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126. GENESI DELLA GUERRA DEI TRENT'ANNI


Per le guerre e per i mercenari occorrevano, denari, denari, e denari; che non bastavano mai.
Così si "brevettò" e si adottò il sistema che l'esercito dovesse mantenersi da sé, con i saccheggi.

Dopo quanto letto nei due precedenti capitoli, iniziava dunque la lotta con le grandi nazioni protestanti, e lo scopo del ritorno offensivo del cattolicesimo era indubbiamente la riconquista delle posizioni perdute per effetto della Riforma. Tuttavia non si sarebbe di sicuro arrivati per questo ad una guerra mondiale. La concezione della guerra dei trent'anni come una guerra di religione non regge ove si consideri meglio la sua genesi.
Per quanto grande abbia potuto apparire l'influenza delle questioni religiose sul contegno delle potenze, l'influenza delle cause d'ordine politico ed economico furono immensamente maggiori.


Gli stati e staterelli al tempo della Riforma.

Non dobbiamo dimenticare che l'impero tedesco si era dissolto in 350 stati e staterelli di diverse dimensioni, solo formalmente sottoposti all'imperatore; e dobbiamo anche ricordare che la stessa Spagna asburgica - una volta la massima potenza europea - iniziò quasi subito il suo definitivo declino come arbitro della politica europea.

Filippo II, dopo l'abdicazione di Carlo V, ereditò non solo le corene di Spagna, i possedimenti absurgici in Italia a nei Paesi Passi, diventando così il più potente sovrano della cristianità, ma ereditò anche le aspirazione universalistiche del padre. Infatti la sua politica estera fu dominata dall'aspirazione all'allargamento dei confini del regno. Come influenza politica in Europa era ancora molto forte ma poggiava su una finanza statale assai debole, più volte costretta alla bancarotta. Tale influenza la esercitò con molta abilità anche in Inghilterra tra il 1554 e il 1558, come marito di Maria I Tudor, favorendo così la restaurazione cattolica.
Poi dopo aver consolidato il potere asburgico in Italia con la pace di Cateau-Cambresis, con un nuovo matrimonio con la figlia del re di Francia Enrico II, Elisabetta di Valois, pose fine al conflitto tra la Francia e Asburgo e andò a creare le condizioni per intervenire militarmente sul territorio francese contro i protestanti.

Ma la causa prima di questo sconvolgimento politico d'Europa che non ha l'uguale nella storia delle nazioni civili consistè nell'alterazione profonda che la situazione economica europea subì in seguito alla scoperta e utilizzazione delle vie marittime verso le due Indie. L'egemonia del traffico mercantile sfuggì dalle mani della lega anseatica e delle città commerciali della Germania meridionale e passò alle nazioni dell'Europa occidentale, portoghesi e spagnoli, olandesi ed inglesi.
L'Europa centrale restò tagliata fuori dal grande traffico mondiale, né trovò la forza per entrare in competizione con gli Stati occidentali. Siccome poi contemporaneamente l'apertura delle nuove vie commerciali fece precipitare il traffico mercantile di Venezia e le fece perdere la posizione monopolistica che per secoli aveva goduto nel Mediterraneo, si verificò pure un ristagno nello sviluppo commerciale della Germania meridionale e dell'Italia.

E da ultimo l'Olanda (o meglio La Repubblica delle Province Unite) e l'Inghilterra non si limitarono a monopolizzare le nuove vie marittime, ma sottrassero all'Hansa e ridussero nella propria mano l'industria dei trasporti nel Baltico ed in parte persino nel Mare del Nord.
La lega anseatica credette di potersi procurare un compenso nell'incremento dei propri traffici con la Svezia, dalla quale ritenne di poter reclamare una preferenza in virtù di vecchi privilegi. Ma gli svedesi si ribellarono a tale pretesa e chi trasse vantaggio dalla lotta decennale che ne seguì furono gli Olandesi, i quali sulla fine del XVI secolo facevano la maggior parte dei loro affari nei porti del Baltico.

L'esclusione dal traffico mondiale portò in Germania all'isolamento economico dei singoli Stati, che si cinsero di barriere doganali e cercarono un qualche compenso ai mancati proventi in un'aspra politica di dazi. Ne seguì un ancor maggiore immiserimento delle città commerciali. Dalla metà del XVI secolo non hanno più fine i rimpianti e i dispiaceri circa la decadenza dei commerci e delle industrie. Sul finire del secolo poi a tutti gli altri malanni s'aggiunse il dilagare inaudito delle frodi monetarie, della falsificazione della moneta, che seminò nei bilanci delle classi medie e popolari maggiori dissesti e rovine che non le razzie delle banche moderne e dei moderni sindacati e trusts industriali.

Da quando poi Sully sostenne addirittura il principio che era nell'interesse degli Stati ridurre la percentuale di metallo fino nella moneta per renderne più difficile l'emigrazione all'estero, i principi tedeschi non indugiarono a servirsi di questo mezzo apparentemente propizio per arricchirsi a buon mercato.

Nei primi- tempi del XVII secolo non vi fu territorio dell'impero che non coniasse moneta di metalli poveri e da ultimo persino di stagno. Tutta la Germania rimase inondata di monete assolutamente prive di valore, mentre i metalli preziosi si concentravano nelle mani dei capitalisti e speculatori.

La catastrofe finale cominciò nelle fiere dell'anno 1618, nelle quali i negozianti non vollero più fornire merce se non in cambio di altra merce o di moneta buona. Si credette di potere arrestare il crollo generale di tutti i valori con l'intervento dell'autorità politica e religiosa, ma invano; il torrente ormai scatenato ridusse a zero tutte le monete malsane. Il tuonare del clero dal pulpito non riuscì a concludere nulla in contrario. Insieme con i colpevoli dovettero portar la pena anche gli innocenti e migliaia di famiglie caddero nella più squallida miseria. I funzionari e salariati furono felici se si videro ricompensati in natura.

Il rapido regresso da un'economia monetaria fiorente, che aveva in precedenza procurato alla Germania un grado di benessere mai più raggiunto in seguito, l'economia naturale danneggiò tutte le classi sociali. Non essendo più le risorse sufficienti a permettere alla generalità di continuare nell'abituale tenore di vita, divampò una selvaggia lotta di egoismi che pose capo allo sfruttamento degli elementi più deboli delle popolazioni da parte degli elementi più forti perché assistiti dalla legge ovvero possessori dei residui capitali esistenti.
Le corporazioni ostacolarono sempre più lo sviluppo della vita cittadina e la popolazione rurale in molti luoghi venne ridotta in condizione semi-servile.

D'altro canto il bisogno di denaro, e quindi la necessità di aggravare le imposte, da parte dei principi, e sopra tutto dell'imperatore, era venuta sempre crescendo durante il XVI secolo e si era fatta anche più critica sul passaggio al XVII secolo; e ciò non soltanto per esigenze politiche, ma anche per le abitudini di lusso e di crapula che invasero le corti, e per le enormi somme che divorava il mantenimento di queste case principesche, essendo invalsa tra i principi la moda di far sfoggio del maggior possibile numero di persone addette al loro servizio.

Né bisogna a questo proposito trascurare un altro elemento. Una parte notevole dei principi fu spinta dall'indirizzo intellettuale della Riforma ovvero dai Gesuiti a procurarsi una cultura superiore a quella usuale antecedentemente nelle corti; nella dottrina pubblicistica e nell'opinione pubblica poi si diffuse la convinzione che l'accentramento del governo nelle mani di un principe colto e retto desse la più sicura garanzia di benessere generale; in altri termini l'opinione comune si mostrò sempre più favorevole all'assolutismo, che andò instaurandosi di fatto, per ricevere poi la consacrazione legale alla fine della guerra dei trent'anni.

Di pari passo con l'assolutismo si sviluppò la burocrazia, di cui i principi non poterono fare a meno, e che ora, accanto alla giurisdizione, cominciò a svolgere la propria attività nei vari rami dell'amministrazione. Occorse pertanto provvedere a questa burocrazia, e ciò importò per i principi l'erogazione di importanti somme di denaro annue, e a sua volta l'istituzione di organi finanziari stabili per la gestione ottimale di tali fondi.
Sempre più si andò stabilendo una solidarietà di interessi tra i principi e i funzionarci, i quali poi si interposero permanentemente tra sovrani e sudditi e ruppero quel contatto immediato e quelle relazioni dirette tra i governanti e i governati che sono così caratteristici dell'ordinamento medioevale.

Dopo ciò cominciarono a formarsi le legislazioni territoriali, composte di concessioni, ordinanze e cose simili, la cui fucina era la zelante cancelleria dei principi, e che in seguito vennero codificate da eminenti giuristi.
Una particolare considerazione meritano gli ordinamenti militari. Essi nel corso del XVI secolo subirono una completa trasformazione; e per l'appunto le modalità con cui essa avvenne permisero la formazione dei grandi eserciti che scesero in campo nella guerra dei trent'anni.

Le milizie feudali non diedero più sicuro affidamento ai principi per lo svolgimento dei loro irrequieti progetti politici. Essi preferirono appaltare, per così dire, l'arruolamento di corpi di esercito volontari a generali presi al proprio soldo. La formazione e l'equipaggiamento di reggimenti divenne allora una forma di speculazione per i grandi capitalisti.
Il profondo mutamento che l'arte della guerra subì in conseguenza dell'impiego della polvere e delle armi da fuoco sminuì di molto il valore della cavalleria feudale. Le costosissime armature, che i nobili meno abbienti non riuscivano ormai a comperare, perdettero quasi ogni efficacia nelle battaglie campali, la cui sorte d'ora innanzi dipese sostanzialmente dall'azione delle fanterie.

La parte sovrabbondante delle popolazioni che non trovava sufficientemente da vivere nelle campagne e nelle città si manifestò immediatamente propensa ad abbracciare il nuovo mestiere del servizio militare volontario; anzi la passione della gioventù tedesca per le armi e per andare in giro per il mondo contribuì a far considerare questa una professione onorevole e dilettevole. I primi mercenari svevi che Giorgio di Frundsberg arruolò per conto del re e guidò oltre il Brennero erano brava ed onesta gente già addestrata nell'uso delle armi bianche, cui poté essere rapidamente insegnato anche l'uso delle armi da fuoco. La nuova professione mirò subito ad organizzarsi corporativamente, tanto che già nei primi tempi di Carlo V sorse una completa legislazione sui diritti e doveri dei lanzichenecchi (Landsknechte, nome assunto da questi volontari tedeschi), e l'opinione pubblica li considerò come «un ordine».

Divenuta la guerra un mestiere comune, anche la teoria si impadronì dell'argomento, e nel corso del XVI secolo apparve una serie di compendi d'arte militare, i migliori dei quali sono quelli di Leonardo Fronsperger, cittadino di Ulm.
È rimarchevole che contemporaneamente al sorgere del mercenarismo sorse l'idea e fu ventilata pure l'opportunità del servizio militare obbligatorio per tutti. Il Machiavelli per primo propose e discusse il problema nella sua «Arte della guerra». Lazaro Schwendi, generale di re Massimiliano II, si fece sostenitore degli eserciti nazionali in luogo di quelli mercenari. Giovanni di Nassau difese il sistema di destinare al servizio militare quegli elementi paesani, preferibilmente volontari, che non fossero necessari in altri rami d'attività della vita civile, addestrandoli fin dal tempo di pace.
Maurizio d'Assia espresse lo stesso parere; e persino Spinoza reclamò che gli eserciti fossero formati di cittadini, nessuno escluso, e di soli cittadini.

Il conte Guglielmo di Lippe introdusse effettivamente nel 1749 nel suo piccolo territorio il servizio militare obbligatorio e tenne sotto le armi il 6 % della popolazione.

Per far la guerra i signori territoriali, il cui diritto di guerra non era contestato da alcuno, benché non fosse legalmente riconosciuto in nessun luogo, non avevano bisogno che di denaro e di uomini. E poterono facilmente trovare ambedue le cose. Il capitale infatti vide subito che l'impiego del denaro per finanziare la formazione degli eserciti mercenari era un affare ottimo, e materiale umano per organizzare simili eserciti non ne mancò. A comporli concorsero tutte le classi sociali; ma il compito di arruolarli e comandarli rimase per il momento riservato alla nobiltà.
Di regola dieci drappelli o compagnie di 300 uomini ciascuna formavano una unità organica sottoposta ad un capo (colonnello) e dotata di un governo (reggimento) proprio. Sotto Carlo V diventò di uso comune l'uso di denominare «reggimenti» questi gruppi di drappelli assoggettati allo stesso comando e ad una giurisdizione propria, e da allora il reggimento divenne pure una unità tattica e amministrativa.

Per lo più i maggiori principi rilasciavano patenti d'arruolamento per interi reggimenti agli stessi colonnelli destinati a comandarli. Per fare il comandante di reggimento occorreva quindi non solo avere fama di valente soldato ma essere anche un abile organizzatore e un conoscitore di tutto il meccanismo degli arruolamenti. Inoltre bisognava poter disporre di una cospicua somma di denaro da impiegare nell'impresa, perché nella maggior parte dei casi questo comandante-imprenditore doveva anticipare le spese di arruolamento ed equipaggiamento e spesso anche il soldo mensile e le spese di mantenimento degli uomini arruolati ed attendere del tempo prima di ottenere il rimborso di quanto aveva erogato. In compenso egli si tratteneva buoni interessi e provvigioni che raddoppiavano e triplicavano il suo capitale. Queste sono le ragioni degli enormi anticipi di denaro cui dovettero esporsi i condottieri di più alto grado per formare corpi più numerosi, e che varie volte li trascinarono in disastri finanziari.

Jacopo di Collalto, il quale per conto successivamente di Enrico III, degli spagnoli e dei Guisa, organizzò e mantenne in Francia per sette anni due reggimenti di mercenari tedeschi; si recò persino molto di rado presso le sue truppe e preferì starsene comodamente presso suo fratello a San Salvatore di Conegliano ovvero nell'avito castello di Collalto. Egli tenne ai suoi stipendi un luogotenente che non solo provvedeva all'impiego dei reggimenti nelle operazioni militari ma curava la gestione finanziaria rendendogliene conto.
I conti delle gestioni finanziarie di questi impresari di guerra erano incredibilmente arruffati e comprendevano somme enormi che i principi dovevano sborsare.
Ma la mancanza di denaro contante metteva i principi alla mercé dei condottieri che anticipavano le spese. Costoro lucravano indebitamente non solo mettendo in conto ogni sorta di obbligazioni per veri o pretesi anticipi, ma anche falsificando i ruoli di consistenza della forza sotto le armi. Il numero dei soldati arruolati, in base al quale erano regolati i conti di dare e avere tra i principi e i condottieri, in qualche modo veniva accertato mediante una rassegna alla presenza di commissari governativi e consacrato in appositi ruoli. Ma se era già materialmente difficile controllare nei particolari l'esattezza di questi ruoli, i principi erano costretti a chiudere un occhio su questa faccenda quando avevano bisogno di ricorrere al credito da parte dei comandanti.

La lotta fra la Spagna e i Paesi Bassi fece sempre di più sviluppare questa industria di guerra. Molti cadetti di famiglie nobili il cui asse ereditario non era abbastanza largo per assicurare una posizione cospicua a tutti i loro membri, si fecero liquidare una parte della loro quota d'eredità, si equipaggiarono splendidamente di cavalli, armi e servi e si offrirono al servizio degli spagnoli. Qui impararono il mestiere di impresari di guerra, che peraltro non esercitarono se non ai confini orientali dell'impero per la difesa dei territori austriaci contro i turchi.

La spesa che comportava un reggimento di volontari arruolati era molto alta, ove si tenga conto dell'alto valore della moneta a quei tempi. Il soldo mensile di ciascun mercenario tedesco per circa un secolo si aggirò sui 4 fiorini. Assai elevati poi erano gli stipendi degli ufficiali superiori; ad esempio, un comandante di reggimento percepiva 400 fiorini d'oro al mese.
In complesso il costo di un reggimento di 3 a 4 mila uomini saliva a 35.000 fiorini mensili. A ragione dunque nel 1532 il Dr. Cristiano Scheurl poté affermare che un modestissimo esercito in sei mesi divorava 560.000 fiorini.

La Spagna per reprimere l'insurrezione dei Paesi Bassi dovette spendere da 2 a 3 milioni di corone d'oro all'anno. Già nel XVI secolo era noto il motto, più tardi attribuito al conte Montecuccoli: «Per fare la guerra occorrono tre cose: denaro, denaro e poi ancora denaro»; pare che ne sia stato autore il condottiero Gian Giacomo Trivulzio. Per la provvista del denaro necessario alla guerra cominciò ad usarsi il mezzo di ricorrere ai prestiti pubblici.
Vi ricorsero per lo più con successo le città; mentre i principi, se i loro demani non erano sufficienti, seppero, mediante pignoramento delle entrate future, vendita di uffici pubblici, deteriorazione della moneta, procurarsi almeno quanto era necessario per finanziare i primi arruolamenti.

Verso la metà del XVI secolo si ha per la prima volta' l'apparizione di un condottiero che non fa l'impresario di guerra per impiegare i propri capitali. È il duca Alberto Alcibiade di Brandenburg-Culmbach, il quale prendendo le parti di Maurizio di Sassonia, opera con un esercito che vive unicamente di saccheggio. Il duca Alberto vale a dire adottò il sistema che il suo esercito dovesse essere mantenuto dal nemico. È a lui dunque, e non a Mansfeld o Wallenstein, che va attribuito il brevetto di invenzione degli eserciti destinati a mantenersi da sé. ( l'applicarono poi anche i rivoluzionari francesi - e la tanto intollerabile condotta di Napolene nella sua campagna d'Italia, fu dovuta agli ordini di Parigi).

Ma allora che cosa risolse la Pace d'Augusta ?

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