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69. DECADENZA DELLO STATO BUROCRATICO - 785 - 1185


Tempi duri, di lotte, guerre, carestie. Distribuzione di riso al popolo affamato


L'imperatore Kuammu (782 - 805), prendendo arditamente a modello Ciang an, (l'odierna Singanfu) già splendida capitale della Cina sotto gli imperatori Tang, ordinò che fosse fondata nel suo impero una nuova capitale, una vera grande città con un quartiere speciale per il suo palazzo e con strade regolari intersecanti ad angolo retto.
Quasta nuova sede imperiale (più a nord di quaranta chilometri da Nara) situata nel piano collinoso, ameno e fertilissimo di Yamashiro, nelle vicinanze del lago Biwa, nascosto dagli alti monti dell'Hiei-san, ricevette un nome di buon augurio, quello di «Heian», cioè città della pace; e veramente i quattro secoli, nei quali il governo dell'impero fu diretto da questa capitale (la futura Kyoto) sono di solito indicati come lo splendido periodo di Heian, un'epoca di classicismo nell'arte e nella scienza e di vita sontuosa nella Corte.

Nell'uso comune però il nome poetico Heian del luogo, dove rimase dal 794 al 1868 la capitale dell'impero, non prese piede, ma bensì quello di «Kyoto» che significa semplicemente «capitale».
E nelle sorti burrascose di quel fine millennio in realtà troppo spesso le fu negato di essere una sede di pace, come il suo nome prometteva.

Tutti gli eccellenti ordinamenti nel campo politico e il regolamento di ogni relazione sociale ed economica diretto al benessere generale, quali erano stati fissati nelle leggi Taiho e Yoro, avevano avuto tempo di maturare e di giungere ad essere attuati; con questo si avevano buone ragioni di prevedere uno sviluppo continuo, pacifico e prospero dell'impero giapponese nel suo corso ascendente.
Tuttavia già durante il periodo di Nara, nel quale diversi sovrani si erano mostrati inferiori a quanto richiedeva il potere loro affidato, non erano mancati pericolosi turbamenti dell'ordine pubblico, come, per es., nelle audaci macchinazioni del sacerdote Dokio, ed ancora più se ne manifestarono in seguito.

Poiché per tener lontani quei disordini non bastavano, come nemmeno in Cina al tempo dell'esemplare dinastia dei Tang, soltanto le eccellenti prescrizioni legislative, le quali sotto certi aspetti erano ormai troppo in contraddizione con le condizioni reali del paese e specialmente con i rapporti economici nelle province esterne.
Anche qui doveva confermarsi la verità politica del detto di Schiller: «Agevolmente dimorano i pensieri l'uno presso all'altro, ma nello spazio le cose duramente cozzano fra loro». Difatti col culto degli antenati, che era l'unica e durevole base di tutta l'unità sociale e della sicurezza dell'impero insulare, era legata nel modo più intimo la tendenza all'eredità, tramandata dagli antichi vincoli di stirpe degli ugi. Mentre secondo le disposizioni legali i funzionari erano scelti soltanto per merito e capacità e non dovevano ricevere il loro ufficio a vita, ma soltanto per una durata minore, riuscì loro d'infrangere sempre più questa massima fondamentale della grande riforma.

Però con gli uffici, e specialmente con i più elevati, diviene ben presto ereditario anche lo «scioyen», ossia il reddito del fondo annesso ad essi e poi il fondo stesso, in modo simile a quanto avvenne nel regno franco sotto i successori di Carlo Magno a proposito dei conti, stabiliti in origine quali funzionari solo temporanei del governo.
Così a danno del principio del diritto imperiale di proprietà sull'intero paese (che veramente non era stato mai del tutto attuato) ebbe origine una grande proprietà fondiaria indipendente e immune da imposte, specialmente nelle province esterne, lontane dal governo centrale di Kyoto.

Continuò tuttavia a sussistere ancora la distribuzione generale delle terre, anche se non sempre regolarmente e dovunque. Una legge dell'anno 902 determina che le porzioni assegnate «a testa» («kubunden») non debbano essere distribuite come era stato fatto prima ogni sei anni, ma soltanto ogni dodici.
Del resto in questi termini non si procedeva a una nuova ripartizione di tutto il paese, ma si doveva tener conto soltanto delle porzioni vacanti per la morte dei concessionari e delle persone nuove sopravvenute; era difatti uso che ciascuno conservasse fino alla morte il lotto di terre, che aveva una volta ricevuto.

Con le pericolose sollevazioni nel secolo X contro il potere imperiale e con l'aumentare dello «scioyen» dei grandi proprietari di fondi, ai quali divennero vassalli i contadini da loro protetti, finì poi con lo scomparire del tutto il sistema delle «kubunden».
Se alla nobiltà di Corte di Kyoto, proveniente per lo più dagli Omi e dai Muragi, riuscì di rendere ereditari gli uffici nelle proprie famiglie, dipese principalmente da questo che appunto la più prestigiosa e la più potente di esse, quella dei Fujiwara, che tanti servizi aveva reso all'impero, aveva già preso con buon successo quella via; e ciò sebbene appunto il suo celebre antenato, il gran cancelliere Kamatari e il figlio di lui Fubito, così benemerito per le leggi Taiho e Yoro, fossero stati ardenti promotori dello Stato burocratico, che escludeva simile eredità.

Eppure già nel periodo di Nara i discendenti di Fubito, per tacere di altri uffici, avevano occupato quasi regolarmente quello di cancelliere. Giunsero poi i Fujiwara al colmo della potenza quando l'ufficio di reggente «Kuampaku» istituito verso la fine del secolo IX, e quello di «Sesscio», cioè di tutore di un imperatore minorenne, divennero ereditari esclusivamente nelle cinque case Fujiwara, Konoe, Kugio, Nigio, Icigio e Takatsukasa (qui sembra di assitere ai "maggiordomi" di palazzo da Pipino in poi).

L'ufficio d'intermediario delle relazione dei funzionari col sovrano, che diveniva sempre meno indipendente, si trovò allora interamente nelle mani dei Fujiwara, che così dominavano tutta l'amministrazione dello Stato. Essi seppero inoltre aggiustare le cose in modo che ottenessero la dignità imperiale dei fanciulli minorennni sotto la loro tutela; una volta cresciuti, se non erano docili alla famiglia dominante, certo non del tutto spontaneamente e spesso, già in età giovanile abdicavano, per condurre una vita anche troppo mondana, oppure se ribelli in uno dei tanti monasteri buddistici. (nè più e nè meno di cio che avveniva in Europa presso i Franchi con i "maestri di palazzo").

Che gl'imperatori fossero spogliati dai Fujiwara dalla loro propria potenza si comprenderà meglio se si considera che i «kuampaku» e i «sesscio» erano per lo più i nonni, gli zii e i suoceri degli stessi sovrani. Questi poi erano certo ben contenti di sottrarsi al carico degli affari di Stato a favore di un cancelliere loro stretto parente, sicuramente più preparato, e loro dedicarsi con maggior zelo nelle opere della devozione buddistica o dell'arte o alle gioie della vita sensuale di Corte. In fondo si tratta anche qui soltanto di un fenomeno, il quale sempre ricompare nella storia giapponese, che cioè il vero potere sovrano è esercitato di fatto non da chi è investito della dignità imperiale, ma da un'altra persona in suo nome.
Questo fu già il caso, per es., degli O-muragi e degli O-omi nel periodo degli Ugi e quello del principe ereditario, che fu poi l'imperatore Tengi al tempo della riforma Taikua.

Ma anche i Fujiwara, come gli stessi imperatori, non dovevano finalmente sfuggire all'influenza dissolvente della vita spiritosa e sensuale della Corte, con la quale formava veramente un contrasto scandaloso la situazione della maggioranza della popolazione, non di rado indigente a causa di carestie e di epidemie e ancora privo di cultura.
Le aspirazioni politiche di questa famiglia ambiziosa, dalla quale erano derivati anche tanti artisti e dotti rinomati, erano rivolte soprattutto verso il ramo amministrativo del potere.

I Fujiwara non esercitavano personalmente il comando militare per la difesa dell'impero sia nelle sollevazioni di ambiziosi colleghi della nobiltà, divenute sempre più pericolose e più frequenti, sia in quelle di monasteri che disponevano di milizie mercenarie, ovvero nelle lotte talora molto serie contro gli Ainu ricalcitranti nel nord dell'isola principale, o negli assalti di Stati nemici, mossi allora perfino dalla Corea, a causa dei quali furono più volte devastate le coste occidentali del Giappone.

Al contrario i Fujiwara abbandonarono questo compito più duro, ma non meno importante, a generali nominati da loro, provenienti dai grandi proprietari fondiari delle province esterne, i quali lungi dalle raffinatezze della Corte nelle lotte delle aspre regioni di frontiera avevano conservato e appreso costumi e capacità solo guerresche.
Furono specialmente due famiglie, discese da principi imperiali del secolo IX e famosi per guerre vittoriose, i TAIRA (oppure Hei) e i MINAMOTO (od anche Ghen, Ghengi), che attraverso quel mestiere raggiunsero una grande considerazione e una grossa sostanza ereditaria; cominciava intanto a svilupparsi dai seguaci dei grandi proprietari fondiari una classe di militari di mestiere, come i «ministeriali» del nostro medio evo.

Lo «Scioyen» delle grandi famiglie nobili, che godeva di una specie d'immunità, intorno all'anno 1100 abbracciava (a quanto sembra) i nove decimi di tutta la proprietà fondiaria, e verso la fine del secolo XII i soli Taira ne possedevano circa la metà.
Naturalmente coloro, che erano rivestiti dell'autorità militare, anche troppo presto divennero consapevoli della loro potenza. L'ordinamento esistente cominciò a vacillare, i grandi proprietari fondiari si facevano guerra l'un l'altro e dovunque regnava il diritto del più forte. L'influenza dei Fujiwara si estendeva appena oltre le province intorno alla capitale, mentre a ponente i Taira, a levante, e i Minamoto prima di ogni altro avevano nelle loro mani il potere.

Nella lotta decisiva, che si accese verso la metà del secolo XII fra queste due famiglie, i Minamoto furono quasi completamente sterminati e a partire dal 1167 i Taira esercitarono di fatto il potere sovrano nel paese. Più tardi però a due rampolli ormai cresciuti dei Minamoto, tra i pochi lasciati vivi, all'accorto Yoritomo e a suo fratello, al gran capitano celebrato nella letteratura, come Orlando fra i paladini di Carlo Magno, riuscì a sollevarsi contro i Taira.

Nella grande battaglia navale di Dannoura, nelle vicinanze di Scimonoseki, l'intera stirpe dei Taira trovò nel 1185 la propria rovina, insieme col settenne imperatore "fantoccio" Antoku da loro posto sul trono; con esso si gettò disperata nelle onde la nonna, vedova di Kiyomoris, potentissimo capo supremo dei Taira (morto nel 1181), Yoritomo Minamoto ristabilisce finalmente l'ordine nel paese e nel 1192 ottiene dall'imperatore la nomina a Sei-y-tai-Sciogun, una carica, il cui nome letteralmente significa «il generale che castiga i barbari», e con la quale ottiene la sovranità di fatto.

UNO SGUARDO ALLA VITA DI CORTE
LE ARTI

Sotto i Fujiwara la splendida vita di Corte, applicata secondo il cerimoniale cinese, faceva di Kyoto la sede fiorente dei piaceri, delle arti e delle scienze, come di una letteratura di "beaux ésprits", principalmente coltivata dalle dame di corte e condotta ad una certa altezza ma dove spirava un alito di femminilità alquanto snervante. Intorno all'anno 1000 venne di moda l'uso di tingersi di nero i denti e non (come più tardi) tra le donne maritate, ma tra i cortigiani più in vista.
Fa un'impressione singolare anche la pretesa di una gran parte della nobiltà di Corte di avere un'origine straniera. Secondo il «Seisciroku», prospetto dei nomi di famiglia giapponesi compilato dal principe Mata nell'814 e che contiene la discendenza di circa 1200 stirpi, non meno di un terzo circa di esse faceva derivare la propria origine da immigranti cinesi e coreani.

Quale luce sfavorevole non getta sui costumi del tempo il fatto che, per es., nel diario celebre letterariamente di un governatore di provincia («Tosa Nikki»), che alla fine del secolo X narra il suo viaggio di ritorno da Kyoto, si trovano (e non eccezionalmente) passi come questo:
«Tutti i presenti, di alto e basso grado, perfino i ragazzi erano ubriachi fradici». In contrasto stridente con la sontuosa vita dei cortigiani stanno però le descrizioni contemporanee della spaventosa miseria che vi era a Kyoto e ancor di più nelle province, nei casi non rari di carestie, pestilenze, terremoti e incendi.
Così da una carestia verso la fine del sec. XII soltanto nel quartiere centrale della capitale, in soli due mesi, furono portate via non meno di 42.300 persone.

Il lato brillante del periodo di Heian è formato dai bei successi incontestati nel campo della scienza cinese, della letteratura e dell'arte, i quali in molti modi corrispondono molto da vicino e per le persone e per le cose al progresso caratteristico che presentò il Buddismo nel Giappone.
Due sacerdoti dei secolo IX, Kobo Daisci (o Kukai 774-835) e Denghio Daisci (767-822) sono qui da ricordare; il primo di essi soprattutto con i suoi maravigliosi lavori nei campi più diversi ha lasciato tracce notevoli nello sviluppo spirituale del popolo giapponese durante il medio evo, le quali anche oggi qua e là si fanno sentire.

A differenza di Denghio, col quale Kobo fu mandato dal governo giapponese in Cina a studiarvi le religioni, questi non solo era del tutto padrone della lingua cinese, ma introdusse nel Giappone anche la cognizione del sanscrito e su questa lingua compose un'opera che ancora rimane.
Durante la loro dimora nella splendida capitare degli imperatori Tang, a Ciang-an (Singanfu), dove allora si davano un convegno rappresentanti dei vari popoli e culti di tutta l'Asia, se non di più oltre, vi trovarono oltre il Buddismo, non solo il Confucianesimo e il Taoismo, ma anche delle comunità fiorenti di Manichei e di Nestoriani, che vi possedevano chiese proprie; poteva difficilmente sfuggire ai loro sguardi il celebre monumento erettovi soltanto alcuni decenni prima e tuttora esistente, la cui iscrizione per ordine imperiale celebrava davanti a tutta la Cina le elevate dottrine della fede cristiana di quei Nestoriani.

E infatti uno dei conoscitori migliori del Buddismo giapponese, A. Lloyd, ha creduto recentemente di poter additare delle corrispondenze sorprendenti con la dottrina di Mani nella setta degli «Scingon» fondata da Kobo !
Insieme a Denghio, che introdusse nel Giappone la setta dei «Tendai», Kobo predicò con ardore e con buon successo lo «Scinto Riobu», la fusione del culto nazionale dei «Kami» con le dottrine indiane, insegnate per la prima volta dal sacerdote buddistico Ghioghi (già da noi accennato).

Se l'invenzione dei segni della scrittura kana (già accennata nei precedenti capitoli) è per lo più contestata al Kobo, a lui spetta tuttavia senza contraddizione almeno il merito di avere composto la strofa conosciuta col nome di «Jroha» dalle sue sillabe iniziali, la quale in una forma, che conserva un senso passabile, contiene senza una ripetizione tutti i 50 segni del sistema Kana.
Questo aforismo anche oggi ha la stessa diffusione e la stessa importanza, anche ai fini lessicografici, del nostro alfabeto, è recitato speditamente da ogni fanciullo e ricorda il concetto buddistico del mondo dicendo:
«Sebbene (i fiori) splendessero gradevolmente nei loro colori, sono, ahimé caduti al suolo! Chi nel nostro mondo potrà durare? Oggi oltrepassando i confini esteriori del mondo passeggero, io non più sognerò alcun sogno vano né sarò imbarazzato nell'ebbrezza (mondana)».

Lobo, pure se noi abbiamo un punto di vista critico di fronte a tutte le opere d'arte ancora conservateci e che si pretendono provenienti da lui, é anche celebrato come scultore e pittore, inoltre come autore della prima opera giapponese sulla retorica cinese, come scrittore di poesia e di prosa, come calligrafo e perfezionatore del pennello; e così pure lodato come filosofo e educatore anche delle masse popolari e come divulgatore di cognizioni relative ai mestieri.

Fra le opere scientifiche del periodo dei Fujiwara ricordiamo quattro ulteriori continuazioni del Nihonghi: il «Nihon koki» ; (Annali più recenti del Giappone, 792-833, composti nell'841), lo "Scioku-Nihon-koki" (Continuazione degli Annali più recenti del Giappone, 833-850, composti nell'869), il «Montoku-Gitsuroku» (Storia dell'imperatore Montoku, 850-858, composto nell'878) e il «Sandai Gitsuroku» Relazione degli avvenimenti di tre regni, 858-887, composto nel 901).

Col « Nihonghi » e con lo « Scioku-Nihonghi » formano la storiografia ufficiale dell'impero, conosciuta sotto il nome di «Rikkokusci» cioè «Le sei storie nazionali», che così giunge al suo termine. Un rifacimento sistematico del materiale degli annali dell'impero é rappresentato dal «Ruigiu Kokusci» (Storia nazionale ordinata per categorie), compiuto nell'893 da Sugauara no Micizane (844-903).
L'autore, ugualmente celebre anche come poeta e calligrafo, era un uomo di Stato, salito fino al grado di secondo cancelliere, e inutilmente si era adoperato per porre ostacolo ai Fujiwara, che andavano spogliando l'imperatore del potere effettivo. Questi seppero con buon successo denigrarlo presso l'imperatore Daigo (898-930), tanto che fu esiliato a Kiusciu (901), dove mori poco dopo. Oggi ancora è venerato ferventemente quale dio dell'arte del bello scrivere, in molti templi a lui eretti sotto il nome di «Teng-in» (dio del cielo) da tutto il popolo che tiene in gran considerazione la sua lealtà.

Nell'anno 833 fa terminato il « Ryo no Ghighe », il famoso commento delle leggi Taiho e Yoro risp., che ha un alto valore per la storia del diritto e della cultura. Oltre al già menzionato manuale della nobiltà il « Seisciroku » (o « Sciegiroku ») (già accennato), notiamo fra gli « Sciki » o raccolte di leggi cerimoniali l'« En-ghi-sciki » compiuto nel 927, così chiamato dal nengo « Enghi » (o Yenghi 901-922), nel quale, tra le altre cose pervennero ad una redazione scritta 27 norito, che risalgono alle tradizioni orali dei tempi più vetusti. Sono queste le preghiere rituali solennemente recitate già dai Nakatomi, che formano un elemento geniale del culto nazionale dello Scinto, non prive di un elevato slancio poetico e nelle quali sono dichiarate la ragione della preghiera come le offerte sacrificali.

Alla fine del periodo di Heian, in relazione coi tumulti guerreschi del tempo, compaiono i primi precursori del romanzo storico che giunse ad una grande popolarità e diffusione (« Eigua-Monogatari », « Okagami » ed altri.
Esso prende ora il posto degli Annali ufficiali dell'impero, più aridi, ma più importanti come fonti storiche, e in una veste che unisce insieme la poesia e la verità, quella dei racconti o monogatari, dipinge ed esalta gli avvenimenti, specialmente le guerre e i loro eroi, dal tempo passato fino a quello presente.

Ricca raccolta di frutti maturò il periodo di Heian nel campo della letteratura «des beaux ésprits», che al contrario delle opere ufficiali e scientifiche, composte in una rispettabile veste cinese, si serve del linguaggio nazionale giapponese. Ricordiamo qui la prima raccolta ufficiale di poesie giapponesi «Ko kinsciu» (905), che ne precorre una più lunga serie.
Vi ebbero una parte notevole, molto di più che nel periodo di Nara, le dame della Corte.
Due di esse nello scorcio del secolo XI crearono opere, che passano per il punto culminante di tutta la letteratura classica in prosa: il «Ghengi Monogatari» di Murasaki no Scikibu, il racconto del principe Ghengi ("Romanzo di Genji") che ritrae un'immagine raffinata ideata certo liberamente, ma viva, naturale e riccamente colorita della corruzione morale e dell'effeminata vita di Corte a Kyoto.
Inoltre il «Makura no Sosci » (quaderno dei guanciali) di Sei Scionagon, addirittura temuta alla Corte per la sua superiorità intellettuale e per la sua mordacità sarcastica, una specie di libro di schizzi, veramente caratteristico dei costumi della Corte di quel tempo, col suo entusiasmo sentimentale per la natura e con le sue avventure d'amore, giudicate tutt'altro che ingenerose.

Strettamente congiunta con lo splendido culto buddistico si svolge in quest'epoca una grande arte fiorente nel campo dei modelli per immagini religiose. Fra i pittori di «Butsuye», letteralmente «immagini buddistiche», dobbiamo menzionare come fondatori di scuole Kose no
Kanaoka (circa 850-893), amico del cancelliere Micizane rovesciato dal potere (già citato), Takuma no Tamenari (intorno al 1050), creatore delle celebri pitture murali, oggi disgraziatamente cancellate, rappresentanti «le nove regioni del paradiso occidentale» nell'aula un tempo magnifica della fenice nel tempio Tendai-Biodo-in nella località Ugi presso Kyoto, e Fujiwara Moto mitsu (secolo XI), fondatore della scuola di Kasuga, chiamata probabilmente così dal tempio degli antenati dei Fujiwara in Nara.

Come scultori in legno sono celebrati il sacerdote Genscin (942-1017), che scolpi e dipinse immagini di Budda e le cui dotte opere sulle dottrine indiane attirano oggi ancora numerosi lettori, e Sada-ie, al quale si attribuisce la statua di Amida nell'aula della fenice ad Ugi.
Certo dall'arte religiosa e specialmente dalle due scuole sopra ricordate, comincia a formarsi uno stile nazionale nuovo, non senza una qualche connessione col ridestarsi della letteratura prosastica, che si rivolge a quello che è nazionale usando la lingua giapponese. Non più mirando ai modelli classici greco-buddistici della dinastia cinese dei Tang, che nel frattempo è rovesciata, essa invece si consacra al paese e agli uomini del proprio popolo e specialmente alle loro gesta guerresche e si chiama stile yamato, da quell'antichissimo territorio centrale, che in senso traslato, specialmente nel linguaggio poetico, designa tutto l'impero insulare.

Quali creatori dello stile yamato, che raggiunge il suo massimo sviluppo nei secoli XII e XIII sono considerati Mo mitsu già ricordato e il sacerdote Toba Sogio (o Kakuyu 1053-1140), famoso soprattutto per le sue originali caricature.

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Fatta questa parentesi non di natura politica
noi alla politica dobbiamo ritornare. Cioè all'anno 1185.
A d
opo la battaglia navale di Dannoura, quando l'intera stirpe dei Taira trovò la propria rovina. Troviamo così Yoritomo Minamoto a dominare e ristabilire l'ordine nel paese; soprattutto quando nel 1192 ottiene dall'imperatore la nomina a Sei-y-tai-Sciogun, e con la quale ottiene la sovranità di fatto.

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