HOME PAGE
CRONOLOGIA
DA 20 MILIARDI
ALL' 1 A.C.
DALL'1 D.C. AL 2000
ANNO X ANNO
PERIODI STORICI
E TEMATICI
PERSONAGGI
E PAESI

130. LE INFLUENZE E I TIMORI NEGLI ALTRI STATI



I due grandi "signori della guerra" Wallenstein e Tilly

 

Lo stato permanente di guerra e l'esigenza generale delle potenze europee di tenersi continuamente preparate avevano maturato una profonda trasformazione negli ordinamenti militari. Non giovarono infatti più le antiche masse di mercenari saltuariamente messe assieme per questa o quella impresa singola, ma occorsero eserciti stabili. Ma questi costavano più di quelli

In precedenza si potevano fare arruolamenti per un periodo di soli sei mesi e congedare nell'autunno quanta più gente era possibile; ora si dovette pensare alla sistemazione delle truppe stabili durante l'inverno, anzi il provvedere ai quartieri d'inverno alla fine di ogni periodo di operazioni divenne uno dei compiti più importanti.
D'ora in avanti cioè uno dei principali obiettivi di guerra che un generale dovette porsi fu quello di impadronirsi, avvicinandosi l'inverno, di una regione il più possibile ricca che gli permettesse di mantenere i suoi soldati e di prepararsi alla futura campagna.

L'apparizione di Wallenstein con i suoi grandi eserciti creò dovunque l'esigenza di corpi dell'esercito altrettanto numerosi. Il sistema dei piccoli condottieri non andò più, ed ogni belligerante dovette essere egli stesso una grande potenza, oppure essere sussidiato da grandi potenze. Si introdusse infatti il sistema della guerra sussidiata, che era tuttavia molto pericoloso per il belligerante giacché la sua esistenza correva pericolo non appena i sussidi venissero a mancare.
In questa situazione pericolosa si trovava ora il re di Danimarca che era in guerra non solo per conto suo ma anche per conto del re d'Inghilterra, giacché Carlo I che era sì molto più ardito e intraprendente di suo padre, ma anche assai più leggero e dissipatore, gli aveva pagato fino alla fine del 1626 soltanto 60.000 sterline sulle 570.000 che gli doveva per sussidi convenuti.

Anche il materiale umano di cui si componevano i nuovi eserciti era completamente cambiato, se non nella categoria degli ufficiali, in quella degli uomini di truppa. Per reclutare le grandi masse di soldati di cui si aveva ora bisogno non fu più possibile limitarsi ai vecchi soldati di mestiere già esperti nelle armi, ma sì dovette far ricorso anche gente senza alcuna istruzione militare.

Svanì inoltre il tipo dell'antico lanzichenecco tedesco, fiero dei suoi privilegi e dalla sua affidabile condotta, mentre da queste masse di persone, spesso provenienti da ambienti di miseria, di furto e di rapina, non si poté pretendere che osservassero atteggiamenti cavallereschi. Tuttavia non mancò il caso che in mezzo a questa gente depravata si trovassero elementi abituati a vita ben diversa da quella di un mercenario imperiale o cone in questo caso, leghista. Infatti le aule delle università si vuotarono perché né professori né studenti seppero più come fare per sostentarsi e dovettero adattarsi pure loro ad arruolarsi volontari. Essi si ritrovarono sotto le bandiere; ed attorno ai fuochi degli accampamenti, mentre la peggiore marmaglia giocava ai dadi, si lesse Virgilio o si formarono piccole dispute su questioni di diritto romano.
E se durante l'inverno vi era qualche mese di tranquillità, il professore tornava alla sua cattedra e, se vi era un certo numero di studenti che gli fornivano da campare, egli volentieri serviva le ultime briciole della sua scienza nella lingua di Cicerone.

Siccome nulla era stato fatto e concluso cioà che potesse assomigliare ad una coalizione contro l'imperatore e la Lega. Se avessero fatto presto ad agire, se la guerra contro la Danimarca fosse stata condotta energicamente e si fosse realmente intrapresa una riforma costituzionale dell'Impero, si sarebbe potuto contare su un definitivo esito vittorioso della campagna. Ma il più grave ostacolo affinchè la maggioranza dei membri della dieta dell'impero si mettesse d'accordo era Wallenstein.
Non vi era motivo che i principi tedeschi dovessero sorbirsi in santa pace la presenza nei loro dominii di questo comandante di un esercito imperiale così dispotico e pronto ad usare l'argomento della forza, giacché nessuna legge dell'impero né alcuna clausola accettata in sede di elezione imperiale consentiva che l'imperatore potesse quando voleva penetrare nei singoli territori con le sue forze armate.

Massimiliano di Baviera sostenne l'inesistenza di un simile diritto ed oltre a ciò non dissimulò la sua convinzione che Wallenstein mirasse ad usurpare una dittatura in Germania sotto l'etichetta della volontà dell'imperatore; al che Wallenstein ribatté affermando le esigenze superiori dell'autorità imperiale e la necessità che il capo d'un impero doveva essere potente se potente doveva esser questo impero.

Alla campagna del 1627 le potenze straniere rimasero si può dire completamente estranee. Wallenstein e Tilly, in seguito ad un accordo intervenuto fra di loro, guidarono ciascuno il proprio esercito sul teatro delle operazioni. Wallenstein portò le sue truppe nelle Marche. Il principe elettore Giorgio Guglielmo di Brandenburgo, che si sapeva alleato dell'imperatore non fu poco sorpreso e contrariato dal vedere il suo territorio preso senza suo consenso a base di una campagna di guerra e le sue fortezze occupate dal condottiero imperiale.

Egli aveva chiesto aiuto all'imperatore contro i danesi, ed ora invece Wallenstein si era impadronito della regione di Havelland, muovendo dalla quale procedette verso il Mecklenburgo. Verso la metà di giugno arrivò anche Tilly. Il re di Danimarca, essendo per lui impossibile pensare ad opporre resistenza all'avanzata concentrica dei due eserciti, distribuì la sua fanteria nelle fortezze, ove poteva ancora sostenersi, e con la cavalleria si ritirò nel Jütland. L'imperatore - tramite Wallenstein - era così divenuto padrone della Germania settentrionale.

Nell'autunno Tilly e Wallenstein, il quale durante la campagna aveva quasi raddoppiato il suo esercito, dando in un modo mai visto fino allora la prevalenza alla cavalleria in modo di potere occupare il più rapidamente possibile vaste estensioni di territorio, procedettero alla assegnazione dei quartieri d'inverno.
Questo acquartieramento, che fu accompagnato dalle più spietate contribuzioni di guerra, arrivò fin nella Germania meridionale, nella Franconia e nella Svevia, e non si arrestò che alle frontiere del Palatinato, il nuovo possesso di Massimiliano di Baviera.

Ferdinando dopo questi successi volle sistemare e risolvere le questioni territoriali pendenti nei dominii propri della casa d'Absburgo ed in genere nell'Impero. Il suo principale interesse era di recuperare, cessata ormai l'insurrezione dei contadini, l'alta Austria che si trovava in mano di Massimiliano. Per tale scopo occorreva il consenso di una apposita dieta, ed egli la convocò a Mühlhausen. Qui i due membri protestanti del collegio, i principi elettori di Sassonia e di Brandenburgo, mostrarono la massima condiscendenza, non opponendosi neppure alla pretesa dell'imperatore che Federico V rinunziasse alla dignità di principe elettore e alla porzione del Palatinato sulla riva destra del Reno (Heidelberg); essi resistettero unicamente sul punto che la punizione non dovesse estendersi ai discendenti del conte palatino; e acconsentirono persino a firmare una deliberazione la quale in termini piuttosto artificiosi altro non consacrava che la restituzione dei beni ecclesiastici nella Germania settentrionale; tutto ciò a patto di essere liberati dal flagello dell'esercito di Wallenstein.

I principi elettori infatti reclamarono unanimemente che l'esercito imperiale fosse sottoposto ad un direttorio che godesse la loro fiducia e imponesse rispetto ai soldati. E da ultimo soggiunsero che se l'imperatore non era in grado di proteggerli essi si sarebbero aiutati da sé. Queste domande e dichiarazioni per il momento non servirono a nulla; esse manifestano tuttavia con quanta forza come tutto l'impero si sarebbe sollevato contro la dittatura militare del Wallenstein se alla corte di Vienna gli atteggiamenti a suo riguardo non fossero cambiati. Ma per il momento sembra che mancasse motivo e ragione per tali cambiamenti.

Ferdinando II venne ad un accomodamento diretto con Massimiliano di Baviera, decidendosi ad accordargli in forza della sua alta sovranità feudale tutto ciò che in sostanza non era riuscito a far sanzionare dalla dieta. Il relativo trattato fu concluso a Monaco il 22 febbraio 1628; Massimiliano restituì l'alta Austria, e in compenso dei crediti ch'egli vantava verso il tesoro imperiale per le spese della guerra di Boemia e della successiva occupazione del paese, l'imperatore lo investì dell'alto Palatinato e della parte del Palatinato renano sita a destra del Reno a titolo ereditario nella linea diretta maschile. A questi dominii andava congiunta la dignità di elettore, già spettante al conte palatino.

Sicuro così nuovamente del suo antico alleato, Ferdinando credette di potere passare all'attuazione dei suoi maggiori progetti politici. L'incitamento ad agire gli venne dalla Spagna, la quale anelava a raggiungere la definitiva sottomissione delle province unite dei Paesi Bassi e riteneva poterle espugnare dal lato di mare con l'aiuto delle grandi potenze interessate. A tale fine essa cercò di indurre non solo l'imperatore, ma anche la Lega e la Polonia, a dichiarare la guerra agli stati generali, promettendo di sussidiarla con considerevoli contributi di denaro. In compenso il traffico mercantile nel Baltico sarebbe stato riconosciuto monopolio esclusivo dell'Hansa ricostituita, con una sola eccezione a favore di una società spagnola.

Wallenstein non accolse il progetto con sfavore, e prima ancora che esistesse una flotta si fece nominare dall'imperatore «generale del mare oceanico e baltico». Per poter creare una flotta egli chiese, non ingiustificatamente, l'assegnazione di un territorio costiero che servisse di base. Per tale richiesta l'imperatore pose gli occhi sul ducato di Mecklenburgo, i cui titolari erano scesi in campo contro di lui, cosa che secondo l'uso ormai invalso nella politica imperiale era considerato motivo sufficiente per mettere subito al bando dell'impero un principe territoriale ribelle.
I duchi di Mecklenburgo vennero dichiarati pertanto banditi ed il loro dominio fu dato in pegno al duca di Friedland a garanzia della rifusione delle spese di guerra da lui incontrate fino allora. Sotto mano tuttavia il territorio fu venduto ugualmente a Wallenstein, considerando come prima rata del prezzo d'acquisto la cancellazione dei crediti che il duca vantava verso l'imperatore. Il residuo prezzo sarebbe stato scontato dal Wallenstein accollandosi la spesa dell'esercito sino ad esaurimento del suo debito.

Il fine di Wallenstein nell'assicurarsi questo dominio era in prima linea certamente quello di entrare nel novero dei principi territoriali tedeschi, dignità della quale aveva già in tasca l'investitura da parte dell'imperatore. Ciò però equivaleva a sovvertire la secolare costituzione germanica che riservava le sovranità territoriali a chi vi avesse titolo per nascita, e non poteva non dar luogo a complicazioni.
Massimiliano di Baviera previde dove avrebbe condotto in definitiva la politica di Wallenstein e credette di dovere ingaggiare la lotta contro di lui, non per inimicizia personale, ma come leale sostenitore di un indirizzo conservatore. Egli cercò di influire in questo senso sull'imperatore, non trascurando per far pressione sul suo animo di fargli capire che l'elezione di suo figlio a re di Roma aveva poche speranze di buon esito se egli ometteva di soddisfare alle più urgenti richieste dei principi elettori cattolici.

Appena Wallenstein subdorò il vento che, alimentato dai suoi nemici, spirava a Vienna, mutò spontaneamente la sua politica. Riguardo alla Danimarca non si mostrò alieno nel raggiungere una pace equa, dopo che si era dovuto convincere che non avrebbe potuto averne ragione sul mare e che anzi rischiava di rendersi ridicolo a voler guerreggiare contro le potenti navi da battaglia di Cristiano IV con le poche e inadeguate navi che lui aveva messe insieme.
Anche con Magdeburgo che gli aveva rifiutato «la guarnigione» non si mostrò intransigente, accontentandosi di una acquiescenza pro forma alle sue richieste e rifiutando le somme che la città gli aveva offerto per liberarsi dall'onere che le si voleva imporre.

Nelle trattative egli ripeté volentieri l'assicurazione che non faceva la guerra contro la religione evangelica ma nell'interesse dell'imperatore e dell'impero; mai poi per cupidigia di denaro.

Con ciò egli si andava preparando ad assumere quell'atteggiamento che comunque sarebbe stato costretto a fare in ultimo se voleva ristabilire la pace, giacché solo come sostenitore del principio di tolleranza religiosa egli poteva assumere la parte di mediatore tra gli avversi partiti.

Il nuovo principe elettore di Magonza, Giorgio Federico di Greifenklau (1626) propose all'imperatore di convocare una assemblea dei principi elettori per discutere e deliberare sull'elezione di Ferdinando III. La preparazione di questa dieta indusse a fare qualche concessione ai principi e specialmente a Massimiliano di Baviera che aveva reclamato categoricamente a Vienna l'allontanamento delle truppe di Wallenstein dalla Franconia e dalla Svevia.

Ed effettivamente il nuovo duca di Mecklenburg ritirò dalla Germania meridionale 3.000 uomini di cavalleria che vi erano acquartierati e li spostò nel settentrione dove all' inizio del 1629 affermò di aver sotto mano 100.000 fanti e 30.000 cavalieri. Se le cifre erano esatte, cosa difficilissima da accertare, l'imperatore disponeva allora del più grande esercito che si fosse mai visto da secoli.

I principi leghisti vedevano perfettamente che, possedendo forze così superiori, l'imperatore poteva ad ogni momento e come voleva privarli dei loro dominii, e Massimiliano di Baviera non mancò di dimostrar loro che la mira ultima di Wallenstein era proprio questa.

Nel febbraio del 1629 essi convennero ad Heidelberg e reclamarono una forte riduzione dell'esercito imperiale. Wallenstein peraltro, in previsione di una simile eventualità, cercò di coprirsi le spalle concludendo rapidamente la pace con la Danimarca. Ciò non era difficile ad ottenersi se egli si manteneva moderato nelle sue pretese perché il re di Danimarca nel combattimento di Wolgast (2 settembre 1628) aveva dovuto nuovamente convincersi della superiorità dell'esercito di Wallenstein nella guerra terrestre. Cristiano rinunziò ai possedimenti ecclesiastici che aveva occupati in compenso del condono dell'indennità di guerra e la pace fu firmata a Lubecca il 7 giugno 1629, consenziente Tilly.

Procedendo sulla via della malleabilità si sarebbe potuta raggiungere la pacificazione della Germania, purché si fosse trovato il modo di soddisfare le pretese di Wallenstein e dei leghisti, giacché, quanto ai protestanti, essi erano in condizioni tali da dover prendere senza discutere quel che loro si offriva. I leghisti avrebbero potuto accontentarsi di una migliore e più estesa applicazione della pace del 1555 che soddisfaceva a gran parte dei loro apparentemente giustificati desiderii. Ma da un pezzo essi non se ne accontentavano più perché si sentivano vincitori e pretendevano dettare le condizioni alle quali l'esercizio di un culto diverso da quello cattolico poteva ancora essere tollerato in Germania.
Essi reclamavano la restituzione di tutti i possedimenti ecclesiastici usurpati e che nella Germania settentrionale almeno fosse riconosciuta la libertà dei culti religiosi. Più prudenti di questi pretesi definitivi vincitori, Wallenstein vide il pericolo che incombeva sull'imperatore e sulla lega dalla parte di Gustavo Adolfo, e credette di doverlo prevenire con una rapida conquista di Stralsunda.

È da questa impresa che cominciò il declinare della sua stella. Egli per la prima volta sottovalutò le forze del nemico e sopravvalutò troppo le proprie forze e ritenne di potere espugnare la città con l'investirla soltanto da parte di terra, errore che é da darsi la colpa alle sue scarse conoscenze in materia di guerra marittima. Ben presto egli sarebbe stato felicissimo di giungere ad una soluzione pacifica della vertenza, ma i cittadini lo tennero a bada con trattative e lunghe discussioni, mentre le sue operazioni d'assedio facevano ben scarsi progressi.

Le truppe imperiali che avevano occupato l'isola fortificata di Dânhohn di videro presto tagliate le comunicazioni con il grosso dell'esercito e dovettero arrendersi. I vantaggi che si erano ottenuti da parte di terra andarono perduti allorché quattro compagnie danesi sbarcarono in rinforzo delle truppe cittadine assediate. Contemporaneamente anche Gustavo Adolfo decise di venire in aiuto della città. Egli stipulò con essa il 30 giugno 1628 un trattato di alleanza per 20 anni, obbligandosi a difendere l'indipendenza sua e la libertà del suo porto, mentre la città si impegnò a servirgli in caso di guerra come punto d'appoggio per il transito delle sue truppe. Subito dopo la conclusione del trattato sbarcarono 6.000 svedesi.

Dopo ciò Wallenstein comprese che ogni possibilità di trattative con la città era tramontata e che, se voleva averla, doveva prenderla con la forza. Lo tentò, ma invano. Allora decise di togliere l'assedio, e, lasciato il campo per recarsi nella sua residenza di Güstrow, incaricò il suo generale Arnim di operare la ritirata dell'esercito che si effettuò il 3 agosto.

Così Gustavo Adolfo si era procurata una porta d'invasione della Germania di cui poteva servirsi in qualsiasi momento. E che questa invasione fosse da attendersi lo dimostrò lo spirito di arrendevolezza di Cristiano nelle trattative di pace seguite poco dopo, giacché non era nell'interesse della Danimarca che le coste del Baltico andassero a finire in balìa della Svezia.
La grande importanza degli avvenimenti verificatesi nel Baltico non fu subito avvertita dai contemporanei perché la loro attenzione venne distratta da una questione apertasi in Italia che poteva provocare vaste complicazioni internazionali.

Il 25 dicembre 1627 era morto il duca Vincenzo di Mantova, e con lui si era estinta la linea diretta della famiglia Gonzaga. Questa era stata una delle più ricche famiglie principesche d'Italia e nei suoi sontuosi castelli, siti in parte nel Monferrato che pure le apparteneva, in parte nella fertilissima zona del basso Po, aveva accumulato le più preziose opere d'arte e tenuto sempre splendida corte.
Fra i pretendenti alla successione vi era Carlo di Nevers, appartenente al ramo collaterale più prossimo dell'estesa parentela dei Gonzaga, il quale poteva contare sull'appoggio del re di Francia. A lui avversa era naturalmente la Spagna, giacché temeva che la nuova famiglia riducesse il ducato in vassallaggio della Francia.
Con la Spagna militava il duca di Savoia, desideroso di ampliare il suo territorio mediante l'acquisto del Monferrato.

La politica non è mai imbarazzata a puntare alle sue mire con le parvenze di questioni legali e trova sempre documenti e testamenti adatti a tale scopo. Ed anche in questo caso venne scovato un vecchio diploma dal quale risultava che il ducato di Monferrato era stato un feudo dell'impero romano-germanico, di modo che il conferimento del medesimo spettava anzitutto all'imperatore. In suo nome ed in base ad una convenzione provvisoria il duca Carlo Emanuele di Savoia e Consalvo de Cordoba, governatore spagnolo di Milano, occuparono infatti il Monferrato.

Oltre il duca di Nevers di presentò come aspirante alla successione del Gonzaga il duca Ferdinando di Guastalla. Ma l'imperatore decise di incamerare i due ducati e di farli governare da un commissario imperiale. Né il Nervers, né la Spagna, né il duca di Savoia riconobbero la legittimità di quest'atto. Ma quel che c é di più, è che la Francia dichiarò che non avrebbe tollerato l'insediamento a Mantova né dell'imperatore né degli spagnoli.
Per Richelieu era in questo momento un essenziale interesse mettere un saldo piede in Italia e prepararsi le necessarie basi per la lotta contro l'imperatore che intendeva intraprendere contro la Francia non appena le condizioni interne della stessa glielo consentissero.

Dietro il consiglio di Richelieu il re di Francia all'inizio della primavera del 1629 penetrò in Savoia attraverso il passo del Mont-Genévre e si impadronì poi della fortezza di Casale nel Monferrato. La Spagna per ora si mostrò non disposta nell'intricarsi in una guerra in Italia e lasciò in asso il duca di Savoia che si vide così costretto a venire a patti per nulla onorevoli con la Francia. La politica di Richelieu per tal modo trionfò nettamente.

Trattative di ogni genere, e principalmente la richiesta della Spagna che Wallenstein le fornisse un rilevante contingente di truppe da utilizzare per la guerra nei Paesi Bassi ed una ulteriore domanda del re di Polonia all'imperatore per ottenere aiuti militari contro Gustavo Adolfo, impedirono che fossero prese rapide decisioni in merito alla guerra mantovana. Solo in settembre si decise di farla effettivamente e si stabilì che la Spagna avrebbe sottomesso il Monferrato, e l'imperatore soggiogato Mantova.

Nel frattempo la commissione insediata a Vienna per l'esame della questione relativa ai possedimenti ecclesiastici nella Germania settentrionale concluse i suoi lavori, proponendo all'imperatore l'emanazione del così detto editto di restituzione che egli firmò il 6 marzo 1629. In esso, per favorire gli interessi dei cattolici, Ferdinando rinunziò ad ogni idea di riforma dell'ordinamento dell'impero in senso centralistico. L'editto stabilì che i conventi e gli altri istituti ecclesiastici non dipendenti direttamente dall'impero - che all'atto del trattato di Passau erano cattolici - dovessero essere restituiti ai cattolici, e che una pari restituzione dovesse avvenire anche per quegli istituti dipendenti direttamente dall'impero dei quali i protestanti si erano impadroniti dopo la pace di Augusta.

Il provvedimento, come é naturale, diede il via a tutte le ingordigie cattoliche e ribadì con una buona dose di ipocrisia il principio dell' intransigenza cattolica. Così andò perduta l'ultima occasione di fondare sotto lo scettro degli Absburgo uno stato germanico basato sulla legale parità delle due confessioni. Solo con l'instaurazione e il riconoscimento del principio di tolleranza e col mettere al servizio di questa idea il forte esercito di Wallenstein la grande opera avrebbe forse potuto essere compiuta. Ma Ferdinando II non era certo l'uomo capace di compierla.

Del resto anche dal punto di vista materiale l'editto non faceva il migliore interesse dell'imperatore. Se egli infatti con un tratto di penna avesse dichiarato feudi vacanti tutti i possedimenti contesi, avrebbe potuto col loro conferimento opportunamente distri buito farsi un buon numero di aderenti fra i più ricchi e potenti principi senza offendere i suoi pregiudizi cattolici.

Ma allo scopo egli avrebbe dovuto tenersi caro Wallenstein, ed invece cercò di disfarsi proprio di lui, se non d'un tratto, con un lavorio di un anno. Gli inviati del convegno leghista di Heidelberg avevano reclamato addirittura che i possedimenti dei membri della lega fossero totalmente esonerati dall'obbligo di acquartieramento di truppe imperiali. La difficoltà per l'imperatore di accontentare i suoi vecchi amici stava in ciò che non si sapeva come disfarsi del numeroso esercito del quale si credeva di non aver più bisogno.
Ottener lo scopo a mezzo del denaro non si poteva perché non ve ne era per saldare il debito del tesoro imperiale verso il comando che aveva anticipato il soldo alle truppe.
D'altra parte Ferdinando comprendeva che, congedando l'esercito di Wallenstein, sarebbe caduto in completa balia della Lega e che l'effettivo governo dell'impero sarebbe passato ad un direttorio leghista con a capo Massimiliano di Baviera.

Wallenstein manifestò ripetutamente in modo aperto la sua disapprovazione nei riguardi dell'editto di restituzione, perché questo attacco contro i principi evangelici gli sembrava dannoso alla politica imperiale. Era nel sistema politico di Wallenstein di subordinare gli interessi religiosi agli interessi politici.
Ad esempio nel suo ducato boemo egli favori i gesuiti, come principe tedesco prese le difese dei protestanti. La questione religiosa peraltro passò in second'ordine quando si apri la dieta dei principi elettori a Regensburg. I leghisti vi andarono con un programma di contenuto essenzialmente politico e le discussioni dell'assemblea si aggirarono su questioni d'ordine politico interno ed internazionale.
Questa dieta era stata concepita come un congresso di pacificazione; invece essa fu il punto di partenza di nuovi conflitti di una veemenza mai vista da tempo in Europa. La preparazione era visibile da tutti i lati ai confini dell'Impero.

Gustavo Adolfo il 26 settembre 1629 concluse coi Polacchi, cui l'imperatore aveva mandato troppo tardi e in misura insufficiente in aiuto un corpo di truppe al comando di Arnitn, un armistizio per sei anni, che non solo servì a procurargli la necessaria sicurezza alle spalle, ma gli arrecò considerevoli vantaggi. Arnim, le cui truppe decimate dalla fame e dalle malattie si erano ridotte ad un terzo, rimase ammirato dalla disciplina che regnava nell'esercito del re di Svezia. Egli abbandonò il servizio dell'imperatore e passò al servizio di Gustavo Adolfo cui poteva essere grandemente utile per la sua conoscenza dell'ambiente dei potentati tedeschi.

Anche nei Paesi Bassi le truppe imperiali non colsero allori di sorta. Gli stati generali poterono forzare il passaggio del Reno a Wesel ed acquartierare le loro truppe in territorio tedesco. Per loro intermediazione poi vennero stipulati dei trattati coi i quali i principi di Pfalz-Neuburg e di Brandenburg riconobbero per altri 25 anni l'avvenuta ripartizione dei ducati di Jülich-Cleve.
Il tentativo di avanzata delle due case d'Absburgo sul basso Reno era così fallito.

Oltre a ciò gli stati generali si allearono con la Francia e col trattato del 17 giugno 1630 si assicurarono per sette anni notevoli sussidi monetari annui in compenso dell'impegno da essi preso di non iniziare trattative di pace senza informare preventivamente la Francia. Gustavo Adolfo da canto suo era pronto alla guerra. Anche a lui la Francia era disposta a fornir denaro per pagare le truppe non appartenenti alle milizie svedesi, al che egli teneva perché gli ripugnava l'idea di condurre la guerra con i sistemi di rapina divenuti abituali in Germania.

Sulla misura di questi sussidi non era tuttavia stato raggiunto ancora l'accordo allorché si apri la dieta di Regensburg ed uno degli uomini di stato più abili e lungimiranti della storia di tutti i tempi cominciò ad ordire quella rete che doveva condurre al tramonto della minacciosa egemonia degli Absburgo in Europa.

La partecipazione dei principi alla dieta di Regensbsurg non fu così generale come si attendevano i dirigenti della politica viennese. I principi elettori protestanti, Sassonia e Brandenburgo, non vi si recarono di persona, ma si fecero rappresentare da delegati, il che significa che avevano rinunziato alla speranza di ottenere per la via costituzionale delle deliberazioni collegiali un'equa soddisfazione dei loro desiderii. I cattolici si sentirono così più padroni
della situazione e posero senza indugio ed in forma categorica all'imperatore le proprie condizioni.
Anche la curia non impedì loro di abusare del momentaneo sopravvento di cui godevano. Papa Urbano VIII, cui interessava in primo luogo l'indipendenza d'Italia, e nella lega fra Spagna ed imperatore a proposito della contesa successione al ducato di Mantova aveva scorto un pericolo per questa indipendenza, che favoriva sotto mano la politica francese e la politica leghista.

A Regensburg, salvo l'imperatore e i suoi consiglieri, nessuno per il momento si curò dell'elezione dell'imperiale rampollo; primo grave scacco questo per Ferdinando II che si vide sfuggir di mano la direzione dei lavori della dieta e dovette cederla ai leghisti. Essa con ciò andò a concentrarsi nelle persone di Massimiliano di Baviera; e di quella astuta creatura di Richelieu che era il padre capuccino Giuseppe, il quale senza alcuna missione ufficiale e dietro le quinte recava il verbo del suo padrone francese ai membri dell'assemblea.

Da un pezzo a dire il vero si era verificato un ravvicinamento tra Massimiliano e il cardinale Richelieu, anche perchè le mire di entrambi erano facilmente conciliabili. Massimiliano sapeva che la Francia e i suoi alleati tedeschi progettavano di farne il successore di Ferdinando II in luogo di suo figlio.
Alla proposta dell'imperatore circa l'elezione di suo figlio, i principi risposero ripetendo i loro reclami contro gli eccessi che commetteva l'esercito imperiale e sostenendo che la causa di tutto ciò era Wallenstein cui erano stati conferiti troppi poteri. Si esigeva pertanto innanzitutto che l'esercito venisse ridotto e che il comando supremo fosse affidato ad un «autorevole membro dell'impero» da nominarsi dietro indicazione e consiglio dei principi elettori.

Si vede bene come con l'accoglimento di queste pretese l'esercito imperiale sarebbe in sostanza passato agli ordini dei principi elettori e Massimiliano di Baviera prevedibilmente sarebbe divenuto oltre che generale della lega, anche generale dell'imperatore.

Wallenstein venne licenziato. Fu del tutto superfluo che l'imperatore comunicasse tale decisione tramite amici fidati per non lasciarsi trascinare ad atti di violenza in un moto di indignazione che sarebbe sicuramente giunta dai leghisti per l'ingrato benservito al loro beniamino.

Wallenstein non rimase neppure un istante incerto su quel che gli restasse da fare, data la situazione; il suo acuto occhio politico vide perfettamente che al momento non poteva fare nulla, ma che non era lontano il tempo in cui lo si sarebbe venuti a cercare.

Ma prima di arrivare al capitolo che riguarda proprio Wallenstein
o meglio le pagine che narrano la catastrofe e la sua tragica fine
dobbiamo occuparci di una singolare figura...

LA SVEZIA E IL RE GUSTAVO ADOLFO > >

PAGINA INIZIO - PAGINA INDICE