi ai Turchi, e nell'entusiasmo della vittoria, progettò di crearsi qui un regno per conto proprio; allora Filippo lo revocò dal comando e addirittura non fece nulla per impedire ai Turchi la riconquista di Tunisi e delle vicine piazzeforti. Don Giovanni, il quale del resto si era nel modo più snaturato sbarazzato di sua madre e della parentela materna e non è degno perciò di alcuna simpatia, rimase da allora in sospetto del re.

Scioglimento assai più tragico ebbe un altro dramma di discordia familiare scoppiato questa volta nella stessa casa di Filippo, la cui durezza di cuore ci offre un nuovo e terribile attestato.
Il figlio del re, Don Carlos, nato l'8 luglio 1545 e poco dopo abbandonato dalla madre, era stato circondato da ottimi maestri e precettori che avevano posto ogni cura per educarlo ed istruirlo; ma con scarso risultato. Divenne un ragazzo gracile, sgarbato e turbolento, e dal punto di vista intellettuale un deficiente. A diciassette anni, nel correre ad un appuntamento amoroso con una cameriera, precipitò per le scale del palazzo di Alcala e si produsse una gravissima lesione all'occipite. Dopo esser rimasto lungamente tra la vita e la morte, venne salvato dal famoso medico Vesalio, il fondatore della scienza anatomica.

Ma in questa occasione Don Carlos rivelò un lato del suo carattere che era stato fino allora ignorato. Egli attribuì la sua salvezza, non all'abilità del medico, ma alla virtù miracolosa delle reliquie di un santo monaco Diego. A dire il vero Carlo era schiavo delle più stupide superstizioni, come mostrano gli autografi che rimangono di lui; quindi non fu mai in contrasto con suo padre a causa di pretese sue idee liberali in materia di religione. Questa colpa non gli fu mai imputata neppure dai suoi avversari.
La grave lesione riportata ebbe tuttavia conseguenze deleterie sullo stato di salute successiva del principe. Divenne bisbetico, violento, dissipato, afflitto spesso da vere e proprie crisi di furore maniaco, ed anche di persona rimase piccolo, brutto, anzi addirittura deforme; era inoltre convinzione comune che fosse divenuto fisicamente incapace al matrimonio. L'unica persona per la quale manifestava rispetto ed attaccamento era la sua matrigna, la terza moglie di Filippo, la principessa francese Elisabetta di Valois, che lo trattava con dolcezza, avendone compassione. La pretesa relazione amorosa di questa nobile donna (del resto assai poco avvenente) con quel ragazzo in condizioni egualmente miserande di corpo e di spirito è una invenzione del Brantome, frutto della sua mania scandalistica che lo faceva andare a caccia di tutte le maldicenze.

Essa conosceva molto bene l'incapacità sessuale del principe, dovuta a cause naturali e a vizi precoci, e d'altra parte le sue successive, quasi ininterrotte gravidanze non le avrebbero permesso il lusso di infedeltà coniugali. Anche questa ragione di ostilità tra padre e figlio è pertanto da eliminare.
Esisteva invece in seno alla stessa corte spagnola un partito, incoraggiato da tutti i nemici esterni di Filippo, che si impegnava di aizzare il principe ereditario contro il re e di creare tra loro dissapori. E ben presto gli si offrì allo scopo una buona occasione. L'imperatore Massimiliano II manifestò il desiderio di unire in matrimonio col principe sua figlia, Anna, e Carlo accarezzò assai volentieri tale progetto, perché sperava di godere, mettendo su casa propria, una maggiore indipendenza.
Ma Filippo differì a tempi migliori il decidere su questo come su ogni altro progetto di matrimonio di suo figlio perché non lo riteneva maturo né fisicamente né intellettualmente a formarsi una famiglia. E in effetti proprio allora il principe commetteva gli atti più insensati di irascibilità e di ingiustificata ferocia contro uomini ed animali.

Forse ci dobbiamo vedere la mano di quell'occulto partito d'opposizione a Filippo e la sua opera di sobillazione, quando all'improvviso il principe pretese di esser mandato come luogotenente o addirittura vicerè nei Paesi Bassi; così gli si fece credere che avrebbe potuto procurarsi maggiore indipendenza e avrebbe potuto meglio conseguire il suo scopo di sposare la principessa austriaca.
Ma quando vide nominato a quel posto il duca d'Alba, Carlo montò su tutte le furie, mise mano al pugnale e tentò di uccidere il duca. Né basta; perché da allora si mise a criticare apertamente tutto ciò che suo padre decideva e faceva. L'odio tra padre e figlio divenne insanabile.
In seguito tuttavia, come spesso accade nei malati di mente, le condizioni di Carlo segnarono temporaneamente un apparente miglioramento (1567). Il re allora gli affidò immediatamente alcune alte cariche e aumentò il suo appannaggio fino alla considerevole somma di 100.000 ducati annui.

Filippo dunque non era giunto ad una definitiva rottura col figlio. Si progettava persino di fare eleggere quest'ultimo a re di Roma, e Carlo coscienziosamente imparava la lingua tedesca. Malauguratamente la buona salute non durò che poche settimane. L'infelice, non solo trascurò i doveri delle cariche affidategli, ma ripiombò nuovamente nelle sue insane violenze e nelle sue dissolutezze. Le cose anzi volsero al peggio, perché Carlo attaccò e dileggiò pubblicamente suo padre e i suoi consiglieri, aggredì suo zio Don Giovanni d'Austria con intenzioni omicide, radunò denaro per fuggirsene all'estero, e finalmente l'insensato rivelò l'intenzione di uccidere suo padre confessandosi col priore di Atocha, il quale naturalmente avvertì il monarca.
Questi del resto aveva ricevuto anche da altre parti le stesse informazioni. A questo punto il re decise di mettere nell'impossibilità di nuocere questo figlio che sarebbe stato assolutamente incapace di governare un vasto impero nè tantomeno capace di proseguire la sua opera a tendenze universali nel campo politico e religioso.
Nella notte dal 19 al 20 gennaio 1568 Filppo in persona fece rinchiudere Carlo nella sua camera come in una prigione ed al giovane che lo oltraggiava furiosamente rivolse con fredda e lugubre calma le celebri parole. «Io non vi tratterò più da padre, ma da re». Con ciò era pronunziata la condanna del principe, se non a morte, alla prigionia perpetua.
Carlo piombò in uno stato di estrema disperazione che gli suggerì l'idea del suicidio. Col mangiare per parecchi giorni unicamente quantità enormi di prugne acerbe, col bere con questo cibo masse di acqua gelata e col giacere nudo sulle fredde piastrelle del pavimento, ridusse il suo gracile corpo sull'orlo del sepolcro.

Filippo, che senza farsi scorgere osservò ripetutamente l'infelice da una apertura della parete, non mosse mai un dito per impedire i propositi suicidi del figlio, che anzi rifiutandogli un nuovo colloquio ne aumentò la disperazione e la determinazione di morire. Il 24 luglio 1568 Carlo spirò. Che suo padre lo abbia ucciso o fatto uccidere non si può dire; ma è certo che rifiutandogli ogni segno di benevolenza, ogni parola di bontà e di conforto, spinse quel povero squilibrato a tale grado di disperazione da indurlo verosimilmente al suicidio. Non vi è dubbio che questa fu la soluzione che lasciò più soddisfatto il re.
E quando pochi mesi dopo Elisabetta di Valois morì per le conseguenze di un parto prematuro, Filippo, con cuore di pietra e quasi a scherno dell'infelice figliolo defunto, prese come quarta moglie quella stessa principessa Anna che il figlio aveva con tanta passione ambita come sposa. Essa dopo parecchi anni gli donò il sospirato nuovo erede del trono.

Un monarca che aveva così spietatamente sacrificato il proprio figlio allorché gli era sembrato che questi minacciava dei pericoli al suo sistema dispotico di governo, non poteva esser capace del minimo sentimento di compassione per i suoi sudditi. Con la sua espressa approvazione il duca d'Alba proseguì nei suoi metodi terroristici nei Paesi Bassi, nonostante che al momento dell'invasione di Guglielmo d'Orange questi avessero dimostrato una obbedienza che aveva sorpreso il loro stesso carnefice, e ad onta delle commoventi suppliche rivoltegli persino dai vescovi cattolici installati da Filippo in quelle regioni.
Il duca d'Alba punì di morte anche coloro che, sia pure una volta sola, fossero andati ad ascoltare una predica protestante. Nel tempo stesso si propose di distruggere per sempre le libertà politiche del paese e di travasare con un flusso continuo e regolare le ricchezze dei Paesi Bassi nella cassa sempre avida del suo re. A datare dal 1569, e prima col consenso, poi senza l'approvazione degli stati generali, egli impose ai suoi governati una tassa del 5 % su tutte le vendite di immobili e del 10% sulle vendite mobiliari. Ciò significava la morte di ogni traffico.

Finché s'era trattato soltanto della libertà di coscienza, la grande maggioranza della popolazione, sebbene a malincuore, aveva chinato il capo; ma ora che ne andava di mezzo la borsa di tutti, tutti cattolici e protestanti, si sentirono presi dallo stesso moto di sdegno e di ribellione. Si può asserire che proprio l'oppressione finanziaria di Alba fu la causa determinante della definitiva rottura tra i Paesi Bassi e la Spagna.
Vani riuscirono gli avvertimenti di Margherita di Parma al fratello e dei consiglieri del re originari dei Paesi Bassi, nonché i moniti del cardinal Granvella. E invano alcuni degli stessi alti funzionari spagnoli insisterono per la liberazione dalla «abominevole tirannia» del duca. Filippo approvò i provvedimenti finanziari dell'Alba e gli confermò l'autorità.

Il duca d'Alba, dopo aver condotto varie transazione a proposito di questi provvedimenti con gli stati generali, pubblicò finalmente nel luglio 1571 il temuto editto sulle tasse sopra menzionate. Ne nacque una immensa agitazione. Le autorità d'ogni città e d'ogni provincia levarono accese ed unanimi proteste. I commercianti sospesero gli affari, i merciai, panettieri e macellai serrarono le loro botteghe. Le masse assunsero un contegno minaccioso e tutti si giurarono reciprocamente che non avrebbero pagato neppure un centesimo delle nuove imposte.
Avendo i fabbricanti di birra cessato il lavoro, Alba fece fabbricar lui la birra, ma nessuno l'acuistò. Dove il duca appariva, il popolo si eclissava e porte e finestre si chiudevano. I beni messi all'asta per mancato pagamento dell'imposta non trovarono compratori. Le nazioni straniere non mandarono più le loro mercanzie nei Paesi Bassi per non pagare la gravosa percentuale. Il lavoro si arrestò e il numero dei disoccupati aumentò in misura spaventevole. I generi di prima necessità salirono a prezzi incredibili e minacciavano di mancare completamente. Era chiaro che la fame avrebbe ben presto provocato una terribile rivoluzione.

Quando Alba cercò di arruolar marinai non ne trovò neppur uno; «Qui - egli esclamò - non mi posso fidar di nessuno, tutti sono traditori!».

I, duca era in procinto di fronteggiare il pericolo con i suoi metodi preferiti; e infatti aveva ordinato di punire severamente le città e i borghi recalcitranti e di impiccare alcune dozzine dei mercanti più conosciuti di Bruxelles sopra la porta dei loro magazzini chiusi; quand'ecco una fulminea notizia lo indusse a più miti consigli.

Guglielmo d'Orange, oberato di debiti a causa della sua fallita levata di scudi del 1568, viveva in ristrettezze sui suoi meschini possedimenti tedeschi. Gli anni dell'avversità avevano nobilitato e purificato il suo carattere e le sue idee politiche. Da questo momento egli divenne un convinto e deciso campione della libertà civile e religiosa e quindi superiore alle grette intransigenze confessionali dei suoi contemporanei.
Benché credente e protestante, professò e praticò il principio della tolleranza rispetto a tutte le diverse confessioni cristiane, non esclusi i «papisti». Egli aveva cercato invano in Germania aiuti contro la tirannia spagnola; ora era pronto a mettere i Paesi Bassi sotto l'alta sovranità, sia dei Valois, sia dei Tudor, se costoro lo aiutavano a salvare la sua patria. Sarebbe assurdo fargli di ciò una colpa. L'idea del patriottismo come lo concepiamo noi oggi non esisteva in quei tempi turbolenti e disordinati.

Non si vedono forse allora protestanti tedeschi far senza il minimo scrupolo lega con i protestanti francesi, Ugonotti con i calvinisti tedeschi, cattolici francesi con gli spagnoli, contro i rispettivi sovrani?
E poi, per le popolazioni dei Paesi Bassi, e soprattutto per le masse protestanti, la signoria spagnola non era forse signoria straniera altrettanto quanto quella francese o inglese?

Solo chi giudica con idee preconcette può credere obbligato un olandese del 1570 ad un dovere di patriottismo verso la Spagna.
Guglielmo aveva sempre mantenuto nei Paesi Bassi intese con alcuni amici. Siccome ogni azione per la liberazione della patria era per il momento impossibile in terraferma, i suoi seguaci scelsero come teatro delle loro gesta il mare, così familiare soprattutto agli abitanti delle regioni nordiche del paese. Nella sua qualità di sovrano d'Orange, Guglielmo rilasciò ad un certo numero di espatriati delle patenti di "corsari" contro gli spagnoli: fu questo l'inizio di quella potenza marittima olandese che in breve spazio di tempo doveva assurgere a tanta altezza. Questi audaci filibustieri si denominarono «Wassergeusen»; gente senza legge e senza rispetti umani che depredavano amici e nemici, ma provavano una soddisfazione speciale e svaligiare spagnoli e papisti e all'occasione impiccarne anche qualcuno all'albero della loro nave, oppure gettarlo in mare con una palla da cannone ai piedi. Il loro ammiraglio, Guglielmo della Marca, era un nobile, violento e capace di ogni atrocità, che aveva giurato di non tagliarsi più barba e capelli finché non avesse vendicato la morte del suo cugino Egmont sulla persona del suo carnefice.

Questi corsari, espulsi in seguito alle proteste del duca d'Alba dai porti inglesi ove sinora avevano trovato rifugio e costretti a cercarsi un nido sulle patrie coste, si impadronirono il 1°aprile 1572 della piccola fortezza marittima di Brielle alle foci della Mosa in nome di Guglielmo d'Orange quale legittimo luogotenente di Filippo II. L'attacco di un corpo di truppe spagnole rapidamente accorso venne respinto mediante la rottura delle dighe.
L'esempio di Brielle diede fuoco alla miccia: Flessiva nella Zelanda, Delftshaven e Schiedam in Olanda, fecero causa comune con gli orangisti, ad ingrossare le file dei quali affluirono intanto migliaia di malcontenti e disoccupati. Guglielmo inviò nelle città insorte dei comandanti con una schiera di distinti ufficiali e molto abili soldati. Anche dall'Inghilterra accorsero numerosi nuclei di volontari calvinisti, mentre dalla Francia vennero aiuti finanziari.

Man mano l'insurrezione si estese a tutte le regioni nord-occidentali dei Paesi Bassi in cui mancavano o quasi guarnigioni spagnole: Olanda, Zelanda, Gheldria, Overiissel, la provincia di Utrecht, si dichiararono prevalentemente per la luogotenenza di Guglielmo d'Orange, vale a dire per la causa della libertà, per quanto con la finzione dell'immutata dipendenza dal re di Spagna. Inoltre Luigi di Nassau penetrò nel paese con un manipolo di riformati francesi e si impadronì della cittadella di Mons con l'aiuto degli abitanti, mentre i filibustieri sopra ricordati catturavano una squadra spagnola in rotta verso i Paesi Bassi con soldati e denaro.

Guglielmo d'Orange stimò che fosse giunto il momento di creare un nuovo organismo statale nei Paesi Bassi. Concluse pertanto con gli stati provinciali delle province nordiche un trattato in virtù del quale essi lo riconobbero loro legittimo governatore e quindi capo del potere esecutivo, ed egli promise di non prender alcuna deliberazione o provvedimento senza averli prima consultati; in particolare le relazioni col re dovevano essere regolate con un reciproco accordo (luglio 1572).
Questo compromesso fu l'atto di fondazione e la carta costituzionale di quello stato delle province unite dei Paesi Bassi che con una lotta quasi secolare doveva conquistarsi l'indipendenza ed assurgere a grande floridezza e potenza.

Orange assegnò fin dall'inizio al nuovo stato la più bella e più nobile bandiera; quella della libertà politica e religiosa. Significativo per questo suo programma e per la illuminata superiorità di idee, cui l'uomo era giunto attraverso sofferenze, pericoli e disillusioni d'ogni sorta, e il fatto che egli scelse come suo segretario di stato l'artista e scrittore Dietrich Cornhert che aveva tentato il connubio della dottrina cristiana con le tradizioni dello stoicismo e che dimostrò nel suo ufficio una larghezza di idee, una umanità e tolleranza doppiamente ammirabili in quei tempi di odii confessionali e di selvagge lotte religiose.

Guglielmo d'Orange disapprovò le violenze ed atrocità che il brutale Guglielmo della Marca aveva commesse a danno dei nazionali cattolici e degli spagnuoli, e le vietò per l'avvenire severamente. Poco dopo egli stesso con un esercito di 6.000 uomini invase il Brabante e avanzò fin sotto le porte di Bruxelles.
Ma ancora una volta le speranze degli amici della libertà rimasero crudelmente deluse. La Francia, dalla quale si erano attesi i più forti aiuti, venne a mancare, avendo la notte di S. Bartolomeo segnato il trionfo del partito cattolico intransigente e filospagnolo. Perciò il figlio del duca d'Alba, Federigo de Toledo, poté facilmente riprendere Mons e massacrarvi migliaia di cittadini.

Lasciato senza denaro dalla Francia, l'esercito si sciolse. Ed allora gli spagnoli rioccuparono l'intero Brabante ed anche la massima parte delle province nordiche. Solo la provincia d'Olanda continuò a difendere la causa della libertà gravemente ferita. Anche qui gli spagnuoli peraltro conquistarono con la forza Zutphen ed ottennero la capitolazione di Naarden; nell'una e nell'altra città massacrarono e oltraggiarono allo stesso modo.
Probabilmente con queste atrocità i comandanti spagnoli miravano a raggiungere l'effetto dell'intimidazione sulle altre città olandesi tuttora ribelli; ma ottennero invece qualcosa di diverso. Quelle città trassero dai massacri spagnoli l'insegnamento che non vi era da sperare salvezza se non col difendersi virilmente sino all'estremo, e che alla peggio era preferibile morire gloriosamente da soldati che non finire sgozzati dai sicari spagnoli.

In questo frangente la provincia d'Olanda si acquistò benemerenze immortali e i freddi, riflessivi, tenaci suoi abitanti mostrarono di quale eroismo erano capaci. Guglielmo d'Orange rimase accanto a loro e continuò ad essere la loro guida e il loro consigliere; egli proclamò di voler trovare la sua tomba, se tale era il destino, in Olanda. La piccola città di Alkmaar seppe respingere tutti gli assalti degli spagnoli e da ultimo li costrinse alla fuga rompendo le dighe e lanciando su loro le onde del mare. Un primo raggio di speranza per questi lottatori eroici rispledette allorché Carlo IX di Francia, accortosi del grave errore politico che aveva commesso facendosi partigiano della Spagna, si interessò degli olandesi, mandando loro denaro e soldati; e contemporaneamente il loro inesorabile nemico, il duca d'Alba, abbandonò i Paesi Bassi.

Infatti Filippo aveva finalmente ceduto alle pressioni di tutta la nazione, non esclusi i cattolici più intransigenti e i più fedeli amici della Spagna, e vi si era stato indotto non perché Alba avesse agito contro i suoi ordini, il che non era affatto vero, ma perché il sistema di inflessibile rigore e di sanguinosa crudeltà impersonato dal duca aveva fallito il suo scopo e rischiava di portare alla perdita delle più ricche regioni possedute dalla corona spagnola. E perciò nel dicembre 1573 Alba se ne dovette ritornare in Spagna, dove si vide ingratamente maltrattato da quel sovrano che aveva fedelmente, troppo fedelmente servito, fino a diventare il suo braccio sanguinario.

Quale instauratore di un sistema più temperato di governo fu inviato nei Paesi Bassi il Gran Commendatore di Castiglia, Luis de Requesens y Zuniga, un valoroso soldato che era arrivato all'alta carica per virtù propria da modesti inizi, uomo di carattere misurato e completamente devoto al suo re, ma privo di capacità politica. Non era davvero costui la persona più adatta per far dimenticare i sei anni di tirannia del duca d'Alba. Egli si affrettò ad abolire l'imposta sulle vendite ed il tribunale marziale istituiti dal duca, ma siccome non capiva ne il fiammingo né il francese e lasciava in genere molto a desiderare quanto ad attitudine di governo, incontrò disapprovazione e sfiducia di tutti.

Inoltre, privo come era di denaro, non fu in grado di evitare il malcontento neppure in seno al proprio esercito che da un anno non era stato pagato; cosicché ebbe a che fare con ammutinamenti di soldati ed ufficiali.
Questi comunque in campo aperto si rivelarono assai superiori alle inesperte e mal preparate truppe degli insorti. Il 14 aprile 1574 nelle pianure di Mook i conti Luigi e Guglielmo di Nassau, fratelli del principe d'Orange, perdettero contro di loro la battaglia e la vita.
Ma all'assedio di Leida, sotto le mure di questa città che si difendeva eroicamente, naufragarono le fortune degli spagnoli. I difensori, costretti a ricorrere ai mezzi estremi, ruppero le loro dighe, nonostante i danni immensi che ne derivavano al paese: «meglio una terra rovinata che una terra perduta», dissero gli stati olandesi.
Più di 15.000 spagnoli perirono annegati sotto la furia delle onde irrompenti e i superstiti caddero sotto il fuoco e i colpi dei filibustieri fulmineamente accorsi con le loro navi (autunno del 1574). In compenso dei danni subiti i cittadini vollero ed ottennero la fondazione di una Università che ben presto aumentò fama ed onore alla valorosa città di Leida.

Dopo questa vittoria le due province di Olanda e Zelanda si proclamarono audacemente indipendenti dal re di Spagna (ottobre 1575); eppure nell'immensa monarchia spagnola, esse non erano che due cantucci di terra abitati da poche centinaia di migliaia di persone.
Né basta, perché esse si proposero sin d'ora la liberazione delle altre province dei Paesi Bassi e l'unificazione della loro patria: un'impresa che apparve allora fantastica.
Ma la fortuna le aiutò: Macerato dalle preoccupazioni, dai timori e dal crepacuore, Luis de Requesens venne a morte nel marzo 1576 in età di appena cinquant'anni. La sua morte diede il segnale della generale rivolta alle affamate e disorganizzate truppe spagnole. Ne seguì una completa anarchia. Gli stati provinciali del Brabante, della Fiandra e dell'Hainaut si accordarono con quelli dell'Olanda e della Zelanda e presero prigionieri i membri del consiglio di Stato (settembre 1576).
Così la direzione del movimento passò nelle mani degli stati che non volevano più saperne della sovranità spagnola. Avendo poi la guarnigione spagnola d'Anversa, irritata da queste ostilità, messo a sacco e fuoco la ricca città producendole un danno valutabile a 15 milioni di fiorini d'oro, quest'altra «furia spagnola» provocò la defezione di tutte le altre province.

L'8 novembre 1576 i rappresentanti di tutte le province, ad accezione del Lussemburgo, sottoscrissero la «Pacificazione di Gand», un patto col quale si impegnavano ad espellere le truppe spagnole, a ripristinare le antiche libertà ed a non menomare la libertà religiosa nelle province nordiche.
Guglielmo d'Orange fu riconosciuto governatore dall'Olanda e Zelanda. Era un tentativo di ridurre ad unità tutti i Paesi Bassi e di mantenerli uniti ad onta della differenza di confessione religiosa pur persistendo tale differenza. Fu un momento di grande bellezza ideale, ma purtroppo fu passeggero. Le mentalità così dei calvinisti come dei cattolici era in fondo troppo intollerante e intransigente perché essi potessero alla lunga rimaner d'accordo e adattarsi a convivere.

Tuttavia per le momentanee necessità rimasero fermamente uniti, e Filippo II, che non aveva soldati e denaro per domarli con la forza, cercò, in attesa di tempi migliori, di ricondurli all'obbedienza mostrandosi indulgente. Egli inviò nei Paesi Bassi un nuovo governatore generale di sangue reale, suo fratellastro Don Giovanni d'Austria, autorizzandolo a «gettare un velo» sul passato, a costituire il governo con elementi nazionali, ad accogliere tutti i desideri degli stati provinciali, «a patto che fossero al possibile mantenute integre la religione e la sua autorità».

Questo discorso nella sua vaga indeterminatezza aveva l'aria abbastanza pacifica. Ma la scelta del governatore fu completamente sbagliata. In primo luogo le popolazioni non vollero saperne del principe spagnolo, mentre avevano chiesto a preferenza il ritorno della loro connazionale Margherita di Parma. In secondo luogo poi Don Giovanni approfittò della sua posizione per concepire i soliti suoi progetti fantastici che non potevano fare a meno di suscitare nuove complicazioni e difficoltà.

Istigato dal papa e dai Guisa, d'intesa con Maria Stuarda e con i capi dei cattolici irlandesi malcontenti, egli architettò il piano di sbarcare in Inghilterra, liberare la bella regina di Scozia e, facendola sua moglie, dominare sulle isole britanniche.
Ma la realtà non corrispose a queste speranze. Don Giovanni non fu riconosciuto incondizionatamente nella sua nuova dignità se non dal Lussemburgo. Invece con gli stati generali delle altre province dovette prima venire a patti e concludere nel gennaio 1577 l'Unione di Bruxelles che confermava la Pacificazione di Gand e venne pubblicata nel febbraio successivo quale «editto permanente» a Marche-en-Famenne.
Solo dopo questo preciso impegno Don Giovanni poté fare il suo ingresso solenne a Bruxelles, dove ebbe a prestar giuramento di osservare le libertà e le leggi delle diciassette province; all'inizo e per qualche tempo si acquistò persino una certa popolarità personale per i suoi modi affabili e cortesi con tutti, altolocati e popolani.
Ma in realtà Don Giovanni sentendosi genio non sopportava la limitatezza dei suoi poteri ed era perfino sdegnato nel vedere una generale avversione al nome spagnolo. «Questa gente - egli scrive al re - preferirebbe chiamare i francesi, preferirebbe persino i turchi, piuttosto che lasciar rimanere in paese gli spagnoli».

Per queste ragioni cercò di andarsene dai Paesi Bassi ed insistette per il suo progetto di spedizione in Inghilterra. Ma non ebbe fortuna, perché invece ricevette ordine di inviare fuori dai Paesi Bassi le truppe spagnole, che erano poi in sostanza le sole su cui poteva contare per la sua impresa, ed il re si rivelò assolutamente, contrario a simile avventura che gli sembrava (ed era) troppo interessata; fece persino uccidere il fido segretario di don Giovanni, Escobedo, che intrigava come suo agente alla corte madrilena, e che Filippo considerava come il peggiore e più pericoloso consigliere del principe; così circondò suo fratello di un nugolo di spie. Questa era l'arte politica e la morale politica di quei tempi sanguinosi!

Intanto nei Paesi Bassi la situazione tornò a farsi critica. Guglielmo d'Orange nelle sue due province tenne una linea di condotta del tutto indipendente e, siccome diffidava, non a torto, degli spagnoli, si preparò senza misteri alla guerra.
Nelle grandi città fiamminghe i calvinisti dichiarati delle classi inferiori cominciarono ad agitarsi minacciando la rivoluzione sociale e religiosa.

Don Giovanni, di fronte a questa crescente onda di rivolta, volle approfittarne e decise di procurarsi un saldo centro di offesa e di difesa. Il 24 luglio 1577 con le sue truppe si impadronì di sorpresa della cittadella di Namur che, situata a cavallo della città su alte e ripide rocce, dominava la confluenza della Sambra e della Mosa.
Con questo territorio e con la fedele provincia di Lussemburgo egli ricostituì realmente un nucleo sicuramente spagnolo all'interno del paese ribelle.
Ma sembrò che questo dovesse servire unicamente a fargli sfuggire di mano le altre quindici province. Gli stati generali gli rifiutarono obbedienza e chiamarono a Bruxelles l'Orange, il pericoloso e irreconciliabile nemico della Spagna.

Gli stati provinciali del Brabante elessero il principe a loro governatore ed egli troncò subito le già iniziate trattative di pace con Don Giovanni. La separazione dalla Spagna era lo scopo ch'egli perseguiva incrollabilmente.
Vero è che a tal punto i maggiorenti della nobiltà cattolica, invidiosi dell'autorità acquistata dall'eretico principe, preferirono chiamare come governatore generale il fratello dell'imperatore Rodolfo II, l'arciduca Mattia.
Ambiziosissimo com'era, costui accettò la carica e corse a Bruxelles. Ma egli era troppo incapace e sfornito di qualsiasi base nell'ambiente locale per poter conseguire una reale autorità; l'effettivo potere fu invece esercitato dal suo «luogotenente generale» Guglielmo d'Orange.
Il popolo chiamò per celia Mattia lo scrivano del principe perché non aveva altro da fare che mettere sulla Carta le decisioni del principe. Lo spirito d'energia e la risolutezza di quest'ultimo si comunicò agli stati generali che all'inizio del 1578 strinsero alleanza con Elisabetta d'Inghilterra e ricevettero da lei un sussidio di 10.000 sterline.

Don Giovanni fu lieto di vedersi così dichiarata apertamente la guerra dai ribelli, perché ciò lo toglieva dalla equivoca situazione che lo aveva enormemente depresso ed umiliato. Egli organizzò un esercito con truppe spagnole richiamate d'urgenza, con mercenari tedeschi e con compagnie inviategli dai suoi amici di Francia, i Guisa; e con esso il 31 gennaio 1578 sconfisse completamente a Gembloux le truppe degli stati generali.
Mai si era più splendidamente rivelata la superiorità delle truppe spagnole disciplinate, esperte e valorose sulle truppe avversarie messe assieme in fretta e furia e prive di buona organizzazione ed istruzione. Gran parte del mezzogiorno del Belgio cadde in mano del vincitore, il quale avrebbe indubbiamente preso la stessa Bruxelles, se la mancanza di denaro, di truppe, di vettovaglie e di artiglieria non gli avesse impedito di sfruttare convenientemente lo sbalorditivo successo ottenuto.
Di modo che le truppe regie vennero decimate dalla fame e dalla peste in tal modo che rimasero loro appena dodicimila uomini abili al servizio. Incessanti furono le sollecitazioni e preghiere di Don Giovanni a Madrid per aver denaro e rinforzi; ma Filippo diffidava ora come prima di suo fratello e lo lasciò intenzionalmente privo del necessario.

«Solo un miracolo divino può ancora salvarci» esclamò lo sfortunato, perdendo ogni speranza. E infatti i ribelli ebbero così tempo di riaversi. Mentre Elisabetta d'Inghilterra inviava truppe in aiuto delle province protestanti e induceva l'intraprendente principe Casimiro del Palatinato a marciare verso i Paesi Bassi con i suoi fieri cavalieri calvinisti, i Valloni cattolici chiamarono a sé il duca Francesco d'Anjou, fratello del re di Francia.
Lasciato in asso da suo fratello, e abbandonato alla mercé dei suoi avversari più forti di lui, Don Giovanni vide profilarsi la quasi certezza d'una fine ignominiosa del suo governatorato, idea che feriva sanguinosaniente la sua ambizione, e lo tenne in uno stato di continua e tormentosa eccitazione.
Tale sua condizione psicologica lo rese anche fisiacmente più indifeso all'epidemia che infieriva fra le sue truppe; e il 1° ottobre 1578 il vincitore di Lepanto morì a Gembloux in età di soli 32 anni.

Come il figlio, così il fratello aveva dovuto soccombere al fanatico e diffidente egoismo di Filippo II. Ma nel tempo stesso la causa spagnola nei Paesi Bassi ne rimase irreparabilmente pregiudicata.

Ad eccezione del Lussemburgo e di Namur, i Paesi Bassi si erano ormai liberati dalla dominazione spagnola. Ma tuttavia iniziò a cadere nella più deplorevole anarchia. La popolazione si scisse in tre partiti nemici l'uno dell'altro; da un lato i cattolici sostenitori incondizionati della Spagna (per il momento una piccola minoranza), i «Giovannisti», chiamati così per derivazione da Don Giovanni; dall'altro gli ardenti e battaglieri calvinisti delle province nordiche e delle grandi città della Fiandra e del Brabante, che si schierarono al seguito di Guglielmo d'Orange, ma nonostante ciò si presero il gusto delle persecuzioni cattoliche; così dentro gli uni e dentro gli altri si formò il nuovo partito dei «malcontenti», capitanato da nobili valloni, il quale pur defezionato dalla Spagna, non voleva saperne del governo del principe d'Orange e rimaneva fedele alla religione cattolica.
Questi malcontenti, vista l'incapacità dell'arciduca Mattia a competere col principe d'Orange, si rivolsero ad un personaggio più potente, cioè al principe Francesco d'Anjou. Costui, contro la volontà di suo fratello, il re Enrico III di Francia, arrivò a Mons alla testa di un forte corpo di truppe e costrinse gli stati generali con lui diffidenti ad un trattato di alleanza difensiva, che gli conferì il nome di «campione della libertà dei Paesi Bassi» e gli aprì la prospettiva di una futura sovranità su queste regioni.
Le milizie dei vari partiti, mentre rimanevano inattive contro gli spagnoli, scacciarono la noia devastando il proprio paese e picchiandosi reciprocamente.
La deplorevole discordia interna provocata nei Paesi Bassi dagli antagonismi di confessione religiosa infuriava in quest'epoca per la stessa ragione anche negli altri paesi dell'occidente europeo, in Inghilterra e in Francia.


L'Europa era come divisa in due campi, quello degli innovatori e quello dei conservatori aderenti alla vecchia fede, i quali si combattevano a morte; una battaglia gigantesca che portò sulla scena i poderosi caratteri dei protagonisti, ma sconquassò le nazioni fino alle fondamenta e le riempì di miserie e di orrori.

Dopo le dolorose vicende dei Paesi Bassi
ci occupiamo ora dell'Inghilterra

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