47. L'INCIVILIMENTO MATERIALE E INTELLETTUALE

 

Quel che nel corso del primo secolo emerge sempre più manifesto nello sviluppo dell'incivilimento dell'epoca imperiale è la tendenza di questa civiltà ad assumere un carattere universale, anzi in un certo senso cosmopolita. Già l'ambiente esterno in cui questa civiltà si svolge ha tutte le caratteristiche di un impero mondiale. Estendendosi dalla lontana Scozia a nord sino all'Atlante africano ed alle cataratte del Nilo a sud, e dall'Oceano Atlantico sino al Caucaso, all'Eufrate ed alle sponde del Golfo Arabico e Persico sopra una superficie di più di centinaia di migliaia di chilometri quadrati, abbracciando i più svariati popoli e le più diverse nazionalità con numerosi centri di antichissima ed in parte elevatissima cultura, questo impero romano parve ai «signori del mondo» esaurire in un certo modo l'orbe terraqueo, l'orbis terrarum.

Lo Stato romano fu ufficialmente equiparato all'orbe terraqueo, concezione spiegabile, date le conoscenze geografiche di allora, dopo che il Mediterraneo era divenuto un lago romano e tutte le regioni che lo circondavano erano per una vasta estensione cadute sotto la signoria di Roma. E siccome questo Stato mondiale - se si prescinde dal confine dell'Eufrate - era da ogni lato attorniato da mari e regioni prive di cultura, a nord da foreste e da steppe, ad occidente dall'Oceano che per gli antichi segnava il limite del mondo, e a sud da ardenti deserti di sabbia, esso apparve distinguersi tanto nettamente dal resto e costituire un tutto a parte anche dal punto di vista economico, politico e culturale, che in Roma, non diversamente nella monarchia di Alessandro Magno, l'idea dello Stato universale partorì l'idea di organizzare l'«ecumene», fin dove lo si dominava, sopra una base comune di cultura e così unificarla anche interiormente.

E l'Impero aveva contemporaneamente posto un sostrato di incomparabile valore per la realizzazione di questa idea di un incivilimento comune al genere umano con la pace universale da esso arrecata, pace il cui autore, Augusto, è vantato in una iscrizione di Alicarnasso come «il salvatore di tutto il genere umano» e per la quale «le terre e i mari sono pacificati e le città fioriscono nella legalità, nella concordia e nel benessere». Ancor sotto Marco Aurelio, Aristide di Smirna nella sua apologia dell'imperatore e dell'impero dice:
«I vinti non invidiano e non odiano più la loro vincitrice Roma. Essi hanno dimenticato che un tempo furono indipendenti, perché sono in possesso di tutti i benefici della pace. - Le città dell'impero brillano di grazia e di bellezza -. Non può forse chiunque andare con piena tranquillità dappertutto? I porti son lì tutti pieni di attività! E non offrono forse le vie montane la stessa sicurezza al viandante come le città ai loro abitanti? Dove è mai un fiume che sia chiuso al passaggio, una via marittima chiusa alla navigazione? La terra intera ha deposto il suo antico abbigliamento, il ferro, ed appare ora vestita a festa. - Basta esser Romano per esser sicuro. Voi avete realizzato il detto di Omero: «la terra è comune a tutti». Voi avete misurata la terra, gettato ponti sui fiumi, tagliato strade sui monti (si pensi alla strada danubiana di Traiano alle « porte di ferro ») resi abitabili i deserti e nobilitato tutto con l'ordine e la disciplina. Voi col reciproco ravvicinamento dei popoli avete fatto del mondo quasi una sola famiglia ».

Persino un testimonio più tardo, sotto un certo riguardo ostile alla cultura romana, ex pagano, poi padre della chiesa Tertulliano, verso la fine del secondo secolo ha sciolto un inno entusiastico a questo incivilimento. « Tutta la terra - egli dice - é accessibile, tutta è conosciuta, tutta é fervente di traffici. Al luogo di solitudini paurose son sorte ridenti culture, il grano ha soppiantato le foreste, le greggi hanno discacciato le belve. Deserti di sabbia sono messi a coltura, rupi tagliate, paludi prosciugate. Vi sono già tante città quante in altri tempi capanne. Le isole hanno deposto la loro antica sterilità, gli scogli non spaventano più il navigante. Ovunque ferve il lavoro dei campi, fiorisce la popolazione, regna l'ordine pubblico e la vita ».
(Questo, all'epoca di Tertulliano, poi i suoi successivi colleghi le "ridenti culture" le mandarono a farsi "benedire". Fecero in modo di far ritornare l'intera umanità nella "antica sterilità"; e ci si misero con tale impegno che ci riuscirono!! Fecero chinare il capo alla rassegnazione e li inginocchiarono tutti. Via ogni tipo di intraprendenza, creatività, spirito d'impresa; ci fu solo un vero e proprio appiattimento di tutte le intelligenze, arrogandosi pure il diritto - facendone un monopolio - dell'etica umana con una religione via via sempre di più totalitaria, esclusiva, via via sempre più adattata al loro potere, all'inizio spirituale poi anche temporale. E queste qualcuno dice essere le radici del popolo europeo!!! (*). Fu invece una vergogna !!! Un potere conquistato lanciando a destra e a manca alla gente sempre, sempre di più ignorante, opportunistici anatemi, falò, inquisizione, terrorizzando continuamente il mondo, che per oltre mille anni si fermò. Si nasceva, si viveva e si moriva nel nulla.
Radici ? Quali? Desacralizzazione dell'Occidente? Gli stessi rami di quella pianta ha impedito per secoli l'autodeterminazione dell'uomo e della donna imponendo doveri e norme contrari alle libertà individuali.
Il positivismo dell'illuminismo tutto da condannare? Non sembra, perchè è stato anche positivo per la stessa religione. Dice Lucio Villari "Gli individui sciolti da una subalternità imposta o dai dogmi, poterono accettare in piena libertà i valori della fede").
(*) Ma ultimamente con la forte influenza (economica, militare e politica) che ha oggi Israele in Europa e nel mondo (prossima ad entrare nella UE) già si va scrivendo che le profonde radici culturali e di fede sono "giudeo-cristiane". Fra non molto quando cesserà l'anti-islamismo, e anche Turchia e chissà quale altro Paese islamico entrerà nella UE, i futuri politici scriveranno che le radici sono "giudeo-islamico-cristiane". Insomma niente di nuovo sotto il sole. - E fino a ieri il sacrificio della messa lo si terminava con la "maledizione sul popolo deicida di Cristo")

E che dire delle "guerre sante" ?
Oggi ci scagliamo col dire "La guerra Santa dell'Islam è contro Dio". Dimenticando quando l'intero occidente nelle crociate gridava "Dio lo vuole". La religione si era trasformata in fanatismo, e il fanatismo in violenza. La religione sposò sempre più la politica facendo scivolare il Cristianesimo nella mondanizzazione. E, -scrive Giovanni Reale "Quando Dio diventa politica nasce il fondamentalismo".

Ma ancora più grave, quando lo stesso fondamentalismo è usato come opportunismo politico. Negli ultimi anni della permanenza dei cristiani in Terra Santa, per non perdere le loro conquiste "terrene" e i lucrosi commerci, questi si schierarono con i mongoli del Gran Khan Hulagu, convinti che gli "invincibili" avrebbero vinto i Mammelucchi; e pagarono caro questo cambio bandiera che era una vera e propria apostasia (Vedi battaglia del 20 luglio 1260 - al capitolo 46 - Oriente ).


Ma ancora nella Seconda Guerra Mondiale, dall'America partì verso l'Europa la "Crociata". L'infedele era allora Hitler - Eisenhower intitolò il suo libro-diario proprio "La crociata in Europa" e che il Dio "americano" lo voleva. E perchè non ricordare anche il cardinale Spelmann, che alla partenza delle truppe per il Vietnam, le benediva col dire, andate "Dio è con voi!".
Insomma, è anche questo, fondamentalismo, fanatismo e infine opportunismo politico Assente ogni concetto cristiano. Relativismo e nichilismo di una civiltà che oggi come allora ha sempre avuto sempre difficoltà a dialogare con il popolo di Israele (che ha sempre maledetto perchè deicida) e con il popolo dell'Islam (combattuto con la spada delle crociate). Pur avendo le tre religioni rivelate, una stessa radice e lo stesso Dio.

Da qualche parte prendendo un testo bizantino del 1300, si fa accenno al rimprovero che fece l'imperatore Manuele II Paleologo assediato dagli arabi, accusati di ogni nefandezza "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede".

"nulla di nuovo" !
Infatti in due Vangeli Gesù Cristo dice più o meno la stessa cosa:
" Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada"
(Vangelo secondo San Matteo, cap. 10. 34)
In quello di
San Luca , cap. 12. 51 "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione".
E come sappiamo i fanatici crociati la spada la usarono. E in quanto a "divisione", prima questa con Roma era la religione Bizantina, poi si continuò con quella islamica.

Accanto alla sicurezza del traffico costituì una potente leva per il progressivo cammino di questo incivilimento il meraviglioso sviluppo di tutti i mezzi di comunicazione; sotto questo riguardo l'età imperiale non é stata in complesso superata che dalla scoperta del vapore. Mentre il commercio marittimo subì uno straordinario incremento in senso estensivo ed intensivo in grazia della velocità e grandezza delle navi da trasporto, si sviluppò a sua volta un attivo traffico terrestre favorito dall'impareggiabile e grandioso sistema di strade che si stendeva su tutta la superficie dell'impero e con i suoi tronchi secondari che si diramavano fin nelle più remote contrade, metteva in comunicazione tutti i punti più importanti a mezzo di una fitta rete di vie commerciali. Si aggiungano come ulteriori elementi adatti a promuovere il commercio l'unità di amministrazione e di giurisdizione, la sollecitudine impiegata ad indurre una certa uniformità di pesi e misure, la facilitata circolazione del denaro con la coniazione di una moneta imperiale d'oro e d'argento, una larga libertà di movimento e di commercio, ed in generale una politica economica di libero scambio che favorì al possibile le relazioni tra le varie parti dell'impero.

In breve, l'impero romano creò un mercato mondiale quale non era mai esistito prima, come estensione e come potenzialità di consumo. Una situazione economica questa che ad es. si rispecchia nel fatto importantissimo che il tasso dell'interesse, che nell'ultima età repubblicana era del 12 0/0, sotto Augusto era già sceso al 4 % ed ancor sotto Claudio e Nerone non era andato oltre il 6 %.

Tutte queste considerazioni spiegano perché l'epoca imperiale sia divenuta pure un'epoca di commercio e di industria mondiale. Fu un'età di vera e propria impronta commerciale. Divenne tipica in essa la figura del mercante che «vende a tutto il mondo i prodotti di tutto il mondo»; e della massima città commerciale ed industriale dell'impero, Alessandria, fu detto che, salvo la neve, vi si poteva trovar tutto.

Di Roma, Plinio nella sua storia naturale dice che sul suo mercato affluivano i prodotti e le merci di tutte le zone, di tutti i paesi ed i mari, qualunque cosa producesse il lavoro di Elleni e barbari. Il commercio con l'Oriente assunse in particolare dimensioni tali che a dir di Plinio soltanto per le merci di lusso orientali (seta, gemme, aromi, ecc.) emigravano annualmente all'estero più di 100 milioni di sesterzi. Quali mercati abbiano potuto conquistarsi i vari rami dell'industria basta a provarlo il solo commercio di Alessandria, dove convenivano Egiziani, Ebrei, Greci, Italici con Arabi e Fenici e si incontravano le mercanzie dell'interno dell'Africa con quelle dell'India.

I telai di questo grande «emporio dell'ecumene», come lo chiama il geografo Strabone, lavoravano per la Britannia come per l'India e per l'Arabia, la sua industria del vetro e del papiro e le sue officine dominavano il mercato mondiale dall'Oceano indiano sino all'Atlantico.
Pertanto di pari passo col commercio mondiale procede un potente sviluppo della produzione industriale, che si rivela anche in un altro modo, ad es. in una larghissima specializzazione delle industrie e della mano d'opera tecnica, nel fiorire dello spirito di associazione e simili. Le innumerevoli società e collegi attestati dalle iscrizioni, che non miravano soltanto a scopi di socievolezza, ma con le loro casse di soccorso per i malati e per provvedere alla sepoltura dei soci adempivano ad importanti funzioni economico-sociali, i numerosi lasciti, attestati dalle iscrizioni, che i loro membri facevano a scopi di interesse sociale, tutto ciò prova quanta quantità di energie la vita sociale ed economica dell'età imperiale celava in sé, specialmente negli ambienti del ceto medio e delle classi popolari inferiori.

E, quanto più in quest'epoca anche l'Occidente si apre alle influenze dell'ellenismo, alla produzione materiale si accompagna un importante rifioritura della creazione artistica nel senso vero e proprio come dell'industria artistica. Malgrado lo spiccato carattere plutocratico-aristocratico della società civile, l'arte non fu affatto in questa età un monopolio dei ricchi; anzi l'amore per il bello era tanto diffuso in tutte le classi della popolazione che noi vediamo spesso animata da un soffio d'arte anche la casa del povero e gli utensili più comuni ci sorprendono per la bellezza e la grazia delle loro forme. Persino le tombe degli schiavi non mancarono dell'opera del pennello.
Basterà ricordare l'esempio di Pompei e pensare che cosa abbia saputo fare, in grazie di questa «arte ed amore per l'arte di tutto un popolo» (Goethe), la stessa modesta produzione artistica di una cittadina di provincia, che per di più era qui in massima parte opera soltanto dell'artigianato.

Quanto deve essere stato vivo il contatto intellettuale di questo piccolo mondo con la vita del tempo se ogni importante cambiamento del gusto artistico vi poté lasciare le sue tracce, come ci é dato rilevare dalla storia dell'architettura e dalle pitture di Pompei. Sarebbe ingiusto giudicare l'arte dell'epoca imperiale romana prendendo a criterio l'arte classica ellenica. Il tempo della sublime originalità creativa era ormai passato per l'arte come per la letteratura. Ma, benché si sia essenzialmente alimentata e formata sulla scorta di modelli ellenici, l'arte dell'età imperiale non è tuttavia stata meramente imitatrice.
L'arte ellenica vide in quest'epoca una specie di rinascimento; e non dobbiamo mai dimenticare che le opere d'arte antica che hanno destato l'entusiasmo di un Raffaello, di un Winckelmann e di un Goethe, le opere cui l'odierna Italia va in gran parte debitrice dell'importanza ch'essa ha per la storia dell'arte, sono per lo più portati dell'epoca imperiale romana.

Benché già nella prima metà dell'epoca imperiale non manchino i segni della decadenza, una certa tendenza cioè al superfluo ornamento ed all'esagerazione e ad una maniera troppo convenzionale (favorita questa peraltro assai dalla enorme quantità della produzione), una oscillazione continua del gusto, una certa mancanza di spirito d'osservazione proprio, di sentimento artistico personale e di inventiva originale, pure le migliori creazioni nel campo dell'architettura e della plastica, dell'arte ornamentale, e specialmente le incisioni delle monete, dimostrano una tale maestria dal lato tecnico, una bellezza di forme ed in parte anche una finezza di osservazione e di immaginazione che attestano l'esistenza in tutti i modi ancora di un alto grado di capacità.

Si pensi agli incantevoli motivi decorativi dell'Ara Pacis, alle «argenterie di Hildesheim», alla bellezza delle monete, specialmente quelle dell'età di Nerone, alle attraenti opere d'arte pompeiane, al così detto Narcisso (Lacco), al sileno ed al satiro danzante, all'alto grado di sviluppo dell'arte del ritratto, all'Apollo del Belvedere ed al gladiatore dei Borghesi, che provengono ambedue da edifici dell'epoca neroniana ad Anzio, alla splendida biga di bronzo sulla Chiesa di S. Marco a Venezia ed alla Nice di Brescia, opere anch'esse ambedue del primo secolo dell'impero, alle raffigurazioni di Antinoo dell'epoca adrianea ed al fauno dei Barberini esistente a Monaco, ai bassorilievi della colonna Traiana a Roma, finalmente ai residui di pitture murali a Roma, a Pompei e nelle tombe egiziane, ed a molte altre opere.

Per quel che concerne l'architettura citeremo soltanto: il Pantheon di Agrippa, il Colosseo, l'Arco di Tito ed il tempio di Vespasiano dell'epoca dei Flavii, la Porta nigra a Treveri, gli edifici adrianei, specialmente il tempio di Venere a Roma, il mausoleo ed il ponte sul Tevere, il tempio di Giove Olimpico ad Atene completato da Adriano, ecc., il tempio di Antonino e Faustina a Roma, il quale peraltro già manifesta una certa pesantezza ed irruvidimento delle forme, finalmente le terme di Caracalla, degne anche oggi di ammirazione per la geniale arditezza delle volte; del resto l'architettura può vantare in tempi anche assai più tardi opere di grandiosa genialità - si pensi al colossale edificio dell'Aja Sophia e a S. Vitale in Ravenna -, quando la pittura e la plastica scultorea erano arti già da un pezzo ritornate allo stadio di infanzia.

Ma non soltanto le opere in sé sono di rilevante importanza; anche la smisurata quantità di esse suscita stupore ed ammirazione. Se considerando il corredo artistico della piccola Pompei, la sua ricchezza di ornamenti plastici e pittorici, calcoliamo per deduzione quel che dovevano essere le città maggiori e l'impero nel suo complesso, si rivela ai nostri occhi tutto un mondo artistico ed una prodigalità d'arte che presuppone una cultura intellettuale ed un benessere, una attività e tendenza creatrice che soltanto una civiltà molto sviluppata può generare.

Questo incivilimento poi è spiccatamente cittadino. Dal carattere universale della civiltà e dal commercio mondiale sorgono le grandi città cosmopolite, che avevano conferito già all'epoca ellenistica ed ora conferiscono all'età imperiale la sua impronta caratteristica. Come le odierne grandi città sono state chiamate delle gigantesche enciclopedie dell'incivilimento universale, così analogamente si diceva allora di Roma ch'essa era una «epitome dell'ecumene», vale a dire in certo modo un compendio dell'universo, un «albergo cosmopolita», un «punto di riunione dell'orbe terraqueo».

Si pensi poi al fenomenale sviluppo di Alessandria e di Cartagine e Corinto, risorte soltanto per opera di Giulio Cesare, la prima delle quali già nel secondo secolo si presenta in certo qual modo come la Roma africana. E come le grandi «metropoli », così pure numerose altre città hanno poi naturalmente raggiunto più o meno lo sviluppo di grandi città. Esse possono vantare nei più diversi campi della cura del pubblico bene opere che neppure l'epoca presente ha quasi potuto superare, per quanto d'altro lato allo splendido incivilimento di queste grandi città non siano stati risparmiati gli inconvenienti economici e sociali che sono inevitabili negli eccessivi affollamenti di abitanti in grandi centri di popolazione e che allora furono aggravati assai dalle malattie endemiche del mammonismo e del pauperismo.

Le grandi città però non rappresentano che il grado più elevato di quell'incivilimento cittadino che era diffuso in tutte le province. «Le città - dice il già ricordato Aristide - cercano proprio di superarsi l'un l'altra. Tutte son piene di ginnasi, acquedotti, terme, propilei, templi, officine, scuole. Le città brillano di splendore e di grazia» ; una gara comunale che a sua volta non sarebbe stata possibile se un altro elemento di progresso civile, una certa libertà d'azione, non avesse potentemente aiutato le tendenze all'incremento comunale dell'epoca.

Questo diffusissimo sistema di autonomia cittadina ammetteva che i comuni che ne erano dotati si reggessero mediante rappresentanti, un consiglio cittadino ed un'assemblea popolare, ed avessero propri funzionari per l'amministrazione e la giurisdizione; libertà questa che per lo meno offrì loro un compenso al difetto di compiti ed interessi politici più elevati, e mantenne per lungo tempo vivo nei singoli l'interesse per il bene comune e il sentimento d'abnegazione per gli scopi di pubblica utilità.
I manifesti elettorali affissi alle case di Pompei sono ancora oggidì testimonianze parlanti del vivo interesse che nel primo secolo dell'impero si poneva nelle elezioni comunali e come pure gli abbienti facessero una vera gara per occupare le cariche pubbliche. Ed innumerevoli iscrizioni e monumenti confermano come, in grazia di questa ambizione comunale, addirittura colossali furono le proporzioni assunte dalla conversione dei patrimoni privati a scopi di pubblica utilità.

Originariamente ebbero l'autonomia cittadina soltanto i comuni di nazionalità romano-italica ed in parte anche ellenica. Ma naturalmente si fece ben presto viva anche altrove l'aspirazione di ottenere una costituzione cittadina analoga e con essa il diritto di cittadinanza, aspirazione che tanto più fu coronata da successo quanto prima le comunità si spogliarono delle loro caratteristiche nazionali peculiari in fatto di lingua e di costumi e si assimilarono l'incivilimento romano-ellenistico.
È perciò che ovunque la diffusione degli ordinamenti municipali e della cittadinanza procedono di pari passo con la romanizzazione. Ma anche sotto altri aspetti l'ordinamento municipale ha agito come una potente causa di livellamento e di parificazione. Giustizia ed amministrazione si accentrarono nelle più grandi città delle province singole; qui vi risiedeva il governatore romano, qui vi si adunavano le assemblee provinciali composte dei rappresentanti delle singole città, qui vi funzionava il culto degli imperatori che univa ogni anno i delegati di tutta la provincia alla celebrazione di una solenne festa comune, qui vi si davano splendidi giuochi ed agivano teatri e così pure funzionavano istituti scientifici, scuole di filosofi e retori, ecc. ; in breve sorsero ovunque centri dai quali la lingua e la cultura romana ed ellenica si diffusero per mille canali su tutto l'impero.

Anche l'ordinamento militare dell'impero ha contribuito a questo sviluppo degli ordinamenti municipali. Accanto cioè agli accampamenti permanenti delle truppe romane si domiciliò tutta la popolazione che richiamava necessariamente la vita del campo, donne e bambini, mercanti, fornitori, artigiani, ecc., e sorsero così vere e proprie città che con l'andar del tempo furono dotate della costituzione municipale, come ad es. Magonza, Strasburgo, Belgrado, Lambesi in Africa e molte altre. E siccome da un lato la composizione stessa dei corpi di truppa formati di elementi appartenenti ai popoli più svariati provocò la continua snazionalizzazione di numerosi provinciali e dall'altro il sorgere di queste città annesse agli accampamenti esercitò una grande influenza assimilatrice in fatto di lingua, costumi e cultura sulle popolazioni dei luoghi che non di rado si fusero addirittura con i romani ivi venuti a domiciliarsi, ne derivò che anche questa forma di costituzione della vita cittadina favorì potentemente il progresso della romanizzazione.

Finalmente quest'ultima venne affrettata ancora di più dal fatto che per fondare o rinsanguare molte città nelle province furono impiegate in massa schiere di veterani, cosicchè quelle città ebbero d'un tratto una numerosa popolazione parlante la lingua latina; esempio tipico Merida (Emerita Augusta) nella Spagna.
In generale è appunto nella Spagna che noi possiamo scorgere con particolare evidenza i progressi fatti dalla romanizzazione in seguito alla fondazione di città ed alla diffusione degli ordinamenti municipali. La Spagna meridionale ed orientale già nel primo secolo dell'impero era quasi completamente romanizzata. La prima, la provincia della Betica con a capitale Corduba, contava secondo Plinio 115 città, delle quali 17 dotate della cittadinanza romana, come ad es. la ricca città marittima di lades, e 29 dotate della latinità, vale a dire di quella condizione giuridica intermedia che per lo meno permetteva a coloro che coprivano cariche pubbliche comunali di pervenire alla cittadinanza romana, e che per queste città fu spesso il primo passo per arrivare in seguito alla piena cittadinanza.
La Spagna citeriore con capitale Tarracona contava alla stessa epoca 179 città, di cui 25 fornite di cittadinanza romana e 18 della latinità. I cantoni con una vaga costituzione rurale sono in via di continua diminuzione e già sotto Vespasiano la lingua e la cultura romana erano così diffuse che egli poté concedere - sotto forma della latinità - a tutti i comuni della Spagna una libera costituzione municipale.

Per quel che concerne la Gallia, la romanizzazione ebbe naturalmente l'intensità massima nel mezzogiorno, nella Narbonense, dove, accanto all'antica Narbo (Narbonne) furono fondate sin dai tempi di Cesare e di Augusto numerose colonie di cittadini romani, come Arelate (Arles), Forum Julii (Fréjus), Aquae Sextiae (Aix), e comunità di diritto latino, come Nemausus (Nimes) ed altre, e si sviluppò una ricca civiltà, di cui fa ancora oggidì testimonianza una quantità di monumenti, come l'anfiteatro ed il sarcofago di Arles, il teatro di Arausio (Orange), i templi ed i ponti di Nimes e del suo circondario, il monumento sepolcrale dei Giuli ad Avignone, ecc.
Invece il resto della Gallia non fu toccato se non eccezionalmente da questo processo di diffusione degli ordinamenti municipali romano-latini, di modo che qui l'organizzazione nazionale celtica restò a base anche dell'amministrazione romana; condizione di cose che ha un indice esterno nel fatto che persino antichi centri cittadini formatisi in seno alle varie tribù spesso, in luogo del nome avuto sinora, assunsero quello della tribù relativa, ad es. Lutetia che prese il nome dei Parisii.
Tuttavia anche qui la cultura e la lingua romana si diffusero rapidamente e l'elemento celtico puro si andò riducendo alle sole regioni più occidentali e nord-occidentali, anche perché Roma, ordinariamente così tollerante verso i culti stranieri, combatté qui sistematicamente la classe sacerdotale indigena dei druidi e i suoi culti barbarici (sacrifici umani!) ed affrettò così di molto la decadenza della religione nazionale dei Galli.

Oltre l'antica città greca di Massalia, dalla quale i Galli reclutarono numerosi maestri di lingua e di letteratura greca e romana, sono rilevabili come centri di larga diffusione dell'incivilimento e della cultura Burdigala (Bordeaux), sede del culto pubblico romano nell'Aquitania e di una scuola, che più tardi assurse al primo posto fra le università galliche, Augustodunum (Autun), anch'essa un importante centro di studi, e soprattutto Lugudunumn (Lione), fondata fin dal 43 a. C. sotto forma di colonia di cittadini romani, la capitale e la sede della dieta generale delle tre Gallie. Qui, alla confluenza della Saona e del Rodano, il sacerdote delle tre Gallie sacrificava ogni anno all'imperatore sull'altare della dea Roma e del genio del principe, la cui base era adorna delle statue dei 60 cantoni gallici. Qui egli presiedeva ai giuochi che si tenevano per festeggiare il natalizio dell'imperatore.

Particolarmente rapido fu il processo di romanizzazione della Gallia orientale, le regioni della Mosella e della Mosa, dove per lo stesso fatto della vicinanza dei grandi accampamenti romani del Reno e degli arruolamenti che vi si facevano per le legioni del Reno la lingua e l'incivilimento romano ebbero più veloce e generale diffusione che non sulla Loira e sulla Senna. La città degli Ubii (Colonia), dove era l'altare della Germania romana, ottenne la latinità per intercessione di Agrippina che vi era nata, della figlia cioè di Germanico e poi moglie di Claudio, e prese il nome di Colonia Agrippina.
Lo stesso vantaggio conseguì nella stessa epoca la città dei Treviri, Augusta Trevirorum (Trier), del cui splendore fanno testimonianza ancora ai nostri giorni la Porta nigra e i residui delle terme, della basilica, dell'anfiteatro, numerosi mosaici ed altri monumenti.
Quel che i Romani abbiano saputo fare di questa bellissima contrada col promuovervi in generale lo sviluppo economico e specialmente la coltura della vita, si rileva dal poeta Ausonio, che ancora nel quarto secolo, nella sua «Mosella» la vanta con parola entusiastica, e i vigneti e le ville coronanti le rive della Mosella gli ricordano le patrie sponde della Garonna.

Vi si accompagnarono inoltre le influenze dell'arte greca, che da Massilia si propagarono nella regione della Mosella attraverso la valle del Rodano e vi suscitarono un'attività artistica straordinaria, di cui abbiamo ancora numerosi resti, soprattutto monumenti sepolcrali, ad esempio la famosa lapide di Igel, la tomba di Neumagen presso Treveri, i cui bassorilievi rispecchiano con squisita freschezza e vivacità il movimento commerciale, il traffico della regione della Mosella.
Non vanno dimenticate poi le iscrizioni greche, i cui nomi ci indicano una popolazione fortemente composita di elementi orientali, fra i quali ebbero ad es. una parte importante i mercanti siriaci. In breve, ci si presenta tutta una civiltà provinciale, che in piccolo riproduce fedelmente il carattere universale dell'incivilimento dell'impero.

Anche oltre la Manica, nella Britannia, l'incivilimento romano si fece strada in modo ampio. La prima colonia di cittadini romani dedotta nel mezzogiorno dell'Inghilterra fu Camalodunum (Colchester), sede del culto imperiale e di un accampamento legionario, mentre già allora la città, più importante dal punto di vista economico e più popolosa, era Londinium (Londra), in cui i Romani avevano posto una stazione navale, e che si segnalava come centro di attivissimo commercio.
In seguito, dopo lo spostamento dei confini più a nord, il punto militarmente più importante della provincia divenne Eboracum (York), e nel tempo stesso la provincia venne aperta da ogni lato alla civiltà con una fitta rete di strade. Nell'età adrianea la Britannia è già caratterizzata come un paese conquistato dal maestro di scuola gallico. E benché qui la lingua celtica, come ad es. nel Paese di Galles e nel Cumberland, si sia spesso mantenuta tenacemente, pure i Britanni in seguito, dopo cioè i vani tentativi di insurrezione fatti nel primo secolo, come quello della principessa Budicca nell'età di Nerone, si mostrano poi sudditi fedeli di Roma e non poterono essere separati dall'impero se non nel V secolo, e violentemente, dall'invasione anglosassone. Ma.... «Non fu la Britannia ad abbandonare Roma, ma Roma abbandonò la Britannia
».

Come in Britannia l'incivilimento pacifico si svolse sotto la protezione del vallo di Adriano e di Antonino Pio, così sul Reno, sul Meno, sul Danubio si esplicò sotto la difesa dei limes e dei grandi fiumi. Anche qui le aggregazioni cittadine sorsero principalmente accanto ai campi militari; così nella Germania inferiore e superiore: Vetera Castra (presso Wesel), Novaesium (Neuss), Bonna (Bonn), Magontiacum (Mainz), Argenterete (Strasburgo), Vitedurum (Winterthur), Vindonissa (Windisch), Augusta Rauracorum (Augst presso Basilea), Aventicum (Avenches); seguì poi la fondazione di una serie ulteriore di città come ad es. Noviomagus (Speier), Borbetomagus (Worms), Bingen, Boppard, Andernach, Remagen ed altre.
Ma anche oltre Reno si sviluppò un ricco incivilimento cittadino nelle regioni del Meno e del Neckar, trasformate dai Romani in splendide contrade coltivate. Ricordo soltanto Aquae Mattiacae (Wiesbaden), Aquae Aureliae (Baden-Baden), Lopodunum (Lademburg presso Heidelberg), Aree Flaviae (Rottweil) così chiamate dalla famiglia di Vespasiano cui erano consacrate, ecc.

Nella Rezia e Vindelicia (vale a dire l'attuale Svizzera orientale, Tirolo e altipiano svevo-bavarese sino al Danubio) il centro maggiore di cultura e di commercio era Augusta Vindelicorum (Augsburg), fondata da Druso e che Adriano elevò a colonia di cittadini romani sotto il nome di Colonia Aelia Augusta. Qui vi sboccava la prima strada romana costruita attraverso le Alpi orientali; fu compiuta sotto Claudio e partendo da Verona raggiungeva la colonia attraverso il Brennero e poi da un lato proseguiva verso Donauwórth e dall'altro verso i centri cittadini sorti accanto ai campi militari di Castra Regina (Regesburg) e Castra Batava (Passau). A questa sua situazione favorevole dal punto di vista commerciale Augsburg andò debitrice di quello splendido fiore cui già Tacito eresse un monumento letterario nella sua Germania e del quale fanno testimonianza ancora oggi copiosi residui di civiltà romana.

Fra gli altri centri cittadini della Rezia di origine romana citeremo inoltre Vipitenum (Starzing sulla strada del Brennero), Innsbruck (Pons Aenz), Kempten (Campodunum) e Brigantium (Bregenz), il punto di partenza della via alpina che da Milano attraverso lo Spluga e per Chur metteva capo al lago di Costanza, i castelli e campi trincerati con relativi borghi di Lauriacum (Lorch) ed Aquileia (Aalen nel Wúrttemberg), Serviodurum (Streubing) e Biriacis (Weissenburg), finalmente Abusina (presso Eining sul Danubio), il pendant bavarese della Saalburg.

Anche più intensivo che nella Rezia fu il processo di romanizzazione nel Norico (tra l'Inn e il Danubio) in grazia della forte immigrazione dall'Italia. Qui ci si presentano quali centri di civiltà romana Juvatum (Salzburg), Ceia (Zilli), Aquontum (Lienz), ed il campo trincerato e città di Carnuntum (presso Haimburg nelle vicinanze di Presburgo) - più tardi aggregato come la vicina Vindobona alla provincia di Pannonia, e che si trovava situato allo sbocco della grande strada alpina che da Aquileia conduceva al Danubio e qui vi era continuata dalla grande strada militare che risaliva il Danubio e per Regensburg, Augsburg, Kempten, Bregenz raggiungeva Windisch sull'Aar, il grande accampamento legionario, le cui due legioni costituivano l'ultima riserva per la difesa della linea del Danubio .

Della Pannonia (tra l'Inn, il Danubio e la Sava), una provincia preziosa come baluardo avanzato a tutela d'Italia e perciò fortemente guarnita di truppe, sono da menzionare la colonia Julia Aemona (Laibach), Poetovio (Pettau), Aquincum (Ofen) e Sirmium (Mitrovica) in seguito scelta spesso a residenza dagli imperatori; nella vicina Mesia Singidunum (Belgrado) cui si allineavano a valle lungo il Danubio molte piazzeforti che protessero la romanizzazione di questa regione.

Più ancora della maggior parte dei paesi nordici offrì un terreno assai propizio alla romanizzazione la provincia d'Africa (Tripoli, Tunisia e Algeria orientale). Qui la politica coloniale e la coltura intensiva dei Romani portò a termine un'opera civilizzatrice di primissimo ordine. Essa con un grandioso sistema di irrigazione e con la coltivazione intensiva trasformò vaste pianure sterili in rigogliose piantagioni, uliveti e vigneti, disseminò addirittura il paese di strade, villaggi, ville, città; ed in vista dei resti, in parte importantissimi di questo antico splendore africano si é a buon diritto domandato: «Che cosa sono le misere città del presente di fronte alle antiche città romane con i loro fori coronati di colonne, colle loro rocche culminanti, i templi luccicanti di marmi, gli archi di trionfo, i teatri, le terme ?».


Resti della Basilica e Terme a Lepsis Magna - Libia


Resti dell'Anfiteatro a El Diem - Tunisia


Tempio di Diocleziamo a Palmira - Siria


Il teatro Roamno a Orange - Francia


Resti romani a Ippona - Africa


Resti di Terme Romane a Castua - Istria


L'Arena di Arles - Francia

e sotto quella di Verona

 

Basta pensare alle grandiose rovine della Pompei africana, di Theveste (Timgad), edificata da Traiano. E per di più anche questo incivilimento africano era stato messo in condizione di svolgersi pacificamente con un meraviglioso sistema di fortificazioni di confine a tutela dagli assalti delle tribù barbare, contro le quali ovunque, così dalla parte dei deserti, come agli sbocchi della catena dell'Atlante, erano stati eretti castelli, i cui residui ancora nella nostra epoca hanno insegnato ai Francesi il sistema idoneo per difendere i loro possessi. Questi castelli erano collegati fra loro da eccellenti strade e con Lambesi scelta da Adriano a quartiere permanente delle legioni; della città sorta attorno a questi accampamenti sono pervenuti sino a noi interessanti resti.

Con questo rigoglioso sviluppo della civiltà procedette anche qui di pari passo la diffusione degli ordinamenti municipali e una latinizzazione così intensiva che quel poco fenicio ancora esistente decadde del tutto perfino nel dialetto locale ed anche il berbero fu in larga misura soppiantato e dimenticato.
Qui la lingua latina, come dimostrano le numerose iscrizioni in latino volgare, si propagò fin negli strati sociali più bassi; e da ciò dipende in parte che per la letteratura africana si rispecchiò in modo particolarmente vivo le nuove correnti religiose dell'epoca, il cristianesimo.
È proprio qui in Africa, dove il cristianesimo proveniente dall'Oriente aveva trovato maggiore affinità di idee che nell'Occidente romano, che gli scritti cristiani hanno ricevuto per la prima volta una veste latina, anche se non era un latino della vita giornaliera, quindi intelligibile alle masse; fu comunque una latinizzazione, per mezzo della quale il cristianesimo potè sperare di diffondersi nell'impero e assurgere a religione universale.

In generale sino alla fine del terzo secolo la letteratura cristiana, per la parte scritta in latino, è letteratura africana. Alla lotta con la penna contro le antiche credenze l'Africa ha fornito la maggior parte dei combattenti, ed anche i più forti campioni: uomini come Tertulliano e Cipriano, Arnobio Lattanzio e - il più grande di tutti - Agostino, le cui «Confessioni » hanno diritto ad un posto elevatissimo nella letteratura universale.

Per quel che concerne l'Oriente ellenistico, Roma vi trovò già largamente diffusa l'autonomia cittadina; tuttavia anche qui coll'espandere ulteriormente gli ordinamenti municipali greci e romani, con la concessione della cittadinanza e col promuovere ogni ramo di cultura, sviluppò meglio e perfezionò quanto aveva trovato. Dopo la crisi del governo repubblicano e le guerre rovinose dell'ultimo secolo a. C. il principato segnò anche qui una nuova era di benessere. Specialmente l'« Asia », la «provincia delle cinquecento città», si distinse e fece a gara fra i vari municipi, per un fiorente sviluppo delle associazioni e per lo spirito di abnegazione civica dei privati, dei comuni e delle diete provinciali, le quali é ben vero che, salvo il loro diritto di ricorso contro gli atti dei governatori e la concessione dei diritti onorifici, non avevano qui alcuna funzione politica, ma spiegarono spesso una attività benefica per la cultura del paese. Innumerevoli iscrizioni, monete ed opere letterarie, ad es. le orazioni del noto Dione di Prusa (vissuto sotto Vespasiano e Traiano), gettano una splendida luce su questo periodo di fioritura delle istituzioni cittadine.
Su una vasta estensione nell'Asia Minore e nella Siria diventate poi lande selvagge ovvero miserabili villaggi e rovine, un tempo splendidi frutteti e colture erano ravvivati da mille fiorenti comunità .

Ed ha ragione il Mommsen quando afferma che "di fronte a questa immane opera di distruzione si resta presi da un sentimento di terrore e di vergogna", quando dinanzi ai ruderi degli antichi centri di civiltà che si trovano nella Licia, nella valle dell'Oronte in Siria e persino nell'Arabia settentrionale, si mette a paragone il presente miserabile e lacrimevole con il passato, con lo splendore e la felicità dell'epoca romana.

Qual poderosa forza civilizzatrice dimostra la sola creazione della provincia di Arabia iniziata da Traiano ! Gli antichi e tradizionali nemici d'ogni incivilimento, le tribù nomadi del deserto, vennero anche qui tenute in scacco mediante l'ormai sperimentato sistema di difesa di confine, con numerose stazioni militari, e le tribù comprese nel raggio di questi confini dovettero adattarsi ad una pacifica vita pastorale; e dove la coltivazione promise di essere redditizia furono stanziati numerosi coloni. Persino la strada che conduceva attraverso i deserti da Damasco a Palmira fu guarnita di castelli. Un'opera di civiltà questa cui naturalmente si associarono anche qui notevoli apporti di incivilimento romano-ellenico.

I grandiosi acquedotti dell'epoca di Traiano, che portavano le acque al piano dalle montagne dell'Hauràn, meritano a giudizio del Mommsen di essere ricordati accanto ad opere come il porto d'Ostia e il foro romano. Residui non meno caratteristici di quell'incivilimento sono le rovine di Petra, un centro dotato di costituzione cittadina di tipo greco, che aveva grande importanza per il commercio fra l'Oriente e i paesi mediterranei, e sopratutto gli edifici della metropoli provinciale di Bostra, anch'essa ordinata alla greca, e che costituiva il gran centro commerciale per il traffico proveniente dal deserto siriaco, dall'altipiano arabico e dalla Perea. Considerando queste fiorenti città e pensando che nel solo deserto attorno all'Hauràn si incontrano tuttora le rovine di circa 300 fra città e villaggi abbandonati, non sembrerà esagerato che sia stato detto di questo estremo territorio della cultura ellenistica ch'esso non temeva il confronto con le regioni romanizzate del Reno.

Rappresentandosi nella sua totalità questa colossale massa di paesi inciviliti, materialmente ed idealmente uniti, si rende manifesto senz'altro quanto la descritta espansione della cultura romano-ellenistica abbia dovuto favorire le tendenze cosmopolite ed universali dell'età imperiale, la fusione dei vari popoli, la caduta delle barriere nazionali che li separavano, lo sviluppo di una letteratura e infine una religione universale.

Come in Oriente rifiorirono gli antichi centri di studio e ne sorsero dei nuovi - si pensi alle scuole di Atene, di Rodi, di Tarso ! - così in Occidente in epoca molto precoce le province romanizzate cominciarono con la loro cultura, per la quantità di talenti che produssero, per lo splendore dei loro centri di studi, a gareggiare con la stessa Roma e con l'Italia.
Come incontriamo il provinciale dappertutto, nelle carriere amministrative, nel senato, anzi - a datare dagli spagnoli Traiano ed Adriano - persino sul trono dei Cesari, così anche i provinciali emergono in tutti i campi della scienza e della letteratura, spagnoli, come Igino, i due Seneca, Lucano, Columella, Marziale, Quintiliano, Pomponio Mela; galli, come Petronio e Trogo Pompeio; africani, come Frontone ed Apuleio; siriaci, come Ulpiano, ecc.

È sorprendente, da restare stupiti ancora oggi noi che abbiamo le veloci comunicazioni - con quale rapidità i Romani siano riusciti ad «unificare mediante il commercio tante lingue barbariche e discordi» e a creare così alla letteratura un mercato mondiale ed un pubblico universale. Già Orazio profetizza che i più lontani popoli lo avrebbero un giorno conosciuto, e licenzia il primo libro delle sue epistole accompagnandolo con la sentenza che o cadrà in dimenticanza, o, quando sarà logorato dalle mani dei lettori romani, emigrerà «nel fagotto» verso l'Africa e la Spagna.
Ovidio, esiliato da Augusto agli estremi confini dell'impero, sulle rive deserte del Mar Nero, è convinto che l'espressione del suo dolore sarebbe stata ascoltata dall'estremo oriente all'estremo occidente. E come Ovidio che poteva vantarsi sarebbe stato letto in tutto il mondo, allo stesso modo non fu sicuramente esagerazione da parte di Properzio di dichiarare che la sua fama era giunta sino agli abitanti della gelida Boristene.

Ad ogni modo, questo sviluppo della letteratura universale non segna nel tempo stesso una elevazione del suo valore intrinseco. Tutt'altro! Col livellamento intellettuale e con la diffusione della cultura procede di pari passo una sempre maggiore superficialità e vacuità. Quanto più comune ed universale diviene la cultura, tanto più perde di profondità.
Come la nazionalità romana dominante si decompose sempre più sotto l'azione della mescolanza di elementi e di sangue straniero - tanto che si è arrivati a dire che alla fine del primo secolo Roma era già più greca e semitica che latina! -, così anche per le province la romanizzazione e l'ellenizzazione portarono al tramonto delle peculiarità nazionali e alla costituzione di una uniformità che tornò a danno dell'originalità della creazione intellettuale, tanto più che questa cultura letteraria non penetrò se non superficialmente nel vero e proprio popolo.

Per quanto da ultimo anche i Britanni e gli Africani, gli Elleni e gli Egiziani, in contrapposto ai barbari, si siano sentiti romani o romei, tuttavia la letteratura germogliata in questo terreno mancò per lo più del meglio, della vera e propria energia vitale, della popolarità cui si accompagna la possibilità di ringiovanirsi e rinnovarsi alla inesauribile fonte dello spirito popolare. Sorte questa che, sempre più coll'andar del tempo, toccò pure alla produzione letteraria italica, che ancor nel primo secolo dell'età imperiale possedeva una poesia popolare con Virgilio, Properzio ed Ovidio.

Manca inoltre a questo incivilimento uniforme l'incitamento e la mutua fecondazione delle forze intellettuali che non può venire se non dalla coesistenza di popoli e di civiltà di indole diversa. A questa mancanza di spirito nazionale e popolare si aggiunse poi un altro elemento negativo, la mancanza di libertà politica, la menomazione, dovuta più ancora che ai Cesari al servilismo ed all'adulazione generale, della libertà di parola e come risultato finale di tutto ciò il difetto di ideali, di idee grandi, capaci di commuovere un intero popolo e (anche) degne di una lotta per raggiungerle.

Di qui la crescente impotenza di questa letteratura di animare di nuova vita il pensiero ed il sentimento dei popoli, di fecondarne l'intelletto, e strettamente associato a questa impotenza un esagerato apprezzamento della cultura formale, scolastica, una mera arte della parola e dello stile che alla fine perde ogni contatto con la vita reale e predica una servile imitazione dei modelli antichi e da ultimo non si alimenta che del passato. Certo, con l'epoca augustea comincia una nuova era per la poesia: senonchè, malgrado tutta l'armonia della parola, la bellezza della forma, la finezza dei pensieri e dei sentimenti, spicca già in essa manifestamente la mancanza di intrinseca energia e di geniale originalità.
Quanto é significativo per noi vedere che l'uomo, nella cui epopea nazionale la sua epoca vide la più sublime glorificazione del nuovo regime, cominciò imitando l'idillio teocriteo con la sua artificiosa poesia pastorale delle Ecloghe, che quasi ci dà l'impressione di quella del rococò! Vi domina una aspirazione intensa romantico-sentimentale alla sognata tranquilla felicità di una pacifica vita di natura che lascia trasparire una certa tendenza al decadentismo.

Certo Virgilio in seguito nelle sue Georgiche - malgrado la forma difettosa, l'opera sua migliore - ha saputo trovare accenti assai più vigorosi ed ha dimostrato nel tempo stesso di possedere una delicatezza di sentimento poetico ed una squisitezza di spirito d'osservazione della natura che veramente rispecchia intimamente assai da vicino la natura stessa. Ma questo schietto e caldo sentimento viene meno nuovamente e di molto nella grande epopea con la quale egli si pose al servizio del principe.
La maniera come egli qui - seguendo completamente la moda del tempo - proietta nella preistoria romana l'idillio sentimentale di un'età eroica pia e virtuosa e mette in rapporto con questa utopia e col preteso progenitore di Roma l'imperatore e la sua casa, ha innegabilmente qualcosa di oltremodo artificioso.
Così pure l'eroe dell'epopea é un vero e proprio portato della riflessione; e non é gran fatto eccessivo ch'egli sia stato chiamato in sostanza una marionetta messa in moto dalla sua divina madre! Difetti, che anche la tecnica espertissima, lo splendore del linguaggio, la fattura artistica del verso, la bellezza dei quadri e tante scene drammatiche di sommo effetto non riescono a dissimulare.

Per quanto riguarda il secondo araldo poetico della nuova era, Orazio, senza dubbio la sua lirica, malgrado mutui le forme da Alceo e da Saffo, ha una impronta veramente nazionale. È realmente lo schietto modo di pensare romano e la vita romana dell'epoca ch'egli nelle sue odi e più tardi nelle sue satire ed epistole ci presenta in tanti quadri assai squisitamente pensati e sentiti. E così pure non si può negare il pregio dell'originalità alla maniera come qui la tendenza dell'epoca e la vita di una società piena di movimento intellettuale si riflettono in una personalità matura ed illuminata, ed all'arte eminente con cui Orazio maneggia la lingua ed il verso.
Ma dall'altro lato è altrettanto certo che anche dove la sua poesia spicca il volo più sublime, nella lirica, la ragione vi concorre per lo meno in misura uguale al sentimento. È perciò che la dote dell'immaginazione poetica, che Orazio possiede innegabilmente in sommo grado, non si solleva in lui sino a quell'altezza dove comincia la grande arte della fantasia creatrice.

Né raggiunse questa altezza la lirica di Tibullo e di Properzio. Per quanto questa elegia, specialmente in Tibullo, non manchi di fantasia, tuttavia i due poeti restano sempre dei semplici epigoni. In Tibullo rivive l'idillio sentimentale della bucolica virgiliana, e Properzio é già tanto di cattivo gusto da guastare più che può l'effetto di quanto è in lui davvero sentito poeticamente con tutto il fardello dell'erudizione alessandrina e dell'apparato mitologico di moda nell'elegia ellenistica.

Sotto questo riguardo Ovidio é di gran lunga superiore ad entrambi. Le sue elegie rinunziano all'idillio pastorale ed all'erudizione ellenistica. Esse spirano costantemente un alito di vita reale e ci fanno penetrare in mezzo all'ambiente - certo frivolissimo - della società di Roma, ambiente col quale il poeta medesimo - si pensi alla sua ars amandi ! - presenta anche troppa affinità di spirito. È un evangelo del piacere, la cui seducente attrattiva é immensamente accresciuta dall'abbagliante leggiadria e dalla graziosa fluidità della lingua e dell'esposizione. Una eleganza giocosa che del resto Ovidio non abbandona neppur dove, come nelle Metamorfosi e nei Fasti, cioè nell'esposizione del calendario delle feste romane e delle relative leggende antichissime, entra nel campo della leggenda e del mito, della storia degli dei e degli eroi.
L'erudizione qui inevitabile è assorbita pienamente dall'inesaurabile arte del poeta di trovar sempre nuovi motivi e sempre nuovi e sorprendenti aspetti delle cose; arte che per vero anche qui non sgorga dal profondo dell'anima, ma consiste essenzialmente nella virtuosità del maneggio di quella tecnica, che appunto nell'epoca di Augusto la scuola retorica immigrata dall'Asia Minore era venuta sistematicamente formando. Ovidio non fece che introdurre questo stile retorico nella poesia.

Fu questo un indirizzo che riuscì fatale alla libera creazione poetica e contribuì in modo fondamentale ad affrettare la decadenza della poesia e la sua precipitosa caduta nell'epoca post-augustea. Quale distanza vi è già tra la finezza e la grazia della satira oraziana e la satira retorica e moralizzante di Persio (34-62) ovvero il perfido e maligno libello di Seneca: «l'apocolocuntosi (trasformazione in zucca) del divino Claudio», ovvero ancora la predica morale patetico-declamatoria di Giovenale (m. verso il 130), il quale, malgrado tutta la sua capacità di osservazione ed abilità di descrizione della vita umana, malgrado tutta la ricchezza di sentenze che ha formulate, é tuttavia già assai lontano dall'alto grado di raffinamento e dalla generosa spregiudicatezza di Orazio, e sotto l'influenza della sua esacerbazione ed irritazione personale, non sa vedere nel mondo che un inferno di peccati !
Quale distanza ancora tra l'epica di Virgilio e la vacuità di sentimento e la gonfiezza retorica della «Pharsalia» di Lucano (39-65), ovvero quelle che possono addirittura chiamarsi cronache in versi che nell'epoca dei Flavii composero Valerio Flacco con i suoi «Argonautica», Stazio con la sua «Tebaide», e Silio Italico con i suoi «Punica » !

Nè meno vani furono i tentativi di rievocare a nuova vita con mille mezzucci retorici la poesia drammatica la cui vena si era da un pezzo inaridita a Roma. Come dimostrano a sufficienza le tragedie di Seneca, il risultato non fu anche qui che una risonanza di parole e di frasi, una continua caccia al sensazionale, agli effetti grossolani ed esteriori, una serie di pompose tirate e di gonfie declamazioni e il condimento del dialogo con tutto l'armamentario scolastico di sonore sentenze e paragoni, di antitesi e giuochi di parole; in breve vere e proprie manifatture stillate penosamente da un ingegno sottile, che malgrado gli ardenti sforzi non riuscì a creare figure di uomini reali in carne ed ossa, ma soltanto tipi convenzionali.
E se queste tragedie ciò malgrado hanno esercitato influenza nei tempi avvenire, ad es. sul dramma francese, fu per l'appunto perché la loro tecnica, seducente per un'epoca affetta da analoga mania retorica, rese possibile questa influenza e non perché una genuina arte creatrice si nascondesse in loro.
Questa non l'incontriamo più se non quando eccezionalmente un forte talento rompe le barriere della retorica scolastica, come avviene soprattutto in Petronio, il geniale, benché frivolo sino alle midolla, maître de plaisir della corte di Nerone. Il poco che é arrivato sino a noi del suo grande romanzo sociale contemporaneo, dà prova di tale forza di immaginazione e di evidenza plastica d'esposizione, tale quantità di fine umorismo e di sottile ironia che persino la descrizione dell'ambiente basso e triviale in cui ci introduce l'eroe principale del frammento, l'immortale Trimalchione con i suoi adepti, attrae irresistibilmente il lettore. Peccato che la raffinata educazione di lui e la sua intelligenza aperta a comprendere tutto ciò che era bello, che si manifesta specialmente negli acconci giudizi dati in materia di letteratura e di arte, sia stata accompagnata da tanto nichilismo morale !

Sotto questo riguardo del resto gli somiglia anche Marziale, il maestro dell'epigramma polemico-satirico, un vero poeta ed uno splendido dipintore di caratteri, che gettò via come Petronio le grucce della retorica, ma non meno di lui, benché sotto altro aspetto, si prestò a pagare il tributo al gusto del tempo con la sua predilezione per l'osceno. Si aggiunga la poca elevatezza di carattere che fa di Marziale il tipo del letterato venale e del poeta mendicante, un poeta, che come egli stesso dichiara con franchezza cinica, si metteva coi suoi versi agli ordini di chiunque gli pagasse il «prezzo dell'immortalità », dell'imperatore non meno di un cortigiano qualsiasi, del soprintendente alle mense imperiali o del coppiere imperiale; fenomeno di decadenza questo che peraltro é tipico della classe dei letterati del tempo costretta a guadagnarsi il pane.

Basterà ricordare il contemporaneo e rivale di Marziale, il napoletano Stazio, che nelle sue poesie d'occasione, le « Silvae », malgrado il sentimento assai più elevati che nutriva della dignità della propria persona e della dignità dell'arte, pure si é lasciato andare ad umiliantissime ed esagerate adulazioni verso il « sacratissimo imperatore » Domiziano, non meno che verso liberti ed eunuchi imperiali; difetto cui peraltro sta a fronte il merito di non aver voluto proprio per nulla seguire il gusto lascivo del tempo.
È per questo che i graziosi quadretti nei quali egli ci conduce per le case della buona società, nel gabinetto del segretario imperiale, nella scuola, nell'anfiteatro, per le ville e le campagne di Tivoli e di Napoli, ci lasciano una impressione più grata e più pura che non la poesia di Marziale, malgrado che egli sia inferiore a quest'ultimo per talento.

Scrittore pieno d'ingegno é nella seconda metà del secondo secolo l'africano Apuleio, il cui romanzo relativo alle avventure di un tal Lucio convertito in asino non é originale per la tela che é desunta da un modello greco e segue anche la moda dell'epoca col suo dettato infarcito di ogni sorta di frasi peregrine ad arcaismi e con una singolare combinazione di romanticismo e sensualità, ma ci compensa di tutto ciò con una copia di umorismo giocoso, con una squisita fantasia e con una brillante esposizione. E giustamente é stato detto relativamente alla storiella che é intrecciata nella collana di novelle costituenti il romanzo e che é narrata dalla vecchia ancella dei masnadieri alla vergine rapita per consolarla, della favola cioè di Amore e Psiche, che essa gode una eterna giovinezza.

Per quanto però tali contributi siano notevoli, non possono tuttavia farci dimenticare che la poesia decade irresistibilmente, che la produzione poetica di stile elevato, l'epopea ed il dramma, é inaridita per sempre. Se persino nella lirica la sostanza poetica é sempre più soffocata dal fastello degli ornamenti eruditi e mitologici ! Uno schietto e profondo sentimento non lo si incontra più da ultimo che nelle piccole poesie liriche ed epigrammatiche conservateci dall'antologia greca e latina, specialmente nelle iscrizioni sepolcrali in cui troviamo una espressione commovente d'intimità di una vita familiare ininterrotta e delle più varie relazioni personali tra uomo e uomo, l'amore, la fedeltà, l'attaccamento e la gratitudine.
Per quel che riguarda la prosa, essa é fin dal primo principio caratterizzata da una intensiva tendenza a rivestirsi del massimo possibile splendore di stile retorico; tendenza che senza dubbio diede origine prima ad opere di grande perfezione artistica, ma alla lunga produsse l'inconveniente dannoso che da un lato andarono sempre più confondendosi i limiti fra il linguaggio poetico e quello proprio della prosa e dall'altro la letteratura e la lingua popolare furono rese ad arte straniere l'una all'altra, e ciò rese a sua volta a lungo andare impossibile fra di esse ogni rapporto fecondo di reciproche influenze.

E sommamente caratteristico, come indizio delle tendenze ora accennate del tempo, il fatto che Quintiliano dica che la storia « é in certo modo una poesia in prosa ». E realmente il valore letterario della grande storia nazionale di Livio, che ha dominato tutte le epoche seguenti, consiste essenzialmente nella maestria con cui egli seppe utilizzare il materiale esistente per formarne un nuovo insieme artistico, e nell'arte con cui sa raccontare. Riguardo artistico che peraltro soffoca completamente l'interesse scientifico ed ostacola l'intervento di una vera e propria opera di indagine, di critica e di valutazione dei fatti. Né si fa torto al più geniale degli storici dell'epoca imperiale, a Tacito, quando si cerca di farsene un concetto considerandolo appunto come un artista, anzi in un certo senso come un poeta.

Questa sua indole lo influenza decisamente già nella scelta delle materie da trattare, scelta che dal punto di vista scientifico appare invece difettosa ed unilaterale. Le condizioni sociali del popolo, quelle della vita pubblica, gli ordinamenti costituzionali ed amministrativi, lo stato della cultura, le condizioni delle province, tutto ciò é materia per la quale nella sua narrazione egli mostra assai minore interesse che per il vario e drammatico avvicendarsi degli avvenimenti e delle sorti umane, per le vicissitudini dei personaggi storici in mezzo alle insidie del caso che tanto spesso attraversa spietatamente tutte le intenzioni umane. L'immensa tragicità che l'esistenza umana acquista per questa dipendenza del destino di ogni uomo da un ingranaggio ordinariamente considerato irrazionale, e la lotta dell'individualità umana contro questa formidabile irrazionalità dell'esistenza, quel contrasto fra il caso e la forza di carattere che il Goethe tratteggia nel suo Wilhelm Meister e che Tacito caratterizza come un « misurarsi reciproco » dell'eroe umano e della fortuna - giusto Seneca, uno spettacolo degno degli dei -; questo é quanto Tacito tratteggia con la maestria d'un poeta tragico e che costituisce una delle principali attrattive della sua narrazione.

Schiettamente drammatica è la maniera come l'irrazionalità degli eventi è concepita in certo modo come una forza operante nell'ombra dietro la storia, e la volubilità delle cose é personificata - naturalmente per lui soltanto in senso simbolico - nella fortuna, la Tuche ellenistica, alla quale - coincidenza significante ! - appunto allora Traiano eresse un tempio in Roma.
E difatti la storia dell'aristocrazia romana, da Tacito intrecciata intimamente alla storia dei Cesari, è completamente dominata dall'influsso di quella potenza demonica, della Fortuna, di cui il servilismo di Seneca ha detto che annunzia con la sua bocca quel che intende concedere a ciascun mortale; una potenza che ad ogni momento può come un cieco turbine abbattersi sull'uomo, distruggendone i beni, l'onore, la vita!
Situazione di cose questa, la cui immane pesantezza nessuno ha sentito più profondamente e nessuno ha descritto in modo più impressionante di Tacito. E che dire delle tragedie svoltesi sugli stessi gradini del trono, che la meravigliosa arte di Tacito ci pone sotto gli occhi nelle biografie di Tiberio, di Nerone e dei quattro imperatori susseguitisi in un solo anno? vere e grandiose orditure drammatiche ch'egli svolge come di atto in atto con sempre crescente effetto drammatico sino alla impressionante catastrofe! Qual perdita irreparabile é stata per noi che la narrazione di Tacito sia andata perduta proprio nel momento più tragico della vita di Tiberio, quello della caduta di Sejano, e per il momento della morte di Nerone!

Qui poi all'arte drammatica si unisce in lui l'arte del pittore. Il Ranke ha chiamato Tacito il più grande coloritore di situazioni, Racine lo ha detto il più grande pittore dell'antichità. Quale maestria di ritrattista della parola rivela ad es. la grandiosa descrizione dell'incendio di Nerone, della distruzione di Cremona e della presa ed incendio del Campidoglio ! Tacito a questo riguardo è stato paragonato ai più grandi coloristi dell'epoca moderna, al Maciullai ed al Triestine, ma essi non son riusciti ad agguagliarlo. Quale arte impareggiabile non dimostra la sola famosa scena di Agrippina che sbarca a Brindisi con le ceneri del suo sposo, ovvero anche la descrizione della sommossa delle legioni pannoniche e germaniche ! Qui si manifesta anche quella sua squisita attitudine a ritrarre gli stati dell'animo ed a riprodurre i sentimenti interni, che ci si rivela in tutto il suo splendore nelle pitture psicologiche dei caratteri individuali, quadri di concezione grandiosa, come sono particolarmente gli immortali ritratti psicologici dei vari tipi di Cesari.

Peraltro, quanto alto è il posto che Tacito occupa nella scala dell'arte, altrettanto deficiente egli si presenta come storico e scienziato. Malgrado che per quel che riguarda il passato attinga di seconda mano da opere storiche e memorie, egli parla con sovrana sicurezza dei più nascosti motivi e delle più occulte intenzioni dei Cesari, delle più segrete trattative e fatti onde é impossibile egli avesse una vera e propria cognizione. Perciò la sua analisi psicologica ed il suo giudizio storico-politico sulle varie personalità è una schietta sua costruzione in misura molto maggiore di quel che possa sembrare alla sola stregua dell'evidenza plastica dei suoi ritratti storici.
Ché anzi parecchi lineamenti. di essi sono innegabilmente mutuati ai tipi convenzionali della scuola filosofica e retorica. E il Ranke ha certamente ragione quando caratterizza «l'ideale del dispotismo ipocrita» che in Tacito é rappresentato da Tiberio, come una «creazione della fantasia» cui non corrisponde la piena realtà. «Come un buon poeta drammatico sa mantenere fermi i tipi dei suoi caratteri, così anche Tacito mantiene rigorosamente ferma l'opinione formatasi sull'indole ipocrita del despota sino al suo ultimo momento ed elimina tutto ciò che potrebbe turbarla ».
Si aggiunga che la sua ammirata attitudine «magica
» di vedere in fondo all'anima degli uomini, unita alle fosche vedute generali dello storico, si trasforma in lui in una chiaroveggenza pessimistica, sempre proclive a scorgere il peggio, e malgrado la leale intenzione di scrivere senza odio e preferenze, lo conduce spesso ad offendere la giustizia storica. «Lo avevano ammaestrato i tempi dolorosi», dice con ragione il Niebuhr. Ma il dolore non è una guida imparziale a giudicare con giustizia.
Il Ranke ha un tratto detto che Tacito è alle volte da considerare come un giudice dell'averno. Ma questo giudice dei regni della morte è un dio onnisciente per cui non hanno segreti le pieghe più profonde del cuore umano, mentre lo storico purtroppo assai spesso brancola nel buio e come «giudice» ha tanto più bisogno di moderarsi quanto più la sua funzione gli é resa difficile dal possedere un animo soggetto alle passioni.

Oltre al fuoco della passione repressa un'altra fonte di traviamento dal retto giudizio è per Tacito l'aver l'animo preoccupato da opinioni e pregiudizi dovuti alla classe cui apparteneva. Egli è aristocratico da capo a piede, tanto che ad es. trova sconveniente in sommo grado che ad una nipote di Augusto sia stato lecito scegliersi un marito, i cui antenati non erano stati che semplici cavalieri romani, e che l'amore adultero della nuora di Tiberio si fosse posato sopra un uomo che non apparteneva alla più alta aristocrazia!

Si osservi pure l'altero dispregio con cui guarda dall'alto in basso gli ordinari mortali, ad es. quei miseri fra tutti che versano il loro sangue nell'arena a sollazzo della plebe bassa e di quella dorata - carne di gladiatore carne da macello! - e la massa del popolo in genere, la cui intima vita psichica gli é del tutto indifferente. Basti pensare al come egli giudichi un semplice fenomeno patologico delittuoso della vita popolare, il cristianesimo allora già abbastanza diffuso in Roma, un sintomo dell'istinto criminale e della sfrenata superstizione della plebaglia mista di tutti i popoli affluiti a Roma.

Del resto Tacito non é sempre pessimista. Talvolta è anche idealista, benché neppur qui abbia saputo evitare il pericolo di divenire infedele alla storia. Basterà pensare alla sua tendenza - caratteristica peraltro del suo tempo - ad ornare di veste romantica il passato e condizioni primitive di civiltà, tendenza che campeggia nella glorificazione parziale ed unilaterale ch'egli fa dell'epoca repubblicana, nella idealizzazione dei Germani contenuta nella sua Germania, e nelle idee che professa sui primordi della storia, idee che arieggiano a quelle di Rousseau e di Tolstoi.
È una tendenza romantico-sentimentale che, in mezzo alle dissonanze del presente, si volge con intenso desiderio verso un paradiso perduto, e che priva Tacito della capacità di formarsi un giudizio obiettivo del passato, di cui esagera la felicità, altrettanto quanto del presente.

Napoleone fu molto severo nei suoi confronti: lui si richiamava di continuo ai Cesari, e a essi voleva riallacciarsi. Accettava il parallelo con tutti, a incominciare da Giulio Cesare, poichè sentiva di continuare la loro opera e tutti li difende contro l'"infedele" "....Tacito li ha sistematicamente denigrati....non ha capito l'impero e ha calunniato gli imperatori; Tacito è della minoranza del vecchio partito di Bruto e Cassio. E' un senatore scontento, uno che si vendica quando è nel suo studio con la penna in mano. Gente come lui sono parolai, venditori di fumo, i quali non sanno che chiudersi in una critica sterile, incapace di illuminare e di costruire. Tacito - e poi i suoi successivi imitatori - non sono certamente dei buoni maestri di storia. Io non voglio storia sistematica, congetture declamatorie, che spiegano male i grandi uomini, e falsano i fatti, per tirarne fuori una morale di comodo. Vi posso assicurare che Tacito non mi ha mai insegnato nulla. Conoscete voi un più violento e più ingiusto detrattore della umanità come Tacito? Alle azioni più semplici trova mille motivi colpevoli. Fa di tutti gli imperatori uomini profondamente perversi, per farsi ammirare il suo genio che ha saputo penetrarli.
Ha ragione chi dice che i suoi annali non sono una storia dell'impero, ma uno specchio fedele dei tribunali di Roma...Lui che parla continuamente di delazione è il primo dei delatori".

A Napoleone che l'impero piaceva e gli imperatori pure (ecco perchè disprezzava Tacito che voleva trovarci ad ogni costo i difetti) diceva che "dieci re non faranno mai una grande Unione Politica (Europea), occorre un imperatore. Anche i pazzi e gli storpi possono diventa re, mentre imperatori si nasce e quando nasce ne basta uno!". E a dire il vero in certi passi Tacito, riconosceva che occorreva un sovrano unico, ma poi non era capace di mettere nel dimenticatoio la Repubblica.


Dopo quanto detto sopra, quale abisso, se passiamo da Tacito (ma ne parleremo ancora nel successivo capitolo "religione" ) a Svetonio, il segretario di Adriano, che scrisse una serie di biografie di Cesari sino a Domiziano. Schietto letterato da tavolino senza slancio e senza qualità di storico degne di rilievo, egli ordina in modo "pulito" le rubriche delle sue biografie e sotto di esse dispone il materiale raccolto senza alcuna critica seguendo criteri completamente meccanici e sistematici. E con lo stesso interesse con cui registra da antiquario parecchio materiale buono ed autentico, registra pure da collezionista di curiosità e di aneddoti tutto il sudiciume della cronaca scandalosa che il pettegolezzo di corte e la maldicenza dell'aristocrazia aveva disseminato attorno al trono dei Cesari.
E questa storia non autentica, servì in seguito da modello agli ulteriori scritti latini sulla storia degli imperatori, ciò che li priva di qualsiasi interesse.

Uno solo fa eccezione: Ammiano Marcellino, un greco di Antiochia, che nel IV secolo scrisse in latino una storia dei Cesari da Nerva sino alla morte di Valente (96-378), e che ha per noi su Livio e Tacito questo di vantaggio che della sua opera ci è stata conservata la parte (353-378) in cui egli narra come contemporaneo e testimone oculare, la trattazione cioè dell'epoca di Giuliano. Il suo dettato è completamente libero dagli artifici ed ornamenti retorici di scuola, si informa imitando i grandi modelli greci, e porge disegnati i caratteri dei Cesari con una vivezza e finezza psicologica tale che ricorda i migliori consegnati alla storia dagli storiografici antichi.
Ma questo ritardao è, come abbiamo detto, un fenomeno isolato, poiché neppure la storiografia ellenistica dell'epoca ha potuto arrestare la decadenza. Già in Dionisio d'Alicarnasso che scrisse sotto Augusto una storia della passata repubblica dobbiamo riconoscere il tipo del retore. Ed il suo contemporaneo, Strabone di Amasea vissuto come lui a Roma, dimostra, é ben vero, nelle opere geografiche a noi arrivate una certa larghezza e indipendenza di vedute - citerò soltanto la sua ingegnosissima combinazione della geografia con la storia che rammenta Alessandro Humboldt e H. Ritter -, ma la sua storia, scritta per continuare Polibio (sino al 27 a. C.), si eleva appena sopra il livello di una compilazione, per quanto sia ad ogni modo assai superiore alla superficiale storia universale, scritta in usum Delphini, dal filosofo di corte del re Erode, Nicola di Damasco.

Superficiali e nel tempo stesso tendenziosi in sommo grado sono poi gli scritti dell'ebreo rinnegato Giuseppe, cioè la sua storia giudaica, la sua storia della guerra giudaica e della conquista di Gerusalemme, la sua autobiografia e lo scritto polemico contro Apione che contiene una apologia del giudaismo contro i suoi numerosi avversarci.

Scrittore incomparabilmente più attraente è Plutarco di Cheronea (dal 40 al 120 circa); peraltro anch'egli non è né un indagatore né uno storico. La stessa idea fondamentale che informa la sua grande opera delle « Vite parallele », quella di mettere a paragone volta a volta due personalità della storia greca e della storia romana sotto il riguardo del carattere e delle vicende subite, lo porta a costruzioni che non hanno nulla di storico e gli é d'ostacolo ad un sereno apprezzamento dell'indole individuale dei due eroi. Si noti che l'oggetto principale dei suoi studi è per l'appunto la descrizione di questo carattere individuale dei personaggi ; ed in questo senso egli medesimo ha detto di non scrivere storia, ma biografia. Però anche a questo riguardo egli si pone da un punto di vista unilaterale nel tratteggiare le personalità storiche, il che diminuisce molto il valore delle vite e dei ritratti personali da lui delineati, anche se senza dubbio sono attraenti. Ciò che lo interessa nei suoi eroi non sono le loro azioni, ma la loro indole, le loro qualità intellettuali e morali, quali si rileverebbero, a suo modo di vedere, da un atto spesso affatto insignificante, da un motto, da uno scherzo, meglio che da grandi opere e lotte.

È questa però una concezione che implica la rinunzia a priori a farsi una idea positiva di una personalità storica in relazione al suo tempo e alle cause che l'hanno fatta sorgere. Ad ogni modo questo leggiadro narratore, che ha fornito materia e caratteri ad uno Shakespeare per la tragedia, questo spirito elevatissimo che ha saputo incatenare a sé un Montaigne ed un Goethe, culmina al disopra degli insipidi storici del tempo successivo, come Arriano, il quale portò a tal segno la fissazione stilistica dell'epoca, da scrivere, come un secondo Senofonte, in stile atticizzante una storia di Alessandro col nome di Anabasi, e così pure in stile ionizzante che tenta imitare Erodoto un libro sull'India; opere che hanno un valore solo perché le fonti adoperate per comporle sono andate perdute.

Quest'ultimo giudizio è vero anche per l'alessandrino Appiano (morto dopo il 160), che in modo superficialissimo e con un linguaggio manierato, che mescola nell'imitazione lo stile di Erodoto e lo stile di Tucidide, compilò una storia della conquista romana del mondo, e per la massima parte della storia di Cassio Dione da Nicea, il quale per di più col suo arcaico atticismo tucidideo e con la sua gonfia retorica ha privato la sua narrazione di ogni freschezza e vita. Un valore di originalità avrebbe per noi soltanto quella parte della sua opera che trattava la storia contemporanea (sino alla morte di Alessandro Severo, nel 229), specialmente data la sua qualità di alto funzionario pubblico e di militare. Ma proprio questa parte non ci é arrivata che in maniera molto frammentaria.

Come dimostra questo disegno dello svolgimento della storiografia, uno dei suoi difetti essenziali fu quello di usare sempre più una lingua morta, il che influì necessariamente ad isterilire anche il contenuto. Così nell'Occidente romano come nell'Oriente ellenistico la lingua viva andò sempre più scomparendo dalla letteratura. L'arcaismo romano, che é stato caratterizzato assai bene come uno stile rococò, e che toccò il culmine sotto Adriano per opera del maestro di Marco Aurelio, Frontone, il vero « tipo dell'assoluta nullità », arrivò al punto con le sue velleità arcaiche di imitare direttamente la lingua di Catone, di Ennio e di Plauto, mentre nel mondo ellenistico l'attivismo, che già spunta nello storico Dionisio, e la così detta seconda sofistica che dal secondo secolo porta la battuta, spiegarono la bandiera della rievocazione in vita dell'antica letteratura ed arte classica ellenica, e cercarono di elevare nuovamente a lingua letteraria l'antico dialetto attico « lo strumento più delicato ed armonioso che mai abbia fatto vibrare lo spirito umano ».

I grandi retori che questo classicismo fece germogliare intesero tornare a parlare la nobile lingua attica, come mezzo millennio avanti l'aveva parlata Demostene! Aspirazione questa che fu ovunque favorita dal sentimento estetico tuttora assai vivo - si pensi all'elegante scritto «del sublime» ! - e specialmente dalla spiccata tendenza del tempo ad esigere la forma artistica dell'eloquio.
Le idee dell'epoca sapevano ormai tanto poco scompagnare il concetto di una educazione un po' elevata dal possesso dell'abilità retorica che numerosi municipi e persino lo Stato istituirono cattedre retribuite per l'ammaestramento retorico della gioventù. Questo sistema di insegnamento pubblico fu poi a datare da Antonino Pio esteso anche alla filosofia e più tardi ad alcune scienze speciali. Ovunque la funzione oratoria avesse una importanza, i rappresentanti di quest'arte retorica assunsero una posizione eminente, come presidenti delle assemblee adunate a solennizzare la fede, come alti magistrati cittadini, come delegati delle città presso l'imperatore, come famosi e celebrati insegnanti che giravano per le città dell'impero ovunque predicando l'evangelo dell'ellenismo.

Citeremo soltanto: Erode Attico, il massimo fra i maestri ateniesi, ai cui piedi sedettero quasi tutti i più ragguardevoli «sofisti» del secondo secolo, e che in grazia del suo patrimonio principesco poté gareggiare con Adriano nell'abbellire Atene; Filostrato, il quale nelle sue «Vite dei sofisti» ci porge quadri interessanti dell'attività spiegata da questi letterati, e che nella sua romanzesca biografia di Apollonio di Tiana, il miracolo dell'Oriente, scritta per incarico dell'intelligente imperatrice Giulia Domna, disegnò la figura ideale di un apostolo della rinascenza ellenica, di un campione dell'antica lingua, degli antichi costumi e dell'antica religione greca, nella quale si é voluto spesso vedere una specie di parallelo in senso pagano della biografia di Cristo; Dione di Prusa, soprannominato «bocca d'oro» (Crisostomo), uno dei più efficaci rappresentanti della prosa classicista, l'ispirato propagandista, il «perfetto romantico», che viveva completamente nel mondo dell'antica Ellade e non si stancò di glorificare presso i suoi uditori il suo splendore e la sua grandezza; e finalmente Aristide, la cui parola fu ambita così nelle diete provinciali d'Asia e ai giuochi istmici, come nella colta società ateniese e romana e suonò cara all'orecchio di Marco Aurelio, ed i cui scritti, fra i quali citeremo qui il messaggio diretto al trono a favore di Smirna, le apologie di Roma e di Atene, l'orazione su Eleusi, segnano decisivamente l'apogeo di quest'arte retorica.

Per i tempi successivi merita di essere menzionato soltanto il retore Libanio di Antiochia (morto nel 393), la cui figura ci interessa particolarmente per il suo fedele attaccamento a Giuliano.
Uno solo di questa schiera di retori del resto é riuscito a conquistarsi un posto nella storia della letteratura, e ciò soltanto perché abbandonò il convenzionalismo dominante in tutto questo indirizzo: Luciano, originario di Samosata nella Siria. Anch'egli da principio condusse la vita errante del retore e si fece udire ad Antiochia, Atene, Olimpia, Roma e nella Gallia; ma il suo acuto spirito critico e il suo spiccato talento satirico non poté a meno alla lunga di disgustarlo da questa oratoria girovaga ed in genere dalla retorica convenzionale. Per quanto egli fosse signore splendido della forma, gli ripugnavano però le inevitabili manchevolezze dell'indirizzo meramente retorico, l'abbondanza di frasi e la povertà di idee, la falsa espressione degli affetti e l'insipido pedantismo; quindi disse addio alle declamazioni per volgersi al genere satirico tanto conforme alla sua natura e che ha reso immortale il suo nome.

Una ricchezza di spirito e di arguzia graziosa di schietto sapore ellenico brilla nei dialoghi suoi e nelle satire in cui versò a piene mani lo scherno sulla stoltezza dei suoi tempi, sulla sempre crescente superstizione, sulla crassa smania del miracoloso, sul mistico vaneggiamento delle leghe segrete religiose, sul mito degli dei, sulla scienza spuria dei filosofi e delle sètte filosofiche, sulla vanagloria dei letterati, sulle dissolutezze del mondo equivoco, sulle invenzioni menzognere di viaggi fantastici ed altri simili parti della bugiarderia del tempo.
Certo la sua satira é spesso superficiale, come ad es. nella critica del cristianesimo da lui fatta nel « Peregrinus », una satira contro il noto fanatico cinico che in Olimpia si votò come un secondo Fenice alle fiamme! E pensare che questo scritto nell'epoca dei lumi ha avuto la singolar sorte di essere messo all'indice come Gibbon, Kant e Federico il Grande ! Si sa del resto che in questo genere di scritti non bisogna cercare la eccessiva profondità, - Luciano non é che lo spirito che sempre nega - e l'arguzia caustica sui difetti degli altri non riesce a nascondere la frivolezza dello scrittore; tuttavia anche in questo motteggiatore vibrò un sentimento schietto e profondo il bisogno vivamente sentito di difendere la gaia sincerità e bellezza dell'arte ellenica contro gli oscurantisti, gli ipocriti ed i semibarbari, merito che gli é stato attribuito da uno non da meno di Erwin Rohde. E ciò gli assicura l'immortalità!

Ed é appunto questo il merito duraturo di cui, malgrado tutti i suoi difetti, può vantarsi la rinascenza greca dell'epoca imperiale, di essersi cioè impegnata con tutte le forze della parola e dell'esempio a mantener saldo il legame spirituale con quanto di più elevato aveva prodotto l'antica civiltà ed a tutelare gelosamente gli immortali tesori della letteratura classica dell'Ellade e tramandarli da generazione in generazione. È suo merito se sono stati salvati per noi i tre grandi maestri della tragedia attica e gli oratori attici, se noi oggi invece di Menandro possediamo Aristofane, invece degli epigoni Eforo e Teo
P ompo abbiamo Erodoto e Tucidide ! In un'epoca nella quale il sano vigore e la chiarezza del pensiero greco minacciavano di essere soffocati nell'amplesso dell'Oriente, essa ha così indirizzato tutto l'insegnamento superiore verso un fine ideale ed ha creato una cultura che attrasse nella sua orbita tutto ciò che ambiva ad elevarsi al di sopra della trivialità e perciò ha sopravvissuto anche al tramonto della cultura specifica pagana.

E infatti, il cristianesimo avrebbe a priori dovuto rinunziare a divenire una religione educativa se non avesse adottato sino ad un certo grado questa organizzazione dell'educazione «sofista» e la cultura da essa formata. È, una ingiustizia quindi che si commette quando si attribuisce alla sola chiesa un merito che in ultima analisi spetta alla scuola del classicismo imperiale, quello di aver parzialmente salvato la letteratura classica.

La chiesa non poté senza danneggiar gravemente sé stessa nel sottrarsi al proseguimento di questa missione, che del resto essa assolse abbastanza male. E a dire il vero, quanto la chiesa ha salvato ci compensa forse della perdita che la nobile eredità dell'antica scuola ha subìto per opera sua a causa dell'ignoranza, dell'indifferenza o del fanatismo?

Certo, per quanto ci si presenti importante da questo punto di vista la rinascenza greca, una cosa essa non ha potuto apportare alla cultura che andava invecchiando: gli impulsi e le forze creatrici atte a far rifiorire la vita intellettuale che invece infuse nella società la rinascenza del XV secolo.

Si riuscì a rievocare fino ad un certo punto le antiche forme d'arte, ma non lo spirito degli antichi tempi, anche a prescindere dal fatto che il culto esclusivo della forma e l'eccessiva importanza attribuita alla cultura formale pregiudicò in tutti i campi lo sviluppo del pensiero dal punto di vista della sostanza.

Lo dimostra già la rapida decadenza dell'arte, che si manifesta fin dai tempi degli Antonini e poi spicca in forma ancor più repulsiva nell'arco di Settimio Severo. E come l'arte ebbe il destino d'ogni indirizzo imitativo, che i modelli preclusero all'artista la via alla naturalezza ed alla verità e da ultimo una generale volgarità invase il campo dell'arte, così avvenne anche per la letteratura, ad es. per la storiografia, in cui l'apparato di frasi e lo studio dello stile soffocò sempre più il contenuto e le idee, e per la produzione scientifica, in cui assai presto cominciò a mancare ogni alito di vita propria, ogni capacità di procedere ad osservazioni nuove, di formarsi idee nuove e giungere a nuove cognizioni.
Si restò paghi di vivere sui tesori delle biblioteche, che a datare da Cesare e da Augusto avevano il patrocinio e le cure del governo, contentandosi sempre più di riprodurre il materiale esistente e di adattarlo ai bisogni dell'epoca, che non chiedeva di meglio che vederselo imbandito nella forma più comoda possibile.

È il tempo della polistoria, delle compilazioni enciclopediche e dei compendi, i cui autori rinunziarono essi a pensare con la propria mente e soffocarono sistematicamente ... anche l'abitudine di pensare nei loro lettori.

Nulla di più significante a tal proposito che si sia potuto come Columella (sotto Derone) scrivere un libro sull'agricoltura, del quale è stato giustamente detto che non tradisce la minima traccia del fresco alito della natura ed invece sente in sommo grado il tanfo della lampada da studio; una morta compilazione che pretende col mezzo di estratti d'autori studiatamente messi insieme insegnare la via di porre riparo alla decadenza dell'agricoltura ! Anche la grande storia naturale del suo contemporaneo Plinio il Vecchio (23-79), opera di poderosa fatica, non è altro che una collezione di materiali stilizzata alla stregua del gusto del tempo, che lascia molto a desiderare dal lato dell'acutezza critica, della chiarezza e precisione delle idee e dell'indipendenza di giudizio.

E lo stesso si può dire delle « ricerche di scienze naturali » che il filosofo Seneca ha composto cucendo gli appunti delle sue letture. Persino uno scienziato rigoroso come TOLOMEO d'Alessandria (sotto gli Antonini), i cui manuali d'astronomia e di geografia hanno dominato tutte le epoche posteriori, non è andato al di là dei risultati della scienza greca antica come ad es. quelli di Ipparco ed altri ! Ed inoltre egli ha commesso ancora il fatale errore di non comprendere la verità già conquistata da questa scienza antica, cioè da Aristarco, il maestro di Ipparco, relativamente al movimento della terra intorno al sole, costruendo così una base pseudo-scientifica alle aberrazioni della scolastica medioevale col suo sistema geocentrico ed antropocentrico (che pone cioè la terra e l'uomo al centro dell'universo).

Anche un altro nome famoso, il medico Galeno (morto dopo il 200), uno schietto scrittore, che oltre ai suoi lavori di medicina compose scritti di logica e di grammatica, di filosofia e di etica, non è un indagatore che abbia battuto vie nuove ed indipendenti. Anche il suo sapere è spiccatamente recettivo e compilatorio.

Assai caratteristiche come indizio di questo abito intellettuale dell'epoca, della sua povertà di idee e tendenza invece a rivendere a minuto erudizione, sono finalmente le notissime « Dotti attiche » di Gellio: anche questa una collezione di risultati di letture fatte nei più svariati campi del sapere, che rispecchia le tendenze letterario-filologiche del tempo degli Antonini, e specialmente le sue smanie arcaistiche, e il « Banchetto dei sofisti » di Ateneo (verso il 200), che ha avuto la grottesca idea di presentare ai lettori l'enorme massa di materiali antiquario-letterari da lui svolti sotto forma di conversazioni fatte a tavola. Vero é che senza l'aiuto di questa forma - ancora un indizio significante del gusto dei tempi! - è poco probabile che quell'opera, inestimabile come raccolta di materiali, sarebbe sfuggita alla perdita.

Anche la quintessenza più squisita della vita intellettuale di un popolo civile, la filosofia, si rivela chiaramente affetta dal generale denobilitamento della scienza. È vero che sotto l'influenza del classicismo l'epoca si volse con vivo interesse alla storia dell'antica filosofia ed all'illustrazione dei suoi capolavori; ma tuttavia anche qui il ritorno ai modelli antichi non fu che un sintomo dell'inaridimento della capacità produttiva originale.
Siccome viene sempre più a mancare l'energia intellettuale che spinga alla proposizione di problemi nuovi, alla produzione di idee nuove, si canonizzano gli antichi maestri e le loro dottrine, specialmente quelle del platonismo e della Stoa, allo stesso modo che le antiche religioni hanno canonizzato le loro sacre scritture.

Si restò sempre più paghi dalla mera interpretazione di dottrine canoniche colla tendenza a stilizzare in maniera nuova e di grande effetto vecchie idee ed a popolarizzare luoghi comuni filosofici in servizio di una volgare cultura generale, che alla precisione e chiarezza dei concetti sostituisce l'apparenza esteriore del sapere e la frase e si compiace di un comodo eclettismo e sincretismo, col quale é inconciliabile ogni originalità e rigore logico di pensiero.

Non desta meraviglia che, dato questo processo di dissoluzione di ogni schietta speculazione scientifica, la tendenza verso la conquista di puri risultati scientifici sia stata sempre più soffocata dalla tendenza ad occuparsi in forma popolare soprattutto di questioni attinenti alla vita pratica.
Come ha osservato in un modo esemplare questo tipo di scienza volgarizzatrice, l'autore di circa settanta scritti di filosofia popolare, Plutarco lo storico, la missione specifica della filosofia appare in quest'epoca quella di «sanare la debolezza e l'infermità dell'anima».
Come si esprime un martire politico della Stoa, Elvidio Prisco, si professa ora la filosofia per «essere armati contro i colpi della fortuna». Basti pensare all'immenso successo avuto dal liberto frigio Epitteto, la cui filosofia della tolleranza e della rassegnazione rinunziò a priori ad ogni giustificazione scientifica.

Dal punto di vista universale umano certamente questo indirizzo, rappresentato specialmente dallo stoicismo contemporaneo, é di grande interesse. E a dire il vero è lo stesso Epitteto che ha pronunciato la grande parola "essere gli uomini tutti fratelli, aventi tutti Dio a padre comune ! ".

L'universalismo e le idee generali umanitarie dell'epoca si rispecchiano in questo indirizzo in modo simpaticissimo. In questo senso gli stoici, questi «cristiani fra i pagani», come li ha chiamati Goethe, predicarono instancabilmente l'amore fra gli uomini, i doveri dell'uomo verso il suo simile e verso la società. Essi ripudiano la vendetta, il compensare il male col male, e propugnano il concetto che è meglio patire un torto che farlo. Il più splendido campione dello stoicismo dell'epoca, Seneca, vuol rimettere nel possesso dei suoi diritti d'uomo anche il disgraziato paria della società antica, lo schiavo, e di fronte alla brutalità dei giuochi dei gladiatori proclama l'aurea massima che la vita umana è sacra per l'uomo (homo res sacra homini), il più alto principio che possa enunciarsi circa i rapporti tra uomo e uomo.

Senza negare l'importanza di tutto ciò, non si può peraltro disconoscere che anche questa tendenza pratica della filosofia dell'epoca costituì un grave pericolo per la sua struttura scientifica: essa diminuì la sua forza di resistenza critica contro quelle esigenze metafisiche del cuore umano che solo la fantasia e la fede possono soddisfare.

L'illusione di poter conciliare la fede e la scienza estinse ogni senso della profonda diversità delle due sfere e ridusse in parte la filosofia ad una specie di teologia, che credette di poter giustificare le creazioni della fantasia religiosa con ragioni pseudo-scientifiche.

E proprio la religione e la fede
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