36. IL COMMERCIO - L'ECONOMIA - LE RIFORME - MARIO

IL COMMERCIO MONDIALE.
LE CONDIZIONI ECONOMICHE DOPO LE GUERRE PUNICHE.
LA RIFORMA AGRARIA DI TIBERIO GRACCO.


Sulle rovine di Cartagine Scipione aveva compianto la sorte del nemico e pensato alle alterne vicende di gloria e decadenza che gli Dei decretano anche riguardo alle città, ai popoli ed ai regni. Si presentarono alla sua mente e gli corsero alle labbra le parole di Ettore
: "Tempo verrà che la sacra Ilio cadrà e con essa Priamo ed il popolo del re dal braccio esperto nel maneggio della lancia".

Ed al suo amico Polibio egli confessò le sue ansie per le sorti di Roma. Quando il figlio dello stratega acheo, nato a Megalopoli, nell'anno 167 a. C., fece il suo ingresso tra i familiari degli Scipioni a Roma e nella società senatoria, l'Italia, Roma, era all'apogeo della potenza e del successo. Polibio ebbe modo di ammirare questa Roma ed investigò le cause della sua grandezza; in conseguenza iniziò a narrare ai suoi connazionali greci - ma anche romani - la storia delle origini e dello sviluppo del dominio mondiale dei Romani.

Un greco che scrive la storia di Roma? E gli storici di Roma dov'erano?
Se c'erano, per loro sarebbe stato difficile gareggiare se non impossibile. Senza veemenza ed enfasi di parola, in forma semplice e naturale, ma con piena padronanza della materia, con profonda conoscenza degli avvenimenti e delle personalità contemporanee, con acutissimo criterio politico, questo Greco giunto a Roma alla piena maturità di pensiero scrisse la storia della conquista del mondo operata dai Romani; la storiografia della repubblica romana non ha fra i romani medesimi prodotto un'opera che possa stare a confronto con la sua. Al pari di Tucidide anche Polibio ha scritto per tutti i tempi a venire.

Roma aveva conquistato questa signoria del mondo sotto il governo del senato, ed agli occhi di Polibio l'azione del senato era armonicamente collegata con quella degli altri fattori dello Stato romano. A lui parve che nell'eccellenza della costituzione romana stesse la ragione per cui lo Stato romano aveva potuto riaversi rapidamente dal grave colpo di Canne. In questa costituzione egli vedeva una fusione armonica di monarchia, aristocrazia e democrazia, i cui elementi riscontrava nel potere monarchico dei consoli, nella costituzione aristocratica del senato, nella costituzione democratica dei comizi popolari; egli non però s'avvide che Roma ai suoi tempi era una pura e semplice aristocrazia, che unico a governare era il senato e che l'armonia derivava dal fatto che la magistratura da un pezzo si era sottomessa al senato e che i comizi non facevano alcuna opposizione ai suoi voleri. Il senato si era conquistata questa posizione colossale attuando il principio «noblesse oblige »; e l'avrebbe potuta anche conservare tenendo fede a questa massima.

Ma già l'ambiente senatorio si era lasciato vincere dalla tentazione di sfruttare egoisticamente le ricchezze dello Stato, perfino operando in un palese e cosciente contrasto con le leggi. L'espansione mondiale della signoria romana aveva provocato l'incremento dei commerci che come sempre influì in vari modi, fece salire gli uni al benessere ed alla ricchezza mentre pregiudicò altri, ed altri rovinò; rovinò soprattutto la classe agricola italica.

Una riforma agraria era indispensabile in Italia, ed il senato avrebbe potuto mantenere l'alta posizione acquisita qualora se ne fosse fatto iniziatore; ma non seppe risolversi ad entrare in tale ordine d'idee per egoismo interessato. Ne derivò che la riforma venne ugualmente intrapresa da altra parte senza il suo concorso e contro la sua volontà; con questo evento si apri l'era della decadenza e del tramonto dell'autorità del senato.

Ma come era avvenuto che quest'epoca di commercio fiorente aveva portato con se la decimazione della classe agricola d'Italia? Quali erano allora le condizioni dell'agricoltura ?

In occasione delle sue vittorie Roma si era per lo più fatta cedere dagli Stati e popoli vinti una parte delle loro terre, di regola un terzo, e le aveva incamerate come proprietà dello Stato romano. Tali conquiste allargarono l'ambito dell'ager romanus principalmente nel periodo dell'assoggettamento d'Italia e della costituzione della confederazione italica, cioè dopo lo scioglimento della lega latina e prima dell'inizio delle guerre puniche.
Queste terre pubbliche erano sparse in vasti appezzamenti continui per tutta Italia; esse costituivano l'ager publicus, il demanio dello Stato. Di esso si spogliò in parte assegnandolo in proprietà a privati soprattutto in occasione della fondazione di colonie e fortezze di confine; ed anche nei casi di istituzione di nuove tribù rustiche lo Stato rinunziò sempre ad una parte almeno delle terre conquistate in favore dei coloni.


Ma una porzione considerevole delle terre pubbliche rimase tuttavia nelle mani dello Stato; esso le impiegò in parte, sebbene in misura scarsa, col darle in affitto, più frequentemente invece con il permetterne l'occupazione dietro un corrispettivo. Quest'ultimo sistema era piuttosto comodo per lo Stato perché si prestava a riversare sull'occupante ogni altro onere; lo Stato non doveva cioè costruire in questo caso gli edifici rustici né dava all'occupante alcuna dotazione di animali da lavoro.

All'inizio a chiunque era lecito chiedere il permesso di occupare una parte dell'ager publicus, ma nei fatti non erano in grado di approfittare di questa concessione se non coloro che potevano disporre di capitali. E dal momento dello sviluppo dell'economia monetaria accanto all'economia in natura, dalla seconda metà del IV secolo a. C., i capitali non mancarono a Roma, e l'epoca delle guerre d'oltre mare, iniziatasi col 264 a. C., fornì in quantità considerevole le braccia da adibire al lavoro della terra. La prigionia di guerra era infatti una fonte di schiavitù, e se nelle guerre italiche i Romani avevano rifuggito dal ricorrervi, nelle guerre transmarine contro stranieri vi attinsero senza riguardo.

Masse di schiavi furono riversate in Italia, dove sinora l'economia a schiavi era rimasta in secondo ordine. Le vittorie fecero affluire a Roma anche il denaro, e quindi vediamo ora i Romani dediti pure all'acquisto di schiavi sui grandi mercati di schiavi dell'Oriente. Per queste ragioni le occupazioni di ager publicus assunsero più vaste proporzioni ed esse divennero molto rimunerative da quando si ebbe in abbondanza il lavoro servile da impiegarvi, che ovviamente costava poco.
S'intende che quanto più un capitalista poteva occupare di ager publicus tanto più si ingrossavano i suoi lucri, e si giunse alla fine al punto di dover porre un limite all'avidità dei grandi capitalisti stabilendo un massino oltre il quale non era lecito andare oltre certi numeri.
Vi provvide la legge agraria Licinia, che non fu rogata, come afferma la falsificazione storica della fine della Repubblica, nell'anno 367 a. C., ma soltanto dopo la guerra annibalica, nell'anno 196 a. C.; la propose L. Licinio Lucullo, il tribuno di questo anno.

La legge stabiliva che nessuno potesse occupare più di 500 iugeri di ager publicus ovvero mandare al pascolo su terre pubbliche più di 100 capi di grosso bestiame o 500 capi di bestiame minuto. Inoltre l'occupante non doveva impiegare semplicemente schiavi, ma anche un determinato numero di lavoratori liberi. Questa legge ebbe vigore sin dal 196 a. C., ma rimase lettera morta; la classe dominante non se ne diede pensiero, oltrepassò i limiti di legge in ogni senso, trascurò di pagare il canone in origine stabilito a favore dello Stato, prese a considerare le terra occupate la cui proprietà era rimasta allo Stato, come proprietà private, le fuse insieme con le terre veramente proprie in una sola amministrazione e le trattò come sue proprietà persino nelle divisioni ereditarie.

Nell'anno 167 Catone il Vecchio menziona la legge notoriamente in vigore, ma, egli aggiunge, "noi vi contravveniamo sotto ogni riguardo e lo facciano impunemente". L'ordine senatorio, come si vede, aveva ben coscienza dell'illegalità e della criminosità del suo procedere, ma abusava della propria potenza per violare apertamente e permanentemente la legge e garantirsene l'impunità.
Le cose avrebbero forse continuato ad andare così se accanto al fiorire della grande industria capitalistica agraria degli occupanti non si fosse manifestata la decadenza della piccola proprietà in Italia. Quest'ultima fu una conseguenza dello sviluppo mondiale del commercio. Per via mare i cereali si potevano agevolmente importare; l'incremento del commercio fece aumentare l'offerta e ribassare i prezzi delle derrate. Lo Stato pure poteva disporre di masse enormi di grano alimentate dai tributi in natura che pagavamo alcune province; ed anche questo elemento concorse a deprezzare la merce.
Lo sviluppo mondiale del commercio fece allora abbassare i prezzi dei cereali come ai giorni nostri. E questo abbassamento di prezzi provocò a quel tempo come oggi una crisi agraria, ma in senso inverso. Oggi é la grande industria agricola che soffre della sproporzione fra il basso prezzo delle derrate e gli alti salari della mano d'opera, mentre per la piccola industria agraria la coltivazione del grano ha minore importanza di fronte all'allevamento del bestiame e l'alto costo dei salari non ne ha affatto quando il colono stesso e la sua famiglia rappresentano nel complesso la mano d'opera lavorando personalmente.

Le cose stavano invece all'inverso in Italia. Al basso livello dei prezzi poteva far bensì fronte la grande industria che (ed era comodo) aveva a sua disposizione il lavoro servile scarsamente rimunerato, e non l'agricoltore libero. Il lavoro servile costava tanto poco, perché il mantenimento degli schiavi era ridotto al minimo necessario per tenerlo in vita e in condizioni di poter lavorare; ad un minimo di questo genere invece l'agricoltore libero non può adattarsi. I piccoli proprietari pertanto andarono mano a mano in rovina, e a quel punto i capitalisti concentrarono nelle loro mani, acquistandoli da essi i fondi, che affidati al lavoro servile ritornavano ad essere redditizi. La piccola proprietà cominciò a sparire in Italia.

In conseguenza di ciò anche la popolazione cittadina d'Italia cominciò a decrescere. Le cifre del censimento ci indicano che dopo la guerra annibalica questa popolazione continua a crescere sino al 164 a. C. ; in seguito invece per effetto della decadenza dell'agricoltura si verifica una diminuzione graduale, diminuzione che doveva alla fine indebolire anche la potenza militare dell'Italia. Nell'anno 136 a.C. la popolazione raggiunse il minimo.

L'Italia e Roma dominavano il mondo, ed anche i piccoli agricoltori erano nel numero dei dominatori del mondo e tali continuavano in teoria ad essere anche dopo che erano già rovinati e spogliati dei loro fondi. Ma quale era la realtà delle cose e quale, di fronte alla teoria, la pratica della vita ? «Le bestie selvatiche - esclamò Tiberio Gracco - hanno le loro tane, esse sanno ove trovare i loro covi, mentre gli uomini liberi che combattono e muoiono per l'Italia, non possiedono altro che aria e luce. Essi sono detti signori del mondo e non possiedono neppure una zolla di terra».

Questa contraddizione logica era già entrata nella coscienza degli agricoltori, ed un ulteriore pericolo si aveva nelle grandi masse di schiavi che si trovavano raccolte in Etruria ed in Sicilia. Come in Oriente, così anche in Italia si verificarono sollevazioni di schiavi ed in Sicilia essi si scatenarono sul paese, condotti da un Euno, un profeta della dea siriaca Atargatide: Antioco, con il nome da lui assunto: "re dei Siri". I Romani furono dal 134 a. C. costretti a fare una guerra regolare in Sicilia contro questi schiavi con un esercito consolare; dell'assedio di Enna sussistono ancora tracce-visibili.

I pericoli che la crisi agraria andava addensando avrebbero potuto essere evitati con una effettiva attuazione della legge Licinia; ma l'interesse egoistico della classe senatoria che traeva illegali profitti dalle terre pubbliche non vi voleva rinunziare. Scipione iunior si era ben reso conto dei pericoli che minacciavano, ma temette che un tentativo di porvi riparo provocasse uno sconvolgimento altrettanto deleterio quanto lo stesso male.
Un passo più avanti si spinse C. Lelio, il quale progettò di presentare al popolo una legge agraria, ma ne fu dissuaso dagli ottimati suoi pari, i quali, quando egli si lasciò indurre a desistere dal suo disegno, lo onorarono del titolo di «saggio».

Convien dire che dava segni di decadenza una classe dominante che considerava delitto ogni tentativo di riforma e riguardava come un segno di saggezza la rinunzia all'attività politica, segno manifesto di impotenza di carattere.
A questo punto Tiberio Gracco sorse a salvare la classe agricola italiana; il suo era un fine che avrebbe dato pregio all'opera.

Tiberio Gracco apparteneva al ceto più nobile dell'aristocrazia senatoria, sua madre Cornelia era figlia di Scipione Africano maggiore, una donna che, vedova, aveva rifiutato la mano di un principe egiziano e futuro re; sua sorella era moglie di suo cugino, Scipione minore. Furono le urgenti necessità dello Stato che spinsero questo membro della più alta aristocrazia contro i suoi pari. Il senato aveva rifiutato di porsi esso medesimo a capo della riforma, e Gracco allora si mise alla riforma facendo a meno del senato.

Egli si fece eleggere tribuno per servirsi al suo scopo dello strumento legislativo; il 10 dicembre 134 salì alla carica e nel 133 completò da tribuno l'opera che si era proposta. E quest'opera fu legale nella sostanza e nella forma, fu una riforma e non una rivoluzione. Certo peraltro essa fu di portata profonda, quindi "rivoluzionaria".

Non di rado lo Stato antico ha fatto ricorso a rimedi energici. Solone abolì in virtù di poteri discrezionali la servitù per debiti distruggendo le pietre terminali su cui erano registrati pubblicamente gli oneri ipotecari, cioè estinse i debiti ipotecari esistenti fino a quel momento. I piccoli proprietari di campagna che erano permanentemente rimasti in arretrato di quanto dovevano ai latifondisti ed erano perciò caduti in servitù di essi, riacquistarono la libertà.

Ai possessori fondiari che già si trovavano in situazione critica e che perdevano pure i loro schiavi per debiti, fu ora provveduto, per quanto possa parer incredibile, con l'esentarli addirittura dal pagare i loro debiti ipotecari. Né i capitalisti a cui favore erano state create queste ipoteche vennero risarciti direttamente; Solone intese invece favorire l'incremento del capitale mobiliare trasformando il sistema monetario e perciò adottò la valuta d'Eubea che dominava il mercato invece di quella peloponnesiaca.

Ben lungi dall'essere tanto gravi furono i rimedi cui ricorse Tiberio Gracco; egli mirò semplicemente all'attuazione della legge Licinia, legge che non era una antichità storica, ma risaliva soltanto al 196 a. C.; se era stata trasgredita, le parole di Catone, da lui pronunziate nel 167, ci rendono edotti che i suoi contravventori sapevano perfettamente di procedere illegalmente. E persino al fatto che tali trasgressioni erano tuttavia state tollerate per tanto tempo Tiberio Gracco ebbe riguardo nel suo moderato progetto di legge.

La pura e semplice attuazione della legge Licinia avrebbe avuto per risultato che ognuno dovesse restituire quanto di terre pubbliche aveva occupato al di là dei 500 iugeri.
La proposta di Gracco fu notevolmente più mite, in quanto che a coloro che avevano due figli concedeva 250 iugeri in più per ciascuno di essi, vale a dire in totale 1000 iugeri; con tale sistema la piena esecuzione della legge Licinia era rinviata alla seconda generazione e andava incontro a minori difficoltà. Inoltre quei 1000 iugeri erano trasformati in libera proprietà dei possessori. Ciò malgrado la sua legge non poteva non far ritornare a disposizione dello Stato grandi estensioni di terre pubbliche, con le quali dovevano crearsi nuovi lotti di 30 iugeri ciascuno da assegnare agli agricoltori; tali lotti demaniali si dichiaravano inalienabili ed erano sottoposti al pagamento di un lieve canone, il quale più che altro era un segno di riconoscimento della proprietà dello Stato; formalmente pertanto questi lotti erano concessi in locazione perpetua ed ereditaria e non in libera e piena proprietà, limitazione diretta però semplicemente a tutelare i nuovi possessori, in quanto mirava ad impedire una nuova incetta di terre da parte dei capitalisti ed a garantire loro il possesso dei fondi. Era poi vietata per l'avvenire ogni ulteriore occupazione, di terre pubbliche.

Era da prevedere che il popolo avrebbe approvato la legge, e quindi al senato per impedirne l'approvazione non rimase altra via che sobillare uno dei dieci tribuni perché opponesse alla legge la sua intercessione e riuscì ad accaparrarsi a tal uopo l'aiuto di M. Ottavio. Invano Tiberio Gracco tentò di far desistere Ottavio dalla sua opera, e perciò alla fine si trovò costretto a far deporre Ottavio dalla carica con una deliberazione dei comizi; al suo posto venne eletto un altro tribuno. Dopo ciò la legge agraria passò senza difficoltà; a commissari per la sua esecuzione vennero eletti lo stesso Tiberio Gracco, suo fratello minore Gaio e suo suocero Appio Claudio.

Sin dall'antichità é stato affermato che la legge agraria non riuscì a passare che attraverso l'illegale ed incostituzionale deposizione del tribuno Ottavio e quindi in forma incostituzionale, dal che deriverebbe il suo carattere rivoluzionario; questo discorso é stato ripetuto sino ad oggi, mentre esso è esclusivamente dovuto all'ignoranza del diritto pubblico romano. Il diritto pubblico della repubblica romana più antica non prevedeva, é vero, il caso della deposizione dei magistrati prima dello scadere dell'anno di carica, ma tre anni prima del tribunato di Tiberio Gracco se ne era avuto un esempio nella persona di un proconsole, il proconsole della Spagna M. Emilio Lepido, deposto nell'anno 136 a. C.
La deposizione di Ottavio dunque non era il primo caso di deposizione di un magistrato, ma il secondo, e si basava sopra un precedente riconosciuto come costituzionale. Ed é perciò che la validità della legge agraria votata dopo la deposizione di Ottavio non venne contestata, mentre il senato avrebbe avuto un mezzo di ostacolarne l'entrata in vigore; quello di rifiutare le diarie alla commissione destinata all'assegnazione delle terre. Ma esso non le rifiutò ed invece manifestò in modo meschino il suo dispetto, accordando ai commissari, che erano tre uomini di rango senatorio, fra i quali si trovava persino un Claudio, diarie di un denaro e mezzo soltanto.

La commissione iniziò l'attuazione della legge, ma incontrò delle difficoltà perché non era sempre facile decidere se si era in presenza di proprietà private o di terre pubbliche; per superare tali difficoltà Tiberio Gracco investì con una nuova legge la commissione di poteri giurisdizionali per decidere in proposito. Ed essendo proprio in questo tempo intervenuta la morte di Attalo III che portò a Roma l'eredità di Pergamo, una terza legge di Gracco stabilì che il denaro derivante da questa eredità dovesse impiegarsi per fornire dei mezzi di coltura e bestiame i nuovi coloni.
Per l'ulteriore attuazione della riforma era desiderabile che Tiberio Gracco fosse stato rieletto per l'anno 132, ma vi si opponeva la norma che i magistrati in carica non potevano presentarsi candidati durante l'ufficio. Qui Gracco commise veramente un errore di forma; trascurò cioé di far abolire in precedenza questa disposizione con una legge, cosa per la quale l'influenza e il potere ch'egli possedeva era più che sufficiente. Ne venne che le elezioni dei tribuni si svolsero fra disordini e tumulti e, visto che il console P. Mucio Scevola, il quale nel suo cuore era un amico di Gracco, non volle accedere al desiderio del senato di provocare a proprio favore l'emanazione del senatusconsultum ultimum per assumere così poteri dittatoriali, P. Cornelio Scipione Nasica si pose alla testa dei senatori ed armati di randelli questi prìncipi si recarono sul luogo dei comizi.

Tiberio Gracco fu trucidato insieme con trecento dei suoi partigiani. Si iniziò così a Roma il secolo dei tumulti di piazza e delle battaglie per le vie della città e fu il senato ad aprire quest'era. Ma erano i randelli in mano ai senatori un'arma efficace per tenere in piedi a lungo il dominio del senato ?

IL CONFLITTO FRA IL POTERE LEGISLATIVOE L'ESECUTIVO.
GAIO GRACCO. MARIO.

Tiberio Gracco fu dopo la morte imputato di aver ambito la corona regia; in realtà egli non vi pensò mai, ma i suoi successori stesero effettivamente la mano al diadema. Tiberio Gracco aveva avuto esclusivamente a cuore la riforma agraria e soltanto perché il senato s'era rifiutato di compierla l'aveva portata ad effetto in opposizione al senato; con il fratello Gaio Gracco invece le cose cambiano aspetto. In fondo la riforma agraria non stava in cima dei suoi pensieri, ma la lotta contro il senato, lotta cui suo fratello era stato costretto dalla necessità e che avrebbe volentieri evitato, diviene al contrario il vero e proprio fine principale di Gaio. A ragion veduta egli si incamminò su quella via che doveva alla fine portare alla caduta del predominio del senato ed alla fondazione del principato.

Scipione si trovava in campo sotto Numanzia nella Spagna quando ricevette l'annunzio della morte di Tiberio Gracco ed imitando il suo predecessore espresse con parole omeriche il suo sentimento nei riguardi dell'opera del cognato, manifestandosi anche qui senatore ad ogni costo. "Tal sia di chiunque imprende simili cose !" egli esclamò.
Tuttavia, ritornato a Roma e meglio informato dei fatti, vide la cosa sotto una luce diversa e dichiarò che se Gracco aveva ambito veramente il regno era stato ucciso a buon diritto. Ed in base a questa imputazione fu proceduto a vendicarsi con i restanti partigiani di Tiberio Gracco. Ciò malgrado la legge agraria restò in vigore e la commissione continuò l'opera sua, Gaio Gracco ne fece parte costantemente, ma l'opera di essa dopo alcuni anni venne paralizzata perché nel 129 a. C. Scipione riuscì a farla privare dei suoi poteri giurisdizionali.
Poco dopo avvenne, in circostanze misteriose, la morte dello stesso Scipione; egli aveva appena 56 anni ed aveva goduto tutti gli onori; un'inchiesta sulla sua morte venne ugualmente schivata da tutti i partiti, perché nessuno era assolutamente sicuro che il risultato di essa non lo avrebbe compromesso.

Andiamo indietro di alcuni anni. Mentre nella Spagna ulteriore Roma si combatteva l'insurrezione del lusitano Viriato, nella Spagna citeriore si combatteva la guerra a Numanzia, ma dall'inizio con esito decisamente infelice. Nell'anno 137 il console C. Ostilio Mancino fu persino accerchiato dai Numantini con tutto il suo esercito; e questo sarebbe stato perduto se i Numantini affidandosi alla fede del suo questore non avessero concesso la pace. Questo questore era Tiberio Gracco, il futuro tribuno, nel quale i Numantini riponevano la stessa fiducia che si era presso di loro acquistata il padre governando la provincia. Ma la pace di Tiberio non venne ratificata a Roma ed ai Numantini in luogo dell'esercito salvato, con la pace rigettato, fu consegnato il console; essi però non accettarono per non riconoscere come legale il procedere dei Romani.
Contro Numanzia ebbe fortuna soltanto Scipione che prese la città nel 133; il suo vecchio amico Polibio lo aveva accompagnato in Spagna e la sua storia giunse infatti a descrivere la guerra Numantina.
Scipione come abbiamo visto sopra sparì prematuramente e misteriosamente dal mondo, mentre ferveva la lotta politica; tuttavia anche i suoi nemici personali gli resero giustizia (forse ipocrita). Metello Macedonico non era certo suo amico, e tuttavia ora ordinò ai suoi quattro figli di portare la bara del grande patriota: "Andate, disse loro, a rendergli gli ultimi onori ; giammai voi vedrete la salma di un più gran cittadino"

Dopo questi fatti, l'agitazione del partito popolare fu in sostanza indirizzata a far riattivare l'opera della commissione agraria; esso ripose grandi speranze in Gaio Gracco, il fratello di Tiberio di nove anni più giovane e dotato di splendide qualità personali ; Gaio fu eletto tribuno per il 123 e per la seconda volta nel 122; l'ostacolo che si opponeva alla rielezione dei tribuni era stato in precedenza eliminato. Anche per il 121 Gaio aspirò alla rielezione.

Gaio Gracco era venuto su nutrito delle idee di suo fratello e non poteva a meno di riannodare l'opera propria a quella di lui; ma non erano gli interessi economici e agrari, che gli stavano propriamente a cuore; il suo ideale era un altro: la lotta contro il senato e la fondazione della democrazia sotto l'egemonia dei suoi capi; ed egli condusse questa campagna sotto forma di una lotta tra il potere legislativo ed il potere esecutivo. Per quanto il senato fosse divenuto una specie di parlamento governante, tuttavia esso non possedeva facoltà legislative, le quali spettavano invece ai comizi; questi tuttavia non avevano diritto di iniziativa, ma votavano su proposta dei magistrati che li presiedevano; e i comizi plebei su proposta di uno o più tribuni.

In mano al senato si concentrava invece il governo ed in questo campo la delimitazione delle sue competenze aveva una base di fatto più che di diritto; essa si era venuta formando in base alla consuetudine ed ai precedenti. Il suo predominio si era già saldamente costituito nel 232 a. C. quando subì la prima menomazione per effetto della legge agraria del tribuno C. Flaminio; questi infatti giunse alla distribuzione ai coloni delle terre tolte ai Senoni contro la volontà del senato, mediante sì una legge, ma ottenuta con un plebiscito. Polibio che rappresenta le idee del partito senatorio e che è stato tuttavia spettatore del movimento graccano, non a torto considera dal suo punto di vista Flaminio come il principio dei mali futuri.

Flaminio fu infatti un precursore dei Gracchi e tale appare anche nella sua censura dell'anno 220 a. C. ; la sua riforma dell'ordinamento centuriato mirò a favorire gli interessi agrari. Al pari di Flaminio Tiberio Gracco si fece strumento degli organi legislativi contro il potere esecutivo, dei comizi contro il senato, solo perché non avrebbe potuto altrimenti attuare i suoi scopi di politica economica; con Gaio Gracco invece interviene un mutamento completo di indirizzo; per lui la cura principale non é più la politica economica, ma la lotta contro il senato: il suo fine ultimo era quello di stabilire l'egemonia democratica dei tribuni della plebe.

Personalmente Gaio Gracco rimase soccombente in questa lotta, ma aprì quella via che pose capo alla caduta del predominio del senato ed alla fondazione del principato democratico. Augusto incardinò per sempre il potere civile del principe sulla potestà tribunizia, in Augusto sale al principato il tribuno. Peraltro il tribuno non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza né con la veemenza della parola né coi plebisciti, e nemmeno coi tumulti sanguinosi della metropoli, ma soltanto con l'aiuto dell'esercito e con la forza delle armi.

Anche la concessione dei comandi militari era di competenza del senato, ma non passò molto che il potere legislativo invase anche questo campo, e Mario ottenne per deliberazione dei comizi il comando nella guerra giugurtina. Questo procedimento divenne in seguito usuale e normale e Pompeo ottenne per legge contro il volere del senato i suoi importantissimi comandi contro i pirati e contro Mitradate ; anche nei riguardi del governatorato gallico di Cesare ebbe importanza decisiva la volontà popolare manifestata dai plebisciti.

A questo punto anche gli interessi dei titolari dei grandi comandi militari vengono in conflitto col senato; è evidente che bastava che la democrazia di questi potenti generali e la democrazia civile dei tribuni facessero alleanza perché la supremazia del senato, la repubblica aristocratica, cadesse in rovina. Essa uscì ancor salva dalle vittorie asiatiche di Pompeo, perché Pompeo, se era un valente soldato, era un uomo politico poco abile, ma non ebbe più forza di superare la conquista della Gallia operata da Cesare e precipitò sotto il peso dell'alleanza fra la democrazia ed il militarismo. Ed in seguito Augusto basa il suo principato sulla congiunzione perpetua della potestà civile tribunizia con l'imperium militare proconsolare. Son queste le fila che attraverso Gaio Gracco e Mario conducono al principato, tali ci appaiono Mario e Gaio Gracco, sub specie aeternitatis ; vero è peraltro che i contemporanei non li considerarono ancora sotto questa luce.

Gaio Gracco trasse anzitutto vendetta di coloro che avevano perseguitato i partigiani di suo fratello; egli fece colpire di proscrizione i magistrati che avevano condannato a pena capitale un cittadino, e vietò che senza preventiva interrogazione ed approvazione del popolo si giudicasse della vita di un cittadino romano; indirettamente questa legge si appuntava anche contro il senatusconsultum ultimum e ne ostacolava la conseguenza che era quella di esentare dall'obbligo di render conto del loro operato i magistrati per i quali era decretato.
In secondo luogo Gaio continuò ad attuare le idee della riforma agraria che lo aveva fatto salire al potere e restituì alla commissione esecutiva della legge agraria le sue facoltà giurisdizionali. Ma che gli interessi agrari non avessero più per lui la maggiore e prevalente importanza lo dimostrò già un'altra sua legge relativa alle distribuzioni di grano al popolo, che conferiva ad ogni cittadino il diritto di ricevere dallo Stato una somministrazione mensile di una determinata quantità di frumento a prezzo inferiore alla metà di quello corrente sul mercato e che era già tanto basso. Col dispensare a così buon mercato il grano che affluiva dai tributi delle province lo Stato contribuì a deprimere ulteriormente il prezzo del grano e Gaio Gracco con questa legge colpì addirittura in pieno petto la riforma agraria, per quanto la sua intenzione vera fosse ben diversa, quella cioè di assicurarsi col mezzo delle distribuzioni frumentarie un partito fidato in seno alla popolazione della capitale. In realtà però egli creò e moltiplicò in Roma una plebaglia della quale alla fine egli stesso non poté sicuramente fidarsi.

Inoltre Gracco organizzò il ceto dei capitalisti non appartenenti all'ordine senatorio e che da un pezzo servivano a cavallo, formandone l'ordine equestre che contrappose come classe al senato. Mentre l'ordine senatorio governante era escluso dagli appalti per conto dello Stato, i capitalisti dell'ordine equestre assunsero l'appalto delle imposte nelle province, ed in conseguenza anche nel territorio organizzato con l'eredità di Pergamo, nella provincia d'Asia.

Per salvaguardare i provinciali dalle estorsioni una legge del tribuno L. Calpurnio Pisone dell'anno 149 a. C. .aveva creato un tribunale delle repetundae i cui giudici erano tratti dai senatori. Ora Gaio Gracco pose questo tribunale, cui si riferì anche una legge del suo collega Acilio Glabrione, nelle mani dei cavalieri. Quale fu la conseguenza? I governatori provinciali d'ordine senatorio vennero ridotti in soggezione dei cavalieri e furono costretti a mostrarsi indulgenti di fronte alle estorsioni dei publicani. Quando si adattavano a questa condizione di cose potevano essi pure permettersi impunemente ogni sorta di eccessi; se invece sorvegliavano e tenevano a dovere i publicani occorreva stessero in guardia, perché in tal caso erano minacciati da un processo per estorsioni nel quale erano condannati anche se innocenti dal tribunale dei medesimi cavalieri; l'età posteriore assisté al processo più scandaloso del tribunale dei cavalieri, quello di Rutilio Rufo condannato innocente.

Certo le cose non andarono meglio quando Sulla restituì i giudizi ai senatori ; la funzione di giudicare continuò ad essere uno strumento in servizio delle lotte di partito ed i tribunali continuarono ad esser partigiani, salvo che ora lo furono in senso opposto: adesso era cioè l'avidità dei governatori provinciali d'ordine senatorio che non aveva ragione di temere il giudizio dei pari, ed anche i tribunali di Sulla composti di senatori ebbero il loro processo scandaloso, quello di Verre.

Soltanto la reazione contro gli ordinamenti sullani e più precisamente la legge Aurelia del pretore L. Aurelio Cotta (70 a. C.) che stabilì una lista di giurati mista di senatori e di cavalieri, migliorò lo stato delle cose, arrecando nei giudizi lo spirito di giustizia e di obiettività.

Esaminiamo quali furono i risultati conseguiti da Gaio Gracco con le leggi da lui condotte in porto.
Coll'introdurre il sistema delle distribuzioni frumentarie egli arrecò danno alla riforma agraria e creò un proletariato in seno alla popolazione della capitale; egli diede le province in balìa delle rapine dei publicani e soggiogò la giustizia agli interessi partigiani. Il male ch'egli fece lo elevò al potere e ve lo mantenne; quanto invece intraprese di veramente utile doveva riuscirgli fatale: intendiamo la concessione della cittadinanza ai soci italici.

Che interesse avevano i Latini e gli alleati ad ottenere la cittadinanza romana?
Le province erano state conquistate da un esercito nel quale Latini e soci italici avevano servito al pari dei Romani. Non é a credere peraltro che come conseguenza di ciò le terre acquistate siano divenute province della federazione italica; esse caddero sotto la dominazione di Roma e non della lega; divennero province romane. Contrariamente alle norme della politica moderna, nell'antichità dominazione significava sempre anche sfruttamento materiale attuato con la riduzione in servitù della gleba dei soggiogati o con gli obblighi imposti a favore dello Stato egemonico; e lo sfruttamento delle province romane da parte della Roma repubblicana aveva raggiunto il culmine massimo.
I soci, che avevano preso parte attiva alla conquista delle province, si erano dunque visti esclusi dal diretto godimento dei frutti di questa conquista, per quanti vantaggi abbiano potuto trarre dall'ampliamento dei commerci e del traffico. Ora, é appunto per giungere alla piena partecipazione al godimento delle province che i Latini e i soci italici ambirono la cittadinanza romana.

Si aggiunga l'interesse di ottenere anche gli altri vantaggi materiali competenti ai cittadini, non esclusa la partecipazione alle terre pubbliche ed alla loro divisione. Si comprende come proprio in quest'epoca si sia cominciato a manifestare per la prima volta nei soci il desiderio di ottenere la cittadinanza, ed il partito popolare si mostrò disposto ad accoglierlo; il console di parte popolare M. Fulvio Flacco già nel 125 a. C. concepì il disegno di concedere la cittadinanza romana agli alleati con una legge, ma sin da allora si poté scorgere che i cittadini romani non volevano ceder nulla assolutamente ai soci ed i più avversi alla concessione erano quegli elementi della cittadinanza sui quali era necessario cercassero di appoggiarsi i capi del partito popolare.
Di fronte pertanto all'impopolarità della sua proposta Flacco rinunziò alla progettata legge. Nel suo secondo tribunato del 122 a. C. Gaio Gracco riprese il medesimo disegno, ma ciò bastò per alienargli il favore del popolo colpito nel suo brutale egoismo.

Il senato indusse il tribuno M. Livio Druso ad intercedere contro la proposta di legge e Gaio Gracco non fu in grado di superare questo ostacolo facendo deporre dalla carica Druso, come aveva fatto suo fratello per M. Ottavio. in quest'opera il popolo non lo avrebbe assistito coi suoi voti.
Gaio Gracco aveva nutrito l'idea grandiosa di estendere il diritto di cittadinanza persino al di là dei confini d'Italia; per questa ragione aveva fatto decretare la fondazione della colonia di Giunonia sul luogo ove si trovava un tempo la distrutta Cartagine, e si era recato in Africa per fondare Giunonia. Il senato però approfittò della sua assenza per alienargli il favor popolare; esso fece presentare per mezzo di Livio Druso proposte anche più vantaggiose al popolo di quelle di Gracco, quasi a significare che si era opposto alle leggi popolari di quest'ultimo soltanto in considerazione della sua persona.

Avvenne così che Gracco al suo ritorno dall'Africa trovò gli umori del popolo tanto mutati a suo riguarda che non gli riuscì di essere eletto tribuno per la terza volta, per l'anno IV, e dal 10 dicembre 122 ritornò ad essere un semplice privato. Si volle ora revocare la deliberazione relativa alla fondazione di Giunonia, ne nacquero dei tumlti e lotte sanguinose in città ed in esse fu ucciso Fiacco, il console del 125; Gaio Gracco si fece dare la morte da un suo schiavo.

Tremila partigiani di Gracco vennero mandati a morte e a ricordo della pace cittadina in tal modo ristabilita fu restaurato l'antico tempio della Concordia. Il senato era riuscito a perdere i capi del popolo; ora venne la volta di distruggerne l'opera. La riforma agraria ebbe segnata la sua fine.

Essa non era rimasta lettera morta, ma era stata realmente attuata; lo dimostrano le cifre del censimento del 124 a. C. paragonate con quelle del 131; ma ora intervenne la reazione rappresentata da tre leggi votate nel decennio tra il 121 ed il 111 a. C. La prima di queste tre leggi diede ai nuovi coloni il permesso di vendere i lotti loro assegnati; era il permesso di rovinarsi che si dava ad essi, giacché si tornava a dare l'opportunità ai capitalisti di incettare le terre.
La seconda legge, dovuta a Sp. Torio, tribuno del 119, fece cessare ogni ulteriore distribuzione di terre, e quindi anche la commissione allo scopo istituita cessò di funzionare. Tiberio Gracco aveva assegnato i nuovi lotti di terra sotto forma di locazione perpetua accompagnata da un lieve canone, per garantirne il possesso ai titolari; ora, però il divieto d'alienazione era caduto, e nell'anno 111 fu abolito anche il lieve canone, che era destinato non ad opprimere ma a tutelare gli agricoltori. Con ciò questi acquistarono la piena proprietà delle terre con la piena libertà di farsene spogliare dai capitalisti.

I benefici effetti della riforma quindi andarono nuovamente perduti in buona parte, per lo meno col tempo; essa venne arrestata e soppressa mentre era sulla strada migliore di rinnovare la classe agricola d'Italia, e se in seguito Plinio poté dire: latifundia perdidere Italiam, fu la reazione a porre la prima pietra di questa rovina. La riforma aveva utilizzato le terre pubbliche, togliendole dalle mani degli occupatori, per ricostituire e risanare la classe agricola; la reazione frustrò la rigenerazione dei contadini, ed ora le terre pubbliche non furono più distribuite e divise con criterio di utilità, ma spezzettate e polverizzate.

L'unica concessione fatta in questo decennio al partito popolare fu la deduzione di' una colonia di cittadini a Narbona. I riformatori erano stati quelli che avevano operato l'estensione della dominazione romana al di là delle Alpi; per fornire di terre i poveri il console M. Fulvio Fiacco imprese nel 125 la conquista della Provenza, che porta ancora oggidì il nome della provincia romana ; dopo ciò furono fondate le colonie di Aquae Sextiae, Aix, e di Narbona Marzio (nel 118).
La nobiltà si era ristabilita di nuovo saldamente in sella, ma difettava in modo inquietante di persone capaci. In seno ad essa salì ora alla massima autorità M. Emilio Scauro, un uomo che in tutta la sua vita non ebbe mai una. idea politica, ed il cui merito consisteva tutto nel suo atteggiamento dignitoso. Se la sua dignità non serviva ad altro che a coprire l'intima vacuità della sua mente, fu peggio ancora che con la correttezza esteriore e col suo tono convinto abbia potuto almeno per lungo tempo celare la sua poca moralità; egli non era affatto più onesto degli altri, era semplicemente più caro di prezzo.
Queste erano le condizioni dell'aristocrazia senatoria a principio della guerra giugurtina: Scauro compromise la nobiltà e fece spuntare all'orizzonte la stella di Mario.

La fonte che noi possediamo nel Giugurta di Sallustio non é imparziale. Questo cesariano é qui altrettanto partigiano quanto nel suo Catilina; lo dimostra già la scelta dei suoi argomenti; egli va in cerca di descrivere periodi nei quali gli ottimati hanno messo a nudo le loro manchevolezze. Ma, se anche egli é tendenzioso, tuttavia i veri e propri dati di fatto parlano un linguaggio non equivoco.
Il regno numidico di Masinissa aveva raggiunto a spese di Cartagine e dopo la caduta di Cartagine la sua colossale estensione che lo faceva arrivare dalla Mauretania ai confini di Cirene; esso circondava a sud la provincia romana d'Africa e serviva perciò da baluardo di confine anche rispetto ai Beduini; era un paese che aveva subìto l'influenza dell'incivilimento punico e dai tempi di Masinissa si era anche aperto alla cultura greca.
Il regno in comune dei figli e nipoti di Masinissa ,divenne arduo allorché nel 118 salì al trono accanto ai cugini Aderbal e Iempsal il capace ed ambizioso Giugurta, il quale, mirando ad impadronirsi da solo di tutto il regno, fece uccidere Iempsal mosse guerra ad Aderbal, che però fuggì a Roma.

Giugurta conosceva i Romani dai tempi di Numanzia dove aveva comandato truppe ausiliarie numidiche; egli conosceva i loro vizi e la loro debolezza di fronte alla potenza del denaro; perciò lavorò fin da principio di corruzione e riteneva che tutto lo Stato romano si sarebbe potuto comprare purché si trovasse un compratore; egli sapeva che anche le commissioni delegate dal senato erano corrompibili, salvo che l'onorabilità e la dignità di persone come Scauro che esigevano un prezzo più elevato. Ne venne che una di queste commissioni divise prima la Numidia tra Aderbal e Giugurta e due altre commissioni non protessero Aderbal: Giugurta lo assediò in Cirta e dopo aver conquistato la città nel 112 lo mandò al supplizio.

Ma nella caduta di Cirta avevano trovato la morte anche degli Italici che vi dimoravano a scopo di commercio, ed avendo il partito popolare romano guidato dal tribuno C. Memmio preso in sua mano questa losca faccenda, fu dichiarata nel 111 a. C. la guerra a Giugurta; ma il console ed il suo legato Scauro vendettero la pace.
Per smascherare la nobiltà i popolari provocarono la citazione di Giugurta a Roma sotto salvacondotto; ma qui si seppe fare in modo di impedire le sue deposizioni; egli credette di potersi permettere tutto e fece assassinare in Roma stessa un suo possibile rivale, suo cugino Massiva.

Di fronte a ciò la pace venne respinta e Giugurta scacciato; ma anche la direzione della guerra fu nel 110 affidata alle mani di un console accessibile alla corruzione. Scauro in persona riuscì ad entrare nella commissione incaricata di inquisire su questa corruzione, ma la sua abilità stessa non poté impedire una serie di giustificate condanne. Finalmente assunse la direzione della guerra nel 109 un uomo migliore, il console P. Cecilio Metello. Egli vide fin da principio che non era possibile raggiungere un buon esito se non impadronendosi di Giugurta; ma non gli fu possibile catturarlo, ci riuscì il suo successore, C. Mario, il cui questore L. Cornelio Sulla ridusse in suo potere Giugurta, che si era rifugiato presso il suocero, re Bocco di Mauretania, e lo trascinò incatenato. nel campo romano.
Nel primo giorno del suo secondo consolato, il 1.° gennaio 104 a.C. Mario entrò trionfante in Roma, e Giugurta dopo aver ornato il trionfo del vincitore fu ucciso a Roma in carcere.


Mario era originario di Arpino nei Volsci. Egli aveva militato a Numanzia sotto gli ordini di Scipione, era poi divenuto questore, tribuno, pretore; benché di famiglia poco elevata, aveva tuttavia sposato una moglie uscente da una casa di antica nobiltà, una Giulia. La nobiltà che lo aveva lasciato salire tanto alto avrebbe fatto bene a non rifiutarsi di concedergli anche il consolato, ed invece Metello rispose persino con lo scherno al sua legato che manifestò la volontà di porsi candidato al consolato: ne derivò che la candidatura di Mario fu presa a cuore caldamente dal popolo, egli fu eletto console per l'anno 107, il popolo gli affidò pure la direzione della guerra contro Giugurta, e Mario sostituì nel comando dell'esercito Metello.
Il vincitore di Giugurta venne eletto per la seconda volta console per l'anno 104 e nuovi incarichi di carattere militare lo aspettavano.
Al tempo del primo consolato di Mario (107) risalgono già due grandi riforme di profonda importanza: la concessione dei comandi militari per legge ed un nuovo ordinamento dell'esercito.
La legge relativa ai comandi militari preparò la caduta della repubblica e l'ordinamento dell'esercito di Mario la caduta dell'impero d'Occidente.

Contro Giugurta il comando era stato tenuto da Metello nel 109 come console
e nel 108 da proconsole; i comandi di maggiore importanza erano conferiti dal senato, e questo aveva assegnato anche per l'anno 108 la direzione della guerra in Numidia a Metello. Ma nel frattempo il partito popolare aveva elevato alla dignità di console Mario e dopo ciò, in contrasto con il senato, gli concesse anche il comando dell'esercito contro Giugurta. Il tribuno Manlio Mancino cioè presentò e fece votare una legge che, in opposizione al senatoconsulto emanato a favore di Metello, incaricava del comando supremo contro Giugurta il console Mario. Con ciò si veniva a creare un precedente di gravissime conseguenze e di decisiva importanza.

Con plebisciti, con leggi, il potere legislativo aveva invaso il campo d'azione del senato, il campo amministrativo, per la prima volta nel 232 a. C. in materia di terre pubbliche con la legge agraria di C. Flaminio e di nuovo nel 133 con quella di Tiberio Gracco; ora il potere legislativo dei tribuni invase per la prima volta anche le competenze del senato in materia di concessione dei comandi militari, concessioni che sinora erano state fatte d'iniziativa del senato.
La legge Manlia dell'anno 107 che affidò a Mario il comando supremo della guerra contro Giugurta segna un momento critico nel cammino della storia costituzionale romana altrettanto quanto la legge Flaminia e la legge Sempronia; praticamente anzi essa fu forse di più gravi conseguenze.
Dal tempo dei Gracchi il tribunato era divenuto assai molesto al senato, e con l'aiuto del proletariato della capitale Gaio Gracco aveva sperato di rendersi padrone della città: non aveva peraltro raggiunto il suo scopo, né per la stessa via da lui tenuta era possibile in genere ottenere di più, giacché se anche il senato non dominava nella città di Roma, dominava tuttavia nei territori della, repubblica, dal momento che conferiva i comandi militari ed aveva per conseguenza nelle sue mani gli eserciti; e si sa che chi ha l'esercito è arbitro della situazione.

Fu dunque una innovazione di gravissima portata quella della legge Manlia dell'anno 107 che revocò il conferimento del comando supremo fatto dal senato a Metello e lo trasferì con deliberazione comiziale al console Mario; si pose con ciò il piede sopra una via che doveva portare alla conseguenza di togliere dalle mani del senato gli eserciti.
Adesso anche membri ambiziosi dello stesso ordine senatorio potevano servirsi in contrasto col senato dei comizi per ottenere importanti comandi militari: così avvenne in seguito nel caso del conferimento fatto nel 67 a. C. dalla legge Gabinia a Pompeo, contro la volontà del senato, del colossale imperium nella guerra contro i pirati, poco consono agli ordinamenti repubblicani; così nel caso della legge Manlia che un anno dopo conferì allo stesso Pompeo la direzione della guerra contro Mitradate; così nel caso del conferimento della provincia gallica a Cesare.

Questi vasti poteri militari furono di carattere antisenatorio. Il tribunato da solo non poté strappare al senato il predominio, ma la situazione cambiò quando il grande comando militare fondato su base democratica si alleò col tribunato. Col verificarsi di questa lega il dominio del senato non poteva fare a meno di crollare e di fatti esso crollò, sotto Cesare, sotto Augusto, di fronte all'alleanza dell'imperio proconsolare e della potestà tribunizia.

Ciò segnò la fine della repubblica aristocratica e la fondazione del principato democratico: le cause di ambedue questi eventi risalgono sino ai Gracchi ed a Mario.
Un tempo assai più lungo occorse perché si maturassero le conseguenze, non previste dal suo autore, del nuovo ordinamento militare attuato da Mario sin dal primo anno del suo comando contro Giugurta ed anche nel primo suo consolato del 107 a. C.
Sino a quel momento il servizio militare era stato un onore riservato alle classi abbienti ed il censo costituiva la base del reclutamento; nell'ordinamento mariano questo privilegio cessa; Mario accolse nell'esercito anche i capite censi, i proletari. L'obbligo del servizio militare continua, é vero, tuttora ad essere un obbligo generale, ma rimane lettera morta, perché di fatto gli abbienti si sottraggono sempre più al servizio. Le legioni continuano bensì a reclutarsi fra i cittadini, ma si reclutano fra i cittadini più poveri, e mentre sinora il cittadino, finito il suo servizio, tornava all'aratro ed ai suoi affari, dopo questa riforma esso cominciò invece a rimanere per molti anni sotto le armi; l'ordinamento mariano trasformò l'esercito romano da un esercito cittadino in un esercito di soldati di mestiere. Ciò presentava grandi vantaggi tecnici; questi soldati possedevano tutti una istruzione militare per lo meno da sottufficiali. Queste utilità tecniche e la sempre crescente avversione degli abbienti al servizio militare ebbero per conseguenza che anche Augusto fece suo l'ordinamento mariano; ma qual ne fu l'effetto nel corso dei secoli? Si continuò a trarre dall'Italia sempre nuove schiere di giovani, che quando lasciavano il servizio col diritto all'appannaggio di veterani erano già vecchi ed alieni dal matrimonio.

Continuato per secoli, questo sistema spopolò l'Italia e le tolse la forza di resistere all'invasione germanica. Ne derivò l'imbarbarimento d'Italia, che fu una necessità sotto più d'un aspetto, e questo imbarbarimento preparò la caduta dell'Impero in Italia, ma salvò pure l'Italia dalla completa estinzione: lo spopolamento dell'Italia fu, senza ch'egli nemmeno lo sospettasse, iniziato da Mario.
Quando egli tornò dalla Numidia vincitore di Giugurta, altri pericoli più vicini, immediati, minacciavano l'Italia, derivanti dai Teutoni e Cimbri. Nell'anno 105 un esercito romano era stato completamente battuto e annientato dai barbari in prossimità dei basso Rodano, presso Arausio (Orange): si temeva di vederli invadere l'Italia e Roma fu assalita da grande spavento. Solo in Mario si vide una speranza di salvezza.

L'invasione dei Cimbri e dei Teutoni non é il primo flusso di barbari che abbia minacciato l'Italia; tre secoli prima vi erano calati i Celti, mossi dal loro istinto nomade che li portò dal Reno attraverso la Francia sino in Spagna, nell'alta Italia, in Tracia e nell'Asia Minore. Ma coll'invasione dei Cimbri cominciano i movimenti dei Germani, che a loro volta tre secoli dopo, sotto Marco Aurelio, batterono alla porta dell'impero per rimanere in seguito l'incubo costante di esso. Essi erano scesi dalle spiagge nordiche al di là dell'Elba ed avevano nel 113 sconfitto a Noreja il console Cn. Papirio Carbone; nessuno li avrebbe impediti di invader l'Italia, ma con la loro mobilità e ben altri propositi, essi si volsero prima verso occidente (in Gallia) e si unirono ai Teutoni.
In Gallia essi chiesero invano ai Romani terre per domiciliarvisi a tale rifiuto iniziarono le prime guerre e anche le ripetute sconfitte dei Romani, l'ultima e più grave quella già ricordata di Arausio nel 105 a. C. Sembrò che nessuno potesse tener loro testa all'infuori di C. Mario; e per questo egli fu eletto la seconda volta console per l'anno 104 e fu rieletto ripetutamente negli anni seguenti.

Intanto gli invasori si erano nuovamente allontanati, erano passati dalla Gallia nella Spagna; ma nel 102 tornarono a presentarsi per invadere l'Italia, i Teutoni per la via lungo la costa ligure, i Cimbri dal Nord. Mario fronteggiò i Teutoni nella Provenza non lungi da Marsiglia, ad Aquae Sextiae (Aix); le sue dolci e tepide sorgenti attiravano già allora quei germani e si comprende come molti di essi trascurassero la battaglia per le dolcezze del bagno e rimanessero sorpresi dell'attacco.
Alla vittoria sui Teutoni seguì l'anno dopo la vittoria sui campi Raudi presso Vercellae sui Cimbri che nel frattempo avevano fatto irruzione in Italia essa fu ottenuta da Mario nel suo quinto consolato insieme al proconsole Q. Lutazio Catulo.

Il salvatore di Roma, il vincitore dei Teutoni e Cimbri, fu rieletto console per l'anno seguente; questo sesto consolato dell'anno 100 fu fatale per Mario.
A questo punto tornò ad alzar la testa il partito popolare che aveva un capo così glorioso, un capo che per cinque anni di seguito era stato eletto a presidente della Repubblica. Ma questo capo era esclusivamente un provetto soldato ed inesperto invece della politica interna; inoltre egli dovette limitarsi nella sua qualità di supremo magistrato a favorire semplicemente l'agitazione dei popolari; di questa agitazione assunsero la direzione il pretore C. Servilio Glaucia ed il tribuno L. Appuleio Saturnino.
Con le sue proposte di legge Saturnino seguì le orme di Gaio Gracco; egli presentò una legge agraria ed altre per estendere le distribuzioni frumentarie e per la fondazione di colonie allo scopo di dotare di terre gli eorici veterani di Mario; a datare dall'introduzione dei nuovi ordinamenti militari fu necessario provvedere all'appannaggio dei veterani mediante colonie militari, la cui fondazione per lo spazio delle due generazioni seguenti divenne il terrore d'Italia e rese malsicura la proprietà fondiaria, sino ad Augusto.

Con la legge agraria si proponeva di ripartire in libera proprietà le terre occupate dai barbari in Gallia e a loro riprese da Mario; ai proletari della capitale si voleva fare un trattamento anche migliore di quello introdotto da Gaio Gracco con le distribuzioni di grano nel senso che il modio di frumento doveva esser loro somministrato a meno di sei centesimi: in altri termini essi acquistavano il diritto di essere sostenuti dallo Stato.
I veterani di Mario avrebbero dovuto ricevere ciascuno 100 iugeri di terreno. L'intercessione tribunizia, cui la nobiltà tentò di ricorrere, non venne più eliminata, come a tempo di Tiberio Gracco, col mezzo legale di un voto formale dei comizi, ma il popolo si sollevò a tumulto nel comizio e superò in maniera più efficace l'intercessione di qualche tribuno.
Mario appoggiò i popolari, ma come ?

Certo la sua posizione era equivoca; come console, egli era presidente del senato, ma dentro di sè stava dalla parte dei popolari; e Mario non era né abile politico né aveva il carattere per imparare questa abilità. Il senato doveva giurare la legge agraria, ma non era disposto a farlo; e Mario allora dichiarò che anch'egli non avrebbe prestato il giuramento alla legge; ma poi alla fine lo prestò a una condizione, che cioé la legge fosse valida.
Ridotto per tal modo di nessun valore, questo giuramento fu prestato dai senatori senza difficoltà di sorta; il solo Metello antico superiore di Mario nella guerra giugurtina, , non volle saperne e preferì l'esilio.

Appuleio Saturnino era stato rieletto tribuno per il seguente anno 99 a. C.; se non che nel giorno in cui egli iniziò il suo secondo tribunato, il 10 dicembre dell'anno 100, avvennero nuovi tumulti per le vie di Roma. Glaucia aspirava al consolato; ma aveva di contro come rivale C. Memmio, che nei primi anni della guerra giugurtina aveva attaccato la nobiltà, ma da tempo si era rappacificato con essa ed era passato nelle sue file; egli aveva fatto opposizione anche alle proposte di legge di Saturnino. Ora Saturnino lo fece trucidare sulla pubblica via, ma questa fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Saturnino e Glaucia si videro costretti ad occupare il Campidoglio, il senato emanò il senatusconsultum ultimum, e nel momento critico il console Mario tradì i suoi partigiani che avevano agito intimamente d'intesa con lui, e fece uso del senato-consulto.
Saturnino e Glaucia furono uccisi, ma anche la posizione politica di Mario ne uscì rovinata; egli si era compromesso in maniera irrimediabile sia presso i nobili come presso il popolo. Fu infatti abbandonato da tutti.

A questo punto a Roma si apriva una nuova drammatica fase ...

LA GUERRA SOCIALE E LO STATO UNITARIO ITALICO > >

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