30. LA GRANDE GUERRA SANNITICA - IL NUOVO ESERCITO

Abbiamo concluso il precedente capitolo dicendo che nello spazio delle due generazioni che seguirono alla fine della guerra coi Latini i Romani soggiogarono l'Italia meridionale e l'Etruria, proprio avendo accanto costantemente nelle battaglie i Latini. Fratellanza d'armi e vittorie comuni nei settanta anni succeduti allo scioglimento della lega latina cementarono saldamente l'unione tra Romani e Latini.
Espandendosi fuori dei confini del Lazio i Romani allargarono ulteriormente la propria signoria verso mezzogiorno; e l'intervento dell'Etruria nella lotta procrastinò sì l'esito immediato definitivo, ma non valse ad evitarlo; anzi preparò ed avviò l'annessione anche della parte settentrionale del Centro Italia al nuovo stato italico che si andava formando sotto l'egemonia di Roma.

Verso il 340 a. C. la bassa Italia, la Magna Grecia, aveva già da tempo conquistata quella posizione che le spetta nella storia universale, dovuta soprattutto alla influenza da essa esercitata nella storia dello sviluppo intellettuale umano.
Per quanto notevole sia stata per la vita economica l'importanza dell'industria agricola delle colonie achee, del commercio dell'achea Sibari, della dorica Taranto e della calcidica Cuma, e per quanto indispensabile alla madre patria greca il frumento italico, pure la più poderosa influenza questi coloni greci occidentali l'ebbero nel campo della cultura.
I templi di Posidonia, di Pesto e di Segesta affascinano ancora oggi nella impareggiabile bellezza del loro ambiente, emergenti dal mare, con lo sfondo dei colli, sotto la volta di un cielo azzurro e indorati dal sole; e insieme coi prodotti dell'industria greca, Cuma sbarcò nella penisola anche la scrittura, lo strumento fondamentale dell'incivilimento.

Ma dove il pensiero di questi greci raggiunse le più ardite profondità fu nel campo della scienza, della filosofia. Di questa filosofia italica, giusta il nome datole da Aristotele, vive ancora l'epoca nostra e la sua influenza é imperitura: fu Pitagora che creò la scienza dell'universo, la cui infinità balenò alla mente di Xenofane; e Xenofane penetrò anche nelle profondità dell'anima umana che si plasma i suoi dei, come essa li vuole.
Le nuove dottrine partirono da Crotone e da Elea. Il ragionamento matematico fece dedurre la sfericità della terra; il suo corpo, stando sul quale l'orizzonte resta costantemente circolare per quanto l'osservatore muti posizione, é una sfera. Se vi è
cosa che può sembrare intuitiva, sicura, è la fissità, immobilità della terra nel centro dell'universo; eppure Pitagora era dotato di tanta indipendenza di giudizio di fronte alla percezione dei sensi e di tanta arditezza ed energia di pensiero che, primo fra gli uomini, dubitò dell'intuizione che lo collocava insieme con la terra nel centro dell'universo, rimosse la terra dal suo posto centrale nel sistema del tutto e le attribuì il movimento; era così aperta la via che doveva portare poi a Copernico.

Fra tutti i pensatori di tutti i tempi posteriori Pitagora ha dimostrato di possedere una spregiudicata indipendenza di giudizio di fronte ai postulati dell'intuizione ed una arditezza di pensiero pari a quelle di Pitagora il solo Kant stabilendo il principio dell'apriorità del tempo e dello spazio. Conseguenza della teoria della sfericità della terra fu la scoperta della legge di gravità, che verso il 700 a. C. era ancora sconosciuta. L'esperienza aveva bensì, dimostrato che i corpi tendono a cadere in basso, ma in quale direzione? Ancora Esiodo ha di ciò un'idea che prova chiaramente che la legge di gravità, quella tendenza che porta a cadere i corpi verso il centro, di cui parla Aristotele, era tuttavia sconosciuta; a suo dire, al di sopra e al di sotto della terra si stendono i due emisferi del cielo, e come dalle altezze dei cieli un incudine ferreo cade sulla terra, così essa continua la sua caduta oltre la terra precipitando negli abissi, nell'emisfero celeste situato sotto la terra.

Ma dopo Pitagora la sfericità della terra indusse a riflettere su questo quesito. Una pietra cadeva sempre sulla superficie della terra. Ma se la terra era una sfera, quale era la direzione della caduta di tutte queste pietre? Il centro della terra. La dottrina dunque della gravitazione verso il centro, la legge di gravità, fu scoperta non come risultato dell'osservazione, ma per deduzione logica, come una conseguenza della filosofia pitagorica.
Che doveva però dirsi dell'universo? L'osservazione del cielo stendendosi in forma di volta oltre l'orizzonte aveva fatto nascere la concezione dell'emisfero celeste e della sfera dell'universo, e qui si era fermato il pensiero.

Ma Xenofane di Elea si domandò: su che poggia la nostra terra? E la risposta a tale quesito lo costrinse a frantumare la sfera dell'universo. Secondo lui sotto i nostri piedi giace uno solo degli estremi della terra, e l'altro estremo si perde nell'infinito. Con ciò era posto il concetto dell'infinità dello spazio. Il primo pensatore alla cui mente si presentò il concetto dell'eternità dello spazio é stato Xenofane; dall'altro lato il suo contemporaneo Anassimandro di Mileto, discepolo di Talete, era stato condotto dal problema proposto dallo stesso Talete della ricerca dell'origine di tutte le cose a dichiarare l'illimitatezza, l'eternità del tempo. Ma non soltanto al mondo e alla terra rivolse il suo studio Xenofane, ma si occupò degli uomini e degli dei.

Mentre giusta la cosmologia israelita Dio aveva creato gli uomini a sua immagine e somiglianza, giusta il concetto di Xenofane che invece sono gli uomini che si sono plasmati i loro dei a propria immagine; Xenofane emise a tal proposito lo stesso giudizio che più tardi Ludovico Feuerbach. Ma qui si arresta la coincidenza. In Xenofane questa critica psicologica della concezione degli dei non mette capo alla negazione dell'esistenza della divinità, ma alla purificazione del concetto di essa; muovendo da quella critica egli arriva al monoteismo. II monoteismo é fiorito in due luoghi diversi, da una radice israelitica e da una radice greca, in Palestina e ad Elea.

Ma a che deve la filosofia italica la sua originalità ed arditezza? Come é che Xenofane e Pitagora si sono elevati a così grandi altezze? Ambedue furono costretti ad abbandonare la patria, Xenofane si allontanò dall'Asia Minore per sfuggire ai Persiani, il samio Pitagora per sfuggire a Policrate; ambedue rinunziarono alla patria d'origine e si formarono una nuova esistenza sulla terra straniera. Per ambedue la tradizione nativa si ruppe. Chi vorrà negare l'importanza della tradizione anche nel campo intellettuale? È di essa che conserva le cognizioni acquisite e rende possibile un progresso lento e crescente. Ma per le grandi creazioni dello spirito, per le rivoluzioni del pensiero la tradizione é un ostacolo e una catena che esse abbattono e rompono. E per i due grandi filosofi di Crotone e di Elea questa catena si era spezzata con la perdita della loro patria, ed essi avevano in sé tutti i requisiti d'intelletto per muoversi indipendentemente, per vedere con i propri occhi e pensare con la propria mente.

La corrente del libero pensiero si propagò anche in Sicilia; qui Empedocle di Agrigento gettò le basi della teoria dell'evoluzione; egli é un precursore di Darwin. D'altro canto ad Elea si arrivò in prosieguo di tempo ad un compromesso tra la dottrina pitagorica e le concezioni tradizionali del mito. Da Pitagora, Parmenide accettò la teoria della sfericità della terra, ma d'accordo con il mito la lasciò al suo posto di centro dell'universo. Anche il compromesso di Parmenide del resto ha la sua importanza nella storia del pensiero umano; come il sistema eliocentrico di Copernico ha il suo punto di partenza in Pitagora, e da lui accetta il movimento della terra e dei corpi celesti e del fuoco centrale e progredisce di fronte a Pitagora soltanto coll'identificazione del fuoco centrale al sole, il quale peraltro era anch'esso il prototipo psicologico del fuoco centrale, così Parmenide fu il creatore del sistema tolemaico che passò dall'antichità decadente nel medio Evo e lo dominò per esser detronizzato soltanto di fronte all'opera di Copernico e di Galilei.

Nell'influenza esercitata sul pensiero umano consiste l'imperitura importanza della Bassa-Italia per la storia universale; ma se nell'anno 338 a. C. si prendeva tuttora qualche interesse a queste cose nella patria di Archita, a Taranto, poco probabilmente invece si può dire lo stesso di Capua, ed i Sanniti erano completamente immuni da ogni contagio di movimento intellettuale; qui vi dominavano esclusivamente gli interessi economici e politici, che naturalmente anche altrove avevano la prevalenza. Il sostrato della nazionalità nella regione dell'odierna Napoli era osco; a metà dell'VIII secolo a. C. vi era cominciata la colonizzazione greca con la fondazione di Cuma da parte dei Calcidesi dell'Eubea; in confronto alla nuova città, Neapoli, derivata da Cuma, questa rimase la città antica, la Paleopoli. In seguito vennero per mare dall'Etruria meridionale gli Etruschi, probabilmente nel VI secolo; la loro potenza ricevette un fiero colpo ad opera dei Siracusani sotto Gerone nella battaglia navale del 474; ma la potenza etrusca nell'Italia meridionale fu abbattuta dai Campani, di stirpe osca, che verso la metà del V secolo formarono uno Stato di più solida compagine e nel 423 a. C. liberarono Capua dalla signoria etrusca.
Dopo ciò la potenza etrusca in Campania scomparve, per quanto la scrittura e la lingua etrusca vi si sia mantenuta sin nel III secolo a. C.; ma anche i Greci cominciarono ad essere molestati dai Campani; nel 420 i Campani presero Cuma, Napoli sì rimase ancora greca, ma fu costretta ad accogliere nella sua cittadinanza anche dei Campani. Con i Sanniti delle regioni montuose, anch'essi di stirpe osca, i Campani erano di nazionalità affine, ma ciononostante i due popoli vennero a conflitto per il fatto che i Sanniti delle montagne miravano a scendere al piano e preme
vano in conseguenza.

E fu in prima linea questo antagonismo che determinò a tempo della guerra latina l'attitudine diversa dei Sanniti e dei Campani nei rapporti con Roma; siccome dal 354 a. C. Roma era alleata dei Sanniti, i Campani appoggiarono l'insurrezione dei Latini contro Roma. E perciò essi rimasero coinvolti nella caduta del Lazio; Capua e Cuma furono annesse allo Stato romano con il diritto di cittadinanza passivo. Questo ingresso dei Romani in Campania però arrecò un mutamento nei loro rapporti col Sannio, o per meglio dire mutò l'attitudine dei Sanniti verso Roma.

Nell'anno 334 i Romani colonizzarono Cales in Campania e nel 328 Fregelle sull'alto Liri, nelle cui vicinanze si erano insediati i Sanniti. E si badi che per i Romani colonizzazione significava erezione di fortificazioni; sembra che i Sanniti abbiano invano reclamato si sgombrasse Fregelle. E allorché i Sanniti occuparono Napoli, scoppiò la guerra. I Greci di Napoli compresero in tempo quale era il loro tornaconto, si liberarono del presidio sannita e strinsero a buone condizioni una lega con Roma della quale non ebbero a pentirsi; essa assicurò per lungo tempo al loro commercio l'alta posizione acquistata.

Dalla contesa dunque per Fregelle e Napoli scaturì la grande guerra sannitica che durò oltre vent'anni, dal 326 al 304 a. C., ma i Romani e i Sanniti non guerreggiarono ininterrottamente per tutto questo periodo; la pace caudina del 321 a. C. spezza in due questa guerra di per sé unica; una prima guerra durata dal 326 al 321, un'altra durata dal 316 al 304 a. C.
Anche la guerra del Peloponneso parve da principio non costituire un tutto unico, spezzata come si trovò nella guerra archidamica ed in quella deceleica fra le quali ci fu un periodo di una approssimata pace e la spedizione di Sicilia; soltanto l'occhio acuto di Tucidide intuì la connessione interna delle due guerre.

Alla unificazione delle due guerre sannitiche pare invece abbia dato luogo l'onta della pace caudina, per lavare la quale in seguito si negò che fosse stata conclusa una pace valida e riconosciuta da Roma; il che venne agevolato dalla circostanza che effettivamente i Romani nel 318 avevano ripreso la guerra anche se non direttamente contro i Sanniti.

Degli eventi militari della prima guerra sappiamo poco, salvo la catastrofe finale; una volta si combatté presso Inbrinium nel Sannio; questa città più tardi la troviamo scomparsa dalla scena, essa deve essere stata distrutta nel corso della guerra. Probabilmente i Romani fecero ripetute invasioni nel Sannio; nel 321 a. C., durante la marcia dalla Campania nel cuore del territorio sannita, verso Maliessa, li colse il fato. Essi si eran mossi da Calazio tra Capua e Nola, nelle vicinanze dell'odierna Maddaloni, passando per S. Agata dei Goti e Moiano, avevano risalito la valle dell'Isclero, e, attraversata la profonda valle di Caudio presso Montesarchio, miravano a superare la stretta gola d'uscita per raggiungere Maliassa. Ma arrivati qui vi trovarono l'uscita occupata e sbarrata dai Sanniti, ed allorché costretti dalla necessità tornarono indietro, anche le vie di ingresso della valle erano già occupate, così quella proveniente da nord-ovest, da essi battuta prima, come quella proveniente direttamente da ovest per Arienzo, Forchia ed Arpaia; anche le alture circondanti d'ogni lato la valle erano ormai guarnite di guerrieri sanniti.

L'intero esercito romano (i due eserciti consolari) era caduto nella trappola e rimaneva in arbitrio dei Sanniti di distruggerlo o di prenderlo prigioniero e trattenerlo sino alla conclusione della pace. Il generale sannita Gaio Ponzio consentì ai Romani di capitolare ma a gravissime condizioni ed i consoli dovettero loro malgrado concludere con lui la pace. L'esercito ebbe salva la vita, ma fu costretto a subire la vergogna di passare sotto il giogo, ritirandosi per la via di Arpaia, Forchia ed Arienzo; ancora oggi la memoria delle furculae di Caudio, le forche caudine, vive nel nome di Forchia.

I Sanniti consentirono a lasciar salva la vita all'esercito ed a concludere la pace verso la cessione di Fregelle, e come ostaggi trattennero nelle loro mani 600 cavalieri romani, il fiore cioè della gioventù patrizia, l'intera cavalleria patrizia, le sei centurie dei Tities, Ramnes, Luceres priores e posteriores. Fregelle fu poi consegnata, ma i 600, cavalieri rimasero in mano dei Sanniti come garanzia dell'osservanza della pace conclusa.

Così questa prima guerra sannitica finì con un gran disastro dei Romani, i quali, malgrado avessero salvo l'esercito, dovettero rinunziare ad ogni idea di prendersi la rivincita con una nuova guerra, perché questo voleva dire sacrificare la loro migliore gioventù patrizia, in ostaggio dei Sanniti.
Ma essi non poterono consolarsi della sconfitta patita e cercarono di rivalersene senza attaccare i Sanniti e quindi senza mettere in pericolo i loro ostaggi: essi cercarono di mettere indirettamente alle strette i Sanniti minacciandoli dall'altro lato, penetrando nell'Apulia; giacché, avuta in loro possesso l'Apulia e padroni come erano della Campania, i Sanniti si trovavano presi in mezzo. Nell'anno 318 pertanto i Romani entrarono nell'Apulia, ma non é da ritenere ch'essi vi siano penetrati a nord del Sannio attraverso i territori abitati dalle stirpi sabelliche, giacché nel 326 avevano guerreggiato senza risultato contro i Vestini e non avrebbero potuto senza aspre lotte con i Sabelli aprirsi da questa parte una via verso l'Adriatico e l'Apulia; essi devono invece, col consenso dei Lucani e dei Tarentini, aver girato a mezzogiorno il Sannio, muovendo dalla Campania.

Comparsi nel 318 in questo modo nell'Apulia, devastarono il paese dei Dauni e trassero dalla loro parte Canusio; nel 316 presero la città apula di Forentum. Irritati e palesemente minacciati da questo procedere dei Romani in Apulia, i Sanniti a questo punto strinsero alleanza con la città campana di Nuceria Alfarternia, che defezionò da Roma, e nel seguente anno 315 insieme passarono all'offensiva contro i Romani.
Si riaccese così la guerra tra Romani e Sanniti; la pace caudina non era stata violata dai Romani, ma dai Sanniti e quindi la vita degli ostaggi romani era fuori pericolo.

Ai tempi del loro dominio mondiale divenne per i Romani intollerabile l'idea dell'onta subita con la pace caudina. Essi non poterono, é vero, negare il vergognoso passaggio del loro esercito sotto il giogo, ma pretestuosamente affermarono che i consoli non avevano facoltà di concludere una pace definitiva, perché per renderla operante occorreva la ratifica del senato, e che quest'ultimo l'aveva rifiutata; il senato avrebbe consegnato ai Sanniti i consoli perché si rivalessero su di loro della mancata ratifica della pace. In realtà nei tempi più antichi questi magistrati rivestiti del supremo imperium erano perfettamente autorizzati a concludere simili trattati con efficacia definitiva ed é soltanto in seguito che il senato, estendendo il suo dominio anche sui consoli, contestò loro quel diritto.

E nell'anno 137 a. C., quando il console C. Ostilio Mancino concluse coi Numantini di Spagna una pace vergognosa, il senato rifiutò di ratificarla e consegnò Mancino ai Numantini, i quali però non vollero accettarlo per evitare che si pensasse ch'essi riconoscevano legale questo procedere dei Romani. Ed era in effetti un procedere singolare quello di tener buona la salvezza dell'esercito ottenuta con un patto vergognoso e consegnare il solo generale.
Quel che era veramente avvenuto a Numanzia i Romani l'hanno trasportato e messo insieme nel disastro di Caudio, falsificando così la storia della guerra sannitica.

Come dicemmo, i Sanniti nel 315 presero l'offensiva contro i Romani, e con notevole successo. Conquistarono Sora sull'alto Liri a nord di Fregelle, e la conquista di Saticula fatta dai Romani ed una vittoria da loro riportata in quei pressi non hanno valore rispetto ai progressi dei Sanniti verso nord, giacché questi forzarono il passo ad Lautulas presso Terracina, il confine naturale tra la Bassa e Media Italia, le Termopoli italiche.
Qui i Romani agli ordini di Q. Fabio Massimo Rulliano, creato dittatore, subirono una grave disfatta; dopo la vittoria i Sanniti si trovavano aperta la via del Lazio. I Romani dovettero ritirare le loro truppe dall'Apulia, ma continuarono a tenere la regione fondandovi la fortezza di Luceria che in seguito doveva poi riuscire loro sommamente utile.

Intanto però si videro anzitutto gli effetti della sconfitta di Lautulae; subito dopo, nel 314, defezionano dai Romani i Campani, si ribella Capua, ma torna poi a loro dopo la vittoria da essi riportata sui Sanniti a Cinna. I tre anni successivi (313-311) volsero favorevoli alle armi romane; il loro più importante successo fu nel 313 la riconquista di Fregelle fatta da Rulliano, la città che dopo la catastrofe caudina si era dovuta cedere ai Sanniti; dopo ciò furono prese anche Calazia e Nola.
L'anno seguente, 312, i Romani inserirono sul Liri fra i Sanniti e Fregelle la nuova fortezza di Interamna e si crearono così un nuovo punto d'appoggio per la lotta successiva, e quando nel 311 i Sanniti invasero l'Apulia, i Romani li sconfissero a Talion e presso il Monte Sacro.

Le sorti cominciavano a declinare per i sanniti. Tuttavia essi diedero una nuova svolta alla lotta: e fu quella di coalizzarsi con gli Etruschi. Tale alleanza era la più pericolosa situazione immaginabile per Roma.

Infatti, a distanza di un solo anno. nell'anno 310 gli Etruschi fecero causa comune con i Sanniti ed iniziarono la guerra con Roma; invasero da nord il territorio romano e mossero contro Sutrio nell'Etruria meridionale romana. I Romani si videro ora costretti a sostenere la guerra su due fronti.
Ma come avrebbe potuto essere sufficiente il loro esercito per condurre contemporaneamente la guerra a nord e a sud, contro gli Etruschi e i Sanniti, e a tenere a frebo i Campani?

Questo problema fu risolto a Roma non dagli uomini di guerra, ma da un uomo di Stato. Per l'appunto nel 310 era stato eletto censore Appio Claudio, la figura più originale e più grande fra le grandi figure della sua famiglia. Per fronteggiare i pericoli che ora minacciavano Roma era necessario accrescere in larga misura la forza dell'esercito; ma in Roma l'organizzazione dell'esercito era strettamente connessa con quella dello Stato e quindi fu necessario fare delle nuove basi del reclutamento sulle basi di una nuova costituzione. E questa nuova organizzazione dello Stato e dell'esercito venne ideata nel 310 dal censore in carica, dallo stesso Appio Claudio, che riuscì a tradurla in atto; fu questa la più profonda innovazione nella struttura dello Stato che si fosse avuta dal tempo dell'affrancazione dei contadini.

É infatti dovuta ad Appio Claudio l'organizzazione di quell'esercito che doveva condurre a termine la guerra sannitica: si tratta dell'ordinamento di 193 centurie, che spetta a quest'epoca e deriva da Appio Claudio. Egli fu l'uomo di una nuova epoca; come uomo di Stato e come organizzatore dell'esercito fece la ragione dovuta alle mutate condizioni dei tempi e dell'economia sociale.

L'agricoltura non costituiva più il solo fondamento dell'economia romana; accanto ad essa era sorto e si era sviluppato il commercio e negli anni 348 e 343 a. C. erano stati conclusi trattati di commercio con Cartagine. A tale mutamento andò connesso il passaggio dall'economia degli scambi in natura all'economia monetaria.
Ancora nel 400 a. C. Cartagine aveva cominciato a coniare moneta; tra questo 400 e il 350 a. C. quest'arte giunse anche a Roma attraverso lo stadio intermedio, prima le barre marcate poi alla vera e propria moneta fusa; quest'ultima è quindi di circa un secolo più recente dei decemviri.
Al tempo della legislazione decemvirale l'entità del patrimonio si commisurava alla proprietà fondiaria, e accanto a questa il patrimonio mobiliare era costituito solo dal bestiame. Nella nostra epoca invece si aveva del denaro e si era già formato il capitale.
L'antico ordinamento delle tribù locali e delle centurie si basava sulla proprietà fondiaria e su questa si basarono l'obbligo al servizio militare e i diritti politici. Appio invece ora rese giustizia alle nuove condizioni economiche, accogliendo nelle tribù locali anche persone prive di proprietà fondiaria, e le accolse in tutte le tribù senza distinzione fra tribù urbane e rustiche; e a quel tempo oltre le 4 tribù urbane si contavano 27 tribù rustiche.

Anche nelle centurie penetrarono ora uomini privi di proprietà immobiliare; a base dell'ordinamento per centurie Appio pose ora non più il numero di iugeri posseduti, ma la moneta; noi possediamo tuttora uno schema del suo ordinamento centuriato, salvo ch'esso non é redatto sull'unità monetaria del suo tempo, ma è ragguagliato alla moneta che fu introdotta nel 268 a. C.
Questa sostituzione del denaro alla terra, come base del reclutamento e dell'organizzazione dell'esercito, arrecava un grande aumento del contingente dell'esercito perché vi faceva entrare i non possidenti, ed era quello che
occorreva per la guerra contemporanea contro Etruschi e Sanniti.

Noi non sappiamo bene quante centurie abbracciasse l'ordinamento antico; ma sappiamo che il nuovo ordinamento su 193 centurie é opera di Appio Claudio. Di esse 170 erano riservate alla fanteria, e cioè 80 alla classis, la prima classe, fornita dell'armatura completa. Tutti coloro che si trovavano infra classem erano a loro volta distribuiti a seconda del patrimonio in quattro altre classi degradanti, le prime tre di 20 centurie ciascuna, la quarta di 30 centurie; anche l'armatura diveniva in esse gradatamente meno completa a seconda che la classe era più lontana; il nerbo principale dell'esercito era costituito dalla classis, la prima suddivisione. Erano aggregate ad esso due centurie di operai militari, carpentieri e fabbri, e due di musici; nell'ultima centuria erano riuniti tutti gli altri che non possedevano il minimo di patrimonio necessario per entrare nella quinta classe; é la centuria degli accensi velati, di coloro cioè che sono aggiunti disarmati ai censiti e possono seguire l'esercito per indossare le armi dei morti e feriti e all'occorrenza colmare i vuoti delle file.

Ancora a tempo della pace caudina di cavalleria regolare non si aveva che il contingente delle sole sei centurie della cavalleria patrizia. Ad essa si era venuto ad aggiungere dall'epoca della guerra veiente il contingente volontario di cavalieri formato da giovani plebei ricchi che provvedevano essi stessi al cavallo e lo mantenevano; ora però anche la cavalleria regolare fu aumentata.
Le sei antiche centurie rimasero riservate ai patrizi sino al 220 a. C., ma nel 310 furono costituite 12 nuove centurie di cavalieri, composte di plebei; in esse devono aver servito anche i giovani uscenti dalla nuova aristocrazia, la nobilitas. Dopo a datare dal 399 a. C. i plebei giunsero ad occupare la presidenza della Repubblica, le magistrature curuli, quelle cui spettava l'onore della sella curule. Questi plebei e i loro discendenti si aggiunsero come una nuova aristocrazia, la nobiltà, delle pubbliche cariche, all'antico patriziato, essi formarono col patriziato l'aristocrazia della nobilitas, che era cominciata a spuntare nel quarto secolo e si era venuta sviluppando e formando in seguito.

Appio Claudio dunque creò a questo modo l'organizzazione del nuovo esercito che, permise di condurre felicemente a termine la guerra sannitica e di 'compiere la conquista d'Italia; fu una organizzazione d'importanza così capitale che più tardi la si fece risalire ai primordi dello Stato, all'epoca regia e la si attribuì a Servio Tullio.

Ma le centurie non avevano soltanto importanza militare; esse erano investite anche di diritti politici come unità votanti nei comizi legislativi ed elettorali; il nuovo ordinamento di Appio Claudio ebbe perciò pure grande portata politica. Esso staccò le centurie dalla loro necessaria connessione con la proprietà fondiaria, e quindi abolì i privilegi politici di quella proprietà e attribuì accanto ad essa diritti politici al capitale mobiliare: la proprietà fondiaria conservò naturalmente questi diritti perché entrò nella stima a denaro del patrimonio, ma essa non é ormai più l'unica titolare dei diritti politici e deve condividerli col capitale.

Nell'antico ordinamento centuriato devono avere avuto la prevalenza il patriziato e i possessori fondiarii maggiori, ed anche nell'ordinamento di Appio Claudio il patrimonio conserva la stessa influenza preponderante. Per esso erano necessari a costituire la maggioranza 97 voti, e i cavalieri e la prima classe ne avevano essi soli 98. Quando si trovavano d'accordo pertanto avevano sempre ed in via assoluta la maggioranza e decidevano del voto.

Dovremo ben presto vedere le conseguenze politiche della riforma di Appio Claudio; ma il suo scopo prossimo fu di provvedere alle necessità militari; quel che ora anzitutto occorreva era tener testa alla guerra su due fronti contemporaneamente; nella lotta contro gli Etruschi e i Sanniti il nuovo esercito era destinato a fare la sua prova.

Al nuovo pericolo che minacciava dal lato dell'Etruria i Romani fecero fronte con ammirabile energia: essi adottarono il partito di tenere per ora semplicemente a bada il nemico sul teatro meridionale della guerra, nel Sannio, limitandosi alla difensiva, ed invece agire con la massima energia in Etruria. Ambedue i consoli marciarono contro gli Etruschi radunati presso Sutrio e li sconfissero. Soltanto dopo questa vittoria uno dei consoli, C. Marcio Rutilo, tornò verso il sud, dove nel frattempo i Sanniti avevano devastato la Japigia parteggiante per la causa romana, mentre l'altro console P. Fabio Massimo Rulliano rimase nel nord, penetrò attraverso l'Umbria nell'Etruria settentrionale e dopo una vittoria riportata presso Perugia ed un armistizio concluso con Arezzo, Cortona e Perugia, costrinse gli Etruschi a togliere l'assedio da Sutrio.

L'anno seguente 308 a. C. (l'anno 309 appartienealla cronologia fittizia) i consoli vennero anzitutto in aiuto dei Marsi, che erano stati assaliti dai Sanniti, e poi invasero nuovamente attraverso l'Umbria l'Etruria; il moto etrusco fu sedato con un armistizio concluso con Tarquini per la durata di quaranta anni. In questo trattato si vede la profonda differenza che intercede tra il diritto internazionale antico e il moderno. Secondo le nostre idee il rapporto normale tra due Stati è la pace, e per alterare questo rapporto è necessaria da uno dei due una dichiarazione di guerra ovvero che di fatto si rompa la pace.
Per l'antichità invece lo stato di guerra era una cosa naturale e occorreva un trattato di pace o di amicizia per eliminarlo. Così si spiegano quelle paci per noi così singolari concluse per 40 - 50 anni che incontriamo nella storia greca; a questa categoria è da ascrivere anche l'armistizio di 40 anni fatto con i Tarquini.

In due anni i Romani avevano superato il grave pericolo che si era addensato sul loro capo, la coalizione degli Etruschi e dei Sanniti: ed ora essi poterono concentrare tutte le loro forze a portare a fine la guerra sannitica.
Ancora una volta i Sanniti avevano ottenuto un grande successo con la conquista di Sora, ma poco dopo i consoli riportarono su di essi una segnalata vittoria a Silvium. L'anno successivo (305) i Romani riuscirono di nuovo vittoriosi nell'ager Falernus, presero Bola, il generale sannita Gellio fu sconfitto in una fiera battaglia e cadde prigioniero, ed anche Sora fu ripresa ai Sanniti. Questi ultimi dopo, non furono più in grado di continuare la lotta e nel 304 fecero pace coi Romani. I Romani strinsero alleanza con loro e così pure coi Alarsi, Peligni e Marrucini. Il passo più difficile e importante verso la conquista della signoria sull'Italia era fatto, la lega italica era sulla via di costituirsi. Anche ora i Romani provvidero per assicurare l'annessione dei territori di nuova conquista e lo fecero col nuovo sistema della fondazione di centri fortificati, di colonie.

Nell'anno 306 i Romani avevano fatto nel Sannio una guerra di sterminio; avevano distrutte le messi e devastati i campi, abbattuti gli alberi ed incendiate le fattorie. Gli effetti disastrosi della grande guerra si rivelano anche nella circostanza che una quantità di centri abitati presso i quali si combatté non si trovano più ricordati in seguito: essi sono spariti dalla faccia della terra.
Ed una influenza altrettanto radicale ebbero gli eventi della guerra sulle condizioni agricole della bassa Italia. Qui sinora la cultura del frumento aveva dato prodotti abbondantissimi, che superavano di gran lunga il fabbisogno interno del paese ed erano quindi esportati in grande quantità in Oriente; dopo la guerra sannitica il grano italico scomparve in modo permanente dai mercati greci. Questo fenomeno non si può spiegare solo con le devastazioni compiute dai Romani negli anni 306 e 305. La devastazione non giunge sin nelle profondità della terra, le fattorie incendiate possono essere
ricostruite, e gli stessi alberi quando sono nuovamente piantati, in pochi decenni tornano ad essere fruttiferi. Perché tutto ciò non fu fatto allora?

Perché il nuovo ordine politico di cose fu accompagnato da un mutamento nel sistema di colture che eternò le conseguenze della devastazione romana: fu cioè abbandonata allora la coltivazione a cereali e si passò su vastissima scala al sistema di cultura a pascolo. La bassa Italia assunse pertanto quella figura che conserverà per i secoli a venire: essa trae le sue origini dalle devastazioni arrecatele dalla grande guerra sannitica e dalla trasformazione delle colture avvenuta in seguito ad essa.

Con la vittoria ottenuta sul Sannio Roma entrò nel novero delle grandi potenze; quando essa nell'anno 306 passò all'assoggettamento dei Sanniti ed alla devastazione del loro territorio, Cartagine, lo Stato più potente dell'Occidente, sentì il bisogno di premunirsi di fronte alla futura signora del mezzogiorno d'Italia col delimitare chiaramente le reciproche sfere di influenza.
Negli anni immediatamente anteriori allo scoppio dalla guerra latina così le relazioni tra Cartagine e Roma stesse, come le relazioni di entrambe con la Spagna, la Sicilia, la Sardegna ed il Lazio avevano provocato la conclusione dei trattati d'amicizia romano - cartaginesi del 348 e 343 a. C., in base ai quali si svolse l'esercizio in comune del commercio dei Romani e dei Cartaginesi negli stessi territori.

Ora invece, nel 306, si venne ad un nuovo trattato, nel quale i Cartaginesi e i Romani separarono le une dalle altre le rispettive sfere d'interessi: i Romani promisero di astenersi dalla Sicilia e i Cartaginesi promisero altrettanto per l'Italia. E nell'epoca medesima troviamo il primo trattato fra Roma e Rodi. Respingendo l'attacco di Demetrio Poliorcete, con la vittoriosa resistenza opposta all'arte ed alla potenza dell'«assediatore delle città», i Rodii avevano attirato a quel tempo sopra di sè gli sguardi di tutto il mondo; e il colpo d'occhio della politica dei Romani si rivela nella circostanza molto acuto: infatti essi fanno il loro ingresso nel mondo greco del mezzogiorno d'Italia annodando subito relazioni con la più potente città commerciale dell'Oriente ellenico.

Che poi l'antica cronologia romana tradizionale faccia precedere di qualche tempo questo trattato con Rodi ai successi ottenuti dai Rodii contro Demetrio non può aver valore di sorta, data l'inesattezza della cronologia romana e dei sincronismi greco-romani.

Si era alla vigilia del conseguimento di grandiosi risultati, Roma era divenuta signora del Lazio e della bassa Italia, ed anche l'Umbria e l'Etruria si trovavano già sotto l'influenza romana; non è una coincidenza fortuita che proprio in quest'epoca sia stata formulata la fable convenue relativa all'antica storia romana. Dal 400 a. C. molte famiglie plebee erano giunte ad occupare le cariche pubbliche, non esclusa la suprema magistratura, dal 366 erano salite ad occupare quest'ultima anche nella forma del consolato, e queste nuove genti plebee di maggiore importanza costituivano insieme con l'antico patriziato la nuova aristocrazia delle cariche pubbliche, la nobilitas; in conseguenza di ciò il nome romano divenne trimembre, in quanto al nome e al prenome venne ad aggiungersi il cognome quale distintivo dei nobiles.

Cn. Flavio, la creatura del grande Appio Claudio, il censore del 310, attribuì alle più eminenti famiglie plebee del suo tempo origine patrizia ed antenati patrizi inserendo questi antenati nella lista dei consoli dell'antica epoca in cui la presidenza della Repubblica era solo diritto esclusivo dei patrizi. Con la sua pubblicazione dei fasti consolari, la prima che in genere sia stata fatta di tale lista, Cn. Flavio raggiunse l'effetto voluto; egli creò quella cronologia tradizionale della Repubblica che era ancora in voga ai tempi di Polibio, collocò il più eminente plebeo del suo tempo, il partigiano di Appio Claudio, Giunio Bruto, a capo della lista consolare e ne fece il fondatore degli ordinamenti liberi, l'autore della cacciata dei re.

La vasta gente plebea dei Marcii ottenne i suoi antenati patrizi nella figura leggendaria di Marcio Coriolano, ma soprattutto trovò posto persino nella leggenda regia; e nella persona del re Anco Marcio questi nobili plebei salirono a posteriori i gradini della discendenza del trono.

In quest'epoca fu convenuto anche di stabilire a sette il numero dei re: questo numero era già fissato definitivamente quando nell'anno 290 i Sabini entrarono a far parte dell'organizzazione dello Stato romano. Ed ora anche il sabino Tito Tazio fu elevato alla dignità di re di Roma, come collega di Romolo (si scriverà infatti che dopo il ratto delle sabine, Tazio riappacificato con Romolo costui lo persuase a dividere con lui il trono).
Se il numero dei re in questo tempo fosse stato ancora incerto si sarebbero annoverati otto re aggiungendo Tito Tazio: ma ormai i sette re erano stabiliti in modo immutabile e si rimase a sette benché fossero in realtà divenuti otto.

Anche la leggenda della fondazione della città aveva ricevuto nella sostanza la sua formulazione definitiva: i due Ogulnii nel 296 a. C. avevano infatti eretto un monumento raffigurante la famosa lupa con i due gemelli.

 

Ora lasciamo queste leggende e rientriamo nella vera storia
e più precisamente allo ...


ASSOGGETTAMENTO DELL'ITALIA - FINE LOTTA PATRIZI E PLEBEI > >

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